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Autore: Tagge14    17/02/2019    0 recensioni
La storia (a mio parere di genere fantasy, avventuroso e pseudo-storico) si incentra sulla lotta attorno al potere della famiglia dei Galluzzi nella loro quasi omonima Signoria Unica del Galluzzo: una profetessa che si spaccia per colei che fuggì dalla Signoria ottant'anni prima (ma sarà veramente la stessa persona?) preannuncia alla Galluzzi al potere nel 1416 la fine della sua famiglia e della sua dinastia. All'arrivo del giovane Neusarco di Augusta sembra che, tra colpi del caso e volontà umane, la profezia in questione inizi ad avverarsi all'insaputa di Neusarco stesso, che finirà per essere assorbito dagli intrighi locali. All'insaputa dei Galluzzi, di coloro che li sostengono e di coloro che si ribellano a loro, però, i più improbabili e impensabili membri della stessa famiglia dei Galluzzi tramano, volontariamente o meno, per rovesciare la propria stessa famiglia. L'epilogo dovrà essere un paradossale scontro interno per risolvere le questioni esterne.
Ispirazione storica liberamente reinterpretata con elementi di avventura, di magia, di fantasy e forse (sperabilmente) anche qualche spunto di riflessione.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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PROLOGO GENERALE AL NIGHTMARE
 
Galluzzo,
Signoria Unica del Galluzzo,
quarto giorno del mese secondo dell’anno 1416
 
Solitamente, la piazza era piena soltanto al mattino, quando il mercato giornaliero richiamava gli abitanti più giovani e più vecchi del paese a quell'attività quotidiana che era il comprare pane, verdure, frutta, gonne, camicie, cappe, mantelli, cappelli, vasi, brocche, piatti, qualche monile, qualche anello di ceramica dipinto con finto oro e finto argento, qualche decorazione per le altrimenti scarne stanze delle case. Solitamente, nell’aria echeggiavano unicamente i nitriti dei cavalli e i belati delle pecore e i prolungati muggiti delle mucche e dei buoi venduti al secondo mercato locale, quello sito in prossimità della foresta e retrostante alla piazza principale in cui si svolgeva il mercato di ogni cosa che non fosse animale e ancora viva. Solitamente, lungo i quattro lati del quadrato che la principale piazza paesana era, cavalli, muli, asini, carri, carretti e piedi si avvicendavano, dirigendosi o verso la grande città a quattro miglia dal paese oppure verso le parti più isolate del paese stesso o, ancora, verso località e villaggi minori che gli stavano attorno. Solitamente, l'aria era piena soltanto delle urla dei venditori, delle risate sguaiate di chi era troppo allegro, del sommesso mercanteggiare di chi voleva guadagnare o risparmiare una moneta di bronzo in più, del lieve mormorio di racconti tra conoscenti o parenti, di concitati aggiornamenti tra amici. Solitamente, pochi facevano caso all’obelisco di pietra che commemorava il passato del paese, e ancora meno persone si interessavano veramente al grande tempio che si trovava a qualche passo di distanza dalla piazza, imponente al di sopra di una decina di gradini di pietra, fiero di sé stesso nonostante l'incuria decennale. Solitamente, al pomeriggio, entrambe le piazze del paese, quella in prossimità della foresta e quella centrale antistante al tempio, erano vuote, così come le strade del paese e quasi ogni parte dell’intero Galluzzo suonavano silenziose, con poche persone che passeggiavano qua e là. A questo punto, quando i discorsi erano più liberi e meno impegnati da contrattazioni materiali, gli sguardi che erano lanciati al monumento e al tempio erano carichi di rammarico, rigonfi di rimpianto, tristi nel loro mutismo: alle parole che era vietato dire si sostituivano pupille che, sebbene eloquenti, erano altrettanto mute. Le conversazioni erano poche. La sera, invece, il paese sprofondava in un silenzio assoluto: vuotissime e silenziosissime le vie, e solamente le luci che si intravedevano attraverso le finestre e le tende ai vari piani delle case lasciavano capire che si trattava di un paese abitato, non di uno deserto. Ma la gente sapeva, certamente meglio di come non potesse dire, che quel paese era allora l'ombra di quello che era stato un tempo, e che i suoi abitanti erano i ben miseri, scabri fantasmi di persone morte ormai decenni prima. E il passaggio dei signori del luogo lo rendeva evidente: tutti guardavano senza vedere, chiunque pensava involontariamente cose che volontariamente sopprimeva, nessuno parlava, mentre il vuoto che si apriva al passaggio dei signori era l'equivalente di un rispetto soltanto formale, obbligatorio e temuto.
Tutto questo era solitamente… Ma non quel giorno.
Quel giorno, dal primo, tenue albeggiare fino alle oscure profondità della notte inoltrata, gli abitanti del paese mormorarono meno sommessamente del solito, e nei loro occhi si accese una scintilla di vita che Asilche Galluzzi notò benissimo. Il pomeriggio, la piazza si riempì di persone di ogni età, i campi si svuotarono, le taverne, le stalle, i negozi pure; la sera, a dispetto delle apparizioni degli armigeri e del silenzio che nasceva al loro passaggio e moriva alla loro scomparsa, l'eco del parlottio in strada si spense soltanto quando Asilche Galluzzi contemplò l'undicesimo mozzicone di candela che si spegneva davanti al suo sguardo vigile e attento.
Figura seduta dietro una bassa scrivania di legno chiaro, con libri impilati nell'armadio alle sue spalle e vari rotoli di pergamena accatastati sia sul legno sia a fianco dei libri, Asilche Galluzzi fissava impassibile la candela di fronte a sé, concentrata al massimo delle sue possibilità sul suo spegnersi per contare quanto tempo fosse trascorso dall’inabissarsi del sole in uno sfolgorante tramonto. Lo sguardo della ragazza, tuttavia, era così concentrato, così penetrante, così fisso, così distaccato che si sarebbe detto che non il trascorrere dei minuti e il consumarsi della cera, ma piuttosto che i suoi occhi freddi fossero la causa dello spegnersi di quelle candele che inesorabilmente Asilche Galluzzi accendeva una dopo l’altra, candele che una dopo l’altra inesorabilmente si spegnevano, dopo essersi agitate di fronte alle sue agghiacciate pupille ed essersi riflesse nelle sue iridi scure, illuminandole col riflesso di scintille che si contorcevano sullo stoppino. Tra la candela che scaldava la Galluzzi e la stanza, l’unica fonte di luce là dentro, e la Galluzzi stessa si trovava una bisunta pergamena su cui era stata tracciata la pianta del paese. Asilche Galluzzi l’aveva guardata a lungo, poi si era concentrata unicamente sulle candele e non aveva più degnato di uno sguardo che fosse uno quelle sottili, nere linee d’inchiostro.  Entrando, Strengh Grugnoduro notò immediatamente l'espressione indifferente e le labbra serrate che la concentrazione aveva stampato sul volto di Asilche Galluzzi. La ragazza sembrava assorta in sé stessa a tal punto da aver dimenticato il Galluzzo e le sue questioni, si disse il capo delle sue guardie del corpo… Ma, notando l'insistenza con cui la sua giovane padrona portava le dita della mano destra a combaciare con quelle della mano sinistra, una scala ripetuta e impegnata che si frapponeva tra la Galluzzi e la candela che in quel momento bruciava, Strengh Grugnoduro comprese che la sua giovane padrona era agitata e, dicendosi che non lei lo avrebbe meritato, bensì i Galluzzi che l’avevano preceduta, Strengh sentì il cuore battere un colpo in più dentro al petto.
«Qual'è il loro problema, oggi? Cosa hanno di cui discutere così tanto per tutto il giorno?». La voce di Asilche Galluzzi era controllata come al solito, ma si concedeva di lasciar trasparire una punta di fastidio.
Strengh Grugnoduro fece un passo in avanti e si schiarì la voce.
«Asilche, sono eccitati. E ansiosi».
«Perché?». La ragazza socchiuse le palpebre. Il soldato, guardandola, la trovò inquietante: composta, autocontrollata, seria, attenta, rigida, ma tuttavia nervosa ed evidentemente tesa, gli ricordava un giudice che ostenta un'implacabile indifferenza nel condannarti a morte.
E Grugnoduro sapeva bene che Asilche Galluzzi non era la persona che amasse sentire giri di parole o evidenti bugie. Uno dei suoi detti preferiti, si ricordò nel risponderle, era “via il dente via il dolore”. Dunque raccolse il proprio coraggio, si schiarì la voce e rispose con l’atteggiamento più tranquillizzante che riuscì a mostrare. «Hanno ricevuto una notizia».
«Quale notizia?».
«Pare che la sacerdotessa sia ricomparsa».
Asilche Galluzzi chiuse del tutto gli occhi. Portò entrambi i pollici sulla fronte, un gesto di pacata fermezza e di evidente disappunto, secondo quanto ne sapeva Strengh.
«Profetessa, Strengh».
Quest’ultimo aggrottò la fronte. «Come dici, Asilche?...».
«Dico che quella donna era una profetessa, non soltanto una mera, volgare, plebea sacerdotessa».
«Beh, – Il capo delle guardie della Galluzzi, una persona fin troppo pragmatica che diffidava di religione e sacerdoti fin da quando riuscisse a ricordare, roteò gli occhi verso il soffitto e borbottò. – sacerdotessa, profetessa… Non è che poi ci corra così tanta differenza…».
«Ce n’è anche troppa, Strengh. Cos’altro stai borbottando? Questa tizia è tornata, e poi…? È chiaro che devi dirmi altro, quindi dimmelo».
«Beh… Diciamo che è tornata e che… che pare che abbia… sai… – Strengh si schiarì ancora la voce. – Ecco… ripreso a profetizzare».
Silenzio.
«E cosa dicono queste sue profezie?».
«Una soltanto, Asilche… almeno per ora. Quanto al contenuto, tutti i Galluzzini si sono ben guardati dal riportarlo di fronte ai miei uomini. Quello che ti ho appena detto è il risultato dei mormorii che siamo riusciti a raccogliere, delle conversazioni che abbiamo interrotto integrandole con altre intercettate qualche metro più avanti».
«Si sa dove si trovi questa dannata donna?».
«Nessuno lo ho detto, Asilche. Sono spiacente».
Tacquero entrambi: Strengh stava in attesa di un ordine, Asilche in attesa di un'idea. La stanza pareva riecheggiare e amplificare un silenzio carico di aspettativa e di tensione, di preoccupazione e di ansia. Tutti e due sapevano che cosa quel ritorno poteva significare, e non era qualcosa di buono. Non per i Galluzzi.
E, alla fine, la giovane si alzò.
«Andiamo da lei» dichiarò con tono determinato e sicuro di sé, il tono di chi deve saper comandare sé stesso prima di poter comandare gli altri.
Grugnoduro sgranò gli occhi.
«Cosa?». Tono, al contrario, stupito, preoccupato, spaventato.
«Il suo ritorno non significa niente per noi».
«Ma Asilche!, sappiamo che…!».
«Il suo ritorno non significa niente. – Era una statua a parlare, non una persona: una statua costituita da uno sguardo freddo, da una voce fredda, da un’espressione fredda. La candela sulla scrivania ebbe un tremito. Forse, si disse Strengh Grugnoduro, anche il suo calore era stato avvolto dalla ghiacciata freddezza che la Galluzzi doveva ostentare. – Al contrario di come tutti pensano, compreso tu, Strengh. Per dimostrarlo, però, non dobbiamo aver paura di andare da lei, non come lei ne ha di mostrarsi a noi. Quanto a quello che si è favoleggiato decenni e decenni fa sul ritorno di questa persona, sono favole, appunto: nient’altro».
«Ma non abbiamo idea di dove stia questa donna! Come pensi di trovarla?».
«Andremo dove era solita stare prima che sparisse».
«Non abbiamo la certezza che sia lì».
«Non abbiamo neppure la certezza che non ci sia».
Asilche Galluzzi e Strengh Grugnoduro uscirono con una piccola scorta nel cuore della notte: loro due e altri tre armigeri. La ragazza non voleva attirare attenzioni indesiderate con l’acuto sferragliare di troppe spade su troppe cotte, col tramestio di troppi zoccoli di troppi cavalli, con troppi sbuffi di troppe loro froge, con i sobbalzi di troppi uomini sulle selle che riecheggiavano nel buio silenzio del Galluzzo. Fino ad allora, la scorta era stata soltanto una facciata, una dimostrazione del potere dei Galluzzi, e nulla di più, e Asilche Galluzzi sperava sinceramente che tale sarebbe rimasta, dal momento che il contrario avrebbe significato che il potere della sua famiglia era sul punto di essere compromesso. A quell'ora, il paese era silenzioso, buio, vuoto come sempre, un luogo in cui abitavano spettri di persone, non esseri viventi; e i Galluzzi erano ben contenti di dominare su fantasmi, rifletté Asilche, se questo implicava avere ordine, controllo e influenza sulla situazione. Le stelle sopra la testa del piccolo gruppo risplendevano in un manto di tenebra, piccoli, scintillanti occhi lontani che rammentarono alla ragazza una serie di occhi molto più vicini, occhi che, allo stesso modo, vivevano da anni nelle tenebre dell'oblio e della sottomissione.
«Mia signora?...». Grugnoduro era incerto.
«Sì?...».
«Tu pensi veramente quello che hai detto prima?... Che questa donna non ci causerà problemi?».
«Non ho detto questo: ho detto che non dobbiamo temerla. È diverso».
«Asilche, quasi cento anni fa disse...».
«Che sarebbe tornata e che ci avrebbe cacciati, certo; e ora ritorna. Ma non è molto coerente: disse che sarebbe tornata presto, e sono passati cent'anni; disse che si sarebbe vendicata su chi l'aveva cacciata, e mio nonno è felicemente morto e sepolto dal 1374».
«Ma disse anche che sarebbe tornata lei e, in effetti, ha mantenuto la parola».
«Questo non lo sappiamo, Grugnoduro. Sappiamo solo che è tornata una donna e che costei dice di essere una profetessa: è stato il popolo a pensare che questa sconosciuta sia quella che se ne andò decenni e decenni fa. E se tu dai credito a questa cosa, tu che stai dalla nostra parte, immagina quanta fiducia possano dare ad una simile diceria quelli che sono contro i Galluzzi. Gli esseri umani tendono a dare per certo quel che desiderano, scrisse qualcuno che inizia per T. Quanto al fatto che non sia venuta a minacciarci apertamente, di persona... Un atteggiamento del genere può essere eloquente su diverse cose: o non è lei e non vuole mostrarlo, o è lei più vecchia e più impaurita, oppure, ancora, vuole studiarci a distanza e vedere che cosa faremo. Qualunque sia la verità, il fatto che noi adesso stiamo andando lì chiarirà diverse cose: se sia lei, se sia un'altra persona, in ogni caso capiremo chi dobbiamo temere… – Scosse la testa. – Se c'è davvero qualcosa da temere».
Il gruppo continuò a cavalcare senza rumore: il mondo, non soltanto il paese, pareva immerso in un silenzio irreale, in una specie di limbo tra notte e alba, tra oscurità e luce, tra passato e futuro. In quel limbo buio della notte, dopo una giornata di incertezza per i governanti e di respiro per i governati, si decideva chi, nella luce del giorno successivo, sarebbe stato più forte dell'altro: se i Galluzzi, spalleggiati dalla propria forza e dai propri uomini, oppure la profetessa di culti ormai remoti, con il popolo dalla sua.
«La religione è ciò che rovina sempre» borbottò Grugnoduro con tono frustrato.
«Vero. – Asilche Galluzzi annuì. – Tuttavia, in qualcosa si deve pur credere». Se non in un dio, aggiunse tra sé, in un altro essere vivente, in un'ideologia, in sé stessi, in un sogno, in una speranza; si può togliere all'uomo la divinità, ma non il bisogno della divinità.
Scesero per Via del Podestà, che prendeva il nome dalla presenza del palazzo dei governatori, e proseguirono lungo la schiena della strada che quasi si piegava su sé stessa in una discesa spigolosa che rischiava di rovinare in un irregolare rotolare di cavalli e di persone, una discesa tanto difficile quanto la salita era ardua e faticosa. Il gruppetto sboccò nella piazza principale, svoltò a destra, andò dritto verso quel grande tempio che un pomposamente fiero e soddisfatto Rokche Galluzzi aveva dato alle fiamme quasi cento anni prima. Giunti davanti al tempio, la figlia del figlio di quel violento Galluzzi smontò da cavallo con un elegante, agile salto.
«Mia signora, guardi là». Un soldato indicò avanti piegando la sua lunga lancia: nell'oscurità della notte, sotto stelle troppo lontane per illuminare a dovere gli uomini in basso, si vedeva una luce, immobile, fissa, tuttavia vaga, che brillava dall’interno del tempio, al di là della porta per metà bruciata e per metà divelta.
«Una lanterna. E piccola, per giunta» asserì Grugnoduro.
«È lei. E sapeva che saremmo venuti». La Galluzzi aveva una voce più sicura del solito: la sua consueta abitudine alla deduzione e l'ostentazione della certezza la portavano a questo, ma stavolta, non era estraneo l’intervento di una vaga sensazione inconscia ed irrazionale. Certamente quella sorta di grande cadavere di pietra bruciato da suo nonno non metteva a proprio agio la nipote dell’incendiario.
Strengh Grugnoduro diede di sprone, balzò sui gradini consunti del tempio, ne risalì alcuni e, ancora a cavallo, si fermò qualche metro avanti alla padrona, di traverso sullo scalone grigio, fissandola negli occhi.
«Se sapeva che saremmo venuti, ha fatto a tempo anche a prepararci un agguato».
«Questo vuol dire che non dovrei andare?».
L'altro annuì.
«Esattamente questo, mia signora».
La ragazza rimase immobile qualche minuto, poi scosse la testa. Estrasse un pugnale, ammiccando verso il suo capo delle guardie, che, per quanto poco convinto, fece una smorfia sia di approvazione sia di rimprovero; anche il resto del gruppo si armò silenziosamente, e, con i sensi all'erta e le armi in pugno, la Galluzzi e gli armigeri, smontati da cavalli al pari di Grugnoduro, si avviarono verso la luce oltrepassando il portone distrutto e scalcando assi, panche, pietre, colonne, statue rovinate a terra e perse nell’oblio della polvere e dell’inutilità.
Impiegarono qualche minuto. La luce doveva averli sentiti, certamente: gli zoccoli dei cavalli sfregavano contro la pietra del pavimento e la notte era silenziosissima. Pur tuttavia, quella lanterna rimase immobile e non si degnò di avvicinarsi: rimase dove stava.
Abituato da anni ad un atteggiamento molto più rispettoso nei confronti della famiglia che serviva, Strengh represse a fatica una vivace protesta contro la figura di donna alta e magra che si stagliò loro davanti, qualche metro più sopra, quando il gruppetto ebbe raggiunto il centro del grande tempio. Gli occhi della profetessa e quelli del soldato si incrociarono alla fievole luce delle lanterne che tutti quanti portavano: apatici i primi, irati i secondi.
Per brevissimi e tuttavia lunghissimi secondi, nessuno aprì bocca e un imbarazzato, teso silenzio stagnò loro attorno come una pesante cappa di divisione e di astio reciproco.
«Ci rivediamo, quindi» esordì Asilche Galluzzi dopo un po'.
«Noi non ci siamo mai viste» ribatté l'altra, rivelando una voce bassa appena udibile. Meglio, pensò la Galluzzi: solitamente, un tono sommesso è sinonimo di carattere chiuso o debole.
«Giusto. Eppure, mi hanno parlato tantissimo di voi».
«E molto bene, immagino».
«Mio nonno parlava meglio persino della sua gatta».
«Vostro nonno è stato uno spaccone, anche se ammetto che aveva delle doti e un certo carisma. È un peccato che abbia deciso di farne un uso errato».
«Fu la vostra congrega di visionari a dire a mio nonno che i Galluzzi avrebbero guadagnato il potere assoluto».
«No. – La sconosciuta scosse la testa e assunse il tono di voce di chi spiega ad un bambino qualcosa di ovvio, il qual tono irritò molto l'animo orgoglioso e testardo di Asilche. – Gli fu detto che sarebbe salito al potere se si fossero verificate certe situazioni. E qui sta la causa della vostra rovina: la vostra stessa origine, perché, così come siete indecorosamente saliti, così indecorosamente scenderete… Qui sta l’errore d vostro nonno e la vergogna della stirpe che è uscita dal suo seme: l’aver forzato gli eventi, l’aver stuprato il destino, l’aver forgiato il proprio futuro in una fornace alimentata dalla legna insanguinata col sangue di innocenti».
Asilche Galluzzi percepì dapprima la propria bocca stirarsi in un sorriso, poi le proprie labbra aprirsi in un ghigno, infine la propria gola esplodere in una risata spontanea e potente, quasi sguaiata. Tutti quanti, persino Strengh, persino la profetessa, persino il cavallo di Asilche, sobbalzarono. Ma Asilche Galluzzi non poté impedirsi di scoppiare a ridere, con alcune calde lacrime che le scendevano dagli occhi lungo le guance.
«Avreste dovuto fare la scrivana o la scrittrice, chiunque voi siate, non la profetessa! Vi rendete conto di quello che avete appena detto?».
La sconosciuta si risentì visibilmente, e il fastidio suonò palese anche nel tono seccato e offeso con cui replicò. «So perfettamente quello che ho detto. E lo ripeterei, se solo servisse a farvelo capire meglio… Ma dubito, perciò non ho intenzione di sprecare il mio fiato».
«Avete ragione, vi serve per insultare la mia famiglia di fronte a un popolo tanto adorante nei vostri confronti quanto ossequioso nei confronti dei Galluzzi… – Asilche Galluzzi si asciugò le lacrime col dorso della mano. – Ora smettiamola di perdere tempo e ditemi chi siete voi e che cosa volete qui e da me. Sappiate fin da ora che io non sono una plebea popolana capace di credere che una persona possa vivere per quasi cent’anni senza invecchiare, e sappiate che io non sono così stupida da non sapere quello che altri sembrano essersi dimenticati, cioè che chiunque abbia visto viva la profetessa Jouked nel 1330 ormai è morto e non può dirci se e quanto assomigliasse a voi».
La presunta profetessa Jouked sorrise. «Vedo che vi piace parlare chiaro. Bene. Parlerò chiaro anche io. E vi dirò che voglio che voi rinunciate al vostro potere e ve ne andiate dalla Signoria Unica del Galluzzo. La vostra famiglia ha tiranneggiato queste campagne per troppo tempo».
«Avete proprio un animo nobile, chiunque voi siate. Immagino che, dopo esservi presa la briga di cacciare noi Galluzzi, avrete anche la nobiltà d’animo di governare in nostra vece per impedire che qualche nobile indegno come noi si accaparri il potere».
«Se sarà necessario, io e altri sacerdoti e sacerdotesse assumeremo quel potere che voi Galluzzi avete svergognato».
«Se sarà necessario, dite?... Non fingiamo di non sapere tutti quanti che voi farete il modo che diventi necessario, o che quantomeno lo appaia… Anche perché, in quanto unica profetessa tra tanti sacerdoti, voi avreste comunque il grado più alto e dunque il potere maggiore… – Asilche Galluzzi sospirò. – Chi siete davvero?».
«Io sono Jouked, profetessa della dea Filìa».
Asilche storse la bocca. «E io sono il mio cavallo e ogni mattina mi alzo nelle stalle e faccio colazione col fieno. – Alle sue spalle, Grugnoduro e i pochi soldati che erano con loro ridacchiarono. – Vi aspettate davvero che io ceda così facilmente il potere che la mia famiglia conserva da decenni?».
«Beh, no… Ma volevo darvi la possibilità di dimostrarvi ragionevole».
La Galluzzi ebbe un moto di stizza che non volle reprimere: strinse le redini, serrò le mascelle, ebbe una scintilla di furia che le brillò negli occhi più luminosa della torcia che Strengh teneva alzata sopra la testa di Asilche. «Non fatemi ridere, dannazione! Né io, né i miei uomini né la mia famiglia ci muoveremo dal nostro posto. E perché, poi, dovrei ubbidirvi? Per rispetto verso divinità in cui non credo? Per timore di una persona che non conosco e che, a quanto vedo, si sta armando unicamente di parole forbite e di dotte metafore?».
«Ditemi, allora: se siete tanto intelligente quanto evidentemente pensate di essere, se avevate capito quello che vi avrei chiesto e non avete mai avuto intenzione di concedermelo… Perché siete venuta a incontrarmi?».
«Sono venuta per vedere chi e come siete. Sono venuta per sentire la vostra voce. – Asilche Galluzzi fissò le proprie iridi in quelle altrui con una determinazione tanto forte da sembrare tangibile e concreta. – Sono venuta per guardarvi in faccia, profetessa Jouked… Profetessa Jouked, o chiunque voi siate: mi piace guardate in faccia la gente, sia quando le parlo, sia quando la sfido, sia quando la sconfiggo».
La donna sorrise. Alzò la lampada ad illuminare un volto incorniciato da capelli neri, lisci e lunghi fino a metà schiena; la pelle era bruna, il fisico slanciato, gli occhi scuri. Il sorriso, invece e a dispetto di tutto, era sincero; una sensazione di fastidio attanagliò lo stomaco di Asilche, quando si rese conto che era anche così caloroso da spingere una parte di lei a desiderare di risponderle con un sorriso altrettanto vero. Nel complesso, quella figura che la distanza, l’altisonante titolo di “profetessa” e un’occhiata superficiale facevano sembrare una donna appariva in realtà come una ragazza, neppure più vecchia della Galluzzi che comandava la Signoria Unica del Galluzzo.
«Molto bene. Io, invece, voglio dirvi ancora un’altra cosa».
«Che cosa? Che cadrò assieme alla mia famiglia, e pure molto in basso? – Asilche scoppiò in una risata che concretizzò tutta la sua sicurezza e tutto il suo disprezzo. – Questo me lo avete già detto, grazie».
«Alle divinità piace essere giuste, mia signora, e per questo quella che io servo vuole darvi la possibilità di capire».
«Capire che cosa?... I miei errori?... La vergogna di cui si sono macchiati i Galluzzi che mi hanno preceduto?... Non sperate di convertirmi alle vostre assurde idee».
«Non è questo lo scopo della mia presenza qui. Fra l’altro, potete mettere giù quelle armi: le mie parole non possono ancora ferirvi, e qua attorno non c'è nessun'altro».
«Molto bene. – La Galluzzi fece un cenno ai suoi. – Tenete pugnali e spade ben puntati contro questa ciarlatana».
La ragazza scosse la testa con rassegnazione e, con rassegnazione, parlò.
«Mia signora, non riesco a capire se la vostra diffidenza è dovuta al carattere che avete, all'educazione che vi è stata impartita o al ruolo istituzionale che ricoprite».
«Probabilmente a tutti e tre i fattori. E ora ditemi che cosa avete da dire, e poi buonanotte. Vorrei tornare al caldo del mio letto per riflettere sull’ignobile modo in cui mio nonno stroncò la rivolta di quella Jouked, quella vera, che era ciarlatana al pari di voi».
Colei che si autoproclamava Jouked alzò un sopracciglio. «Siete davvero così convinta che vostro nonno non commise un errore, quando agì come agì, oppure è solo apparenza? Prego Filia che sia apparenza, altrimenti il vostro cuore è tanto duro quanto quello dei vostri avi». Il suo sorriso si incrinò un poco quando parlò.
«Cosa penso di mio nonno non è cosa che riguarda qualcuno al di fuori di mio nonno, e caso vuole che lui sia morto e non possa ascoltarmi. Posso però dirvi che apprezzo la sua intelligenza. – Asilche Galluzzi diede un sorrisetto ironico. – Volete forse dirmi che la sua mente non fu brillante nella soluzione che mise in atto?».
Per un minuto nessuno parlò. La memoria della ragazza che asseriva di essere la profetessa Jouked, la memoria di Asilche Galluzzi, la memoria di Strengh Grugnoduro, la memoria degli armigeri dei Galluzzi era occupata dagli eventi che avevano avuto luogo in quella stessa Signoria nel 1330. Avvenimenti terribili e notissimi, violenti e ammonitori, che ancora dopo quasi cento anni erano in grado di scuotere discussioni e coscienze che però nessuno voleva sollevare. Persino la coscienza della nipote dell’incendiario di templi disapprovava, almeno in parte, ciò che Rokche Galluzzi aveva fatto… Senza però potersi negare di ammirare quello stesso uomo: quante persone, di fronte ad una casta di sacerdoti che affermava che i Galluzzi sarebbero assurti al potere supremo solo quando gli dei fossero scomparsi, avrebbero affermato che così sarebbe effettivamente accaduto e avrebbero veramente attuato quella risoluzione? C’era voluta tanta sfacciataggine quanto coraggio, tanta indifferenza quanto ardimento, tanta determinazione quanta arguzia, tanta furbizia quanta astuzia. Rokche Galluzzi poteva essere stato brutale, pensava tra sé e sé la sua stessa nipote quando rammentava quegli eventi, ma certamente nessuno poteva dire che Rokche Galluzzi era stato privo di intelligenza.
«Forse avete ragione, Asilche Galluzzi… – La voce della presunta profetessa Jouked era così sommessa che sembrava provenire dal passato, non appartenere al presente. E tuttavia, se la voce era bassa e quasi piatta, gli occhi della ragazza appena giunta nella Signoria per portare scompiglio rilucevano di qualcosa che poteva essere forza o pazzia. – Forse la mente di Rokche Galluzzi era acuta… Ma il suo cuore era certamente corrotto, la sua anima era certamente oscura».
«Scommetto che queste vostre parole lo avrebbero immensamente gratificato. – Asilche rispose con un ghigno soddisfatto e superiore al calore dello sguardo altrui. Strengh, alle spalle di Asilche, aveva chiaro che quelle due nuove avversarie stessero combattendo tanto a parole quanto a sguardi, espressioni, atteggiamenti. – E ora volete dirmi quel che desiderate sputare fuori oppure intendete tenermi qui fino all’alba? Avreste dovuto avvisarmi, mi sarei portata dietro una pastoia di fieno per la colazione… – Di fronte alle pupille interrogative della presunta profetessa, Asilche rise. – Avete già dimenticato che, se voi siete veramente la profetessa Jouked, io sono il mio cavallo?».
L’ombra di offesa che oscurò le iridi della presunta Jouked mentre i soldati ridevano fece torcere lo stomaco di Strengh Grugnoduro. Aveva la sensazione che quella ragazzina apparentemente fragile fosse dotata di più capacità di quelle che manifestava.
Mentre il gruppo tornava indietro, al Palazzo del Podestà, il silenzio pareva ripetere, con echi di volta in volta tetri, canzonatori o impauriti, la profezia che la profetessa aveva gradito ripetere personalmente alla Galluzzi al comando. E Asilche Galluzzi pareva ascoltare quegli echi silenziosi: cavalcava seria, pensierosa, tesa, con gli occhi velati da una mente assente.
«Quindi, Asilche? – Grugnoduro era troppo curioso per rispettare l'altrui pensare, stavolta. – Cosa dici? È lei? Non è lei?».
Silenzio.
«Spiegami come è possibile riconoscere una persona che, secondo la tradizione, è nata e vissuta sessant’anni prima che io nascessi» fu la risposta che ottenne, data con voce distante e sommessa.
«Quindi non hai idea di chi sia quella donna».
«Potrei mai?».
«Ma cosa pensi di lei?».
«Non è possibile che sia la stessa Jouked che scomparve nel 1330, Strengh. Anche il suo modo di fare era diverso: non ricordi cosa dicono i testi? Quella Jouked era arrogante, questa non lo è stata».
Ancora silenzio.
«Perché non l’abbiamo uccisa?».
Asilche Galluzzi tacque. Non rispose.
Strengh diede un rapido sprone al proprio cavallo e affiancò la sua padrona. «Asilche, quella tizia ti ha turbato…».
«No, Strengh, non mi ha turbata».
«Ma ci stai pensando!».
«Dimmi, Strengh: quanto sarei stupida se disprezzassi lei e le sue parole a tal punto da non concedere loro neppure un pensiero…? Quanto sarei stupida se disprezzassi quella tizia al punto da sottovalutarla?».
Il silenzio continuò a ripetere quella profezia, Asilche Galluzzi continuò ad ascoltarla.
 
Oh gallo a due corni, sei privato di uno!
Curati che il fantasma che vola
non sottragga le amare uova che cova
quel toro a tre unghie che giungerà ad un raduno!
   
 
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