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Autore: Lady1990    03/02/2019    4 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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La settimana passò in fretta per Roman. Oltre alla caterva di compiti che i professori gli assegnarono per rimettersi in pari, in aggiunta a quelli normali in preparazione ai primi test, partecipò alla selezione per la squadra di basket. Non credeva che la competizione fosse così spietata. Entrò, ovviamente, ma dovette dar fondo a tutte le tecniche che conosceva.

Zack Pember, capitano della squadra, lo accolse con un enorme sorriso e una poderosa pacca sulla schiena, dicendogli che, adesso che Roman era con loro, avevano la vittoria in pugno. L’invidia che avevano rilasciato gli altri ragazzi per tutto il tempo gli aveva fatto storcere il naso.

Dopodiché, iniziarono gli allenamenti, che gli portavano via due ore pomeridiane due volte a settimana, sottraendo tempo allo studio. Roman strinse i denti e ce la mise tutta per non restare indietro, anche se non era facile.

Stando così le cose, non erano molte le occasioni in cui poteva godere della compagnia di Regan, eccetto per la pausa pranzo tre volte a settimana, in cui avevano lo stesso turno. E durante due di quelle tre, Charlotte e Jennifer, e ora pure Zack, si aggregavano a loro sulle gradinate del campo esterno.

La cotta di Charlotte per il capitano della squadra di basket era chiara come il sole, e ricambiata. Di sicuro i due sarebbero finiti insieme presto, a giudicare dalle occhiate che si lanciavano.

Jennifer si fece sempre più insistente, pressandolo affinché la accompagnasse in quel posto o in quell’altro, con la scusa di mostrargli gli angoli più chic della città. Roman non ne poteva più di ripeterle che non aveva il tempo materiale da dedicarle, tra lo sport e i compiti.

A quelle scenette, convinto che nessuno lo osservasse, Regan sghignazzava sotto i baffi. Soprattutto quando Jennifer, stufa dei continui rifiuti, assumeva il tipico comportamento da gatta in calore: si strusciava su Roman, gli palpava i muscoli e lo sommergeva di complimenti su ogni minima cosa. Per lo più, comunque, Regan se ne restava in disparte, per i fatti suoi, ai margini del gruppo. L’espressione perennemente annoiata sottolineava la completa mancanza di voglia di partecipare alle conversazioni. Neanche si sforzava. E nessuno gli rivolgeva mai la parola.

Roman notò anche il trio di bulletti che sembrava avercela con lui. Si azzardò a intervenire solo una volta, credendo di aiutare, e gli bastò per il resto della vita. Infatti, entrambi in piedi di fronte agli armadietti, circondati da uno stuolo di studenti curiosi, Regan prima lo crocifisse con un’occhiata raggelante, poi gli sibilò in un orecchio di non provare ad umiliarlo mai più, specialmente in pubblico.

“Non ho bisogno di un principe e non sono una damigella in pericolo.” sputò invelenito, dandogli le spalle, e si allontanò lungo il corridoio a passo sostenuto, mentre Gregory e la sua cricca ridacchiavano trionfanti dietro di lui.

E così, in quell’occasione, Roman non solo fece conoscenza con la lingua tagliente di Regan, ma scoprì che funzionava bene quanto i suoi ganci contro individui come Gregory. Era uno spettacolo ascoltare Regan ricoprire qualcuno di insulti, non mancava mai di spedirgli conturbanti brividi in ogni estremità del corpo. Sempre se tali insulti non erano rivolti a lui, ovvio. In quel caso, avvertiva l’impulso di raggomitolarsi in una palla e mostrargli la gola in un gesto di sottomissione.

Regan era un maschio alfa travestito da preda, pronto a morderti dove più faceva male se premevi i tasti giusti.

Talvolta il suo atteggiamento era frustrante, ma spesso Roman non poteva esimersi dall’invidiarlo. Invidiava la sua compostezza, il suo menefreghismo e la sua arte di rendersi invisibile. A Regan bastava alzarsi, girare i tacchi e andarsene, nessuno lo avrebbe fermato. Era libero di muoversi come più gli pareva. Roman, invece, doveva barcamenarsi tra gente petulante che non aveva alcuna considerazione per i suoi spazi.

Sul serio, perché non ci davano un taglio? D’accordo, lui era la novità e sapeva che ci sarebbe voluto un po’ prima che l’entusiasmo generale scemasse, ma già intravedeva il limite. E cosa aveva Jennifer, con tutti quei messaggi che gli mandava ad ogni ora del giorno e della notte? Stava cominciando a puzzare di disperazione.

Finalmente giunse sabato, e così la tanto attesa uscita a quattro. Anzi, a quanto pareva erano saliti a cinque, come scoprì Roman quando parcheggiò alla stazione di Salem e vide anche Zack. Era venuto in macchina, invece che col pullman insieme agli altri, così avrebbe avuto più libertà di movimento. Era stata una decisione dell’ultimo minuto, in realtà, per evitare di dover subire la presenza appiccicosa di Jennifer più del necessario. Non dubitava che, sapendolo in anticipo, Charlotte lo avrebbe ricattato velatamente affinché facesse il viaggio con l’amica.

Avvicinandosi al gruppetto, notò che Regan fissava il cielo come se racchiudesse tutte le risposte. O forse era solo per l’esasperazione alla prospettiva di trascorrere un’intera giornata in compagnia di persone. Appesa a una spalla, portava una borsa a tracolla. Roman si chiese cosa contenesse. Una breve sniffata gli comunicò che lì dentro c’era del cibo. Roastbeef, per la precisione.

“Roman!” esclamò Jennifer, strappandolo alle sue riflessioni.

“Ciao, Jennifer.” la salutò cordiale, per poi scoccare un’occhiata dubbiosa a Regan, ancora intento a scrutare il cielo, “Regan, stai bene?”

Lui gli rispose con il proverbiale grugnito, quindi tutto a posto.

“Come va, Zack?”

“Alla grande.”

Dopo essersi scambiati i convenevoli di rito, Charlotte prese il comando della loro piccola spedizione ed espose il programma.

“Allora, direi di cominciare con la Witch House. Poi, se siete d’accordo, andremo al Witch Dungeon Museum. Pausa pranzo al parco lì accanto e, nel pomeriggio, il museo delle cere. Se ci rimane un po’ di tempo, possiamo far fare a Roman un giro rapido dei cimiteri. Che ne pensate?”

Tutti accettarono con entusiasmo – Regan grugnì – e si incamminarono verso la prima meta. Jennifer si affiancò immediatamente a Roman, Zack si incollò a Charlotte e Regan venne relegato nelle retrovie di comune accordo. Roman non apprezzò per niente quella ripartizione, ma per il momento si astenne dal commentare. Non gli andava di offendere le ragazze o creare da subito degli attriti nel gruppo.

Nonostante fosse bassa stagione, Salem brulicava di turisti. Sorpassarono vari gruppi, chi diretto a questo o quel museo, tutti con una guida tascabile della città in una mano, la macchina fotografica nell’altra e gli occhi spalancati per memorizzare tutto ciò che vedevano. Salem non era una città degna di nota, per quanto riguardava architettura o strade. Ciò che la rendeva speciale erano i musei dedicati ai processi delle streghe e i cimiteri in cui erano sepolti i confederati.

Il tour della Witch House fu breve. Roman lo avrebbe trovato interessante, se solo Jennifer si fosse staccata dalla sua persona e ammutolita per un minuto. Regan, al contrario, rimase zitto per tutto il tempo e leggermente discosto dagli altri. La sua espressione neutra rese impossibile a Roman indovinare non solo i suoi pensieri, ma anche il suo stato d’animo. Se non fosse stato per il fatto che emanava un odore, o per il battito del suo cuore, lo avrebbe scambiato per un robot.

“Roman, permetti una domanda?” chiese Zack sulla strada verso il secondo museo.

“Certo, dimmi pure.”

“Come mai sei ancora al secondo anno e non al terzo? Hai detto che il 7 gennaio ne compi diciotto.”

Roman sospirò e infilò le mani nelle tasche dei jeans.

“Sono bocciato l’anno scorso. È uno dei motivi per cui ci siamo trasferiti. Frequentavo una brutta compagnia e ho finito per combinare dei casini. Mi sono preso le mie colpe e accettato le conseguenze, ma restare non era concepibile.”

“Ti drogavi?” indagò Regan senza peli sulla lingua, dando voce alla domanda che gli altri non avevano il coraggio porgli.

Charlotte, Zack e Jennifer gli scoccarono occhiate allarmate. Lui li ignorò, concentrandosi sulla reazione di Roman, che scrollò a malapena una spalla con aria tranquilla.

“No, sono solo stato complice di piccoli furti e atti vandalici. La cosa è terminata quando mi hanno arrestato.”

“Sei stato in prigione?” esalò con meraviglia.

“Per una notte. Poi i miei mi hanno tirato fuori. Di buono c’è che la mia fedina penale verrà ripulita subito dopo il mio compleanno, a gennaio. I vantaggi di essere minorenne, suppongo.”

Regan mugugnò un assenso.

“Io ho avuto problemi di salute il primo anno delle medie.”

“Era grave?” indagò apprensivo Roman.

“Abbastanza.”

“Sei anche bocciato alle elementari, giusto?” lo interruppe Charlotte con un sorrisetto sardonico, che lasciò il posto a una smorfia imbarazzata non appena Regan le rispose.

“No. Mia nonna mi ha solo iscritto un anno più tardi rispetto agli altri, cioè quando ne avevo sette invece che sei. A dire il vero, se fosse stato per lei avrei continuato a studiare a casa fino alle medie, ma il lavoro non faceva che aumentare e non aveva più tempo per starmi dietro.”

“Oh. Perciò hai… sedici anni?” chiese Roman.

“Compiuti il 15 agosto.” confermò Regan.

“Auguri in ritardo!”

“Grazie.”

Jennifer si schiarì la gola e prese Roman a braccetto: “Siamo arrivati. Entriamo?”

Oltrepassarono la soglia del museo in formazione: Roman e Jennifer in testa, Charlotte e Zack a seguire e, in coda, Regan. Le due coppie esclusero Regan dalla conversazione, ma lui non ne fece un dramma. Anzi, il loro comportamento andava a suo vantaggio, perché così poteva studiare Roman indisturbato.

Il dettaglio che trovava più strano era il suo vizio di annusare spesso l’aria. Le sue narici fremevano di continuo. A seconda dell’odore che captava, la sua bocca si piegava in un sorriso o in una smorfia. Era un fenomeno molto interessante e curioso. Gli ricordava un cane.

Inoltre, era ovvio il suo fastidio per gli incessanti tentativi di approccio di Jennifer. Possibile che la ragazza non riuscisse a cogliere il messaggio? Era triste vederla affannarsi per tenere focalizzata su di sé l’attenzione di Roman. Regan la trovava davvero patetica.

Durante la visita, pian piano Charlotte e Zack si distanziarono dagli altri due, col risultato di rimanere spesso soli con Regan. Non compirono alcuno sforzo per coinvolgerlo, preferendo fingere che non esistesse.

Regan non sapeva se sentirsi offeso o sollevato. Quando però iniziarono a tubare davanti a lui come due colombelle, avvertì montare l’irritazione e la nausea, nonché una noia mortale. A metà percorso decise di abbandonarli alle loro smancerie e tornò indietro per aspettarli all’aperto.

Roman fu il primo a raggiungerlo, dieci minuti più tardi. Improvvisò persino una corsetta quando lo individuò sul marciapiede.

“Perché sei sparito?”

Regan lo guardò dall’alto in basso: “Avevo bisogno d’aria.”

“Okay.” Roman si morse un labbro e dondolò sui talloni, le mani infilate nelle tasche del giubbotto, “Hai fame?” gli chiese dopo un po’.

“Ho il pranzo al sacco.”

“Non sapevo bisognasse portare il pranzo al sacco.”

“Non c’era nessun obbligo.”

“Ah. Cosa ti sei portato?”

“Un panino con roastbeef.”

“Che ne dite di andare a mangiare al parco qui vicino?” si intromise Charlotte, comparendo dietro di loro.

“Ottima idea!” esclamò Jennifer, arpionandosi di nuovo al braccio di Roman.

Roman represse a fatica una smorfia scocciata e si lasciò trascinare dalla ragazza lontano da Regan. Gli pareva di essere vittima di un complotto, come se nessuno volesse lasciarlo solo con Regan per più di un minuto, e se ne chiese il motivo. Aveva compresa che il moro non era benvoluto dai suoi coetanei, ma il perché continuava a sfuggirgli. Cosa aveva mai fatto Regan per meritarsi un simile trattamento? Decise che avrebbe indagato in un altro momento.

Arrivati al parco, comprarono al chiosco panini e bibite e si sedettero sul prato. Regan si accomodò a due passi di distanza dal quartetto: non troppo lontano da sembrare un estraneo, né troppo vicino da rischiare di venire linciato dalle ragazze, che non la smettevano di scoccargli occhiate velenose.

Al museo delle cere, una donna di mezza età li accolse con un sorriso smagliante. Aveva corti capelli biondi e un viso paffuto. Quando incrociò il suo sguardo, Roman notò che era affetta dallo strabismo di Venere, ma, invece che rovinare la dolcezza del suo viso, stranamente la enfatizzava. Anche il suo odore gli piacque: mandorle tostate e caramello. Gli bastò annusarlo una volta per capire che era una madre e una persona gentile.

“Può darci cinque biglietti, per favore?”

“Certo.” la donna strappò cinque biglietti dal mazzo e glieli porse mentre stampava la ricevuta, “Ecco a voi. Volete anche un’audioguida?”

“No, ce la caviamo da soli.”

“Okay. Godetevi il tour.”

Charlotte e Jennifer si tuffarono subito in una spiegazione sulle scene rappresentate, finendo una le frasi dell’altra. Era palese che si fossero studiate a memoria la guida del museo per impressionare i ragazzi. Roman e Zack le ascoltarono con interesse, finché gli sbuffi divertiti di Regan non richiamarono la loro attenzione.

“Che hai da ridere?” gli chiese Charlotte, perdendo il sorriso.

“Non fai che sbagliare le date, i nomi e molti dei dettagli sui processi.” le fece notare Regan.

“Oh, davvero? E scommetto che invece tu sei un esperto.” lo sfidò, incrociando le braccia sotto al seno.

“Sì. Ho attraversato una fase in cui l’argomento mi appassionava parecchio, so tutto quel che c’è da sapere e di più.” ammise senza modestia.

“Beh, allora racconta. Sono curioso.” lo esortò Roman.

Da un lato avrebbe voluto ridacchiare, dall’altro era preoccupato per Regan. Sembrava che avesse un inquietante talento naturale nel provocare rabbia e risentimento nel prossimo. Persino Roman, se non avesse avuto la pazienza di un santo, si sarebbe offeso per tutte le volte che Regan, nei giorni precedenti, gli aveva rivolto un commento poco carino. Ciò che lo rendeva divertente era che non si accorgeva nemmeno di essere scortese. Viveva in un mondo tutto suo, alienato dalla realtà che lo circondava. Per questo motivo Roman si lasciava scivolare addosso le frecciatine e, invece, scoppiava a ridere. Lo trovava ridicolmente adorabile.

Posandogli una mano sulla spalla, lo pilotò attraverso il museo e a distanza di sicurezza dalle ragazze inviperite, pregando che la situazione non degenerasse.

Il tema ricorrente era quello dei processi alle streghe, così videro donne con cappi intorno al collo e uomini ben vestiti, in piedi su patiboli di legno. Regan cominciò a illustrare le scene, indicando con precisione nomi e ruoli dei manichini di cera esposti, e inserì qua e là aneddoti storici per il beneficio di Roman, che lo ascoltò avidamente dall’inizio alla fine. Charlotte, Jennifer e Zack rimasero colpiti dalla sua conoscenza in materia, anche se si sforzarono di non darlo a vedere.

Usciti dal museo, Charlotte non diede tempo a Roman di avanzare proposte sulla prossima tappa. Disse che era stanca e si sarebbe volentieri fermata a mangiare un boccone da qualche parte prima di salire di nuovo sull’autobus e tornare a casa. Zack, ovviamente, fu d’accordo con lei.

“Regan, ti va di venire con noi?” gli chiese Charlotte, sfoggiando il sorriso più falso del suo repertorio, di per sé notevole, e puntò gli occhi sgranati nei suoi.

Pareva quasi che stesse tentando di comunicargli qualcosa.

“Ehm…”

“Anch’io ho un certo languorino.” disse Roman.

“Fantastico! Allora Jen ti mostrerà quel delizioso ristorante sul molo.” disse Charlotte.

Roman strabuzzò le palpebre e guardò confuso le due ragazze.

“Andiamo, Roman. Ti prometto che lo adorerai.” lo incoraggiò Jennifer, “A lunedì, ragazzi!”

“Aspetta un attimo.” balbettò Roman, tentando inutilmente di opporre resistenza.

“Divertitevi!” li salutò Charlotte con voce squillante.

Vedendolo esitare, Zack afferrò Regan per un braccio e lo strattonò con poco garbo nella direzione opposta.

A Regan tutto quel teatrino diede un po’ fastidio. Costringere una persona a passare del tempo con un’altra a cui chiaramente non è interessata non era affatto gentile.

Charlotte, Zack e Regan finirono per andare al messicano, perché la ragazza aveva dichiarato di aver voglia di fajitas. Si sedettero in silenzio, la coppietta da un lato del tavolo e Regan dall’altro, e sfogliarono il menù.

Dopo una manciata di minuti, Charlotte esalò un sospiro e lo posò da parte. Intrecciando le mani sul tavolo, rivolse a Regan un sorriso tirato, forse pensando di metterlo a suo agio.

“Tu mi piaci, Regan. Quindi non prendertela per ciò che sto per dirti, okay?”

“Okay.” rispose, intuendo già dove la ragazza volesse andare a parare.

“Jen ha una cotta per Roman, questo lo avrai capito.”

“Solo un cieco non lo vedrebbe.”

“Bene. Allora non ti stupirai se ti chiedo gentilmente di smettere di ronzare intorno a Roman. Jen è timida, non riesce a sedurre i ragazzi come Roman senza un piccolo aiuto. Più occasioni avrà di interagire da sola con lui, più ne avrà per conquistarlo, capisci? Se ti metterai in mezzo, perderà le speranze e crederà di non essere ricambiata.”

“Chi ti dice che lo sia?” chiese Regan, allibito dall’arroganza di Charlotte.

Zack tossicchiò dietro la mano chiusa a pugno.

Charlotte posò i palmi sul tavolo e si concesse qualche secondo per calmarsi. Poi indurì lo sguardo e tornò a sorridergli, se possibile ancor più forzatamente. Sembrava che l’azione le provocasse dolore fisico. Regan fu tentato di continuare a stuzzicarla, solo per vedere quanto avrebbe resistito la sua maschera prima di sbriciolarsi.

“Sei un caro ragazzo, Regan, non ce l’ho con te. Anzi, comprendo il tuo bisogno di farti un amico, dato che non ne hai. Non ti sto ordinando di tagliare i ponti con Roman, ti prego di non fraintendere. Solo, sai… quando c’è Jen, potresti stare lontano? Pensi di riuscirci?”

Regan la squadrò come se le fosse cresciuta una seconda testa. Analizzò il suo linguaggio del corpo, al fine di carpire qualche segnale che stesse scherzando. Non ne trovò.

“Fai sul serio.” esalò incredulo, anche se non lasciò trasparire alcuna emozione all’esterno.

Si concesse alcuni istanti per ponderare la mossa successiva. L’impulso di saltarle addosso e squarciarle la gola era forte. Di sicuro, appena tornato a casa, avrebbe scritto il nome di Charlotte nella lista delle persone che avrebbe tanto voluto prendere a pugni in faccia. Ma cedere alla rabbia non gli avrebbe fatto guadagnare nulla.

Lo strillo di un bambino gli perforò i timpani. Una famiglia di quattro persone sedeva a pochi posti di distanza, padre, madre, figlia tra gli otto e i dieci anni e figlio di a malapena due. Il piccolo stava frignando perché voleva altre patatine, ma la madre aveva allontanato il piatto da lui per impedirgli di affondarci le sue manine bavose.

La cosa che Regan trovò sconcertante era che, nonostante le bizze e la faccia sporca di lacrime e muco, i genitori lo guardavano come se il loro pargoletto fosse l’incarnazione del sole. Un esserino lercio, odioso, urlante era capace di attirarsi addosso quegli sguardi, a dispetto della logica.

Fu allora che gli venne un lampo di genio, ignaro che quanto stava per fare avrebbe cambiato per sempre il corso della sua vita.

Chiuse gli occhi e si impose di credere con tutto se stesso di essere come quel bambino, fragile e adorabile. Il suo respiro divenne corto, la fronte si corrugò e, per rendere la recita più convincente, tirò su col naso. Quando tornò a fissare Charlotte, le ciglia erano umide di lacrime.

“Lo so che non ho amici, Charlotte, non serve sottolinearlo. Tutti mi considerano un musone dal pessimo carattere, e okay, magari è così, ma non sono soltanto questo. E non è colpa mia se a Roman sto simpatico.” balbettò con voce tremante, “Perché vuoi togliermi l’unica cosa bella che abbia mai avuto in tutta la mia vita? E non mi riferisco solamente a Roman, ma a voi nell’insieme. Tu, Zack e anche Jennifer. Anche se non lo dimostro, mi piace la vostra compagnia. Non voglio tornare ad essere invisibile.” concluse con un forte singhiozzo e si sforzò di far scendere le lacrime.

Charlotte e Zack lo fissarono sconvolti. Ripresasi per prima dallo shock, la ragazza si protese di getto sul tavolo e gli afferrò dolcemente una mano con espressione colpevole.

“No, Regan… scusami, non volevo essere cattiva. È stato brutto da parte mia dirti quelle cose. Perdonami. Mi dispiace che tu sia solo… che ti senta solo. Mi dispiace averti trattato male oggi, e mi dispiace per tutte le altre volte in cui ti ho ignorato. Ho sempre pensato che tu stessi bene così, che non desiderassi degli amici, e solo ora mi rendo conto di quanto sono stata stupida. Ti prego, non piangere. Oddio, non piangere…”

“Non chiedermi di andare via.” Regan rincarò la dose per vedere sin dove poteva spingersi, “Se non fosse stato per Roman, voi non mi avreste mai rivolto la parola. Così nella mia testa mi sono convinto che, fintanto che sto con lui, posso avere anche voi. Per questo gli sto incollato.”

Charlotte e Zack si scambiarono un’occhiata, poi si alzarono e si sedettero ai lati di Regan. Zack gli assestò pacche rassicuranti sulla schiena e Charlotte intrecciò una mano con la sua.

“Roman è l’unico che lo sa, vero?” domandò la ragazza a bassa voce.

“Sa cosa?”

“Che sotto la tua maschera c’è questo…” lo indicò da capo a piedi con un gesto vago, “Tutto questo dolore e solitudine. Lo sa.”

Regan scrollò una spalla, continuando a tirare su col naso.

“Ti prometto che tutto cambierà, okay? Avrei dovuto immaginare che… insomma, so che non hai avuto una vita facile. Hai sofferto più di tutti quelli che conosco messi insieme. Il tuo brutto carattere è solo un meccanismo di difesa e avrei dovuto capirlo. Mi dispiace, Regan.”

“Ti chiedo scusa anch’io.” disse Zack, “Mi sono fermato alle apparenze, come un idiota. Credevo fosse Roman a sbagliare. Non capivo cosa ci trovasse in te o perché ti cercasse con tanta insistenza non appena abbandonavi il suo campo visivo. Ora, invece, capisco. Roman è una mamma orsa, dico bene? Ti ha protetto sin dall’inizio, impedendoti di affogare di nuovo nella solitudine.”

“Non ho bisogno di protezione.” replicò imbronciato e incrociò le braccia sul petto per completare il ritratto di un bambino petulante.

“Ovvio che no, sei forte e coraggioso.” rispose in tono accondiscendente, “Però, adesso, non sarai più solo. Hai degli amici su cui poter contare. Siamo una squadra.”

Charlotte annuì alle parole di Zack.

“Davvero?” Regan li fissò con occhi pieni di speranza, “Oggi, anche se mi sono sentito tagliato fuori per la maggior parte del tempo, ho apprezzato molto la vostra compagnia. È stata in assoluto la mia prima uscita con degli amici. Non ero mai stato invitato da nessuna parte, né a feste né ad appuntamenti. Sono sempre stato da solo o con mia nonna. So che è colpa mia, perché interagire col prossimo mi terrorizza. Ma mi piace far parte del vostro gruppo e non voglio che finisca.”

“Mai più, Regan. È una promessa.” dichiarò Zack.

Regan si trattenne dal ghignare. Era stato sorprendentemente facile. Così facile che, in effetti, era un tantino inquietante. Decise di guardare al lato positivo: adesso non aveva più bisogno di Roman, il suo cerchio si era appena ampliato. E avrebbe continuato ad ampliarsi ancora, se avesse usato l’ingegno e le sue doti recitative con saggezza.

“Okay. Grazie.” bofonchiò e si asciugò il viso con la manica della felpa, “Scusate, di solito non frigno per queste cose…”

“Tranquillo, il tuo segreto è al sicuro con noi.” sbuffò divertito Zack, “Allora, ordiniamo da mangiare?”

“Io vorrei tornare a casa. Non è per voi, sono solo stanchissimo.”

“Oh. D’accordo. Vuoi che ti accompagniamo?”

“No, ma grazie. Un po’ d’aria mi farà bene.”

Si alzò, afferrò la borsa ed esitò davanti al tavolo, giocherellando nervosamente con la tracolla.

“Buon appetito. A lunedì.”

“A lunedì.” lo salutarono in coro.

Mentre usciva, li udì scambiarsi commenti su quanto si fossero sbagliati su di lui e su come fare per aiutarlo a disfarsi dell’infelice reputazione di cui godeva. Non solo, intendevano dargli pure una mano con Gregory e coinvolgere altri per gestire il suo “caso”. Aveva fatto centro.

Si recò alla stazione dei pullman e salì su quello diretto ad Ashwood Port, cercando di tenere a bada il ghigno che minacciava di prendere il controllo delle sue labbra. La vettura era vuota, eccetto per una coppia di ragazzi occupati a pomiciare sui sedili in fondo. Regan si sedette davanti e si mise le cuffie nelle orecchie.

Circa un’ora dopo, entrò nel vialetto di casa. Vide che tutte le luci erano spente. Percorrendo la distanza tra il cancellino e la porta, ascoltò con attenzione per captare il battito cardiaco di Deirdre. Lo individuò nel seminterrato. Sembrava quasi martellare allo stesso ritmo della canzone diffusa dalla radio, Diga Diga Doo dei Big Bad Voodoo Daddy. Sorrise e girò la chiave nella toppa.

Quando la porta finì di ruotare sui cardini, Regan si bloccò e sussultò sul posto. Proprio davanti a lui c’era il fantasma di un uomo sconosciuto, vestito in giacca e cravatta. La parte destra del cranio perdeva sangue, pezzetti di materia grigia imbrattavano metà della sua faccia.

“Buonasera anche lei.” borbottò divertito e lo superò senza battere ciglio, “Nonna, sono tornato!”

“Sono di sotto!”

“Hai bisogno di aiuto?”

“No, ho finito. Devi cenare?”

“Sì.”

“In frigo ci sono degli avanzi, serviti pure.”

Regan si tolse il giubbotto, posò la borsa su una sedia e aprì il frigo per esaminare le varie opzioni. Realizzando che la scelta consisteva in uno sformato di spinaci e piselli e un polpettone di carne e legumi, decise di farsi un panino con salame piccante.

Deirdre lo raggiunse mentre stava per dare il primo morso. Lo scrutò severa per un paio di secondi, poi sbuffò e scosse il capo.

“Com’è andata?”

“Alla grande.”

“Ah, sì? Racconta.”

Regan le riassunse i punti principali sbrigativamente, smanioso di arrivare alla parte in cui prendeva per i fondelli Charlotte e Zack al fine di vincere la loro compassione. Lo stupore per quanto si fosse rivelato facile non lo aveva ancora abbandonato. Non aveva scorto nemmeno un briciolo di sospetto sui loro volti. Possibile che fosse stato così bravo? In quel caso, avrebbe sul serio dovuto prendere in considerazione l’idea di fare l’attore.

“E così ora sono ufficialmente parte di un gruppo. Ho degli amici, nonna.” terminò con un sorriso compiaciuto.

“Hanno davvero creduto alla tua messinscena?” domandò Deirdre, dando voce allo scetticismo che seguitava ad agitarsi nell’animo di Regan.

“Stai mettendo in dubbio le mie spiccate doti recitative? Sappi che la mia è stata una performance da Oscar.”

“Beh, allora direi che è un enorme passo avanti. Sono orgogliosa di te, leprotto.” disse e gli stampò un bacio sulla fronte.

Regan finì il panino, aspettò che la nonna gli versasse il sangue in un bicchiere e, una volta bevuto, si rintanò in camera.

Si sdraiò sul letto a pancia in giù, con l’iPod nelle orecchie. Agguantò il blocco da disegno dal comodino e, mentre canticchiava a labbra strette un brano di Cats, disegnò il suo lupo. Stavolta optò per ritrarlo in posizione seduta, la testa reclinata verso l’alto e lo sguardo rivolto alla luna piena, che brillava oltre le cime degli alberi.

Era concentrato sulle ombreggiature quando udì una sorta di scarica elettrostatica provenire dalle cuffie, tipo un’interferenza. Sussultò sorpreso, prese l’iPod e se lo rigirò nella mano per capire quale fosse il problema. Sullo schermo c’era ancora scritto il titolo della canzone, come se fosse tutto normale.

Prima che decidesse di spegnerlo, però, captò un sibilo familiare. Corrucciato, si tolse una cuffia e la scrutò confuso. Nel momento in cui il sibilo si trasformò nel coro di voci del suo incubo, la indossò di nuovo e rimase ad ascoltare.

Il cuore gli batteva furioso nel petto. Le mani si chiusero a pugno, le unghie si allungarono perforando i palmi e la rabbia rizzò il capo nel buio, ringhiando minacciosa all’indirizzo di un intruso invisibile.

All’improvviso, la melodia orientale sovrastò le voci. Era attutita, come se provenisse da sotto uno spesso strato d’acqua, ma non meno chiara.

La trance si interruppe quando Poe gli saltò sulla schiena. Memory riprese a suonare, quasi non fosse mai stata interrotta da… cos’era stato, esattamente? Regan osservò l’iPod, chiedendosi se se lo fosse immaginato. Forse stava davvero impazzendo.

Si strappò le cuffie delle orecchie, spense il dispositivo e lo posò sul comodino.

Poe balzò sul cuscino. Aveva la schiena arcuata, gli artigli in vista, le orecchie spiaccicate sul cranio e la coda ritta. Quando cominciò a soffiare agguerrito all’indirizzo dell’iPod, Regan si accigliò.

“Sei uno strano gatto.”

Poe lo fulminò con un’occhiata torva.

 
*

Domenica mattina, Roman si svegliò tardi. Se non fosse stato per gli schiamazzi dei cugini in salotto, avrebbe continuato a dormire fino all’ora di pranzo. Era esausto. La gita a Salem lo aveva sfiancato psicologicamente.

Ci era voluta tutta la sua forza di volontà per non cacciare un urlo e scaraventare Jennifer nell’oceano. Probabilmente, la ragazza aveva già rivelato a Charlotte che non erano mai arrivati al ristorante sul molo. Con la scusa di avere un impegno in famiglia, l’aveva riaccompagnata a casa in macchina, come avrebbe fatto un gentiluomo, poi l’aveva salutata sbrigativamente ed era sgommato via.

Allungò una mano verso il comodino per afferrare il cellulare e controllare i messaggi. Ce n’era uno di Jennifer, in cui gli diceva che si era divertita molto e sarebbe stata felice di organizzare un’altra uscita a quattro.

A quattro.

Come se Regan non fosse mai stato lì con loro per tutto il tempo.

Quello, più di tutto il resto, lo imbestialì a dismisura. Più dell’interrogatorio di suo padre, che, quando Roman era rincasato puzzando di femmina arrapata, gli aveva domandato con quale delle due si era dato da fare, Jennifer o Charlotte. Più dei commenti scherzosi di Trevor sulla sua presunta nuova fiamma. Più delle risatine divertite della zia e del sorriso sornione di sua madre.

Regan non era una nullità. Non gli erano sfuggite le occhiate che Charlotte, Zack e Jennifer avevano lanciato a Regan durante la giornata, né i loro ridicoli tentativi di accoppiare lui con Jennifer. Era arrabbiato. Arrabbiato per Regan. Perché non aveva reagito? Roman aveva capito che l’altro non era il tipo da attaccar briga senza venire esplicitamente provocato, ma se fosse stato in lui ne avrebbe dette almeno una dozzina a Charlotte. Perché era lei la mente, questo era ovvio.

Roman gli aveva scritto prima di coricarsi, un semplice messaggio in cui gli chiedeva se fosse tornato a casa e come era andata la cena. Regan non gli aveva ancora risposto. Cercò di tenere a freno lo scontento e l’agitazione, ripetendosi che forse l’amico non aveva visto il messaggio.

Inoltrò la chiamata e attese col cuore in gola che Regan rispondesse. Al sesto squillo stava per rinunciare, quando un grugnito gli giunse all’orecchio. Il suo cervello lo registrò come un coro angelico.

“Ciao, Regan. Ti ho svegliato?”

“No.”

“Che fai di bello?”

“Stavo aiutando mia nonna a preparare un cadavere. Nel tardo pomeriggio ospiteremo una veglia.”

“Cosa?”

“Siamo un’agenzia di pompe funebri.”

“Ah, giusto. Ospitate spesso le veglie?”

“Solo quando i clienti non hanno spazio a casa loro e non hanno trovato altri posti adatti. Affittare la nostra sala per le veglie costa. Se ci aggiungi il servizio di imbalsamazione, si arriva a una cifra con almeno tre zeri. Senza contare la bara che i familiari si devono procurare da soli, perché noi non le forniamo.”

“Tu parteciperai?”

“Alla veglia? Mia nonna deve andare per supervisionare l’andamento, ma io sarei d’intralcio. Resterò chiuso in camera per un paio d’ore, come al solito.”

“E aiuti spesso tua nonna a preparare i cadaveri?”

“È divertente.”

“Okay… fingerò che non sia inquietante.”

“Per quanto mi piaccia subire il tuo terzo grado, posso chiederti perché mi hai chiamato?”

“Così. Cioè, no…” Roman sospirò e si passò una mano tra i capelli, “Volevo dirti che mi dispiace per ieri. Non volevo scaricarti tra le grinfie di Charlotte, ma non sapevo come liberarmi di Jennifer senza fare la figura dello stronzo.”

“Non importa.”

“Regan, mi dispiace davvero.”

“Ho detto che non importa. Con Charlotte ci siamo chiariti.”

“Oh. Grande. Quindi mi perdoni?”

“Non ce l’ho mai avuta con te.”

“Menomale. Beh… che avete fatto ieri, dopo che ci siamo divisi?”

“Sono tornato a casa. Ero stanco.”

“Anch’io, se proprio vuoi saperlo.”

“Non ne potevi più, eh?”

Roman sbuffò teatrale e si sdraiò a pancia in su sul letto.

“Jennifer è carina, ma è troppo appiccicosa. Mi fa sentire in trappola. Odio sentirmi in trappola. Se fosse possibile, tornerei indietro nel tempo, al primo giorno, e resterei alla larga da lei e Charlotte.”

“Le piaci molto.”

“Su questo non ci piove, ma a me non piace lei. Vorrei solo che lo capisse.”

“Dura la vita del ragazzo popolare, mh?”

“Signor McLaughlin, mi sta per caso insultando velatamente?”

“Giammai.”

Roman ridacchiò, percependo la rabbia dissolversi. Chiacchierare con Regan lo rilassava, era come spalmarsi un balsamo su un’infiammazione.

“Senti, ho una domanda.”

“Spara.”

“Ieri Jennifer mi ha raccontato di cosa è successo a Teresa Meyers. È vero che è scomparsa a una festa all’inizio di settembre?”

“Sì.”

“Non l’hanno ancora ritrovata?”

“No, altrimenti lo avresti letto sui giornali.”

“Come è scomparsa?”

“Nessuno lo sa. Era alla festa e a un certo punto puff! Scomparsa.”

“Tu eri lì?”

Regan sbuffò: “Quelle feste sono per i popolari.”

“Perché tu non lo sei? Insomma, a parte l’aria da funerale e l’umorismo macabro, sei carino e intelligente.” snocciolò e, mentre le parole abbandonavano la sua bocca prive di filtro, arrossì.

“Sono un gusto che si acquisisce con l’esperienza. O dopo la morte.”

Roman rise, sentendosi già molto meglio rispetto a quando si era svegliato.

“Va bene, torniamo a Teresa. Strano che la polizia stia brancolando nel buio.”

“Sono a corto di indizi.”

“Ah.”

La pausa si protrasse per dieci secondi di troppo, segno che l’argomento era stato esaurito. Roman, in mancanza di altre chiacchiere superficiali con cui riempire il silenzio, raccolse il coraggio per proporre l’idea che gli ronzava in testa da qualche giorno.

“Regan?”

“Mh?”

“Ti va di… non so, passare un po’ di tempo insieme oggi?”

“Perché mi stai sempre tra le palle, eh? Sei molesto!”

“Cosa?”

Regan imprecò di nuovo. Roman udì vari rumori, poi un altro sbuffo seccato.

“Scusa, non parlavo con te, ma al fantasma che mi sta ostruendo la visuale dello schermo del pc.”

“Cosa?!”

“Cosa? Oh, nulla, è un modo di dire di queste parti per intendere un, eh, un guasto al sistema.” tossicchiò, “Comunque non posso, devo studiare. Ieri siamo stati fuori tutto il giorno e non ho aperto libro.”

“Oh, okay. In effetti, anch’io dovrei studiare.”

“Già.”

Roman si arrovellò per trovare qualcos’altro di cui parlare. Regan gli stava rendendo il compito parecchio difficile. Non aveva mai conosciuto qualcuno che lo mettesse a disagio e, contemporaneamente, lo incitasse a dare il meglio di sé per dimostrarsi un degno conversatore.

“Okay. Ci vediamo domani a scuola?”

“Sì. Ciao.”

“Cia-”

Roman si scostò il cellulare dall’orecchio: Regan aveva già riattaccato. Non ebbe modo di crogiolarsi nel dispiacere, perché sua madre bussò alla porta.

“Tesoro, vieni giù a fare colazione?”

“Sì, tra un minuto.”

Mentre metteva il cellulare in carica, si chiese che impressione avesse Regan di lui. Al telefono era praticamente impossibile stabilire il suo stato d’animo, a causa della voce priva di inflessione. Di persona, invece, era leggermente più espressivo, ma solo perché Roman lo fissava dritto negli occhi mentre parlava. Nemmeno dal suo odore trasparivano emozioni rilevanti. Talvolta coglieva fastidio, altre un lieve divertimento, ma mai qualcosa di potente. I casi erano due: o Regan sapeva come mascherare i suoi sentimenti, o semplicemente non li provava. Se la seconda ipotesi era vera, Roman stava cercando di farsi amico un sociopatico.

Andò in bagno, compì la sua routine mattutina e scese in cucina. Trevor e Nina si erano spostati a giocare in giardino. Acuì l’udito e individuò il battito del cuore di suo padre provenire dalla biblioteca. La stanza era insonorizzata, quindi, se poteva sentirlo lavorare, significava che la porta era rimasta accostata.

Sua madre gli mise davanti un piatto di pancake e una tazza di caffè. Lui si sedette al solito posto e fece scorrere velocemente lo sguardo sulla donna. Notò subito le borse sotto gli occhi azzurri e la crocchia disordinata in cui aveva legato i capelli. Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui le aveva visto addosso quell’aspetto trasandato e non era mai un buon segno.

“Gli zii?” indagò, cercando di tenere a bada l’apprensione.

“Pattugliano i confini.”

“Non fanno altro in questi giorni. Siamo qui da poco più di una settimana e già abbiamo problemi?”

La domanda venne posta in tono leggero per dissipare la tensione, ma in cambio ricevette un’occhiata ansiosa. Posò piano la forchetta sul piatto e studiò i lineamenti tesi del suo viso, i muscoli contratti delle spalle. L’odore che emanava portava con sé tracce di disagio, incertezza, inquietudine.

Tamara serrò le labbra, puntò lo sguardo fuori dalla finestra e incrociò le braccia sul petto, appoggiando un’anca sul bordo del tavolo.

“Ma’, che succede?” ripeté e si impose di restare rilassato.

La donna prese fiato e aprì la bocca per rispondergli, ma all’ultimo momento esitò e la richiuse.

“Non preoccuparti, sono certa che non è niente.”

Il suo odore si inasprì quando pronunciò “niente”, indicando a chiare lettere la bugia.

“Perché non vuoi dirmi di cosa si tratta?”

“Ordini di tuo padre.”

Roman gettò la spugna. Se suo padre aveva dato l’ordine, non aveva alcuna possibilità di scoprire cosa gli stavano nascondendo.

“Dimmi solo questo: devo stare attento?”

“Sì. Non abbassare la guardia e tieni sempre d’occhio ciò che ti circonda.”

“Cosa avete detto a Trevor e Nina?”

“Niente.”

“Come possono individuare il pericolo se non sanno di essere in pericolo?”

“Ci penseranno Ruby e Sean a vegliare su di loro. Tu come ti senti?”

“Bene. Un po’ frustrato, ma tranquillo. Perché?”

“Fra tre giorni ci sarà la luna piena ed è la prima che passerai in un nuovo territorio. Trevor e Nina sono già su di giri. Andrai con loro nel bunker, stavolta.”

“Perché non posso rimanere in camera mia come sempre? Non ho mai causato incidenti.” si lamentò.

“Resterò anch’io, Roman.”

“Uffa. D’accordo.” assentì con un sospiro, “Ma vorrei che aveste più fiducia in me.”

“Meglio non rischiare. Se questa luna andrà bene, la prossima sarai libero di passarla in camera tua.”

“E Declan che farà? Ha intenzione di tornare?”

“Non lo so.”

“Non si fa vedere da più di quattro mesi!”

“Sai com’è Declan.”

“Tornerà almeno per Natale?”

“Non lo so, tesoro.”

Il ragazzo buttò la forchetta nel piatto e sbuffò irritato. Gli mancava suo fratello maggiore, tanto. Quando lui non c’era, suo padre era perennemente nervoso, quasi che non avere accanto il suo primogenito e Secondo in comando lo destabilizzasse.

Per Roman, Declan fungeva da perfetto cuscinetto: in sua presenza, il padre non si curava di lui e lo lasciava stare. Non gli costava niente ammettere che il motivo per cui rivoleva il fratello a casa affondava le radici nell’egoismo. Ma, al medesimo tempo, desiderava avere indietro il suo confidente, l’unico membro della famiglia con cui si era sempre trovato in maggiore sintonia.

“Dimmi che cosa è successo tra lui e papà.”

Tamara esalò un lungo sospiro, afferrò una sedia e ci si sedette sopra pesantemente, stanca di mantenere segreti con suo figlio.

“Hanno litigato.”

“Non è una novità.”

“Stavolta è stato brutto. Declan non è d’accordo con la politica di tuo padre, come ben sai, e si sta rifiutando di adempiere al suo ruolo. Si sta distanziando troppo. Temo che voglia lasciarci.”

Roman sbarrò le palpebre e boccheggiò: “Che cosa?! Non… non potete permetterlo! Non può!”

“Non accadrà.” lo rassicurò la madre, anche se il suo odore aveva assunto la scia acre dell’angoscia e della paura, “Sono certa che Declan non ha dimenticato quanto Vincent ha fatto per noi. Ci ha sempre protetti, si è preso estrema cura della sua famiglia. È un uomo buono, coraggioso e responsabile. Declan sta solo attraversando la fase ribelle.”

“E cosa mi dici di Vi-”

“Non pronunciare quel nome!” lo zittì bruscamente, “Sai che non devi farlo.”

Incredulo e furioso, Roman osservò le iridi della madre guizzare tra l’azzurro e il giallo.

“Come puoi dire questo? Proprio tu!”

“Conosci le regole. Rispettale.” lo ammonì severa.

“Sono regole stupide.” sibilò e stritolò il bordo del tavolo tra le dita per impedirsi di compiere un’azione avventata, come scaraventare il piatto contro il muro.

“Se ci hanno tenuti al sicuro per tutti questi anni, non sono stupide. Sono solo difficili da accettare.”

Tamara protese una mano per accarezzargli i capelli, ma Roman si scansò e scattò in piedi, determinato a trascorrere tutta la giornata in camera, lontano dagli altri. Se solo lui e Regan fossero stati più amici, avrebbe potuto catapultarsi a casa sua per sfuggire al costante controllo, ma così non era.

Si afflosciò sul letto. Mordendosi un labbro, si rigirò il cellulare tra le mani. Si scrocchiò il collo e contemplò il soffitto in cerca di consiglio. Alla fine, aprì l’icona dei messaggi e ne scrisse uno a Declan.

Stava per inviarlo, quando l’occhio gli cadde sui messaggi precedenti, in bella mostra sullo schermo. Erano tutti da parte sua, nessuna risposta dal fratello. Non lo aveva più contattato da quando era tornato al college all’inizio dell’estate.

Cancellò il testo del messaggio e lanciò il cellulare dietro di sé, sul cuscino.

Non si era mai sentito tanto solo.

 
*

Al suo arrivo a scuola lunedì, Roman percepì subito nell’aria qualcosa di diverso. Non sapeva dargli un nome, ma quel qualcosa era lì, palpabile e consistente. I suoi presentimenti trovarono conferma non appena vide Charlotte e Jennifer chiacchierare amichevolmente con Regan davanti agli armadietti.

Le ragazze sorridevano rilassate, mentre Regan le guardava con un’espressione che Roman non gli aveva mai visto in faccia, quasi fosse felice di essere lì e fosse interessato a qualsiasi cosa stessero blaterando le altre due. Peccato che il suo odore proiettasse indifferenzafastidiolasciatemiandare. La scena era così sbagliata che gli fece rizzare i peli sulla nuca.

Si avvicinò rapidamente e si pose al fianco di Regan senza salutare, preferendo incanalare tutte le sue energie nell’analisi dell’odore di Charlotte e Jennifer e il ritmo dei loro cuori. Erano rilassate, amichevoli, aperte nei confronti di Regan. Cosa si era perso?

“Buongiorno, Roman!” esclamò Jennifer con un sorriso sognante.

“Che succede?” le interrogò senza preamboli.

“Ehm…” Jennifer lanciò un’occhiata confusa all’amica, “Stiamo chiacchierando.”

“Con Regan?” domandò incredulo.

“Hey!” protestò il suddetto, piegando le labbra in un adorabile broncio.

“Scusa, non ce l’ho con te. È solo che mi era parso di capire che Charlotte e Jennifer non ti sopportassero.” rispose sincero, “Cos’è cambiato?”

Charlotte prese la parola: “Io, Regan e Zack abbiamo discusso sabato sera, mentre tu e Jen eravate al molo. Abbiamo fatto pace e lo abbiamo accolto ufficialmente nel gruppo. Lo aiuteremo a migliorare le sue tecniche di socializzazione…”

“A liberarsi della reputazione da disadattato che si trascina dietro dalle elementari…” si intromise Jennifer.

“E ad ampliare la sua cerchia di conoscenze.” continuò Charlotte, “Per quanto sia brutto ammetterlo, tutti noi siamo stati vittime del pregiudizio nel caso di Regan, senza mai curarci dei suoi sentimenti o dei suoi problemi. Adesso non ho alcuna intenzione di abbandonare Regan a se stesso.”

“Quindi… cosa? Regan è il vostro nuovo progetto?”

“È nostro amico, e gli amici si aiutano se sono in difficoltà. Perché sei così aggressivo stamattina?”

“Non è aggressivo, ma iperprotettivo.” spiegò Regan, la testa bassa e le mani infilate nelle tasche, in una posa vagamente imbarazzata.

Roman sgranò gli occhi, ormai sicuro che gatta ci covava. Quello non era Regan. Era un alieno che indossava il suo corpo.

Le ragazze mugugnarono solenni, come se all’improvviso tutti i segreti dell’universo fossero stati rivelati. Ghignarono sornioni all’indirizzo di Roman e Charlotte sussurrò “Mamma orsa” tra lievi risolini.

“Roman, va tutto bene.” riprese Regan, “Ci siamo davvero chiariti, non c’è più bisogno che ti preoccupi.”

La campanella suonò e si divisero, con la promessa di ritrovarsi per pranzo.

Quando Roman raggiunse gli altri al solito punto di ritrovo, vicino alla mensa, non si aspettava di sentirsi spintonare nella sala gremita di studenti da Zack.

“Oggi vi siederete entrambi al nostro tavolo. Non accetto obiezioni.” dichiarò Charlotte, facendo strada tra la bolgia a testa alta, sorda ai borbottii esasperati di Roman.

Evitarono la fila al self-service, dato che tutti avevano già il pranzo negli zaini, e si accomodarono a un tavolo a ridosso della finestra, già occupato per metà da altri ragazzi. Intorno a loro c’era la squadra di football al completo, qualche membro di quella di basket e l’intero corpo delle cheerleader.

Charlotte si sedette alla sinistra di Regan e Roman alla sua destra, affiancato da Jennifer. Zack si mise accanto a Charlotte.

Non appena finirono di prendere posto, intorno a loro calò il silenzio.

“Ragazzi, loro sono Roman e Regan.” esordì Charlotte, “Diamo loro il nostro ufficiale benvenuto.”

“Stai scherzando?” sbottò Lorie Hawkins, il capo delle cheerleader, adocchiando Regan con timore, “Sai cosa si dice in giro su di lui.”

Il maglioncino color panna risaltava sulla sua pelle nera, stirato sul seno e stretto sui fianchi snelli. I capelli erano stati lisciati con la piastra e ricadevano morbidi oltre le spalle. Ai polsi indossava braccialetti di perline e al pollice sinistro portava una fascetta di metallo con una pietra viola. Gli occhi scuri erano incorniciati dall’eyeliner, le ciglia appesantite dal mascara e il viso levigato sembrava scolpito nell’onice.

“Tutte le voci sono false. Ha solo problemi a socializzare.” la blandì Charlotte.

“E un pessimo gusto nel vestire.” commentò sottovoce Stacy, un’altra cheerleader, mettendosi poi a giocherellare con una ciocca bionda, mentre gli occhi azzurri vagavano sulla figura di Regan per memorizzare ogni dettaglio.

“Regan è a posto.” intervenne Zack, “Smettetela di fare gli stronzi.”

Un giocatore di football del terzo anno, Peter, fissò lo sguardo su Regan, squadrandolo dall’alto in basso. Poi assottigliò le palpebre e si sporse verso di lui. La frangia castana gli coprì le sopracciglia.

“È vero che mangi cervelli a colazione?”

Regan non batté ciglio, limitandosi a rispondere pacato: “No, ma li maneggio almeno tre volte a settimana.”

“Sua nonna possiede un’agenzia di pompe funebri, come sappiamo.” si affrettò a spiegare Charlotte con un sorriso nervoso.

“Aggeggi con i cadaveri?” proruppe James, l’ex fidanzato di Teresa, indeciso se sentirsi affascinato o provare ribrezzo.

“Devo pur imparare il mestiere. Quando mia nonna andrà in pensione, erediterò io l’intera baracca. Non preferiresti venire affidato nelle mani di qualcuno che sa cosa fare del tuo cervello, quando tirerai le cuoia?”

Zack nascose il viso nei palmi e scosse il capo, le spalle scosse dalle risate: “Regan, non si dicono queste cose alle persone.”

“Perché?” fece Regan con aria innocente.

Charlotte sospirò paziente, gli posò una mano sulla spalla e parlò come una madre che cerca di insegnare una lezione al figlio scapestrato.

“Quando si interagisce con qualcuno, ci sono degli argomenti che è meglio non toccare. La morte è uno di questi. Piuttosto, ci si complimenta per la scelta del loro abbigliamento, sempre se esso segue le regole della moda, o per la loro pettinatura o per i successi conseguiti nello studio, nello sport o nel lavoro.”

Regan osservò gli studenti raccolti intorno a sé, che lo guardavano con il fiato sospeso, come se si aspettassero qualcosa di eclatante. Si soffermò sui capelli dei maschi e storse le labbra in una smorfia, provocando risatine e sbuffi divertiti nella maggior parte dei presenti. Quindi focalizzò l’attenzione sulle femmine ed esaminò con cipiglio critico i loro vestiti e capelli.

“Tu hai dei bei capelli.” disse a Lorie in tono piatto.

Lei boccheggiò incredula, ma dopo qualche secondo sorrise compiaciuta: “Grazie, Regan. Io sono Lorie, comunque.”

“Visto? Non è difficile.” lo incoraggiò Charlotte, passandogli una mano tra i riccioli corvini.

Regan si trattenne dallo staccarle la molesta appendice a morsi. Invece, simulò delle fusa e si spalmò un po’ di più su di lei, ottenendo l’effetto desiderato. Infatti, gli altri studenti si rilassarono visibilmente. Giocare a fare il cucciolo non era poi così male, se serviva allo scopo.

“Hey, non coccolare Charlotte.” lo rimproverò Zack, ma la sua voce aveva una nota indulgente, non gelosa, segnalando che in realtà non gli dava fastidio.

“Sono io che coccolo lui.” lo rimbeccò Charlotte, arrossendo, “Bene, ora mangiamo.”

Regan tirò fuori il panino e la borraccia dallo zaino e si mise a mangiare in silenzio.

La quiete ebbe breve durata, però, perché tutti erano tremendamente curiosi di sapere quanto delle leggende che circolavano sul suo conto corrispondeva a verità.

“Tua madre è stata uccisa da tuo padre?” gli chiese Tyler, uno del secondo anno.

Charlotte, imitata da Lorie e altre ragazze, lanciò un’occhiata omicida a Tyler. Regan rispose prima che potessero cambiare argomento.

“So solo che è stata uccisa. Non so chi sia mio padre.”

“Non hanno mai preso l’assassino?”

“No.”

“Tua nonna è una strega?” si fece avanti Mike Hughes, il capitano della squadra di football.

“Beh, ci sta: cucina delle lasagne veramente magiche.”

Mike sbuffò una risata e tornò a mangiare.

“Ciao, Regan. Io sono Mary.” si presentò la ragazza che sedeva alla destra di Lorie.

Era alta, con lunghi capelli neri e ricci e occhi verdi. Degli orecchini grossi e rotondi pendevano dai suoi lobi e le labbra erano abbellite da un velo di rossetto rosa.

“Ciao, Mary.”

“Che tipo di musica ti piace?”

“Il jazz. E adoro i musical.”

Lorie drizzò le orecchie e sorrise eccitata: “Qual è tuo preferito?”

Singin’ in the rain.”

“Io, invece, sono più un tipo da Moulin Rouge. Quali sono i tuoi hobby?”

“Mi piace disegnare e leggere.”

“Ti piacciono gli sport?” li interruppe di nuovo Tyler.

“Non molto.”

“Il tuo colore preferito?” chiese un’altra ragazza.

“L’azzurro.”

“Non ti ho mai visto indossare niente di azzurro.” commentò Charlotte.

“Alle elementari, un bambino mi disse che era un colore da femmine.”

“Sei gay?” chiese Mary.

“Non lo so.”

“Come sarebbe a dire che non lo sai?” sbuffò Peter, “Ti piacciono i ragazzi o le ragazze?”

“Nessuno dei due.”

“Forse passi troppo tempo con i cadaveri…”

“Non sei divertente, Peter.” lo rimbeccò Charlotte, per poi rivolgersi a Regan, “Tranquillo, non c’è problema. Forse devi ancora incontrare la persona giusta.”

La conversazione procedette a quel modo, botta e risposta, per il resto della pausa pranzo. Charlotte tenne banco, coinvolgendo le altre cheerleader nel suo progetto di trasformare Regan in una persona normale.

Jennifer rimase incollata a Roman e tentò di approfittare dell’assenza dei riflettori su loro due per scavare più a fondo nella sua vita. Roman, tuttavia, era troppo impegnato ad assimilare l’assurdità della scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi per rispondere a Jennifer.

Tutta quella faccenda era surreale. Non gli dispiaceva fare nuove amicizie, alcuni sembravano simpatici. Il problema era Regan. Stava recitando. L’unica spiegazione plausibile era che stesse cercando di inserirsi, ma perché adesso, e con questi studenti, quando era sempre stato evidente che non gli importava un fico secco dell’opinione altrui? A cosa mirava? Roman non pensava che Regan ci tenesse tanto a diventare popolare.

All’inizio aveva ipotizzato che fosse una mossa meschina delle ragazze per umiliarlo, ma non era quello il caso. Charlotte era sincera, di una genuinità disarmante. E il suo atteggiamento aperto, quasi accondiscendente, nei confronti di Regan stava compiendo miracoli negli altri. Il loro odore stava pian piano mutando da pauradisgustoirritazione a tenerezzabenevolenza.

Lorie pose un’ultima domanda a Regan: “Cosa fai per Halloween?”

“Di solito resto a casa con mia nonna e ci facciamo la maratona di Buffy.”

“Beh, quest’anno verrai alla festa.” sancì.

Regan si irrigidì per una frazione di secondo. Poi sospirò e la guardò incerto.

“Non ho un costume.”

“Mi inventerò qualcosa. Vieni a casa mia il pomeriggio del 31 ottobre, mi occuperò di tutto io.”

“Ma… è una festa!”

“E allora?”

“Ci saranno persone!” esclamò nel panico.

La tavolata scoppiò a ridere e stavolta anche molti dei giocatori di football fissarono Regan come se fosse un cucciolo smarrito.

“Oh, che carino.” chiocciò Claire, un’altra cheerleader.

“È adorabile.” le fece eco Mary.

“Non dovrai parlare con tutti.” lo rassicurò Charlotte, zittendo i mormorii deliziati delle altre ragazze.

“Bene, è deciso. E mi aspetto che d’ora in avanti tu ti sieda qui con noi, Regan. Se dobbiamo istruirti nell’arte della socializzazione, ogni minuto è prezioso.” decretò Lorie.

“E se fossi un caso perso?” mugugnò con aria mesta.

“Non lo sei, vedo del potenziale in te.”

Regan abbozzò un sorriso timido e la guardò da sotto le ciglia: “Hai dei bei capelli.”

 
*

Il sole tramontò oltre l’orizzonte, gettando la casa nella penombra. Le lampade del seminterrato disegnavano ombre sinistre sulle pareti. La radio diffondeva Tip Toe Through The Tulips dal suo posto sulla mensola.

Deirdre canticchiava tra sé e sé, concentrata nel delicato compito di ricucire lo sterno del corpo sdraiato sul tavolo operatorio. Era un ragazzo di venticinque anni, morto durante una rapina finita male.

Regan era seduto sul ripiano dietro di lei, con la schiena appoggiata al muro e le gambe ciondolanti oltre il bordo, intento a digitare messaggi su messaggi nel gruppo Whatsapp in cui era stato inserito. La sua rubrica adesso straripava di contatti. Non sapeva dove quella gente trovasse il tempo di studiare, dato che parevano vivere in simbiosi col cellulare.

Quando Regan alzò lo sguardo, Deirdre gli fece l’occhiolino. Lui ricambiò con un ghigno ferino. L’ennesimo trillo di un messaggio lo distrasse.

Poe, accovacciato sul pavimento accanto ai piedi del fantasma del ragazzo morto, continuò a divorare il fegato del suddetto come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo.

 
*

Roman sopravvisse per miracolo a due giorni infernali, resi ancor più orrendi dall’assenza di Regan al suo fianco. L’attenzione del moro era costantemente contesa tra il grosso gruppo dei popolari, tanto che Roman aveva iniziato a sentirsi derubato. Non era geloso di Regan, ma degli altri, che non lo lasciavano solo un attimo. Veniva seguito persino in bagno.

Roman voleva tornare alla settimana prima, quando Regan rivolgeva la parola soltanto a lui. Subito dopo averlo pensato, il senso di colpa lo pungolò dall’interno. Si stava comportando come un bambino a cui un branco di bulli aveva sottratto il giocattolo preferito. Avrebbe dovuto essere felice per Regan, e una parte di lui lo era, ma allo stesso tempo la rabbia offuscava la sua obiettività.

Per fortuna, non dovette attendere molto per prendersi una pausa dalla follia che era divenuta la sua vita. Mercoledì, infatti, sua madre chiamò la scuola e lo diede malato. La luna piena era arrivata.

Roman passò le ore diurne in camera, in perenne stato di agitazione. I cuginetti non lo aiutarono a mantenere la calma, dato che cominciarono sin dalle prime luci dell’alba a fare confusione. Ogni pretesto era buono per litigare e si rincorrevano per la casa ringhiando come cani rabbiosi. Persino i loro genitori ebbero qualche problema a controllarli. Occorse l’intervento di Vincent per convincerli a tacere.

Quando il sole tramontò, la situazione divenne caotica. Roman e i bambini vennero scortati velocemente da Tamara nel bunker anti-uragano all’esterno e la porta sigillata a tripla mandata, con catenacci e lucchetti.

L’arredamento del bunker consisteva in un tavolino, una sedia e degli scaffali di metallo contenenti cibo in scatola e bottiglie d’acqua. In un angolo, ricoperto di polvere e incassato tra degli scatoloni, c’era un grammofono dall’aspetto antico. Apparteneva a Vincent, un vecchio cimelio di famiglia dal quale, seppur irrimediabilmente rotto, l’uomo non aveva mai voluto separarsi.

Tamara li condusse verso il muro, dove erano appese delle spesse catene. Prima si occupò di Trevor e Nina, assicurando i loro polsi e caviglie alle manette di ferro, poi si dedicò al figlio.

Roman era oltre le parole, a quel punto. Dalle sue labbra uscivano soltanto ringhi minacciosi e grugniti. Le zanne biancheggiavano sotto il cono di luce irradiato dalla lampadina sul soffitto. Gli occhi rilucevano di riflessi dorati e artigli affilati si erano sostituiti alle unghie.

Una volta che tutti e tre furono incatenati, Tamara avvicinò una sedia, si accomodò di fronte a loro e piazzò il tavolino con sopra tre siringhe accanto a sé. All’interno delle siringhe si poteva scorgere giusto un dito di argento liquido: la dose massima che, in caso di necessità, avrebbe iniettato loro nelle vene per far retrocedere la trasformazione e precipitarli nel sonno senza ucciderli.

La luna descrisse la sua parabola nel cielo stellato, invisibile ai suoi figli, che però percepivano il suo potere sin nelle viscere. Si dimenarono, ringhiarono, ulularono, graffiarono con rabbia il muro e strattonarono le catene.

I cuccioli si stancarono presto, poco dopo l’una, ma Roman aveva ancora molta energia. Era forte. Non quanto Vincent e Declan, ma un giorno, Tamara ne era certa, avrebbe raggiunto il loro livello. Era fiera di lui, anche se non riusciva più ad esternarlo come in passato.

Da quando Declan aveva cominciato ad allontanarsi, il suo istinto materno era andato in tilt. Una grossa parte di sé desiderava correre da lui e trascinarlo a casa, dove avrebbe potuto coccolarlo e abbracciarlo; l’altra, invece, era ferita dal suo comportamento ribelle. Perché Declan non capiva che le leggi esistevano per una ragione? Perché si ostinava ad andare contro la parola di Vincent, suo padre e alfa, non appena il discorso virava sulla politica e la gestione del branco?

Così, concentrata com’era sul suo primogenito, aveva trascurato Roman. Non era raro che, ripensando ai guai in cui si era cacciato a Brooklyn, si desse la colpa. Se fosse stata più presente, forse Roman non avrebbe cercato la comprensione e lo sfogo altrove, con persone pericolose che fingevano di essergli amiche soltanto per usarlo.

Uno schiocco secco la riportò alla realtà. I suoi occhi scattarono su Roman, prono sul pavimento. Lo osservò stranita, credendo di essersi immaginata quel rumore. Quando però vide la spalla sinistra del figlio torcersi in un’angolazione innaturale, percepì il sangue gelarsi nelle vene.

“Roman.” lo chiamò autoritaria, “Respira. Focalizzati sul battito del mio cuore.”

Roman emise un ringhio animalesco e sollevò la testa. I tendini del collo si tesero, le vene si ingrossarono. Un ululato disperato rimbalzò sui muri e nella cassa toracica. Le ossa delle mani si piegarono e contorsero, seguite da quelle delle braccia, delle spalle, della schiena e giù, nel bacino, nelle gambe, nei piedi. Tutto in lui diventò una massa in movimento, la mutazione rapida e inesorabile, come un treno che sfreccia a tutta velocità su binari ben oliati.

Tamara si sentì impotente. Sapeva che arrestare il processo ora avrebbe provocato danni irreparabili. L’unica cosa da fare era aspettare che si compisse e tenersi pronta per la lotta. Afferrò una siringa, si accucciò e rimase immobile.

Trevor e Nina si svegliarono a causa del trambusto. Non appena si accorsero di cosa stava accadendo, emisero guaiti spaventati. Tamara era impegnata a sorvegliare Roman, non poteva dar loro il conforto di cui avevano bisogno.

Una faticosa mezzora più tardi, al posto di Roman c’era un lupo dal pelo marrone, alto un metro e mezzo al garrese.

Ululò, scalciò e si mise a tirare le manette con furia selvaggia. Le catene delle zampe posteriori si sfilarono, ma quelle anteriori resistettero. La bava colò sul pavimento in gocce dense e viscose. Le orecchie si schiacciarono sul cranio, le zanne brillarono sotto la luce fioca della lampadina. Gli occhi rifulsero nella penombra, due pozzi gialli che non avevano più nulla di umano.

Come Tamara aveva immaginato, le manette non ressero l’assalto. Roman ebbe giusto il tempo di ululare trionfante prima che sua madre lo caricasse all’improvviso, iniettandogli l’argento nel collo. Il lupo guaì. Le zampe cedettero sotto il suo peso, la testa sbatté a terra e il corpo venne attraversato da spasmi. Qualche minuto dopo, la trasformazione retrocedette.

Tamara passò una mano sui capelli sudati del figlio, mentre con l’altra gli accarezzò la pelle liscia della schiena. I due cuccioli, rannicchiati l’uno addosso all’altra, fissavano Roman con terrore. Pian piano, cullati dalla ninnananna che Tamara stava canticchiando a labbra strette, si rilassarono.

Alle quattro del mattino, finalmente, tutti giacquero stremati.

Tamara osservò con aria persa Roman. Sapeva di dover informare Vincent dei nuovi sviluppi, anche se ciò avrebbe posto Roman in una posizione precaria nel branco. La sua trasformazione avrebbe dovuto essere ragione di gioia e orgoglio, ma Tamara percepiva un peso sullo stomaco.

L’esito della chiacchierata col marito era incerto. C’era una minima possibilità che cominciasse ad addestrare Roman per fargli assumere il ruolo di Declan, dal momento che non sapevano quali fossero le sue intenzioni. Tuttavia, era più probabile che Vincent vedesse la trasformazione come un segnale negativo. Infatti, solo i lupi adulti raggiungevano lo stadio finale. Roman era ancora un adolescente.

Tamara non voleva che Vincent pensasse che ci fosse qualcosa di sbagliato in Roman, ma spesso il suo alfa veniva accecato dalla paranoia, preferendo dare ascolto alla paura e alla diffidenza. Era stato cresciuto in un ambiente in cui il più forte sopravvive e il più debole muore. Gli era stato insegnato il rispetto per le tradizioni, le tecniche di intimidazione, la tolleranza zero per il diverso. Suo padre, il vecchio alfa, gli aveva inculcato quei principi nella testa a suon di percosse e dure lezioni, plasmandolo a sua immagine e somiglianza. Aveva sradicato ogni parte della sua personalità relativa alla comprensione e all’affetto incondizionato, per renderlo una figura autoritaria che nessuno si sarebbe mai sognato di sfidare.

E così era stato, non appena Vincent aveva preso il comando. Ma le sue azioni gli avevano alienato l’amore di molti membri del branco, col risultato che adesso erano rimasti in otto, quando una volta vantavano numeri superiori alla trentina. E se Declan si fosse tirato fuori, sarebbero scesi a sette. Un branco tanto piccolo non aveva speranza di sopravvivere, non importava quanto apparisse forte il suo alfa.

Tamara pregò che Vincent le prestasse ascolto e decidesse di istruire Roman, piuttosto che trattarlo come uno scherzo della natura, un’anomalia. Non sarebbe riuscita a superare la perdita di un altro figlio.










 
  
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