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Autore: kurojulia_    28/01/2019    0 recensioni
Yuki ringhiò, stringendo i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era quella di levare le tende. Eppure, la sola idea di lasciarli continuare a vivere, impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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17.



Quel dolore non le permetteva di ragionare, quella poca lucidità che l'animava giorno dopo giorno si era dissolta nel momento in cui la sua carne era stata valicata dalla lama del pugnale. Era un dolore così forte e intenso da non poter fare altro che strisciare come un serpente in fin di vita, lasciando sotto di sé una frastagliata scia di sangue. La sua mano tremava incontrollata sul suo fianco, nello stupido tentativo di fermare l'emorragia – il sangue che colava indisturbato sulla sua divisa, tra le dita, sul pavimento.
In tutto quel dolore, in tutta quell'agonia – sentì dei passi, una camminata flemmatica e lenta, riconoscibile fra mille. Gli occhi strizzati, arrossati, Sayumi spostò la testa per trovare Takeshi mentre camminava verso di lei. Che ci faceva lì, al primo piano, a pochi passi dall'atrio?

I loro sguardi si incontrarono nello stesso momento. Lo vide sollevare il mento e aprire la bocca, e poi... sorridere.

«Che accidenti fai lì a terra?», si mise a ridere, divertito, le mani nelle tasche.

Che cosa?

Era impossibile che non avesse notato il sangue, la sua espressione agonizzante. Sayumi tossì, prima di riuscire a parlare, ansimando. «Stai... », sgranò gli occhi come un cerbiatto terrorizzato, serrando la mandibola. In fondo alla gola sentiva un sapore ferroso. «... stai scherzando? Sei diventato cieco?».
Furiosa, e forse grazie a questo, riuscì a tirare su il torso malridotto. «Non lo vedi che... mi hanno... trivellato un fianco?! Sto perdendo sangue a fiotti, aiutami invece di... ridere!»

 

Takeshi sbatté le palpebre. Passarono secondi interminabili e lei si era quasi dimenticata del bruciore lancinante, di quell'orribile sensazione – mentre il sangue ti abbandona.

Erano l'uno di fronte all'altra, pochi metri li separavano, Takeshi aveva assunto un espressione sbigottita. Lo vide aggrottare la fronte, spostare lo sguardo alla ricerca della ferita, poi attorno a sé.
«Yumi, ma... cosa stai dicendo? Non c'è una goccia di sangue, qua, e tu... non hai nessuna ferita al fianco».

«Cosa... ?».

 

Ecco perché se n'era quasi dimenticata: perché non lo avvertiva più.
Raggelata, Sayumi chinò lo sguardo verso la mano che premeva sul fianco. Era pulita, così come la divisa. Dietro di sé, non c'era nessuna macchia sul pavimento. C'erano solo lei e Takeshi.
Era semplicemente tutto sparito, come un macabro sogno – un vivido incubo; tutto quel dolore, quelle sensazioni, i pensieri... era tutto sparito.

«Ehy, stai... stai bene?», Takeshi si era avvicinato. Si piegò sulle ginocchia, cercando di incrociare gli occhi dell'amica. «Perché hai detto quella cosa?».

«Perché... quella Juri mi aveva... ».

«Juri? La ragazza nuova?».

 

Sayumi annuì piano. Doveva aver fatto qualcosa. Era opera sua e di quell'altro, Ryuu. La sua ferita non era mai esistita, era stata tutta una stupida illusione. Ma la scomparsa di Yuki, invece...

 

«Take, dobbiamo cercare Yuki».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Non ci voglio credere», aveva detto Takeshi, tra un'imprecazione e l'altra. «Quindi ciò che aveva percepito prima erano quei due? E meno male che le avevo detto di fare attenzione!».

 

Aveva detto alla sua ragazza che sarebbe andato di filato in classe, e così aveva fatto – per i primi cinque minuti; ma più rimaneva nel suo banco, accanto ad Hokori, più si agitava e sentiva i polpastrelli formicolare. Allora aveva chiesto di uscire dalla classe e si era ritrovato nel corridoio. Si era diretto nella 2-B, aveva aperto la porta di qualche centimetro.
Ma non c'erano né Yuki né Sayumi.
Si cominciava ad agitare. Era corso sul tetto della scuola, ma anche lì... vuoto. Allora si era diretto al piano terra, l'unico che mancava all'appello.

E lì aveva visto Sayumi – ma non aveva pensato subito che le fosse successo qualcosa. Per questo, vederla stesa lì l'aveva fatto un po' ridere.

«Eppure non capisco», disse lui. «Solitamente se la cava in queste situazioni. Forse non si aspettava che fossero tutti e due».

 

Non poteva credere che Yuki fosse scomparsa, così, dal nulla.

 


Stando alle parole dell'amica, era stata probabilmente rapita; ricordava, poco prima di svenire, di averla vista caricata sulla spalla di Ryuu, e poi tutti e tre erano spariti oltre il muro che cintava la scuola. I due avevano fatto un balzo che di umano aveva ben poco e poi puff, il buio aveva sopraffatto la ragazza dai capelli rosa. Dannazione, se fosse resistita un po' di più, forse sarebbe riuscita a capire dove erano andati...

 

«Che senso ha? Perché hanno rapito Yuki?». Sayumi si passò le mani lungo il viso, affondando le dita fra i capelli scompigliati. «E poi... ».

«Poi cosa?», incalzò il moro.

«Poi mi sento in colpa. Se non fossi stata lì, Yuki non si sarebbe distratta e non sarebbero riusciti a prenderla».

Takeshi socchiuse le palpebre. Una piccola parte di lui ce l'aveva con Sayumi. Una piccola, stupida e patetica parte della sua anima. Ma era ben consapevole che se fosse stato al suo posto, l'albina si sarebbe fatta prendere alla sprovvista ugualmente, pur di aiutarlo. Non faceva distinzione, lo sapeva bene.
Ma era preoccupato a morte. Aveva lo stomaco sottosopra e la nausea che gli ballava nell'intestino. Scosse la testa, sforzandosi di fare un sorriso per l'amica. «Non dire scemenze, non è colpa tua. Non puoi incolparti per una cosa del genere. Prima di tutto, nessuno è colpevole, se non quei due».

Parlavano guardandosi in faccia, seduti sugli scalini più vicini che avevano trovato, l'uno affianco all'altra. Sayumi aveva le ginocchia vicino al petto, abbracciate vigorosamente, ora che sentiva le forze. Takeshi i gomiti appoggiati sulle gambe e le dita intrecciate fra di loro, cercava di riflettere insieme a lei.

Non avevano perso tempo e avevano chiamato Tetsuya. Il vampiro, dal canto suo, si era dimostrato ragionevole e collaborativo e aveva promesso di arrivare lì in qualche minuto – tre minuti dopo, la camicia abbottonata storta, i capelli scompigliati e l'aria nervosa, aveva attraversato il corridoio del primo piano e aveva trovato Takeshi e Sayumi.

 

 

«Quindi quella ferita non era reale, ma un illusione?», chiese Sayumi.

Il vampiro annuì. «Sì, esatto. Quella Juri Ishikiyo deve padroneggiare l'illusione sensoriale, non c'è altra spiegazione».

«L'illusione sensoriale?».

«Esatto. Servendosi dei nostri sensi – olfatto, gusto, tatto, eccetera – può creare vere e proprie illusioni, talmente vivide e realistiche da condurti ad uno stato catatonico». Tetsuya si sistemò la camicia addosso. «Ti è andata bene: ti ha praticamente trattata con i guanti».

 

Sayumi si strinse in sé stessa, andando a tastare la pelle sul fianco. Persino la divisa non presentava nessuna traccia, né uno strappo né sangue, solo un po' di polvere raccattata dal pavimento.
Tetsuya guardò la ragazza con indecisione e si morse il labbro. Non sapeva farci con gli umani, questo era assodato, ma gli dispiaceva che avesse dovuto passare quella brutta esperienza. D'altronde era un'amica.

Voleva rassicurarla, ecco tutto.

Impacciato, allora, le toccò delicatamente la sommità della testa con la mano sinistra, in piccole carezze. «Su... su, stai tranquilla. Adesso va tutto bene. Ci siamo noi, vero?», si rivolse a Takeshi, lanciandogli un'occhiata in cerca di conferma – e un po' di disperazione.

Takeshi colse la palla al balzo e arcuò le sopracciglia, annuendo. «Certo, sì, ti proteggiamo noi».

 

Sayumi sorrise leggermente – stavolta si strinse nelle spalle con una punta di imbarazzo. «Grazie. Mi fido di voi. Ma adesso dobbiamo decidere cosa fare per Yuki-chan».

«Sì, ha ragione», Takeshi annuì e girò il capo verso il vampiro biondo. «E se chiedessimo aiuto ai suoi genitori?».

«Ai suoi genitori?». Tetsuya soppesò la proposta, sorpreso dalla sua intraprendenza. Un aiuto in più non avrebbe fatto di certo male, su quello non c'erano dubbi... forse l'albina non ne sarebbe stata molto felice ma, per quanto gli riguardava, poteva tranquillamente battere i piedi tutta la vita. D'altro canto, sebbene non lo avessero detto ad alta voce, i tre sapevano perfettamente la gravità della situazione.

Juri Ishikiyo e Ryuu Tsukino.

E, come se la situazione non facesse abbastanza schifo, Alyon Akawa.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

È il dolore tra capo e collo a svegliarla dallo stato d'incoscienza. Un dolore piuttosto fastidioso, insinuatosi nella testa come il ritornello di una canzone, che lei riuscì a scacciare solo dopo qualche minuto da quando aveva aperto gli occhi.
Lentamente, le ciglia superiori si erano allontanate da quelle inferiore e le iridi avevano incontrato un opprimente buio. Più nero del petrolio.

Sono morta?, era stato il suo primo pensiero. Avrebbe potuto darsi un pizzicotto ma quello valeva solo per i sogni. Chissà, magari si soffriva anche da morti. Dove accidenti... , scoordinati, i suoi pensieri facevano molta fatica a scorrerle sul viso, sentiva il cervello in panne, lento come un trattore.

Capì di essere sdraiata su quello che sembrava un divano, di velluto. Mosse i polpastrelli lungo il tessuto dello schienale, sollevando piano piano il braccio, fino a lasciar spuntare le dita oltre il bordo dello schienale del divano. Ma come mai era così buio? Possibile che si trattasse di una stanza senza finestre?

Okay, ricapitolando, pensò, sono in un qualche posto sperduto, al buio, con un dolore al collo.

Pensandoci, si ricordò del colpo di Ryuu, lo stesso che le aveva fatto perdere i sensi. Già... dopo di ché, non ricordava più nulla. La sua coscienza era andata alla deriva, bruciacchiata e consumata. E poi si era risvegliata lì, stesa supina.
Sollevò la schiena, gradualmente, lasciando scivolare i piedi a terra – aveva ancora indosso la divisa scolastica, un po' spiegazzata; pensava di familiarizzare con lo spazio intorno, così forse avrebbe trovato qualche indizio su dove si trovava, magari avevano lasciato la porta aperta... qualche secondo dopo, gli occhi si erano abituati alla fitta oscurità e Yuki riusciva finalmente a vedere i contorni della stanza, i suoi mobili e le pareti.

 

Non era molto grande; il punto del divano era il centro della camera, un tavolino di legno e vetro pochi centimetri più in là. C'erano un paio di quadri sul muro di fronte, i cui disegni e colori erano sconosciuti ai suoi occhi, e dietro di lei una tenda spessa copriva quella che forse era una finestra. Tutto qui, eccetto qualche oggettino di scarsa importanza.
Con uno slancio ben studiato, Yuki si alzò dal divano e ne giunse alle spalle, infiltrando le mani nella tenda per spostarla – al di là, toccò il vetro impolverato della finestra e incontrò qualche spiraglio di luce con l'iride dorata.

«Cosa stai cercando? Cosa speri di trovare?», una voce maschile la colse alle spalle. Con uno scatto nervoso, Yuki si girò, dando le spalle a quella piccola fonte di luce per incontrarne una più grande. Proprio sulla parete di destra nasceva una nuova stanza, illuminata a giorno da un lampadario, separata da una grossa lastra di vetro rinforzato.
L'altra stanza era bianca, asettica, composta solo da un tavolo al centro; le pareti grigie e il pavimento in marmo bianco, fin troppo simile all'interno di un ospedale.

 

«Ryuu», un sussurro era sfuggito dalle labbra dell'albina o, per meglio dire, un ringhio sommesso.

Già, Ryuu.

C'era proprio lui là dentro, protetto solo dal vetro; aveva dei pantaloni di seta, blu scuro, e una camicia bianca con al di sopra un gilet nero. Le mani nelle tasche, sorrideva con tranquillità. «Ci hai messo un po' a svegliarti, eh, signorina?».

«Mai quanto il tempo che ci impiegherai tu tra un attimo».

 

 

Ad una velocità alienante, Yuki scattò contro il vetro, andandoci a sbattere con le mani e le ginocchia. Quello aveva tremato e vibrato come la corda di un violino ma non si era nemmeno scheggiato, neanche un graffietto.
Iniziava a sentirsi arrabbiata. Intrappolata.
Una stanza chiusa e tappezzata, buia, priva di spifferi per l'aria o la luce. Era un topo in trappola.
«Fammi. Uscire. Subito», tartagliò, il respiro corto.

«Temo di non poterlo fare».

«Cosa hai fatto?», esclamò lei, battendo i pugni sulla superficie trasparente. «Perché sono qui? E dov'è “qui”? E... », chiuse gli occhi, ma riusciva a vedere comunque la sua espressione tranquilla, persino compiaciuta, stendergli i lineamenti del volto. «Sayumi. Non le avete fatto del male, vero?».

«Sayumi... ah, la ragazzina dai capelli rosa?». Si toccò il mento, pensieroso, come se stesse ricordando. Come se la cosa valesse meno di zero. «Beh, io no. Ti ho presa e me ne sono andato. Ma Juri, beh, Juri è un altro canto – che non mi riguarda, mi duole dirtelo».


Yuki sentì le vene ingrossarsi sul collo e il dorato dei suoi occhi venire divorato dal rubino famelico – non gli riguardava, diceva, gli doleva dirle questa verità. Chiuse velocemente le mani in pugni, la pelle sulle nocche che tirava, le unghie conficcate nei palmi. Stava per aprire la bocca e mettersi a dire qualcosa, forse qualcosa di insensato, qualche insulto, ma la luce al di là si spense all'improvviso, facendola ripiombare in quelle tenebre crudeli.
L'albina si staccò dal vetro, fece qualche passo indietro – e urlò a pieni polmoni tutta la sua rabbia, illuminando quelle quattro pareti con la luce dell'elettricità che uscì dal suo corpo.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Non vorrei mettervi fretta, ma», Takeshi aveva i palmi sul piano del tavolo, il suo sguardo che rimbalzava fra tutti i presenti. «possiamo darci una mossa?».

«Senti, ragazzo, capisco cosa provi, è mia figlia. Ma dobbiamo fare le cose per bene se vogliamo uscirne vivi e vittoriosi».

 

 

Vivi e vittoriosi? Sembrava uno slogan da militari o stupidaggini simili; Takeshi Katugawa non aveva tempo né voglia di ascoltare i loro piani strategici, voleva solo imbracciare il suo coraggio e andare a salvare la sua ragazza da chiunque l'avesse rapita – da chiunque la stesse tenendo contro la sua volontà. Non che il campo si ristringesse.

Tetsuya li aveva condotti a casa Akawa. Alla fine erano scesi alla conclusione che dovevano chiedere aiuto ai genitori dell'albina: Oseroth e Kazumi Akawa. Gli unici che, in quella situazione, potessero realmente aiutarli.
Allora erano andati, tutti e tre, alla residenza Akawa e si erano riuniti nella Stanza delle Mappe, alla lunga tavolata. Avevano spiegato cos'era successo nei minimi dettagli, Sayumi si era impegnata il più possibile per descrivere la situazione che aveva vissuto. Anche i due coniugi avevano concordato sul potere di Juri.

 

Era una brutta gatta da pelare, quella circostanza.

L'ipotesi più plausibile era indubbiamente Alyon, non ci pioveva; i rapitori dell'albina erano Ryuu e Juri, proprio i due vampiri spediti a mo' di pacco regalo dall'uomo, indi per cui era logico pensare che fosse lui la mente dietro al rapimento.
La domanda, a questo punto, era un'altra: perché l'aveva fatto? Takeshi aveva provato a rammentare i ricordi del loro incontro, quando lei era tornata da Londra, e gli era tornato alla mente il desiderio reciproco di ammazzarsi. Era saltato all'occhio.
«Ma allora, che senso ha mandare qualcuno a rapirla?», aveva chiesto Sayumi. «A questo punto, poteva tentare di ucciderla in qualsiasi momento e basta, no?».

Kazumi, avvolta dal suo scialle indaco, aveva annuito, concorde. «Non è nemmeno una novità che Yuki venga assalita».

«Possibile che volesse occultare le sue mosse?».

«Se così fosse, gli è riuscito parecchio male».

«Signora Kazumi», Takeshi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Non è... scioccante, per lei, che suo fratello abbia fatto una cosa del genere?».

La vampira fece un sorriso storto, malinconico in ogni suo strato. Le dita strette dolcemente attorno alla stoffa dello scialle, fece di no con la testa, lentamente. «Ormai, c'è ben poco di scioccante nella nostra comunità. Ognuno di noi cerca, a modo suo», abbassò lo sguardo. «di rinforzarsi per non farsi più ferire da cose come queste. E poi... », ma Kazumi si fermò, in parte era indecisa se continuare. Dall'altra, invece, non si sentiva abbastanza forte da rievocare quei ricordi.

Mi chiedo se funzioni veramente, pensò il moro.

 

«Bene, allora», Oseroth fece un passo indietro, mettendo distanza fra sé e il tavolo a cui si erano riuniti. «Non c'è altro da dire. Io e Tetsuya andremo a recuperarla».

«Cosa?», esclamò Takeshi, sbattendo le palpebre. «No, scordatevelo: io vengo con voi».

«Takeshi, non dire stupidaggini, non puoi venire. Sei solo un essere umano», ribatté Tetsuya.

«Non sono solo un essere umano. Smettetela. Yuki non è umana, eppure è stata messa al tappeto. Fatto che potrebbe succedere a chiunque in questa stanza, il ché non ci rende poi così diversi. E soprattutto, abbiamo tutti lo stesso fine: riportarla a casa. Quindi potete strepitare quanto volete, ma io ho deciso. Io ci vado».

 

C'era silenzio. Gli occhi di tutti erano inchiodati su Takeshi. Forse sembrava un ragazzino, deciso a fare Superman, e in effetti l'aveva desiderato quando le sue mani erano il doppio più piccole. Ma quel desiderio era svanito, la sua carriera di supereroe si era auto-stroncata sul nascere. Adesso, senza un minimo di esitazione, voleva fare il guerriero – proprio come urlava il suo nome.

«Bene, come vuoi. Ma se ci rallenti, ti lascio indietro. Sono stato chiaro?». Oseroth Akawa lo stava rivalutando, il suo stesso corpo era stato vestito da una nuova luce, forse quella era l'impennata che quel ragazzo aveva bisogno – il demone allora sorrise, lasciando spuntare sul suo viso di bassa saturazione un briciolo di calore.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Mi devi promettere che non vi farete ammazzare. Lo devi fare perché altrimenti morirò di crepacuore. E so che un minimo vi importa di me».

 

Con una risata forzata, Sayumi gli prese la mano e la strinse fra le sue, con lo sguardo fisso su queste. Non riusciva a guardarlo senza provare paura. Non riusciva a non pensare che quella sera i suoi amici sarebbero morti, tutti e tre. Era più forte di lei.
Takeshi aveva sorriso, dolcemente, e le aveva alzato il volto dal mento con l'altra mano. Il viso esposto, aveva gli occhi lucidi e le tremavano le labbra, ma non piangeva, no signore, le lacrime non erano in programma.

Erano di fronte all'ingresso di casa Akawa, la carrozza pronta davanti alla porta, Oseroth già al suo posto, in attesa.
Dopo che avevano parlato, i tre si erano dati appuntamento davanti alla casa per le 19.00; ognuno di loro si era preparato a modo suo. Takeshi si era liberato della divisa scolastica per mettere vestiti in cui si sentiva più comodo, un paio di jeans e una maglietta a maniche lunghe. Prima di uscire di casa, aveva guardato dentro il cassetto della cassettiera e aveva preso ciò che c'era all'interno: un tirapugni e un coltello.
Certo, erano un idiozia. Cosa pensava di farci? Ma d'altronde, perché non prepararsi un minimo?

 

«Ti prometto che non ci faremo ammazzare», le promise, con un tono tragicamente solenne. «Così tu non morirai di crepacuore e potremo fare ancora gli stupidi insieme».

«Ma perché... », balbettò Sayumi. «... perché devi farlo? Perché devi andare proprio tu?».

«Perché è la nostra Yuki».

«Sì, no, lo so... ma c'è già il signor Oseroth e loro sono forti, hanno i loro poteri e tu... ».

«Yumi, Yumi, guardami. Guardami bene. Io salverò quella combina guai e la riporterò qui, da noi, e ti dimostrerò che non sono solo un essere umano come dite. Ti dimostrerò che puoi fidarti di me. Non lascerò che quelle persone rovinino tutto. Siamo noi quattro, Yumi. Noi quattro».

 

 

Sayumi lo vide salire sulla carrozza e cercò di imprimersi nella memoria la visione della sua schiena. Qualche istante dopo, il cocchiere aveva fatto muovere i cavalli che, tra mille strepiti, avevano cominciato a camminare velocemente – ed era rientrata dentro casa.

 

«Stavo pensando ad un ipotesi», aveva detto Tetsuya, una volta che furono in marcia.

L'interno della carrozza era, naturalmente, abbastanza angusto; i sedili erano di velluto, di colore amaranto, e c'erano tendine appese ai finestrini del medesimo colore. Un vetro separava la zona da quella esterna dove si riusciva a vedere la schiena del cocchiere.

«Cosa?», fece Oseroth.

«Riguardo a questo strano rapimento. Ci ho pensato e ripensato e continuavo a non trovare un valido motivo per averlo fatto. È strano sotto ogni punto di vista proprio perché smascherarlo è stato , beh, ovviamente facile e poi... se avesse voluto ucciderla, avrebbe potuto provarci in ogni momento. Come in questo caso».

«Sì, esatto».

Tetsuya fece una pausa, le braccia incrociate al petto. Guardò prima il ragazzo e poi Oseroth. «E se invece non la odiasse affatto?».

A quel punto, Oseroth aggrottò la fronte e poi scosse la testa. «Mi sembra impossibile. Sai bene che il loro rapporto era così già da quando Yuki era una bambina».

Tetsuya tornò di nuovo silenzioso, il sguardo ricadde sulle scarpe laccate di nero. Aveva un espressione che sembrava voler dire “io so qualcosa che tu non sai”. Rimase così per qualche istante, gli occhi cupi e le braccia nervose.
Takeshi sospirò esasperato e lo riscosse. «Ti prego, puoi dire cosa c'è che non va?».

Il vampiro allora sussultò. Di fronte all'espressione impassibile di Oseroth e a quella sensibilmente interessata del moro, si sentiva combattuto e in trappola.
Ma, in quel momento, decise che non aveva senso indugiare. «Il fatto è che non è proprio come dici tu, Oseroth. Sì, Yuki lo odia e ha sempre voluto toglierlo di mezzo, ma... Alyon si è comportato in un modo molto caloroso con lei. Lo so, perché ero quasi sempre presente. Faceva attenzione a cambiare atteggiamento solo quando non c'era nessun altro in giro, probabilmente pensava che io, un bambino qualsiasi, non avrei ritenuto la cosa strana». Ricordando, Tetsuya irrigidì le spalle. «Non ho frainteso niente. Lui era effettivamente più gentile; le scompigliava i capelli, provava ad abbracciarla, sorrideva molto, e qualche volta le ha portato dei regali».

«Stai scherzando?». Per la prima volta dopo decenni, Oseroth Akawa aveva alzato la voce. Gli occhi fiammeggianti, sembrava sul punto di staccare lo sportello della carrozza.

Anche Takeshi sembrava scioccato, lo sguardo sbarrato. «E Yuki?», chiese, con un filo di voce.

«Yuki reagiva sempre in modo scostante. Si allontanava o scalciava, faceva tutto il possibile per tenerlo lontano».

«E non ci ha mai detto una parola», constatò il demone albino. «Non una singola parola».

«Non penso ve l'abbia nascosto di proposito, penso piuttosto che avrebbe voluto parlarvene ma non era nella situazione di poterlo fare», rifletté il vampiro.

«Lei stessa ha detto “basta segreti”, Tetsuya, eppure ha continuato–... ».

«Signor Oseroth», proruppe Takeshi. «Con tutto il rispetto, come poteva dirvi che suo zio aveva quel tipo di intenzioni?».

 

Oseroth lo guardò per un attimo negli occhi, i propri sbarrati come fari, e per un secondo Takeshi pensò che il demone si fosse offeso per le sue parole; passò qualche altro secondo e poi, alla fine, Oseroth si lasciò andare allo schienale di velluto con un grosso sospiro. Si prese le tempie con una mano, stringendole leggermente, e poi diede un'occhiata fuori dal finestrino.

Stavano attraversando la foresta.

Davanti a loro, non c'era altro che cedri giapponesi, abeti e larici, piccoli pezzi di sentiero fangoso che sbucavano fra un tronco e l'altro, conigli e scoiattoli che scappavano spauriti all'arrivo della carrozza.
Infine, il demone si voltò. «Non puoi immaginare quanto mi secchi ammetterlo, ma», fece un lento cenno con la testa, chiudendo le palpebre. «hai ragione. Dev'essere stata davvero... dura, per lei».

Takeshi trattenne a stento un sospiro di sollievo. «Non era da sola».

«Sì, Oseroth, per quel che vale ho cercato di starle più vicino possibile».

 

Il demone annuì nuovamente, stavolta più veloce, come se volesse ringraziarli senza farsi sorprendere nel gesto. Ciononostante, li ringraziava dal profondo del cuore – da quel vecchio e grigio organo muscolare che pulsava, stanco, nel suo petto.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Grazie a Kazumi, sapevano dove si trovava la residenza in cui – probabilmente – stava vivendo Alyon Akawa in quegli ultimi tempi: la casa in cui era nata. La casa in cui aveva passato la sua infanzia, la sua adolescenza e una parte della maggior età. Poi lei se n'era andata e aveva viaggiato per tutta l'Europa, troppo curiosa e intransigente per rimanere in quel piccolo paesello.

Non erano certi che Alyon si trovasse lì. Era solo una possibilità.
Era già passata più di mezz'ora da quando erano partiti e persino il cocchiere sembrava cominciare ad accusare la stanchezza. Avevano superato già da molto la foresta e ormai si erano inoltrati nella campagna del paese, dove c'era solo qualche casa e piccoli campi. L'aria si era fatta molto più fredda e tutto era avvolto da una cappa di oscurità mista a nebbia. Solo la luna, alta e limpida, illuminava a fatica la strada sterrata.

 

«Il Consiglio potrebbe saperne qualcosa?», disse Takeshi.

Tetsuya ci aveva riflettuto qualche istante e poi, esasperato, aveva scrollato le spalle. «Potrebbe. Non voglio escluderlo. Potrebbero, in effetti, essere complici».

«Se Alyon non è qui», aveva detto Oseroth. «e il Consiglio è dentro questa storia... non ho idea di come faremo a trovare quel demonio, a quel punto».

Ma non era lui, il demone?, Takeshi non sapeva se fosse il caso di dar voce ai suoi pensieri.

«Credo sia questa».

 

 

Alla voce del vampiro, Takeshi e Oseroth guardarono verso il lato destro della carrozza e, attraverso il vetro del finestrino, videro quella che era una villa in piena regola; un cancello con sopra il disegno di un albero, chiuso solo da un catenaccio arrugginito, precedeva un lungo sentiero lastricato che arrivava a un ampia scalinata in granito. Da quella scalinata, qualche metro in là, si vedeva una fontana con la scultura di una sirena con una spada nella mano sinistra.
Tutti e tre rimasero immobili. Takeshi trattenne il respiro.

Stavolta, non era meravigliato dalla bellezza di una casa. Stavolta, aveva una corda al collo che aspettava di essere tirata.

«Sei ancora sicuro di voler venire?», sussurrò Tetsuya.

«Sono sicuro», rispose l'altro, senza staccare gli occhi dal vetro.

 

Scesero dalla carrozza, Oseroth disse al cocchiere di allontanarsi da quel punto e tornare fra tre ore – sempre se andava tutto per il meglio.

Riuscirono ad aprire il cancello facilmente. Il catenaccio era messo peggio di quanto sembrasse e con una spinta – brusca al punto giusto – questo si spezzò, cadendo a terra con un tonfo triste. Superato il cancello, attraversarono il sentiero lastricato. Intorno a questo c'era un giardino, la cui erba era secca e alta e, di tanto in tanto, veniva scossa da strani fremiti a causa degli animali nascosti all'interno.
Non si sentiva un alito di vento. Il freddo era intenso ma il silenzio anche di più.

Raggiunsero la fontana e Oseroth vi si fermò a guardarla con uno sguardo austero. La visione di quella scultura lo agitava. La sirena teneva la lama della spada vicina alla spalla, appoggiata. «Quella spada», disse a bassa voce il demone.

Takeshi arrestò il passo, proprio al fianco della fontana e sollevò gli occhi sulla spada che impugnava la sirena. Aggrottò la fronte. «Cos'ha che non... aspetta, ma... ».

«È la copia sputata di Anima», disse Tetsuya.

«Già. Ma c'era da aspettarselo, questa casa era di un Akawa, dopotutto». Oseroth la fissò ancora, nervosamente, e alla fine entrò nella fontana – ormai vuota da decenni; al suo interno, si avvicinò alla statua e allungò la mano. I polpastrelli saggiarono la superficie ruvida della coda, come se fosse fatta realmente di squame, e salì con la mano, lungo il fianco della sirena, come un pianista col suo strumento.
Alla fine, facendo un piccolo sforzo, raggiunse con la mano quella intorno all'elsa della spada e stringendola, come se si fosse spezzata, si inclinò in avanti di 40°, facendo puntare la lama verso il collo della sirena.

Qualche metro più in là, il grande e maestoso portone d'ingresso si aprì, lentamente e con un cigolio frastornante.

 

   
 
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