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Autore: Amy W Gildeary    30/01/2019    2 recensioni
Il conte Girolamo Riario una volta disse: «Quando si deve trasmettere un messaggio, preferisco servirmi di mezzi che gli altri non userebbero».
Una donna, ad esempio.
E se papa Sisto IV non avesse avuto un figlio, ma una figlia?
E se il bellicoso Santo Padre avesse deciso di sfruttarla come arma per i suoi subdoli piani, approfittando dell'effetto sorpresa?
Cosa sarebbe successo se avesse avuto lei il compito di attaccare Firenze e di ottenere i servigi del geniale artista Leonardo da Vinci?
-
«Sapete chi sono?», domandò la giovane donna, chinando di poco la testa di lato; la voce morbida e vellutata, senza alcuna traccia di turbamento. «Sono Gemma Riario. Contessa di Imola, guida della Santa Romana Chiesa e nipote di Sua Santità, papa Sisto IV».
[...]
«Sì, lo so», commentò la contessa, con un sospiro annoiato. «Rimangono tutti sempre molto sorpresi di vedere una donna», continuò, con una naturalezza e una tranquillità a dir poco disarmanti, ben poco appropriati al contesto. «Volevano un figlio maschio. Lo avrebbero chiamato Girolamo. Ma poi sono arrivata io».
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Zoroastro
Note: What if? | Avvertimenti: Gender Bender
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Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 11 - Il Carro

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta del Carro rappresenta i trionfi, il progresso, l’evoluzione. La vittoria proviene dalla fermezza dei propositi, dalla coerenza, dall’equilibrio. La capacità di governare sé stesso e gli eventi richiede discernimento e armonia. La riuscita nelle cose dipende da potenzialità personali, dalla capacità di rovesciare il negativo in positivo, da talento.
Al negativo, però, esiste incapacità di vincere le situazioni, mancano la diplomazia e la capacità di ricercare un ambito equilibrio.

 

 

 

            «La mia unica opzione è di offrirmi personalmente in ostaggio a Riario. Dovrò pregare, rimettendomi solo alla sua misericordia, che lei rinunci a depredare Firenze. Dovrò pregare, affinché garantisca a Clarice e alle nostre figlie una scorta per l’esilio. E dovrò pregare affinché ogni traccia del mio nome e della mia eredità… non venga cancellato per sempre».

            «E se Riario vuole voi… che vi abbia pure».

Erano state quelle le ultime parole pronunciate dal Magnifico, prima di uscire dalla bottega dell’artista.

Per un istante, per un solo breve istante, Leonardo aveva assecondato quel pensiero, e nella sua mente aveva immaginato il futuro descritto da Lorenzo.

Si vide sul campo di battaglia, mentre ascoltava gli accordi presi tra il potente de’ Medici e la fredda contessa Riario.

Si vide circondato dalle guardie svizzere, dagli scagnozzi agli ordini del gioiello più prezioso del Vaticano.

Si vide portato dall’altro lato della guerra, al servizio del papa, e rinchiuso a Castel Sant’Angelo.

E per un istante, ancora più breve, vide che non era il solo prigioniero in quella gabbia dorata.

Un attimo dopo, era tornato con i piedi per terra.

 

Gemma arrivò con un discreto anticipo. Da sola, in prima linea e con il suo esercito alle sue spalle, si concesse un breve momento di pace per pregustare l’imminente vittoria di Roma su Firenze.

Sul prato verde e rigoglioso stava cadendo una debole pioggia, e il cielo era del tutto celato dietro a candide nubi. Con le affusolate dita coperte dalla pelle corvina dei guanti, strinse il tessuto del cappuccio del mantello tra pollice e indice, e si coprì il capo.

Il freddo era pungente e in poco tempo le si sarebbe insinuato nelle ossa, ma la giovane scacciò via qualsiasi pensiero che non fosse tornare a Roma con il più succulente dei bottini.

Eppure, nel suo cuore, aleggiava una strana sensazione, un brutto presentimento che le agitava l’animo. Si sforzò di ignorarlo, ma più ci provava e più quel sapore amaro tornava, sempre più forte. Tentò quindi di pensare ad altro e, per ingannare il tempo, estrasse dalla giacca un elegante orologio d’oro, e iniziò a giocherellarci in attesa dell’arrivo del Magnifico e di Leonardo.

Tutto sommato, sarebbe stato divertente guardarlo di nuovo negli occhi dopo quello che era accaduto la notte scorsa nel vicolo. Tuttavia, ripensandoci, sentì ancora i brividi sulla pelle del collo, sotto la sciarpa di seta.

Il galoppo dei cavalli la risvegliò; riposto l’orologio, sollevò lo sguardo davanti a sé e indossò, per l’ennesima volta negli ultimi giorni, la sua impenetrabile maschera. Sorrise, quando vide i suoi interlocutori fermarsi di fronte a lei.

            «Nico», esclamò Gemma, vedendo il giovane apprendista di Leonardo nella piccola folla di accompagnatori. «È una gioia vedervi di nuovo. Spero che la vostra mano sia guarita», aggiunse, e forse solo una persona tra tutte loro poteva concedersi il lusso di credere che la sua preoccupazione fosse sincera.

E proprio su quella persona si posò lo sguardo della contessa.

            «Artista», mormorò Gemma, con voce vellutata. «Puntuale e pronto per seguirmi a Roma», aggiunse, congiungendo le mani davanti a sé e sorridendo soddisfatta.

Leonardo da Vinci, giovane artista, anatomista e ingegnere di una certa fama, sapeva benissimo che qualsiasi persona, dotata di un minimo di senno, si sarebbe coperta il capo con il cappuccio del proprio mantello per proteggersi dalla pioggia; e la contessa non era sicuramente un’eccezione.

Ma era come se quel velo la allontanasse per un secondo dal suo ruolo, lasciando al suo posto solo una giovane donna dalla pelle candida e dagli occhi che brillavano come due pietre preziose.

            «Salve, contessa», riuscì a dire Leonardo, per quanto fosse forte la tentazione di chiamarla per nome.

            «Spero abbiate riposato. E che abbiate le energie per stare al mio passo», proseguì Gemma e, per sottolineare velatamente il concetto, si sistemò meglio in sella al suo cavallo.

            «Siete certa di essere voi quella in grado di stare al mio passo?», ribatté il fiorentino, accompagnando la provocazione da uno dei suoi sorrisetti colmi di arroganza e presunzione.

            «Non sarei io, dei due, a restare senza fiato», ribatté lei, abbassando sempre di più il tono della voce.

E come piccolo assaggio, lo aveva lasciato davvero senza fiato.

            «Andiamo senza indugi ai termini della resa», si intromise il Magnifico, desideroso di concludere quanto prima quel teatro di umiliazione che lo vedeva protagonista.

            «Certamente», rispose Riario, con la più falsa delle accondiscendenze. Vedere la soddisfazione dipinta sul suo volto, forse, sarebbe stato meno fastidioso di quella finta gentilezza che voleva solo celare la vittoria.  

Eppure, in quel frangente che avrebbe ben presto determinato le sorti di Firenze, Leonardo fu capace solo di afferrare una melagrana dal suo piccolo fagotto e di iniziare a mangiarla, come se nulla fosse. In qualche modo, era anche riuscito ad allontanare dalla sua mente le immagini descritte da Gemma, poco prima.

            «Vorrei delle…», iniziò Lorenzo, con umiltà, ma si fermò frenato dal suo bruciante orgoglio. «Esigo…», si corresse. «…da voi alcune rassicurazioni».  

La contessa rispose con un cenno della mano che lo incitava a continuare, con la medesima falsa gentilezza di poco prima. Voleva fingere di non capire per quale motivo Lorenzo fosse tanto riluttante ad offrirsi in ostaggio; e nel mentre, assaporava con piacere il dolce sapore della vittoria.

            «Firenze e tutti i cittadini sono la mia priorità…», iniziò il Magnifico, ma fu interrotto senza troppi complimenti da Leonardo.

            «Un momento!», esclamò l’ingegnere, con la bocca ancora mezza piena di melagrana. «Scusate, scusate», continuò, fermando sia Lorenzo che Gemma.

Tutto ciò, sotto gli sguardi perplessi di Riario e del suo esercito, e fulminanti del Magnifico.

            «Vi è chiaro, contessa… di chi è la resa di cui si discute?», domandò da Vinci, calcando notevolmente sul suo titolo, con un tono di voce basso e roco simile a quello usato da lei per stordirlo.

            «Illuminatemi, artista», disse la giovane in tutta risposta, facendo spallucce.

Ma prima di proseguire, Leonardo immaginò la reazione della temibile e spietata contessa Riario di fronte ad un’innegabile sconfitta. Sapeva che da lì a poco la sua mossa l’avrebbe completamente spiazzata e, senza che potesse controllarlo, le sue labbra si piegarono in un sorriso di puro compiacimento.

            «È la vostra», rispose lui.

La reazione di Gemma, sfortunatamente, non fu né di rabbia, né di smarrimento, né di paura; fu però un’incantevole sorpresa per Leonardo.

Rise.

Rise come non l’aveva mai sentita ridere prima di allora. L’aveva vista sorridere, l’aveva vista fingere interesse o divertimento, o tuttalpiù l’aveva vista forzare una piccola risatina sarcastica. Ma quella era una risata vera, allegra, e così bella da scaldargli il cuore.

            «Prego?», chiese la giovane romana, senza abbandonare il suo sorriso.

E di fronte a quella gioia, Leonardo ebbe bisogno di un paio di secondi di tempo per ricomporsi. Un’esitazione che Gemma sfruttò subito.

            «Forse qualcosa vi ha… distratto…», iniziò lei, e sul suo viso ritornò quel sorriso malizioso e quello sguardo magnetico che erano la sua firma. «…ma la vostra città è in netto svantaggio».

            «Da Vinci…», lo rimproverò il Magnifico, con il più minaccioso dei suoi sguardi: come se quella situazione non fosse già abbastanza umiliante.

Ma Leonardo lo ignorò, e si rivolse al suo giovane apprendista.

            «Nico?», lo chiamò, voltandosi verso di lui e indicando il carro che avevano portato sul campo di battaglia. «Mostra alla contessa, nonché guida della Santa Romana Chiesa, il nostro dono», proseguì, e ai suoi ordini il biondino tolse il telo che copriva il carico.

Enormi oggetti sferici, dall’aspetto assolutamente sconosciuto a tutti i presenti, fecero capolino e chiunque, eccezion fatta per Leonardo e Nico, li osservò con diffidenza.

            «Da quando avete calcolato i potenziali delle mie armi, mi sono sforzato per aumentare il vantaggio di Firenze», iniziò da Vinci, prendendosi una piccola pausa per dare un altro morso alla sua melagrana. «È questione di matematica, in realtà. Cioè, come ammassare un gruppo di sfere economizzando spazio. E visto che la natura impiega sempre i mezzi più efficaci per raggiungere i suoi fini… ho colto ispirazione da un frutto», e detto ciò, sollevò quel che restava del suo spuntino con la mano, prima di gettarlo alle sue spalle.

Eccolo di nuovo, quell’amaro presentimento che Gemma aveva sentito nel petto.

            «E così ho inventato… la bomba a grappolo», sentenziò l’artista, estraendo dalla tasca della giacca l’oggetto in questione, per poi lanciarlo alla contessa.

Senza esitazioni, la giovane Riario sollevò immediatamente la mano e prese al volo la piccola sfera, rigirandola tra le dita per esaminarla meglio.

            «L’involucro raccoglie esplosivi più piccoli, compattati, come le facce di un solido archimedeo separate da distanziatori in ferro. Così, quando la bomba viene lanciata… si frammenta, creando una fontana di schegge a grappolo».

Più la spiegazione di Leonardo continuava, più la presa della mano di Gemma intorno alla bomba si rafforzava, così tanto che iniziò ad emergere il segno del suo anello sotto la liscia pelle nera del guanto.

            «Ho stimato che ognuna di esse elimina una dozzina di uomini, compresi i cavalli. Tuttavia, una bomba colpisce il bersaglio solo se chi la lancia è abile. Per questo…», e con le parole, Leonardo si fermò. Scelse il silenzio, mentre si voltava per cercare Zoroastro e annuirgli.

Il suo fedele amico, in fondo al prato, gli rispose con un cenno della mano, prima di dare ordine agli altri uomini di scoprire la loro arma segreta. Ed essa, per quanto fosse distante dalla contessa e dal suo esercito, aveva tutto l’aspetto di una balestra ma molto, molto più grande e minacciosa.

Lorenzo era ancora assorto nel suo silenzio, mentre cercava di capire a quale gioco Leonardo stesse giocando. Al contrario di lui, però, Gemma aveva già compreso che la situazione stava volgendo a suo sfavore, e che la sua posizione di potere si stava sgretolando.

Non fece però in tempo ad aprire bocca, che qualcun altro lo fece per lei.

            «Imponente», commentò il capitano Grunwald avanzando leggermente, in sella al suo cavallo. «Ma quel congegno funziona davvero?»

Già per la controparte fiorentina fu una sorpresa vedere un sottoposto della terribile contessa Riario intromettersi con tanta sfrontatezza e rubarle la parola; ma per le guardie provenienti da Roma, fu quasi più sconvolgente della balestra appena scoperta.

Seguirono alcuni secondi di silenzio, durante i quali buona parte dei presenti già ipotizzava quali strazianti torture sarebbero state inflitte ad un soldato tanto insolente. In quella pausa, Nico afferrò la balestra del suo maestro, quella di dimensioni normali, e gliela porse.

            «Ve lo mostro su scala molto ridotta», disse Leonardo.

Giusto il tempo di accendere la miccia e di scoccare la bomba in aria, ed essa esplose in una moltitudine di scintille colorate e scoppiettanti.

            «Va da sé che la vera bomba più grande… non contiene fuochi d’artificio, ovviamente», precisò da Vinci, onde evitare equivoci dopo quello che era appena stato visto.

Il Magnifico cominciò a sogghignare sotto i baffi, improvvisamente fiero del suo ingegnere bellico e ben lontano dagli insulti che gli aveva sputato addosso solo poche ore prima, nella sua bottega. Da Vinci invece lasciò perdere la vittoria, e si concentrò solo sulla rivale che aveva di fronte; ma non per sfidarla o per marcare con lo sguardo l’umiliazione che le stava infliggendo.

Voleva capire che cosa stesse pensando davvero. L’intervento di Grunwald, agli occhi dell’artista, era molto più di un gesto impulsivo da parte del suo braccio destro. Era segno che il silenzio della contessa era apparso così grave e inusuale da spingerlo ad intervenire, contro qualsiasi ordine o insegnamento.

Ragion per cui era del tutto plausibile aspettarsi rabbia, frustrazione, smarrimento, paura.

Che fosse uno scherzo del destino o una maledizione, una condanna a ricordargli quello che le aveva detto, quello che le aveva fatto, ma quelli erano gli stessi sentimenti che Leonardo aveva visto sul volto di Gemma al convento.

            «Siete ancora cerca di non voler trattare una resa, contessa?», le chiese da Vinci, ma con un tono molto più asciutto e pacato rispetto ai suoi soliti.

Ma Gemma aveva sfruttato saggiamente quel lasso di tempo, quel silenzio che Grunwald aveva colmato, ben sapendo il rischio che correva. Nella sua testa si erano susseguiti anni e anni di insegnamenti, addestramenti, lezioni e punizioni, e prime su tutto le parole di Papa Sisto, di quell’uomo che nemmeno lei riusciva a chiamare Padre.

Mai mostrare le proprie debolezze.

Mai provare al nemico che quello era un punto debole.

Mai dargli la soddisfazione della vittoria.

Mai mostrarsi impreparati.

Mai.

Mai.

            «D’accordo», rispose la nipote del Papa, con una calma e una compostezza a dir poco sorprendenti. Soprattutto data la situazione. «E quali sarebbero i termini?»

Il Magnifico aveva ormai iniziato a prevedere il comportamento di Leonardo e, per quanto non approvasse alcuni suoi silenzi in risposta a determinate mosse della contessa Riario, specie se provocatorie, non poteva comunque dargli torto. Dimenticando per un momento il ruolo della giovane donna, quel che rimaneva era un gioiello degno del suo nome.

Lasciò l’ingegnere impegnato a fissare la sua nemica con un’espressione parecchio perplessa, e si intromise.

            «Roma ha ancora dei debiti verso il banco dei Medici. Debiti ingenti», rispose Lorenzo, con un ghigno gongolante stampato sulle labbra.

In silenzio, Gemma rispose con un cenno della mano a continuare. Un cenno privo della superbia con cui la trattativa era iniziata, e il primo cittadino di Firenze sorrise ancora di più nel notarlo.

            «Inoltre, Pisa rientra sotto la giurisdizione di Firenze, quindi la nomina di Francesco Salviati come nuovo arcivescovo non è valida», aggiunse.

            «Dunque cosa proponete, Magnifico?», proseguì la contessa, e fu particolarmente frustrante ritrovarsi dalla parte del perdente, specie per una combattente come lei, abituata a vincere.

            «Sarà la Repubblica di Firenze a nominare il nuovo arcivescovo», sentenziò Lorenzo.

            «Altro?»

Anche solo una singola parola era uno sforzo, per lei.

Quello che molti dei presenti ignoravano, però, era ciò che la stava tenendo ancora in piedi, ciò che le stava dando la forza di mantenere egregiamente intatta la sua maschera di indifferenza e tranquillità, anche in quella posizione di svantaggio. Non era il talento, non erano gli addestramenti, non era il suo bel caratterino.

Era la paura.

La paura delle conseguenze che, ben presto, si sarebbero abbattute su di lei. Perché solo la fuga sarebbe stata una sconfitta peggiore di quel fallimento contro i fiorentini.

            «Rivogliamo le cave di allume che ci avete sottratto», sentenziò il Magnifico.

E finalmente, Gemma colse una piccola occasione di riscattarsi.

            «Cave che sono state svuotate…», mormorò la giovane donna, con un’innocenza ben recitata. Innocenza che, però, centrò il bersaglio quando il de’ Medici si lasciò sfuggire una piccola smorfia di seccatura sul volto. «Ma prego, sono vostre», aggiunse, e quella gentilezza era finta tanto quanto l’ingenuità di poco prima.

            «Le spese di guerra devono essere risarcite», ribatté immediatamente il Magnifico, notevolmente infastidito per aver perso di mano il potere, per un momento. «Solitamente questo spetta al perdente».

            «Per questo particolare dato, dovremmo chiedere all’ingegnere bellico», rispose Gemma, e con l’occasione scoccò un lungo sguardo a Leonardo. Quasi non si sorprese di trovare i suoi occhi già posati su di lei, quando si voltò nella sua direzione.

            «Vi metterò tutto per iscritto, contessa. Non preoccupatevi di questo», mormorò l’artista, ma la questione del denaro era proprio l’ultimo dei suoi pensieri.

Gemma se ne accorse. Si accorse di tutto, ma scelse di andare oltre.

            «E quando potremmo discutere di questi particolari dettagli?», domandò la giovane romana al Magnifico, sperando che fosse l’ultima questione da affrontare prima di potersi voltare e andare via.

            «Terrò un banchetto a palazzo, tra due giorni. Potremmo disquisirne in quell’occasione», propose Lorenzo.  

Che la malizia nella sua voce, nel suo sguardo e nella sua proposta fosse dovuta alla vittoria o ai suoi ben noti appetiti, era difficile a dirsi. Lorenzo era prima di tutto il signore di Firenze, ed era fedele alla sua città; ma non lo era altrettanto nei confronti di sua moglie, e il numero delle sue amanti non era affatto lusinghiero.

Tuttavia, trovarsi sul campo di battaglia dopo una vittoria che doveva tutto a Leonardo e niente a lui, e ciò nonostante lasciarsi andare a pensieri ben poco consoni e casti nei confronti di una delle nemiche più pericolose per la città che tanto decantava di amare… era quanto ti può lontano dal concetto di comportamento lodevole.

E Gemma lo notò. Lo notò eccome.

            «Invitereste il nemico nella vostra stessa città?», chiese lei, sollevando le sopracciglia con scetticismo.

            «Nemico al quale sto offrendo un ramoscello d’ulivo», si giustificò lui, ma senza perdere quel ghigno di soddisfazione che ormai aveva ben stampato sulle labbra.

Non a caso, lo sguardo della contessa Riario continuò ad essere scettico e distaccato, ma dovette comunque accettare.

            «Così sia, dunque», e nel dirlo, Gemma sentì un po’ della paura sfumare. Il banchetto avrebbe sicuramente ritardato il suo ritorno a Roma, e forse le avrebbe offerto un’altra occasione per rimediare.

Non aveva alcuna possibilità di riportare a Sisto una vittoria che ormai era svanita, ma forse poteva ancora trovare il modo di lenire la sua rabbia e calmare la sua impazienza.

Strinse tra le mani le briglie del cavallo, e accennò un inchino per congedarsi. Il tutto, firmato con la sua ineguagliabile eleganza.

            «A presto, contessa Riario», mormorò il primo cittadino.

            «A presto», rispose lei. «Magnifico…», aggiunse, per pura formalità. «…Artista», e a lui dedicò un ultimo sguardo, prima di voltarsi ed andarsene, seguita dal suo esercito.

Lorenzo fece altrettanto, e si allontanò con le sue guardie a fargli da scorta.

L’unico a tardare il ritorno in città, perso in una fitta nebbia di pensieri, domande e perplessità su quello che era appena accaduto, era Leonardo.

Tra tutti i suoi dubbi, di una sola cosa era certo: più aveva modo di conoscere Gemma, e più il mistero che la circondava si infittiva.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt* e buonasera!

Torniamo sul campo di battaglia e nell’ambito di trattative e politica, per cui rinnovo l’augurio che mi ero fatta per il capitolo 9 di non avervi annoiata e di aver reso le minacce di qua e le intimidazioni di là abbastanza piccanti e d’intrattenimento.

Intanto quattro schiaffi al Magnifico che ci prova con qualsiasi donna abbia davanti non glieli vogliamo tirare? Così, per insegnargli il valore della fedeltà.

Però l’invito alla festa ormai è sul tavolo, sarebbe un vero peccato lasciarlo lì.

Per questo misterioso banchetto di fine guerra, ci rileggiamo tra due settimane!

Un bacione

Amy W. Gildeary

   
 
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