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Autore: Elef    10/02/2019    1 recensioni
Nord America, 1784
***
"Si risvegliò di soprassalto, il respiro affannoso, la gola secca e la vista appannata.
«Madre...» biascicò nel suo stordimento.
Percepì un panno bagnato appoggiato sulla sua fronte e poi una forma non definita – ma indubbiamente umana – entrò nel suo campo visivo.
«Madre, sono qui…!» ripeté, allungando un braccio verso di essa. La figura prese l’arto e lo poggiò delicatamente sulla superficie su cui era coricato.
«Tranquillo, va tutto bene.» gli rispose una voce morbida. «Dormi.»
Connor lasciò che quelle parole lo guidassero in un sonno stavolta privo di incubi."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Kenway, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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CAPITOLO 2

ARIA DI CASA

 

 

Da quel primo risveglio ci vollero diversi tentativi, ma alla fine giunse quello definitivo. Si accorse di poter aprire gli occhi senza doverli richiudere qualche istante dopo per la spossatezza. Sbatté le palpebre più volte e notò con piacere che le forme, dapprima sfocate, stavano piano piano ricomponendosi. La prima cosa che vide fu il tetto di legno ricoperto di pelli della casa lunga vuota in cui si trovava. In un paio di punti filtrava la luce del sole, il che voleva dire che mancava poco al mezzodì. Chissà per quanto tempo era rimasto incosciente.

Le sue orecchie captarono lo scoppiettio di un fuoco e voltando lievemente la testa Connor vide il falò a poca distanza, così come notò che il suo corpo era steso su un paio di pellicce talmente spesse da non sentire nemmeno la durezza del legno sotto di esse. Un’altra, probabilmente di alce, ce l’aveva addosso, a coprire il torace nudo; sull’addome aveva un’ampia fasciatura. Un vago ricordo tornò improvvisamente a galla, quello di una presenza umana che aveva scambiato per sua madre. Di lei, in un altro momento di veglia temporanea, aveva avvertito il piacevole tocco nel momento in cui gli aveva spalmato un impacco sulle ferite.

E quelle ferite? Come aveva fatto a procurarsele?

Era la prima volta che gli capitava un intontimento simile, nonostante di esperienze di violenza fisica e successiva convalescenza ne avesse vissute parecchie. L’ultima, peraltro, solamente qualche settimana prima, quando quella ragazza maroon di nome Patience Gibbs si era rifiutata categoricamente di unirsi alla Confraternita e per buona misura gli aveva pure sparato.

Mettendosi lentamente a sedere, scorse con la coda dell’occhio lo spostamento della pelle che copriva l’entrata della casa lunga, in fondo alla stanza. Dalla soglia fece il suo ingresso un volto familiare: era un giovane uomo, ad occhio e croce di qualche anno in meno di lui, dal viso ovale, gli occhi scuri e allungati, due lunghe trecce nere che gli scendevano fino alla cintura e un naso aquilino piuttosto pronunciato, non molto diverso da altri guerrieri Mohawk. Come aspetto gli ricordava un po’ il suo caro vecchio amico, Kanen’tó:kon.

«Ratonhnhaké:ton, ti sei svegliato!» lo accolse allegramente, fin troppo per un semplice estraneo. Mentre Connor si domandava come facesse a sapere il suo vero nome, il giovane indigeno fu da lui, le piume di falco che volteggiavano leggermente tra i suoi capelli corvini. «Come ti senti?»

«Bene.» fu la risposta evasiva e lievemente confusa dell’assassino, mentre cercava di capire dov’era che l’avesse già visto.

«Ti credo, Otsísto non si smentisce mai. Ha delle mani incredibili, quella donna.» sospirò l’altro sedendosi a gambe incrociate di fianco a lui, in un gran tintinnio di pendagli. Poi, si portò una mano al petto.

«Ti ricordi di me, vero? Il mio nome è Arahkwenhá:wi. Io e mio fratello Atenà:ti ti abbiamo incontrato nella foresta e abbiamo chiesto il tuo aiuto per tendere un’imboscata.»

Quel convoglio mercenario sulla strada per Boston… Dunque non era un sogno.

«Sì, rammento lo scontro.» confermò il giovane. «Però fatico a ricordare com’è finita.»

Arahkwenhá:wi allargò le braccia, con espressione vagamente trionfale. «Ce l’abbiamo fatta, abbiamo ucciso tutti quei barbari pallidi e liberato i nostri alleati Ononta’kehá:ka (*); lasciamo loro qualche settimana e ci ringrazieranno a dovere. La Madre del Clan ha detto che è fiera di noi e che ti vuole ringraziare personalmente. Naturalmente, anch’io ti sono estremamente riconoscente.»

Connor annuì e gli diede una leggera pacca sulla spalla. «È stato un onore combattere al vostro fianco.»

«Dovrei essere io a dirlo e soprattutto mio fratello.» Arahkwenhá:wi indicò la fasciatura sul suo addome. «Hai rischiato la tua vita per salvare quella di Atenà:ti. Stai pur certo che non lo dimenticheremo.»

Poi si alzò e gli tese una mano, che l’altro accettò. Sfortunatamente, uno dei proiettili dei moschetti era andato a colpire una zona molto vicina al punto in cui Patience Gibbs gli aveva sparato. Fu per questo che quando si ritrovò in piedi dovette stringere i denti per contrastare l’intensa fitta di dolore che avvertì.

«Riesci a camminare?» gli chiese preoccupato il guerriero, le sue mani pronte a sorreggerlo ma Connor gli fece cenno di star fermo.

«Sono stato peggio, ce la faccio.» lo rassicurò.

Dunque Arahkwenhá:wi lo aiutò a vestirsi, dopodiché lo guidò nello spiazzo fuori dalla tenda. Il giovane dovette socchiudere di colpo gli occhi al contatto visivo con la neve che, seppur fosse rada, era bianchissima sotto i raggi del sole di quella che era una giornata tersa di fine inverno. Ad attenderli a poca distanza c’era il giovanissimo cacciatore cui l’assassino aveva salvato la vita sia nel suo incubo che nella realtà. Aveva i lineamenti più affilati del fratello maggiore e i capelli parecchio più corti ma a parte queste differenze la somiglianza tra i due non poteva essere contestata. Tuttavia, di primo acchito era Atená:ti a sembrare il maggiore, poiché era alto come lui e pareva avere un atteggiamento più serio e posato. Quando Connor si avvicinò, il ragazzo chinò il capo in segno di profondo rispetto – e probabilmente anche per nascondere l’agitazione che aveva per un attimo tradito il suo sguardo fermo.

«Niawenhkó:wa (*), Ratonhnhaké:ton.» lo ringraziò, con una solennità sorprendente per la sua età. «Sono molto dispiaciuto che la mia distrazione durante il combattimento abbia causato gravi danni alla tua salute. Nessuno può biasimarti se hai dei rimproveri in serbo per me. Spero solo che tu possa perdonarmi.»

«Skén:nen (*), Atená:ti.» gli disse Connor con un cenno, le labbra leggermente incurvate in un’espressione di comprensione. «Sono abituato a scontrarmi con i coloni e ho più esperienza di voi con le armi da fuoco. Non devi chiedermi perdono, se ho la possibilità di salvare una vita la sfrutto ed è un gesto che compio ben volentieri.»

Il ragazzo annuì e gli porse un avambraccio che l’assassino strinse, in segno di concordia.

«Eccoli dunque, i nostri valorosi giovani.» li raggiunse inavvertitamente una voce. I tre si voltarono verso il cuore del villaggio per vedere che una donna stava arrivando da loro reggendo un bastone nodoso più alto di lei. Doveva essere la Madre del Clan. Era decisamente più giovane di quella di Connor ma alcune ciocche delle sue due lunghe trecce nere avevano già cominciato a tingersi d’argento. Era piuttosto bassa di statura ma il suo portamento, oltre che tenerezza, suggeriva una salda autorità.

«Skén:nen, Oiá:ner (*).» la salutarono i fratelli, e con quel vezzeggiativo confermarono i dubbi di Connor riguardo al suo ruolo.

«Pace a voi, figli miei.» rispose la donna mettendo una mano sul braccio di Arahkwenhá:wi; poi si rivolse all’ospite con un lieve sorriso.

«Tu sei Ratonhnhaké:ton, vero?»

«Sì, Oiá:ner.» rispose Connor, e i due si strinsero reciprocamente gli avambracci.

«Arahkwenhá:wi e Atená:ti mi hanno raccontato del vostro scontro. Grazie a voi, la nostra alleanza con la nazione Ononta’kehá:ka si rinforzerà. E grazie a te, Atená:ti ha salva la sua giovane vita. Io e tutti i membri del Clan dell’Orso ti siamo riconoscenti, Ratonhnhaké:ton.»

Lui annuì con fare umile. «L’onore è mio.»

«Come ti senti ora?» si informò lei mentre faceva loro cenno di seguirla verso il centro del villaggio.

«Molto meglio rispetto ad altre volte. Le cure che mi sono state prestate stanno già dando ottimi risultati.» affermò il giovane sinceramente colpito dal fatto che non sentisse poi tanto dolore.

«Sono contenta di sentirtelo dire. Sai, quando i nostri due promettenti guerrieri qui presenti ti hanno portato qui, le tue condizioni erano davvero disperate. Ma, fortunatamente, abbiamo un’ottima guaritrice che ha saputo dominarle con maestria.»

«Otsísto, colei di cui ti ho accennato prima.» intervenne prontamente Arahkwenhá:wi.

«E l’irraggiungibile amore della tua vita.» lo prese in giro Atená:ti, contrapponendo l’atteggiamento canzonatorio tipicamente adolescenziale alla maturità dimostrata poco prima. Quelle parole – notò Connor – parvero rallegrare particolarmente la donna, la quale si mise addirittura a ridacchiare.

«Zitto un po’, tu.» lo redarguì l’altro, decisamente a disagio. «Oiá:ner, per quanto voglia apparire adulto, mio fratello è ancora un ragazzino e a volte è decisamente inopportuno. Ti chiedo di scusarlo.»

«Mio caro, so che non chiederesti mai la mano di mia figlia. Le burle di tuo fratello non mi offendono in alcun modo.» lo tranquillizzò la Madre del Clan. «Quanto a lei, ha uno spirito tanto amabile quanto indomabile: non saresti il primo e nemmeno l’ultimo pretendente ad essere stato rifiutato.» aggiunse sospirando.

Nel fulcro del piccolo centro abitato erano presenti frammenti di una vita molto simile a quella che ricordava Connor quando viveva a Kanatahséton. Bambini che si rincorrevano, le loro madri che andavano e tornavano dalle coltivazioni di pannocchie, donne che acconciavano pelli e le ricamavano e uomini che intonavano canti intorno al focolare. Forse era addirittura più piccolo del suo villaggio originario ma non per questo meno accogliente. Mentre guardava Arahkwenhá:wi sparire in una delle tre grandi capanne e Atená:ti raggiungere i suoi coetanei, il giovane avvertì una fitta di nostalgia e, prima che le memorie malinconiche della sua giovinezza lo sopraffacessero, si rivolse nuovamente ad Oiá:ner.

«Quindi Otsísto – la guaritrice – è tua figlia?»

La donna annuì. «La mia secondogenita. La più grande e mia erede diretta è Wahí:io, ma lei sta già costruendo la sua vita con suo marito e i loro due figli e spesso mi assiste nelle vicende che richiedono la mia attenzione. Invece Otsísto trova più soddisfazione ad andarsene a zonzo fuori dal villaggio. Non fraintendermi, la cosa non mi dispiace, non posso negare che alla sua età ero così anch’io. Tuttavia, se è tua intenzione ringraziarla e presentarti ufficialmente temo che dovrai aspettare che cali il buio, giacché è il momento del suo rientro.»

«Non è un problema.» disse l’assassino. «Prima di ripartire vorrei comunque avere il suo consiglio riguardo la mia convalescenza.»

«Saggia decisione.» convenne la Madre del Clan. «Sappi che per me puoi restare qui quanto vuoi, Ratonhnhaké:ton. Il fatto che tu abbia salvato e protetto uno dei nostri membri più giovani conta davvero tanto per noi. Ora ti prego di scusarmi, ho dei compiti importanti da svolgere. Ti lascio in compagnia di Arahkwenhá:wi.»

La donna si congedò proprio mentre il giovane indigeno stava tornando da loro, dopo essere uscito dalla tenda con un arco in mano, una faretra sulla schiena e un tomahawk alla cintura.

«Dopo pranzo io e mio fratello andiamo a caccia.» lo informò. «Te la senti di venire con noi e magari dare qualche dritta ad Atená:ti? Se parli tu, forse ascolta…!»

Connor distese le labbra in un lieve sorriso divertito. «Vi accompagno volentieri.»
 

***
 

I tre fecero ritorno quando il cielo e i pochi cirri che lo striavano si erano già tinti dei morbidi toni rosati del tramonto. Nel corso di quella splendida giornata di marzo inoltrato, la neve si era completamente sciolta e i primi fiori selvatici avevano cominciato a fare capolino tra l’erba rigogliosa. Mentre erano per strada, Connor respirò a pieni polmoni l’aria fresca che sapeva di pino e terra umida. Nonostante in quegli anni avesse dovuto privilegiare la vita sofisticata delle Colonie per motivi di comodità legati alla sua occupazione, il suo legame con la natura selvaggia in cui era cresciuto non era mai venuto meno. Anzi, ogni tanto sentiva la necessità di vivificarlo se non voleva rischiare di impazzire. Se toglieva la tenuta di Davenport, che lui stesso si era preoccupato di popolare e in cui aveva trovato un buon sostituto di Kanatahséton, non c’era altro luogo in cui si sentisse davvero a casa come le rigogliose e sconfinate foreste del Nord America.

Arrivati al villaggio, Atená:ti recapitò con fierezza le sue cinque lepri in una casa lunga perché fossero scuoiate mentre Arahkwenhá:wi portava con sé pelli e carni di cervo e caribù che furono subito messe ad arrostire assieme ad altre prede cacciate da altri uomini durante la giornata.

Pur non essendo molto in forma, Connor era riuscito a gestire molto bene il dolore derivato dalle sue lesioni, tanto da essere addirittura in grado di dare un paio di dimostrazioni ai due fratelli. Oltre che essere curioso di conoscerla, il giovane non vedeva l’ora di ringraziare Otsísto e complimentarsi con lei per le sue abilità in ambito medico.

Il momento in cui la intravide per la prima volta fu dopo che lui e Arahkwenhá:wi ebbero cenato, all’interno della casa lunga più grande. Il suo nuovo amico gli diede una leggera gomitata, indicando con la testa l’ingresso della capanna, da cui entrò una giovane indigena sorridente circondata da cinque o sei bimbi che la pregavano di raccontare loro una storia. Alla tenue e tremolante luce del falò non riuscì a distinguerne bene i tratti ma notò che, a differenza della maggior parte delle donne del villaggio, aveva i capelli sciolti e la chioma scura e liscia le ricadeva fino ad arrivare poco sotto al fondo schiena.

«Lei è Otsísto, la nostra stella più brillante.» asserì Arahkwenhá:wi con un lieve sospiro. Connor non poté fare a meno di pensare a quando il suo amico Norris gli aveva confessato il suo interesse nei confronti della loro giovane amica Myriam. Si ricordò anche del proprio travisamento a causa della sua ingenuità e della sua mancanza di esperienza in campo sentimentale, cosa che lo aveva messo in imbarazzo anche davanti a Prudence quando le aveva chiesto un parere riguardo ai gusti femminili in generale. Comunque, erano passati anni da allora e in quel momento si rendeva perfettamente conto dello stato d’animo dell’amico.

«Stamattina Oiá:ner ha detto che sa che non chiederesti mai la sua mano… Come mai?»

«Per una ragione molto semplice.» gli rispose l’altro vagamente amareggiato. «Faccio parte del Clan dell’Orso quanto lei. Lo sai, no? I membri dello stesso clan...»

«...non possono sposarsi.» finì per lui il giovane. «Mi dispiace.» aggiunse sincero, dopo una breve pausa. (*)

Arahkwenhá:wi fece spallucce. «Poco male, come ha detto Oiá:ner, probabilmente sarei stato rifiutato come l’altra mezza dozzina di ammiratori che si è fatta avanti. Siamo buoni amici e tanto mi basta.»

Connor annuì osservando la giovane, la quale stava narrando qualcosa ai piccoli del villaggio seduta su una delle panche di legno dal lato opposto rispetto a loro.

«Sai, abbiamo la stessa età, siamo entrambi nati nell’anno dei bianchi 1761.» riprese il guerriero. «Quando eravamo bambini, noi maschi volevamo sempre che giocasse con noi perché era molto brava ad inventarsi storie d’avventura e tutti noi adoravamo quando le raccontava. Oiá:ner non era propriamente contenta ma le diede comunque il permesso di stare insieme a noi fino a quando non fu celebrata la nostra entrata nel mondo adulto. Allora noi maschi cominciammo a cacciare e lei si dedicò all’assistenza dei malati e dei feriti.»

Mentre l’assassino ascoltava le ultime parole, vide Otsísto terminare anch’ella il suo monologo. Salutando i bambini e accarezzando la testa di quello più piccolo, che avrà avuto sì e no tre anni, la giovane si alzò e si lisciò i vestiti bordati di pelliccia. Infine, spostò lo sguardo su di loro e li raggiunse, sorridendo appena.

«Shé:kon (*), impavidi combattenti.» li salutò con un brio non comune per una Mohawk ormai adulta.

«Skén:nen, amica mia.» le rispose Arahkwenhá:wi alzandosi e stringendole l’avambraccio.

Connor, alzatosi anche lui, chinò il capo. «Niawenhkó:wa, Otsísto. Il mio nome è Ratonhnhaké:ton. Mi complimento per le tue doti, raramente mi è capitato di ricevere delle cure così efficaci. Troverò un modo per sdebitarmi.»

La giovane gli strinse la mano con un sorriso luminoso in volto. «Skén:nen, Ratonhnhaké:ton. Il tuo nobile gesto ripaga di gran lunga sia i miei sforzi che la tua permanenza qui. A proposito, con il tuo permesso vorrei andare insieme a te nella capanna in cui ti abbiamo sistemato e dare un’occhiata alle ferite. Stamattina avevano già un bell’aspetto rispetto a ieri ma cionondimeno, non vanno trascurate.»

Connor concordò e, dopo aver fatto un cenno di saluto ad Arahkwenhá:wi, la seguì fuori.

«Non so se il nostro amico te lo ha fatto presente ma sul luogo del combattimento Atená:ti ha ritrovato un libro.» lo informò Otsísto quando furono arrivati, indicando una scaffalatura. «L’ha consegnato a me e io l’ho appoggiato là, su quel ripiano che vedi vicino al tuo giaciglio. Ho dato uno sguardo veloce alle pagine e ho visto che erano scritte in inglese, quindi non so se sia tuo. In ogni caso pare che non si sia rovinato nulla.»

Il giovane capì dalla consunta rilegatura in pelle scura che si trattava del diario di suo padre. «Sì, è mio, grazie per la premura.» disse sollevato e colpito dal suo acume.

«Quindi sai l’inglese? E soprattutto leggerlo?» le chiese mentre si spogliava della parte superiore della sua uniforme di assassino.

«Non posso dire di conoscerlo perfettamente ma me la cavo.» rispose lei con modestia, rimboccandosi le maniche e cominciando ad armeggiare con la fasciatura. «Quando avremo più tempo a disposizione ti racconterò un po’ meglio. Adesso vado di fretta, uno dei nostri anziani ha bisogno della mia assistenza.»

«Certamente.»

Connor si stese e lasciò che Otsísto si concentrasse; dopo aver valutato velocemente le sue lesioni, la giovane prese mortaio e pestello e in silenzio cominciò a triturare alcune erbe per fare un impacco.

Adesso che ce l’aveva più vicina riusciva a scorgere i dettagli del suo viso: aveva lineamenti piuttosto aggraziati, come il piccolo naso leggermente a patata, le labbra lievemente carnose e gli occhi vispi vagamente arrotondati che, alla luce ondeggiante del piccolo falò vicino a loro, scintillavano nel loro castano scuro. L’assassino non faceva fatica a credere che fossero stati in tanti a proporle il matrimonio; non solo era di bell’aspetto ma tramite il suo garbato modo di fare e il suo sguardo penetrante emanava un fascino particolare.

Fino a quel momento, come gli era capitato di spiegare tante volte ai suoi conoscenti, non aveva preso in considerazione l’idea di avere una famiglia sua. Era stato – ed era ancora – troppo impegnato in incombenze che avevano reclamato il massimo della sua attenzione. E poi nessuna donna tra tutte quelle che aveva incontrato aveva mai destato in lui un interesse che andasse oltre la semplice amicizia. Forse solo la sua consorella Aveline ma, aiutandola nella sua missione, aveva capito che con lei una relazione stabile non avrebbe potuto funzionare.

Ad ogni modo quel turbinio di pensieri fu frenato dalla consapevolezza che aveva ancora dei compiti da svolgere che richiedevano la sua presenza altrove.

Quando Otsísto ebbe finito e se ne fu andata, Connor si alzò e si affacciò per un po’ dalla tenda, ascoltando l’aria frizzante che a tratti ululava, passando le sue dita tra il giovane fogliame degli alberi. Sollevando lo sguardo, vide che il cielo si era annuvolato, coprendo quasi completamente il sottile spicchio di luna presente. Un’unica stella spiccava in uno spazio ristretto di firmamento e splendeva in tutta la sua palpitante luminosità azzurrina (*). Il giovane le sorrise appena; poi guardò con una strana sensazione di piacevole nostalgia le case lunghe al centro del villaggio, ove i fuochi erano accesi e le ombre al loro interno suggerivano la presenza di una vita tranquilla e serena, sopravvissuta alla corruzione portata dalla guerra d’indipendenza in quegli ultimi anni.

Non sapeva definire quanto gli fosse mancato stare in mezzo alla sua gente.


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Un po’ più lunghetto del primo ma quando si introducono nuovi personaggi e al contempo si vuole descrivere un minimo l’ambiente e i pensieri dei personaggi diventa difficile essere sintetici…!

Prima di passare alle note e le traduzioni delle parole Mohawk, mi vorrei soffermare sui nomi dei nuovi personaggi, da me scelti dopo una meticolosa ricerca in modo che fossero verosimili dal punto di vista culturale.

Arahkwenhá:wi (pr. A-rah-qua-nhá-ui), ossia "colui che porta il sole". Ho pensato che rispecchiasse perfettamente il carattere amichevole e, come ho fatto presente tramite i pensieri di Connor, volevo che gli ricordasse un po' il suo migliore amico. Quindi i vecchi tempi. Quindi i feels. Perché penso di non essere stata l'unica che aveva le lacrimuccia pronta a sgorgare quando Connor ha dovuto uccidere Kanen'tó:kon. Maledetto Charles Lee che glielo ha rivoltato contro.

Atená:ti (pr. A-de-nà-di), oltre che essere un nome proprio è il termine Mohawk per definire l'alce o il caribù, i quali sono simboli di resistenza.

Otsísto (pr. O-zì-sto), significa "stella". Da qui il titolo e anche i molteplici riferimenti poetici all'interno della storia. Intanto che parliamo del titolo, ci tengo a precisare che il nome Mohawk del nostro caro Connor non ha nulla a che fare con il lupo (Ratonhnhaké:ton infatti significa "egli ha una vita piena di graffi") ma questo è l'animale a cui lui viene associato più di frequente, nonostante l’aquila rimanga l’icona principale degli Assassini. E comunque il nome Connor, significa "amante dei cani".

Wahí:io (pr. Wa-ì-o), se ho capito bene significa "buon frutto". Sinceramente, l’unica cosa che mi interessava era dare un nome alla sorella maggiore di Otsísto.

 

(*) Note

- “Ononta’kehá:ka” (pr. O-nun-da-khe-há-ga) è il termine Mohawk per indicare la tribù Onondaga, una delle sei nazioni della Lega irochese assieme a quelle Mohawk, Cayuga, Oneida, Seneca e Tuscarora.

- I clan si possono definire a grandi linee come grandi famiglie all’interno di una tribù. Essendo le Sei Nazioni basate su un sistema matriarcale, ciò che stabilisce a quale clan un individuo appartiene è l’ascendenza materna (es. se la madre è del Clan del Cervo, anche il figlio o la figlia saranno del Clan del Cervo e così via). I clan dei Mohawk erano originariamente tre: quello del Lupo, quello dell’Orso e quello della Tartaruga. Due membri dello stesso clan, anche se non sono consanguinei, non possono unirsi in matrimonio poiché è considerato incesto (questo vale anche tra clan di diverse nazioni, quindi ad esempio un Mohawk del Clan dell’Orso non si può sposare con un Oneida del Clan dell’Orso). Ergo, nemmeno l’ombra di una speranza per il nostro povero Arahkwenhá:wi, come immagino si sarà capito. Non sono sicura se sia peggio questo o la friendzone!

Nel background di Connor non viene specificato a che clan appartiene ma mi sono permessa di supporre che potesse far parte del Clan del Lupo. Quindi lui una speranza ce l’avrebbe…

- Quello della stella non è un riferimento puramente casuale: ho pensato a Sirio, l’astro più luminoso del cielo, nonché una delle stelle della costellazione del Cane Maggiore. Vi dirò di più, molti dei popoli Nativi Americani associavano Sirio, oltre che ad un cane, anche ad un lupo o ad un coyote. Tutto torna…!

 

(*) Parole in Mohawk

Niawenhkó:wa (pr. Nia-uan-kó-ua) = grazie infinite (“grazie” = Niá:wen, pr. Niá-uan)

Skén:nen (pr. Skén-nan) = pace

Shé:kon (pr. Shé-gon) = salve, ciao

Oiá:ner = Madre del Clan (termine informale). Non è un nome proprio, solamente un titolo.

  
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