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Autore: Cioppys    03/02/2019    2 recensioni
[MitKo]
Era una strana costante la pioggia di quei giorni, tanto quanto il ritrovarsi bloccato sotto la stessa pensilina del pomeriggio precedente. La grossa differenza stava nella sua forma fisica: ieri quella di un normale essere umano, oggi quella di uno stupido gatto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kiminobu Kogure
Note: nessuna | Avvertimenti: Furry
Capitoli:
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La Maledizione del Gatto
di Cioppys

 

Capitolo 2

Era una strana costante la pioggia di quei giorni, tanto quanto il ritrovarsi bloccato sotto la stessa pensilina del pomeriggio precedente. La grossa differenza stava nella sua forma fisica: ieri quella di un normale essere umano, oggi quella di uno stupido gatto.
Mitsui si acciambellò sotto la stretta panchina in metallo, al riparo da vento e pioggia. Aveva il pelo fradicio e i muscoli delle zampe molli e doloranti per aver girato, in lungo e in largo, tutti i quartieri limitrofi sotto un tremendo acquazzone iniziato quella mattina. Ore e ore di cammino, che però non avevano dato alcun frutto: l’artefice dei suoi guai sembrava essersi volatilizzato. 
Spinto dalla fame, era passato anche da casa, con la flebile speranza di poter racimolare qualcosa da mangiare. Purtroppo, la presenza di Yuki, libero nel giardino, gli aveva persino negato l’accesso dal cancello sulla strada: appena il cane l’aveva visto infilare la testa tra le sbarre verticali, gli si era precipitato contro, abbaiando come un pazzo. Spaventato, Mitsui era corso via a gambe levate.
Rannicchiato sul cemento, cercò di ignorare sia il freddo che lo faceva tremare come una foglia, sia i morsi della fame che invece gli contorcevano lo stomaco. Non era semplice, e infatti lo sconforto prese lentamente il sopravvento. Mitsui si ritrovò così a piagnucolare, col musetto rosa infilato sotto la lunga coda che lo circondava da un lato.
Un triste lamento che – per sua fortuna – non restò a lungo inascoltato.
«Ehi, piccolino…».
Nel ritrovarsi però delle dita sconosciute davanti agli occhi, Mitsui reagì d’istinto e le graffiò. Solo successivamente scoprì che non appartenevano affatto ad un estraneo: vedere Kogure massaggiarsi la mano ferita, lo fece sentire tremendamente in colpa per non averlo riconosciuto subito. Eppure il destino gli aveva appena offerto l’opportunità della vita: anche se non poteva parlare o farsi capire in modo chiaro, Mitsui si precipitò fuori dal proprio nascondiglio in cerca d’aiuto.
Kogure sorrise nel vedere come il gatto, adesso, si avvicinasse a lui senza alcun timore.
«Scusami… ti ho spaventato, vero?» lo accarezzò sulla testa e si accorse di quanto il suo pelo fosse bagnato. «Ma tu sei completamente zuppo!».
Non ci pensò due volte ad aprire la borsa del club e recuperare una salvietta, in cui avvolse con cura il gatto per asciugarlo. Vedendolo molto collaborativo, si azzardò a prenderlo in braccio.
Che bel calduccio, pensò Mitsui raggomitolandosi contro il petto dell’amico.
«Cos’è? Ora fai le fusa?» rise Kogure. 
Considerando che non sapeva nemmeno come lo stesse facendo, Mitsui non si era accorto di essere lui a produrre quel suono basso e costante. Eppure era qualcosa che gli usciva in modo naturale, forse sotto il suggerimento della sua attuale indole felina. Che fosse una specie di ringraziamento per come l’amico lo stesse trattando? Mitsui dovette ammettere che si sentiva bene, coccolato con tanto affetto che persino la fame pareva un lontano ricordo. Tuttavia non ebbe il tempo di ambientarsi completamente che Kogure lo posò a terra.
«Adesso devo proprio andare, piccolino».
Quelle poche parole gettarono Mitsui nel panico. Lasciarlo andare significa perdere ogni possibilità di mettere qualcosa sotto i denti, di dormire in un posto caldo e asciutto. Non era l’idea in sé di passare la notte fuori a terrorizzarlo, ma di doverla passare nei panni di un stramaledetto gatto.
«Ehi, non seguirmi!» gli ordinò Kogure appena si accorse che lo stava pedinando.
Parole gettate al vento per come Mitsui continuò imperterrito a stargli alle calcagna: non sapendo dove il compagno di squadra abitasse con precisione, non poteva permettersi di perderlo di vista. E quando infine Kogure si fermò di fronte ad una piccola villetta – una delle tante presenti sulla via – Mitsui approfittò dell’attimo che impiegò ad aprire il cancello per strusciarsi miagolando contro le sue gambe.
«Sei proprio testardo…» sospirò lui, accovacciandosi ad accarezzarlo. «Però non posso farti entrare: mia madre non vuole animali in casa… lo capisci?».
Mitsui capiva solo che il suo stomaco stava brontolando dalla fame. Non si arrese, certo che Kogure avesse un cuore troppo tenero per abbandonare al proprio destino un animale bisognoso come un micio affamato.
«E va bene! Hai vinto!» fece infine esasperato dal suo continuo lamento. Lo prese sottopancia e lo infilò nella borsa aperta del club, tra l’asciugamano e gli indumenti usati durante l’allenamento. «Ora però fai silenzio!».
Mitsui obbedì e si acquattò in ascolto. Udì Kogure annunciarsi appena varcata la soglia di casa e un paio di voci femminili rispondere all’unisono… che una fosse la sorella? Ad ogni modo, la sua eterna convinzione che fosse figlio unico, venne definitivamente cancellata quando ben due ragazzi lo salutarono con l’appellativo di “fratellone”.
Ma quanti cazzo sono?, si domandò esterrefatto mentre Kogure saliva di corsa le scale, sballottandolo da una parte all’altra nella borsa.
«Adesso resta qui» gli intimò infine quando, giunti nella sua camera, lo appoggiò sul futon piegato dentro l’armadio, che socchiuse prima di allontanarsi.
Mitsui osservò curioso l’ambiente al di là dello spiraglio da cui filtrava l’ultima luce del giorno: era una stanza in tatami, lunga e stretta, arredata in modo minimale, con un basso tavolino e una piccola libreria. Riconobbe il dorso di alcuni libri di scuola lì riposti e, con stupore, anche quello di alcuni manga. Cercò di allargare la fessura con le zampe e col muso, ma l’anta si rivelò essere più pesante del previsto. Non riuscendo a smuoverla di un millimetro, desistette e, rassegnato a dover attendere, si sdraiò sul futon.
Era stata una giornata irreale e non sapere come uscire da quell’assurda situazione, non lo aiutò a rilassarsi. Eppure, complice il pesante stato generale di stanchezza, sia fisica che mentale, Mitsui si addormentò nel giro di pochi secondi. Fu tuttavia un sonno agitato, per nulla riposante, e, quando qualche ora più tardi aprì gli occhi, la speranza che fosse stato solo un incubo si infranse contro la luce artificiale che arrivava da oltre l’anta dell’armadio, ora mezza aperta.
Seduto a gambe incrociate contro il muro opposto, Kogure stava leggendo un manga. Appena si accorse che era sveglio, si avvicinò con un sorriso. 
«Ti sei fatto una bella dormita, eh?» lo accarezzò sulla testa. «Hai fame?».
La domanda drizzò le orecchie di Mitsui. Ovvio che aveva fame! Fosse stato per lui, si sarebbe mangiato un bovino intero. Purtroppo dovette accontentarsi di due fette di prosciutto che Kogure tolse dal proprio panino.
«Non ti piace?» gli chiese quando allontanò schifato il muso dal bicchiere che gli mise sotto il naso.
Se c’era una cosa che Mitsui odiava era il latte. Fin da quando aveva ricordi, sua madre lo aveva costretto a berne litri nonostante non ne sopportasse il sapore, col risultato che, ora, il solo odore gli provocava nausea.
Perché poi dare del latte a un gatto quando ha sete? Voglio della stramaledetta acqua!, borbottò tra sé, rifiutando una seconda volta il bicchiere.
«Beh, forse non ti fa nemmeno bene…» fece Kogure dubbioso.
Trangugiò lui il latte, in pochi sorsi, prima di sparire oltre la porta della sua camera. Quando rientrò, oltre all’acqua, aveva con sé un altro paio di fette di prosciutto prese di nascosto dal frigorifero. Mitsui vi si avventò sopra, facendo ridere il compagno di squadra per la voracità con cui le fece sparire, felice poi di potersi finalmente dissetare da qualcosa che non fosse una pozzanghera.
«Non sembri un randagio» ipotizzò Kogure, prendendolo in braccio quando ebbe finito. «Chissà, forse ti sei solo perso…».
Magari fosse così, pensò Mitsui che, già alle prime carezze, capì perché ai gatti piacesse tanto farsi grattare dietro le orecchie – e non solo. Iniziò a fare le fusa mentre un senso di piacere e pace gli rilassò ogni muscolo del corpo. Un bellissimo momento di relax che purtroppo non durò a lungo.
«Kiminobu? Sei ancora sveglio?».
L’apertura improvvisa della porta non permise a Kogure di nascondere ciò che stava stringendo tra le braccia. Mitsui sgusciò comunque dalle sue mani e si rifugiò nell’armadio, sotto lo sguardo stupito della ragazza che, di lì a poco, avrebbe scoperto essere la sorella maggiore di Kogure
«Lo sai che mamma non vuole animali in casa…».
«Lo so benissimo, Kazumi…» fece mogio, sapendo di essere nel torto.
La sorella alzò un sopracciglio. «E allora perché è ancora qui?».
Lui parve cadere dalle nuvole. «Mi stai dicendo che dovrei buttarlo fuori con questa pioggia...?».
Stando alle ultime previsioni, quella notte ci sarebbe stato il passaggio del tifone che stava causando maltempo da ormai due giorni. Nulla di particolarmente violento, ma l’idea di mettere alla porta, proprio oggi, quel gattino, lo faceva star male.
Kazumi sospirò. «Se vuoi tenerlo, anche solo per una notte, ti consiglio di dirlo alla mamma prima che lo scopra lei…».
Kogure annuì, anche se temeva che sarebbe stato inutile.
Fu una lunga discussione quella che si sviluppò dapprima in cucina, poi nella stessa camera di Kogure, dove l’intera famiglia venne in pellegrinaggio per visionare l’oggetto del contendere. Per Mitsui fu un supplizio essere guardato con sospetto ed esaminato da cima a fondo, ma la madre del compagno di squadra voleva assicurarsi che non avesse pulci, qualche infezione o strana malattia. Alla fine, dopo invocazioni e preghiere di ogni tipo, Kogure riuscì a strappare il permesso di tenere il gatto finché non avesse trovato il padrone – perché dal comportamento e l’ottimo stato, era palese che non fosse un randagio – o qualcuno che se ne occupasse, entro un tempo limite di una settimana.
«Ancora stento a credere che tu ci sia riuscito…» commentò Kazumi sulla porta del bagno, mentre osservava il fratello lavare in un catino l’ultimo, seppur temporaneo, acquisto della famiglia.
Kogure sorrise. «Anch’io… ehi! Dove vai?».
Mitsui miagolò contrariato quando il suo tentativo di fuga venne stroncato e immerso di nuovo nell’acqua. Era troppo calda per i suoi gusti e l’energia con cui Kogure gli sfregava il pelo, per pulirlo a fondo, non lo aiutava a stare meglio. Tirò un enorme sospiro di sollievo quando giunse il momento del risciacquo – con l’acqua finalmente ad una temperatura accettabile – e quello successivo dell’asciugatura. Adorava come Kogure lo coccolasse mentre lo tamponava con l’asciugamano. Fare le fusa gli venne naturale.
«Kiminobu, non ti ci affezionare…».
L’avvertimento sincero della sorella ebbe l’effetto di smorzare la gioia che animava Kogure mentre cullava tra le braccia quel gomitolo di pelo nero. Era consapevole che non sarebbe rimasto a lungo con loro, motivo per cui dargli un nome non aveva senso, eppure Kogure non poté farne a meno.
«Non posso mica continuare a chiamarti “ehi” o “gatto”…» si giustificò osservando Mitsui sonnecchiare nella cesta, imbottita da un cuscino, sistemata a fianco del futon su cui era sdraiato. «Che ne dici di Mitchi?».
A quel nomignolo, Mitsui sollevò il muso e aprì gli occhi sconvolto.
«Ti piace?» interpretò erroneamente l’amico. «E’ il soprannome che un kohai ha dato a un altro compagno di squadra…».
Kogure allungò un braccio verso la libreria e prese un quaderno. Lo aprì sul cuscino, al centro, e sparpagliò sulle pagine bianche alcune foto che erano conservate all’interno. Nel vedere l’espressione assorta con cui le studiava una ad una, Mitsui uscì dalla cesta con un balzo e si avvicinò curioso al compagno di squadra. Le riconobbe all’istante: erano quelle scattate il giorno in cui si erano guadagnati l’accesso ai campionati nazionali, sconfiggendo il Ryonan. Dopo aver comunicato la lieta notizia all’allenatore Anzai, ancora ricoverato in ospedale, di ritorno a casa si erano fermati a festeggiare in un ristorante di ramen. Kogure prese quella che Ayako aveva fatto a loro due mentre, seduti uno di fianco all’altro, brindavano felici e sorridenti alla vittoria con della semplicissima acqua.
«Sono proprio una causa persa…» sbuffò appoggiando la foto sugli occhi chiusi.
Mitsui non capì di che stesse parlando e non ebbe modo di avere una riposta: Kogure radunò in silenzio le foto e le rispose al sicuro nel quaderno.
«Buonanotte Mitchi» disse accarezzandolo un ultima volta prima di spegnere la luce, tramite il lungo filo che pendeva dalla lampada a soffitto: lo tirò una volta e la camera piombò nell’oscurità della notte.
 
«“Mitchi”? Ma che cavolo di nome è?» esclamò Kotaro, fissando perplesso il fratello.
Kogure sorrise senza rispondere e appoggiò a terra una ciotolina. Appena Mitsui vide il contenuto – della carne in scatola – non esitò a varcare la porta della cucina in cui aveva indugiato ad entrare un attimo prima, al seguito di Kogure, intimorito dalla presenza dell’intera famiglia, seduta al tavolo a fare colazione… e a ragione visto come, a pochi centimetri dalla meta, qualcuno gli tirò a tradimento la coda.
Il miagolio stridulo che emise fece sobbalzare tutti i presenti.
«Keita!» il padre rimproverò il piccolo di casa – dieci anni appena compiuti – che lasciò andare la propria preda controvoglia.
«Ma io voglio giocare!» sbuffò seccato da come il gatto si rifugiò tra le braccia del fratello maggiore.
La madre gli diede un buffetto sulla testa e indicò la scodella di cereali ancora piena.
«Altro che giocare! Se non ti muovi, arriverai di nuovo tardi a scuola!» lo riprese. «Anche tu, Kiminobu! Smettila di stare appresso a quell’animale e vieni a mangiare!».
Kogure posò Mitsui davanti alla scodella e obbedì senza fiatare: sapendo che la madre poteva cambiare idea sul gatto in qualsiasi momento, preferì evitare di tirare troppo la corda.
A Mitsui non restò che spazzolare la carne… non che gli dispiacesse: riempire quel buco nello stomaco, che faceva invidia alla fossa delle Marianne per profondità, era la sua prima necessità. La seconda fu decidere come impegnare la giornata una volta che tutti uscirono, chi per andare al lavoro, chi a scuola.
Tutti, ad eccezione della madre di Kogure.
«Beh, che hai da guardare?» disse la donna appena ebbe finito di sistemare la cucina. «Su, fila in giardino! Non ti voglio tra i piedi mentre pulisco casa!».
Mitsui non se lo fece ripetere una seconda volta, non quando venne calorosamente invitato ad uscire con una scopa. Vista l’indole bonaria del compagno di squadra, l’immagine che si era fatto della madre – quella di una persona molto dolce e comprensiva – era completamente opposta alla realtà. In confronto, la sua, di madre, pareva una santa.
Pensando a lei, la domanda se fosse o meno preoccupata del suo mancato rientro fu inevitabile. Decise che quello era il momento migliore per passare da casa e constatare lo stato coi proprio occhi, con la speranza che, nel frattempo, avesse un’idea su come uscire da quella situazione.
Giunto nei pressi del cancello, Mitsui controllò che Yuki non fosse libero per il giardino. Quando ne ebbe la – quasi – certezza, passò attraverso le sbarre e si avvicinò guardingo alla casa, affacciandosi alla portafinestra del salotto. All’interno, seduta sul divano, sua madre si torceva nervosa le mani, bofonchiando parole a lui incomprensibili nonostante l’anta socchiusa.
«Si, ho capito. La ringrazio molto. Arrivederci».
La voce di suo padre ne preannunciò l’ingresso nella stanza. Mitsui lo vide fermarsi sulla porta e, col telefono ancora appoggiato all’orecchio, fare un cenno negativo alla moglie. Quando questa si coprì la bocca e le lacrime presero a scorrere sulle sue guance, provò un misto tra sgomento e dolore.
Il padre si precipitò al suo fianco. «Kaname-».
«Ho paura Masaki» la donna cercò conforto tra le braccia del marito, ma nulla potevano contro la totale incertezza del momento. «E se gli fosse successo qualcosa? E se-».
«Hisashi non è uno stupido» la interruppe «e il fatto che nessun ospedale, nel raggio di chilometri, abbia ricoverato un ragazzo corrispondente alla sua descrizione, è comunque una buona notizia…».
«E allora dov’è il mio bambino?!» urlò lei disperata, sull’orlo di una crisi di nervi.
L’uomo la strinse a sé, cercando di placare i suoi singhiozzi ormai incontrollabili.
«E’ colpa mia» ammise. «Sapevo quanto tenesse ai campionati nazionali, quanto si stesse impegnando per renderci di nuovo fieri di lui… non avrei dovuto-».
Convinta che il marito si stesse assumendo più responsabilità del dovuto, la donna lo zittì appoggiandogli le dita della mano sulle labbra.
«Non è colpa tua» mormorò con voce tremante. «Non è colpa di nessuno…».
Incapace di continuare a guardare la sofferenza di cui era la causa, Mitsui si allontanò stretto nel proprio dolore, oltre che colmo di rabbia per non poterli rassicurare: avrebbe voluto dir loro che stava bene… imprigionato nel corpo di un maledetto gatto, ma pur sempre vivo e vegeto.
Costeggiò sovrappensiero il muro della casa, fino a raggiungere la portafinestra della propria camera. Fu qui che ebbe la grande sorpresa: suo fratello che, dal suo letto, osservava la stanza con volto scuro. Non era arrabbiato – conosceva quell’Hitonari e il particolare modo che aveva di piegare il labbro da un lato quando era furioso. Sembrava più… triste, il che era un paradosso per Mitsui, convinto com’era da sempre che Hitonari lo odiasse dal profondo del cuore e che, se fosse sparito dalla sua vita, sarebbe stato l’uomo più felice della terra. E invece suo fratello era lì, assorto nei propri pensieri, con gli occhi lucidi, a rigirarsi tra le mani la sua palla da basket preferita che teneva, come un tesoro, ai piedi del letto.
Concentrato com’era su Hitonari, Mitsui non si accorse dell’entrata di Yuki dalla porta. Appena il cane lo vide, al di là del vetro, si precipitò contro la finestra abbaiando come una furia. Spaventato, Mitsui girò i tacchi e corse via, fermandosi solo una volta raggiunta la strada, oltre il cancello che avrebbe impedito al suo inseguitore di uscire dal giardino.
Fui qui che l’angoscia gli attanagliò la gola.
E adesso? Cosa posso fare? Cosa devo fare?!
Tante domande, troppe, a cui Mitsui non ebbe modo di dare una risposta.
 
«Che c’è, Mitchi? Non hai fame?».
Kogure fissò preoccupato il gatto acciambellato nella cesta che era stata il suo letto la notte precedente. Per come ogni volta si fiondava sul cibo, appena questo era alla sua portata, era sospetto come avesse ignorato il piattino con la cena di quella sera.
«Non starai male, vero?».
Ora che ci pensava, era mogio fin da quando era rientrato a casa. Se all’inizio aveva creduto che stesse semplicemente poltrendo, adesso quella strana apatia appariva tutto meno che pigrizia.
Qualcuno bussò alla porta.
«Posso giocare col gatto?» chiese impaziente Keita, non appena aprì.
Conoscendo il fratellino, Kogure immaginò che avesse passato l’intera giornata in attesa di quel momento. Non avrebbe voluto deluderlo ma, visto le sue attuali condizioni, non se la sentì di sottoporre quel povero animale ad ulteriore stress.
«Non penso che oggi ne abbia molta voglia…».
«Che novità è questa del gatto?».
All’interno della stanza, Mitsui drizzò le orecchie. Conosceva quella voce…
«Akagi?» Kogure fissò perplesso l’amico, fermo all’imbocco delle scale. «Quando sei arrivato?».
Fu Keita a rispondere per lui. «Ah… mamma mi aveva detto di avvisarti che avevi un ospite…».
«E non avresti dovuto dirmelo subito?».
Kogure sorrise divertito al fratellino, che gli mostrò la lingua e rientrò un po’ deluso nella sua stanza, poi fece accomodare Akagi nella propria. Questi si sedette vicino all’entrata, degnando appena di uno sguardo il felino acciambellato nella cesta, quando invece avrebbe dovuto suscitare parecchie domande. Ma, dalla sua espressione cupa, persino Mitsui si era accorto che quella non era una semplice visita di cortesia.
«Che succede? Hai una faccia…».
«Siediti» quasi gli ordinò Akagi e Kogure prese posto di fronte a lui. «Mezz’ora fa mi ha chiamato l’allenatore Anzai. Mi ha chiesto se avessi notizie di Mitsui. Gli ho risposto di no. Vista l’assenza da scuola e il tuo racconto di come ieri siete tornati a casa entrambi fradici, credevo che fosse semplicemente malato… purtroppo non è così…».
Negli occhi di Kogure serpeggiò la preoccupazione. «Che vorresti dire…?».
«I genitori di Mitsui hanno contattato la scuola perché manca da casa da ieri sera…».
Il silenzio calò improvviso nella stanza, pesante, opprimente, quasi soffocante. Mitsui non si aspettava una simile mossa da parte dei suoi, ancora meno che il suo compagno di squadra iniziasse a piangere.
«Kogure, calmati» Akagi gli posò le mani sulle spalle. «Magari è solo scappato di casa dopo aver litigato coi suoi ed ora è ospite da qualche amico… non mi sorprenderebbe se fosse sparito senza dire nulla a nessuno-».
«Ti sbagli!» lo interruppe Kogure strofinandosi gli occhi. «Lui è cambiato! Non farebbe mai una cosa simile! Non adesso! Non coi campionati nazionali alle porte!».
D’un tratto sentì un peso sulle gambe e piccole zampine spingere contro il petto, il tutto accompagnato da un insistente miagolio che aveva come unico scopo quello di attirare la sua attenzione.
«Oh, Mitchi…» Kogure strinse a sé il gatto nero che prese a leccargli con insistenza il viso, quasi volesse asciugargli le lacrime. «Non vuoi che pianga?».
No, Mitsui non voleva che piangesse, non anche lui, non a casa sua. Se vedere i suoi genitori così preoccupati per la sua scomparsa era stato devastante, vedere Kogure piangere per lo stesso motivo era una vera e propria pugnalata al cuore.
«Aspetta… come l’hai chiamato?!».
Appena le guance dell’amico si colorarono di un vivace porpora, Akagi si passò rassegnato una mano sulla faccia. Non riusciva a crederci, eppure cercò di comprenderlo: era evidente, persino a uno inesperto in materia come lui, quanto la cosa fosse di per sé incontrollabile.
«Era meglio se quel teppista fosse rimasto dov’era…» commentò acido, convinto che Kogure si sarebbe rassegnato una volta per tutte se non fosse rientrato improvvisamente nelle loro vite.
«Non fargliene una colpa… Mitsui, in fondo, non ne ha» rispose lui accarezzando il gatto che, tutto d’un tratto, appariva calmo e attento alle parole che si stavano scambiando.
«Davvero?» fece scettico Akagi.
«Davvero».
Mitsui non aveva mai incrociato occhi tanto tristi, non in Kogure, che era sempre stato capace di vedere il bicchiere mezzo pieno, anche nelle situazioni più spiacevoli. Fissò rapito quello sguardo malinconico che racchiudeva una sconosciuta consapevolezza la quale, quel bicchiere di ottimismo, l’aveva svuotato in un unico rapido sorso. Il desiderio di confortarlo, anche solo con una carezza, si scontrò con la dura realtà di non poterlo fare… e quando fu la mano di qualcun altro a scompigliare la folta chioma castana di Kogure, lui reagì spinto da un insolito istinto.
«Ah!».
L’esclamazione di dolore colse tutti di sorpresa, persino Mitsui, che ne era stato la causa.
«Col nome che si ritrova, non dovrei stupirmi del caratteraccio…!».
Akagi gli lanciò un’occhiata omicida e strinse l’avambraccio nel punto in cui, tre linee rosse, gli incidevano la pelle per un terzo della circonferenza. Kogure dapprima lo sgridò, poi lo mise da parte per prendersi cura dell’amico, con cui continuò a scusarsi per l’accaduto anche mentre abbandonarono la stanza, per medicare la ferita in bagno.
Rimasto solo, Mitsui si avvicinò confuso alla cesta, chiedendosi cosa fosse appena successo.
Cos’era quello strano discorso di cui era stato il soggetto involontario? Ma soprattutto, perché aveva reagito in quel modo quando Akagi aveva accarezzato i capelli di Kogure? Insomma, erano migliori amici fin dalle medie, era normale che fossero in confidenza… eppure, quel semplice gesto d’affetto, lo aveva infastidito.
Gelosia, gli suggerì una vocina, gelosia e invidia, per un rapporto che lui, con Kogure, non aveva.
Non so niente di lui, pensò nascondendo irritato il muso tra le pieghe del cuscino all’interno della cesta.
Non sapeva niente, della sua famiglia, di altri suoi hobby oltre al basket, della persona che era al di fuori del club. Niente di niente. E, invece, avrebbe voluto sapere ogni cosa, ogni singolo dettaglio della sua vita… come un innamorato brama ogni singola conoscenza della persona amata.
Mitsui sollevò la testa, sconvolto da un simile pensiero – quello di provare qualcosa per Kogure, qualcosa di più profondo di una semplice amicizia. Un pensiero che, per quanto assurdo, quella notte non gli permise di chiudere occhio.
 
«Anche tu non riesci a dormire?».
Kogure allungò il braccio e gli accarezzò la testa. Aveva delle tremende occhiaie, due ampi e profondi segni scuri sotto gli occhi che raccontavano di ben quattro notti insonni, quelle che erano trascorse dalla notizia della sua scomparsa. Nemmeno Mitsui era riuscito a dormire granché in quei giorni, demoralizzato dal non avere una soluzione al problema e colpevole di star facendo preoccupare una marea di persone.
Ripensò con amarezza alla notte precedente, a quando aveva udito Kogure invocare il suo nome tra i singhiozzi  mentre, rannicchiato sotto le coperte, era convinto che nessuno in casa potesse sentirlo. Peccato che Mitsui fosse proprio lì, alle sue spalle, raggomitolato in quella piccola cesta a soffrire insieme a lui.
Non avrebbe mai creduto che la percezione del dolore altrui potesse essere così logorante, e più i giorni passavano, più la situazione diventava insopportabile. Per lo stesso motivo per cui si odiava nel vedere Kogure angosciato a causa sua, Mitsui non era più tornato a casa dopo la prima volta. Il solo pensiero della madre disperata bastava a gettarlo nello sconforto: vederla piangere di nuovo, sarebbe stato troppo.
Nel frattempo, non aveva smetto di cercare il soriano rosso. Ore e ore di cammino a setacciare strade e vicoli di diversi quartieri, si erano però risolte con un nulla di fatto. Tuttavia non poteva rinunciare, convinto che quel malefico gattaccio fosse la sua unica speranza.
«Ti ho trascurato un po’ in questi giorni…».
Kogure si sollevò sui gomiti e raccolse Mitsui dalla cesta, prima di sdraiarsi di nuovo. Quando lo appoggiò sul petto, rimase piacevolmente sorpreso nello scoprire che stesse già facendo le fusa. Istintivamente, chiuse gli occhi e si crogiolò per qualche minuto nel rumore rilassante di quella costante vibrazione.
«Ti mancavano le coccole, eh?».
Mitsui girò la testa di lato per permettere all’amico di grattarlo meglio dietro le orecchie. Di tutta quella situazione assurda, le coccole erano l’unico risvolto positivo. Adorava quando Kogure lo prendeva in braccio e gli arruffava il pelo, quando lo teneva stretto tra le braccia e gli sorrideva felice, come stava facendo proprio adesso. Erano giorni che non vedeva quel raggio di sole aprirsi sul suo viso e ne rimase estasiato. Peccato che una nuvola scura, carica di pioggia, lo oscurò pochi secondi dopo.
«Vorrei tanto tenerti con me» sospirò Kogure «e il mio fratellino ne sarebbe molto felice…».
Mitsui non ne dubitava. Il problema era se lui sarebbe sopravvissuto ad un'altra sessione di gioco. Quella sera, per sfuggire alle grinfie di Keita e preservare la propria coda da nuovi e doloranti strattoni, si era nascosto per due ore nell’armadio, tra le pieghe del futon di Kogure, poco importava se gli mancasse l’aria.
«Mamma però è stata chiara» continuò «e visto che i tuoi padroni non riesco a trovarli, ho iniziato a chiedere in giro e… beh, un mio compagno di classe sarebbe disponibile a prenderti…».
A Mitsui non sfuggì la nota amara sul finire della frase: nonostante il severo ammonimento della sorella, Kogure si era affezionato a quel gatto nero con la zampetta bianca e ora, l’idea di separarsene, era difficile da mandare giù, come una grossa e amara pillola.
Prima o poi sarebbe comunque successo, pensò Mitsui che non aveva la minima intenzione di rimanere in quella forma, anche se provò una sincera stretta al cuore quando un velo scuro rattristò gli occhi del compagno di squadra.
Ancora una volta sono la causa della sua sofferenza.
Mitsui si allungò sul torace dell’amico e gli passò la lingua ruvida sul profilo del mento – una, due, tre volte – e tanto bastò a riaccendere la luce in quegli occhi castani. Anche stavolta, però, quello sprazzo di felicità durò poco, soffocato dalla preoccupazione che Kogure non riusciva a smettere di provare per il suo alter ego umano.
«Ho paura, Mitchi» confessò incapace di trattenere una lacrima. «Ho paura che sia successo qualcosa alla persona che amo…».
Mitsui, all’inizio, pensò di aver di capito male. Non era avvezzo a ricevere dichiarazioni d’amore, e non perché non fosse un tipo piacente. A tenere alla larga le ragazze era quell’aura da teppista che si portava appresso da un paio d’anni… non che gli importasse granché farsi una fidanzata: trovava le donne fastidiose e con un mucchio di pretese. Quelle poche esperienze che aveva avuto col gentil sesso erano state brevi e senza promesse.
Ma non mi era mai capitato che fosse un uomo a dichiararsi…
In verità, Kogure non sapeva di star rivelando i propri sentimenti al diretto interessato, per cui Mitsui non poté nemmeno parlare di “dichiarazione”. D’altra parte, non si sentì né a disagio né disgustato nell’apprendere di suscitare quel tipo di interesse in un maschio perché, in passato, lui stesso aveva provato attrazione verso qualcuno del suo stesso sesso… attrazione che adesso capì di provare nei confronti di Kogure, con l’unica differenza che, stavolta, non era puramente fisica.
Teneva molto a Kogure, l’aveva sempre considerato una persona speciale, una di quelle da tenersi ben strette per l’intera vita. Se tornare a giocare a basket era stato come rinascere, ritrovare Kogure sulla propria strada era stato come ravvivare le braci di un fuoco in una gelida notte d’inverno. Il tepore che lo avvolgeva, ogni volta che stava accanto a lui, era una delle ragioni per cui lo cercava senza esserne consapevole…
Almeno fino ad oggi.
Mitsui desiderò che Kogure lo stringesse ancora una volta tra le braccia, stavolta però come umano. Desiderò anche potergli asciugare con le dita le lacrime che gli stavano di nuovo rigando il viso. Desiderò altresì posare le proprie labbra sulle sue e sussurrargli di non piangere, non per lui, perché stava bene ed era sempre rimasto al suo fianco. Desiderò infine di approfondire quel bacio, ancora immaginario, e donargli tutto l’amore che meritava di ricevere.
Colto da un improvviso senso di urgenza, Mitsui scese dal torace di Kogure e si sedette miagolando di fronte alla porta della camera, in attesa che venisse aperta.
«Devi andare in bagno?» disse Kogure, riferendosi alla piccola cassetta con la sabbia che avevano messo a sua disposizione nella veranda della cucina.
Fu proprio lì che si diresse appena ebbe via libera, ma il suo obiettivo finale, in realtà, era la finestra che la signora Kogure lasciava socchiusa per cambiare l’aria. Con un primo balzo raggiunse il davanzale e, con un secondo, il soffice prato all’esterno. Poi, senza voltarsi indietro, Mitsui affrontò l’oscurità della notte che lo inghiottì senza esitazione.
 
Era stata una lunga notte quella che lo aveva accompagnato fino al mattino seguente. Eppure, ora che il giorno era finalmente giunto, pareva essere questo a non conoscere fine. In realtà, il sole aveva percorso il suo quotidiano arco nel cielo e, un timido passo alla volta, si stava avvicinando all’orizzonte, sfumando l’azzurro brillante con i colori caldi del tramonto.
Seduto all’imboccatura del tubo di cemento verde, Mitsui soffocò l’ennesimo sbadiglio e ignorò il successivo brontolio dello stomaco. Non poteva darsi per vinto, per sé stesso, per Kogure. Scosse la testa e riprese a scrutare con attenzione ogni angolo del piccolo parco giochi, l’ultimo luogo in cui aveva avuto il dispiacere di incontrare la fonte di tutti i suoi attuali guai.
Aveva cercato quel soriano dal manto rosso ovunque, per giorni interi, ma il maledetto sembrava essere sparito dalla circolazione. Alla fine, per quanto remota fosse, si era chiesto se restando fisso in un posto, dove il suo obiettivo era già stato, non avesse più probabilità di incrociarlo che girando a caso per le strade del quartiere.
Una domanda che, qualche ora più tardi, ebbe la sua risposta positiva.
– Hai intenzione di rimanere lì ancora per molto? –.
Mitsui aprì gli occhi stanchi e provati da quasi ventiquattr’ore di veglia. Si era appisolato per pochi minuti, ma la vista del soriano, seduto di fronte a lui, lo svegliò di colpo.
– Tu- dannato! – esclamò in preda alla rabbia. Si alzò in piedi e, con un balzo, gli si piazzò davanti a una manciata di centimetri. – Liberami immediatamente da questa maledizione! Altrimenti- –.
– Altrimenti, cosa? – lo interruppe, per nulla spaventato dalla minaccia. – Ti ho già detto che io non posso fare quello che chiedi… –.
Mitsui non si arrese. – Ma qualcosa sai, per cui vuota immediatamente il sacco! –.
Il soriano fece un passo indietro, infastidito, e lo guardò di traverso, con sdegno.
– E’ così importante per te? –.
– Si – confermò Mitsui – ma non lo è solo per me. Io- – fece un profondo respiro e chinò la testa. Ripensò a Kogure, al suo pianto sommesso stretto tra le coperte del futon. – Io non voglio più vedere le persone a cui tengo piangere a causa mia… –.
L’altro lo studio con attenzione per qualche secondo, poi si sedette sulle zampe posteriori.
– Vorrei raccontarti una storia… – disse in un soffio.
In tutta sincerità, a Mitsui, della sua storia, importava meno di zero, eppure si ritrovò lo stesso ad annuire. Non se l’era sentita di dire “no”, non di fronte a un simile sguardo implorante da cui era svanito, in un battito di ciglia, l’astio che aveva caratterizzato finora ogni loro botta e risposta.
Il soriano inspirò a fondo e iniziò il proprio racconto.
Era quello di un giovane uomo, vissuto tanti anni prima. Figlio di un ricco e importante signore, non aveva avuto solo la fortuna di essere abbiente: madre natura era stata altresì generosa nei suoi confronti, donandogli una bellezza eterea, capace di ammaliare le persone che lo circondavano. Il suo animo, tuttavia, contrastava col suo bel aspetto: arroganza e presunzione, queste erano le sue migliori “qualità”, e con queste trattava le persone con insolenza e sgarbo, prendendosi spesso gioco di loro e dei loro sentimenti. Un comportamento giudicato inappropriato dalla sua famiglia, che non lo vedeva affatto di buon occhio.
– Il padre fu sul punto di diseredarlo dopo che gettò fango su un’altra famiglia, rifiutando un importante matrimonio combinato anni prima, ma non ne ebbe il tempo… –.
– Che intendi dire? –.
– Avrai sentito parlare degli yokai… –
Mitsui annuì. Come quella di ogni giapponese, la sua infanzia era costellata da leggende che narravano di spiriti e demoni capaci, coi loro poteri soprannaturali, di influenzare il mondo degli uomini. Se, da piccolo, alcuni racconti lo avevano terrorizzato a tal punto da fargli passare qualche notte in bianco, crescendo aveva pensato, come tutti, che, quei racconti, fossero il frutto della fantasia degli stessi uomini, ignorando completamente quel detto secondo cui, alla base di ogni leggenda, ci fosse un fondo di verità.
– Lo stesso giorno in cui venne rifiutata, la sua futura sposa si impiccò al ramo di un ciliegio centenario – il soriano distolse lo sguardo da quello sconvolto di Mitsui. – L’atto in sé del suicidio, mischiato al dolore e all’onta di essere stata rifiutata, impedirono al suo spirito di trovare pace. Come yokai, si presentò quindi di fronte al giovane uomo e- –.
Quando al soriano mancarono di colpo le parole per continuare, Mitsui poté scorgere nei suoi occhi un profondo rammarico, a conferma dell’iniziale sospetto che, la storia che stava raccontando, lo riguardasse da molto, molto vicino.
– Ehi… – lo chiamò – questa non è una storia qualunque, vero? Non quella di qualcuno che semplicemente conosci… – disse, alludendo al fatto che fosse proprio la sua.
Lui annuì e fugò ogni dubbio: – Quella donna mi condannò a vivere come vedi, con le sembianze di un gatto – sul suo muso sembrò comparire qualcosa che somigliava a un sorriso amaro. – Ho trascorso gli ultimi settant’anni a cercare qualcuno in grado di spezzare la maledizione, ovviamente senza successo: la maggior parte delle persone, nel ritrovarsi tramutata in un gatto da un giorno all’altro, è impazzita e morta… tu sei la terza con cui parlo, ma solo la prima che ascolta la mia storia… –.
Di tutto quel discorso, a colpire Mitsui furono gli anni che l’uomo aveva trascorso in quella forma: settanta. Lui, che di anni ne aveva appena compiuti diciotto – poco più di un quarto di settanta – e in quella forma ci aveva trascorso neanche una settimana, gli era difficile anche solo concepire un periodo temporale così lungo, che, per alcuni, rappresentava l’arco di una vita intera.
– Hai detto di essere alla ricerca di qualcuno in grado di spezzare la maledizione… se succedesse, potrei tornare un essere umano? –.
– Si – confermò il soriano – ma non è così semplice… –.
– Che vuoi dire? –.
– Che devi capire da solo come fare, io non posso aiutarti… –.
– Cosa?! – Mitsui non riusciva a credere alle proprie orecchie. – Ma perché?! –.
– Se fossi io a dirti come, non funzionerebbe, perché non sarebbe la stessa cosa… – precisò lui chinando la testa. – Ad ogni modo, avrei altro da raccontarti… –.
Mitsui ascoltò le successive parole del soriano. Di come, da gatto, ebbe la possibilità di vedere, con occhi completamente diversi, le persone con cui aveva sempre vissuto. Di come, la sua scomparsa, destò in alcune gioia, in altre sollievo, in altre ancora dolore. Di come, in quest’ultima categoria, rientrarono persone insospettabili, dal padre che lo voleva ripudiare al fratello con cui non era mai andato d’accordo. Aveva trovato in un mare di lacrime persino la sua cameriera, colei che, più di tutti, nel corso degli anni, aveva subito le sue ripetute angherie.
– Mi a-amava… la persona che più avevo maltrattato… mi amava! –.
La voce rotta dall’emozione, con cui il soriano gli confessò quel retroscena, colpì a fondo Mitsui che, inevitabilmente, si ritrovò a fare un paragone con la propria situazione. Anche lui si era ritrovato davanti a scene inaspettate: dalla – seppur composta – ansia del padre al grido di dolore della madre, dal volto preoccupato del fratello a quello in lacrime di Kogure, tutte persone che, in passato, non aveva trattato coi guanti.
– Fu lei a prendersi cura di me negli anni a venire – continuò il soriano – ad offrirmi un pasto caldo al giorno e un tetto sicuro per la notte. Vissi al suo fianco, come un semplice gatto domestico, finché non morì in seguito a una malattia. Fu terribile vederla spegnersi senza poterla ringraziare, senza poterle rivelare la mia vera identità… –.
– L’amavi…? –.
La domanda fluì dalle labbra di Mitsui in modo spontaneo, certa di ricevere una risposta affermativa, come difatti avvenne.
– E’ buffo – fece ironico – io, che da umano non l’avevo mai considerata, da gatto scoprì quanto fosse una persona speciale… meritava molto di più dalla vita, soprattutto qualcuno che l’amasse anche solo un decimo di quanto lei aveva amato me… –.
I ricordi del soriano fluirono in Mitsui attraverso le sue parole, i suoi pensieri, le sue stesse emozioni. Ricordi del loro primo incontro, di quando, al sedicenne signore, venne assegnata una nuova cameriera, di appena un anno più grande, anche se, minuta com’era, di anni ne dimostrava molti meno. Ricordi di come lei ascoltasse le sue frequenti lamentele, con pazienza, senza interromperlo o contraddirlo, lasciandogli un modo per sfogare la frustrazione accumulata nei confronti di quella famiglia che lo opprimeva con continue richieste e aspettative, sia lavorative che sociali. Ricordi di come cercasse di alleviare le sue pene, con piccoli gesti, quali arredare sovente la sua stanza con profumati fiori freschi o servirgli, a sorpresa, nei momenti più opportuni, il the accompagnato da un buon dolce. Ricordi di come quella ragazza, dai capelli castani e profondi occhi nocciola, coccolasse quell’esile gatto raccolto per strada, accarezzandogli il folto pelo rosso mentre gli raccontava, con rimpianto, di un amore ormai perduto.
Sopraffatto da tanto rammarico, di cui era pregno come una spugna l’ultimo ricordo, Mitsui sentì il proprio stomaco contorcersi. Istintivamente pensò a Kogure: anche lui avrebbe vissuto qualcosa di simile se non fosse riuscito a spezzare la maledizione? La sola idea lo terrorizzava.
Afflitto dalla terribile esperienza di vita del soriano, una lacrima solcò il suo musino rosa. Nella lenta corsa verso il basso, incontrò l’asfalto davanti alla zampa bianca, macchiando il punto d’impatto con un alone scuro che scomparve pochi secondi dopo.
– Grazie –.
Mitsui non capì perché lo stesse ringraziando. Fissò confuso il soriano che, alla sua domanda, rispose con una frase enigmatica prima di sparire dentro un cespuglio. Lo lasciò lì, da solo, come un emerito cretino.
– Ehi! – gridò – Che cazzo vuol dire “domani mattina capirai”?! –.
Anche sapendo che sarebbe stato inutile, si gettò al suo inseguimento. Ignorando i graffi, si fece largo a forza tra i fitti rami e, quando uscì dalla parte opposta, su una stretta striscia di terra resa fangosa dalle recenti piogge, come predetto, del soriano non c’era più traccia. 

Continua

 

  
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