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Autore: Imperfectworld01    18/02/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Saresti dovuta morire tu

«Ehi, che cosa ti avevo detto? Prima lo studio, e poi il resto» rimproverai Dylan, facendo fallire il suo tentativo di baciarmi, appoggiandogli l'indice sulle labbra e allontanandolo dal mio viso.

Dylan sbuffò: «Se avessi saputo che saresti stata un'insegnante così intransigente, non ti avrei mai chiesto di farmi da tutor».

«Non sarei così severa, se tu non ti distraessi di continuo» gli feci notare.

«È impossibile rimanere concentrati quando ti ho così vicina.»

«Ah, quindi sarebbe colpa mia?» domandai, avvicinandomi nuovamente a lui.

«Diciamo che se essere bellissima fosse un crimine, allora meriteresti senza ombra di dubbio la più alta delle pene.»

Avvampai e subito mi si formò un sorriso in volto. Sebbene una parte di me interpretò in senso pessimistico le sue parole (la più alta delle pene la otterrò di certo, ma la condanna sarà ben diversa, pensai), il mio fu comunque un sorriso autentico, spontaneo, senza forzature. Mi avvicinai quel poco che bastava affinché potessi toccare le sue labbra con le mie, ma lui, sorprendentemente, si allontanò: «Ehi, frena, la regola vale per entrambi. Prima lo studio e poi il resto, ricordi?».

Alzai gli occhi al cielo. «D'accordo, allora continuiamo. Per le quattro voglio aver finito, sappilo» dissi.

«A me va benissimo. Anzi, prima finiamo, e prima posso riscuotere il mio premio» rispose, dando uno sguardo malizioso alle mie labbra.

Sorrisi ancora, e Dylan sembrò stupirsi di quella mia improvvisa ilarità. «Com'è che da quando sei tornata in mensa, sei tornata magicamente di buonumore? Che è successo con la preside?»

Mi strinsi nelle spalle. «Niente di che, ha accettato le mie scuse e poi ha detto che cercherà di scoprire chi è il responsabile di quel volantino.»

«Tutto qui? È per questo che sei così felice?»

«Sì, perché so di aver fatto la cosa giusta.»

Senza chiedere ulteriori chiarimenti, Dyl si mise a svolgere l'esercizio che gli avevo assegnato.

•••

Una volta finito di esercitarci per la verifica che si sarebbe tenuta due giorni dopo, io e Dylan uscimmo dalla biblioteca e successivamente da scuola. Per non far sì che ci salutassimo subito, si offrì di fare la strada insieme a me e accompagnarmi a casa, sebbene, così facendo avrebbe allungato il suo tragitto, dal momento che abitava quasi dalla parte opposta della città rispetto a me. Durante tutta la camminata ci tenemmo per mano, parlammo, ci scambiammo qualche bacio e qualche sorriso finché, purtroppo, arrivò il momento di separarci. Mi accompagnò fino alla porta d'ingresso e, prima che aprissi la tasca dello zaino per prendere le chiavi, appoggiai entrambi le mie mani sulle sue spalle. Lo fissai per qualche istante, senza dire né fare nulla. A volte mi piaceva semplicemente perdermi a guardarlo, a passare in rassegna ogni singolo dettaglio del suo viso, a partire da quei deliziosi riccioli neri che adoravo, le sopracciglia scure e definite, quei magnifici occhi di mille sfumature di azzurro, il naso leggermente all'insù e con pochissime lentiggini quasi invisibili, le labbra morbide e carnose al punto giusto, la dentatura perfetta, le guance rosate e la pelle chiarissima che diventava bordeaux non appena si agitava o si arrabbiava.

«Che c'è? Perché mi fissi?» domandò e io mi riscossi. Normalmente mi perdevo a guardarlo da lontano, soltanto quando lui non poteva accorgersene perché era da un'altra parte. «Niente» risposi, sperando che bastasse.

«Megan...» disse con tono preoccupato e che fece agitare anche me al tempo stesso.

«Che c'è?» chiesi, afferrandogli una mano, quella che non era bendata. Quel mio banale gesto sembrò rassicurarlo, così che si convinse a vuotare il sacco.

«Tu mi piaci, davvero tanto. Mi piaci perché sei altruista, pensi agli altri prima che a te stessa, perché rifletti prima di agire, cerchi di fare la cosa più giusta, perché sei leale, sincera, perché sei intelligente...»

Mi sembrava quasi che stesse descrivendo un'altra persona. In quei giorni non avevo fatto altro che pensare a me stessa, mentire, fare cose stupide, senza riflettere. Mi sembrava quasi impossibile poter tornare ad essere quella di una volta, quasi quanto mi sembrava impossibile credere che una volta fossi stata davvero come mi stava descrivendo lui.

«Ti sto facendo tutto questo discorso, non so neanch'io perché, ma per dirti che... io non sono come te, non sono come magari vorresti che fossi: sono istintivo, irascibile, faccio cose di cui poi mi pento, tipo... vuoi davvero sapere come mi sono procurato questo?» domandò, sollevando in aria la mano bendata. «Dopo che abbiamo litigato ieri, ero così accecato dalla rabbia che ho tirato un pugno allo specchietto del mio motorino. Per questo oggi sono venuto a piedi e per questo ho la benda, perché mi sono tagliato. Io... non so perché faccio così, né perché te l'ho detto, considerando che adesso penserai che sono fuori di testa e non vorrai più avere a che fare con me, ma il fatto è che... che se davvero sta per nascere qualcosa fra noi, io voglio che ci sia completa sincerità, trasparenza. Voglio che tu sia consapevole del fatto che io non sono il principe azzurro e che non posso darti la storia da favola che meriti, posso solo essere me stesso e, purtroppo, sono fatto così. Quindi se ora non vorrai...»

«Non dirlo neanche per scherzo» lo interruppi, afferrando il suo viso fra le mie mani. «A me non importa. Se ho deciso di dare una possibilità a noi due, credi che non abbia pensato a tutto quello che c'era in ballo? Io so come sei fatto, Dylan, lo sapevo già prima che prendessi questa scelta e, come vedi, non l'ha influenzata. Ho scelto di iniziare questa cosa con te, assumendomi tutte le responsabilità e i rischi che ne derivano, ho scelto di infischiarmene di quella parte di te che tanto critichi, perché per me non è importante come il resto. È vero, sei impulsivo e facilmente irritabile, ma non sono le uniche caratteristiche che ti contraddistinguono. Sei anche onesto, e non nel senso che fai sempre la cosa giusta, ma nel senso che dici sempre quello che pensi, giusto o sbagliato che sia, sei protettivo nei miei confronti, mi fai sentire sempre al sicuro, ti preoccupi per me e sei l'unico a cui importi veramente il mio stato d'animo, l'unico che riesce a farmi sentire meglio. Ed è esattamente così che vorrei che fossi, non cambierei niente. Non mi serve nessun principe azzurro finché ci sei tu.»

«Dici sul serio?» fu l'unica cosa che mi disse.

Senza rispondere, mi avvicinai a lui in punta di piedi e lo baciai con intensità. Dopo un attimo di immobilità da parte di Dylan, dovuta al fatto che l'avessi colto di sprovvista, ecco che si lasciò andare e ricambiò il bacio con la mia stessa passione.

•••

In quei giorni, anche quelle attività più tranquille e normali, tipiche della mia routine, apparivano di una difficoltà immane. E non mi riferivo solo alla scuola, ma anche ai pasti insieme ai miei genitori. Per quei pochi minuti al giorno in cui stavamo insieme per mangiare, la situazione era sempre tesa: io troncavo ogni loro tentativo di fare conversazione, rispondendo a monosillabi ad ogni domanda che mi veniva posta, finendo col dare spazio ad un angoscioso silenzio interrotto solamente dal rumore delle nostre posate sui piatti.

Quella sera, in particolare, fu la peggiore. I miei non dissero nulla per tutto il tempo, limitandosi a scambiarsi delle occhiate preoccupate durante tutta la durata della cena. Mia madre non aveva persino commentato la mia scelta di mangiare quel mezzo pezzo di carne in più. Quando stavo ormai per alzarmi e tornare in camera mia, vidi mio padre irrigidirsi e alzarsi in piedi, in direzione della porta della cucina.

«Che c'è?» chiesi.

Diede un'ultima occhiata a mia madre, la quale venne al mio fianco, appoggiandomi una mano sulla spalla.

«Che c'è?» ripetei, con tono più preoccupato e agitato.

Mio padre esalò un lungo respiro, prima di rispondere alla mia domanda: «Domani mattina c'è il funerale di Emily».

Mi sentii come se mi fosse stato trafitto un coltello nel petto. Avvertii la ferita farsi via via più grande, fino a diventare una vera e propria voragine nel mio cuore. Mi parve persino di udire una voce nella mia testa che gridava: «Basta, fallo smettere». Non ce la facevo più a ricevere pessime notizie ogni giorno, a stare sempre peggio, volevo che finisse tutto.

Annuii soltanto, e poi mi diressi in camera mia. Mi adagiai sul letto, appoggiandomi con la schiena alla testiera e avvicinando le ginocchia al petto. Dopo uno o due minuti passati così, immobile, a fissare il vuoto stando in silenzio, presi il cellulare dal comodino e scrissi a Tracey.

"Hai saputo?".

Fissai insistentemente il display del mio cellulare finché non mi rispose, cosa che, per mia fortuna, avvenne dopo pochi secondi.

"Sì, i miei hanno sentito i suoi poco faNon riesco ancora a credere che dovremo definitivamente dirle addio."

Dopo esserci scambiate qualche altro messaggio, decisi di riappoggiare il telefono sul comodino e mettermi a dormire, sebbene fossero appena le 21.

•••

L'indomani mattina, dopo un'altra notte passata quasi completamente in bianco, trascorsi almeno un'ora a passare in rassegna ogni capo di abbigliamento presente nel mio armadio alla ricerca di quello adatto. Non perché cercassi l'abito che mi facesse apparire bella agli occhi degli altri, ma perché volevo essere impeccabile per lei, per Emily. Sarebbe stata la mia ultima occasione di dirle addio, considerando che il venerdì precedente mi ero limitata a correre via dopo averla trovata in quelle condizioni, e non volevo sprecarla. Forse era un'idea stupida la mia, non sapevo bene neanch'io perché mi stessi complicando così tanto la vita per cercare un vestito, ma volevo indossare qualcosa che ricordasse un po' anche lei, qualcosa che mi rendesse degna di partecipare al suo funerale.

Così, dopo una lunga e frustrante ricerca, trovai l'indumento perfetto: era un semplice abito nero con maniche lunghe in pizzo e gonna a pieghe, che avevamo preso entrambe l'autunno scorso. Non appena lo indossai, finalmente, mi sentii pronta ad affrontare quella giornata. Mi sentii quasi come se lei fosse lì affianco a me a dirmi: «Non preoccuparti, ci sono io con te. Andrà tutto bene».

Ormai è evidente, sto impazzendo, mi dissi. Eppure, continuare a pensarla in quel modo, mi diede davvero la forza di cui avevo bisogno.

•••

Non appena arrivammo davanti alla chiesa, mi accorsi dell'esagerata quantità di gente presente. Ero sicura che più della metà di quelle persone nemmeno conosceva Emily. La maggior parte, anzi, erano giornalisti, oppure persone fanatiche che non avevano di meglio da fare. Mi feci largo fra la folla per cercare Tracey, ma non ottenni risultati.

Per di più, ebbi un'ulteriore conferma della mia follia non appena scorsi David Finnston appoggiato alla ringhiera della scalinata che portava alla chiesa. Non poteva essere davvero lui, giusto? 
C'era un solo modo per scoprirlo.
Senza pensarci troppo, camminai nella sua direzione. 
Era davvero lui. «E tu?» domandai curiosa, non appena gli fui davanti.

Mi persi per qualche istante a fissarlo. Indossava uno smoking nero, oltre che una camicia e una cravatta del medesimo colore. I capelli, a differenza della prima volta che l'avevo visto, erano tenuti ordinatamente all'indietro con il gel. 
Mi accorsi che anche lui mi stava analizzando, e non potei fare a meno di sentirmi inadeguata. Vestiti in quel modo, non c'entravamo nulla l'una con l'altro. In confronto a lui sembravo quasi una bambina, ero insulsa. Forse faceva più bella figura lui di me, il che la diceva lunga, considerando che non avrebbe nemmeno dovuto essere lì.

Scossi la testa per distogliere quei futili pensieri. Mi trovavo lì per altri motivi. Nessuno avrebbe fatto caso a come ero vestita.

«Mio padre voleva scambiare qualche chiacchiera con i conoscenti di Emily, specialmente con quelli che erano presenti alla festa» rispose, facendo cenno al padre, che proprio in quel momento stava stringendo la mano ad alcuni ragazzi della mia scuola.

Provai un certo fastidio nell'udire quella risposta. Era una giornata importante, triste, in cui si sarebbe dovuta commemorare Emily, non svolgere delle stupide indagini. Quelle potevano aspettare. Almeno in quel giorno, doveva essere lasciata in pace. 
Il fastidio crebbe non appena notai anche lo sceriffo Kowalski accompagnato da quello che aveva l'aria di essere un procuratore distrettuale.

Incrociai le braccia al petto. «Comunque avevo chiesto cosa ci facessi te qui, non tuo padre» dissi fredda.

David mi guardò stupito per via del mio tono, prima di emettere uno di quei soliti ghigni: «Volevo vederti».

Mi morsi il labbro inferiore per evitare di sorridere per via di quella sua affermazione. Il suo modo di fare ironia era così sottile che a volte era difficile coglierla. «Intendevi dire che volevi controllarmi. Non preoccuparti, non mi sono cacciata nei guai.»

Aprì la bocca per rispondermi, ma fu preceduto da Tracey, la quale corse nella nostra direzione: «Eccoti, finalmente!» esclamò.

Mi accorsi subito che indossava una collana con un piccolo punto luce che le aveva regalato Emily poche settimane prima, per il suo compleanno. Sembrava che avesse avuto la mia stessa idea, ossia di indossare qualcosa che ricordasse la nostra migliore amica. 
Poi mi concentrai sul suo viso. Aveva pianto, come dimostrato dalle profonde borse sotto agli occhi. Nel vedere l'espressione distrutta che aveva in volto, non potei fare a meno di sentirmi in colpa: io non avevo pianto.

Non avevo più pianto. Non stavo piangendo più all'incirca da due giorni. Emily se n'era andata da neanche una settimana e il mio processo di elaborazione del lutto si era già concluso? Che razza di migliore amica ero? Emily era stata una presenza fondamentale nella mia vita, com'era possibile che non riuscissi più a compiangerla? Eppure il dolore lo sentivo, eccome se lo sentivo, la voragine era sempre più aperta e profonda, tuttavia non riuscivo ad esternarlo. Rimaneva dentro di me e mi soffocava, giorno dopo giorno.

Che cosa avrebbero pensato tutti?

"Ma l'hai vista Megan Sinclair al funerale della povera Emily? Se ne stava lì, impassibile. Non ha versato neanche una lacrima."

Poi mi dissi che l'opinione degli altri, allora più che mai, non avrebbe dovuto importarmi. I commenti negativi su di me non sarebbero mancati neanche se avessi pianto a dirotto durante tutta la durata della cerimonia.

"Lacrime di coccodrillo le sue, te lo dico io. Spero solo che la polizia ce la metta tutta per incastrarla e sbatterla finalmente in prigione."

«Dov'è Herman?» chiesi a Tracey, così da potermi concentrare su altro.

«Dovrebbe arrivare fra poco» rispose. «Dio, hai visto quanti giornalisti? Perché non possono farsi gli affari loro? Un attimo, quello è lo sceriffo?»

David si intromise. «Sì, insieme al nuovo procuratore» rispose e io deglutii nel sentire la parola "procuratore".

«E tu chi sei?» domandò Tracey spaesata. Le avevo raccontato del figlio del mio avvocato, ma chiaramente, non avendolo mai visto, quello davanti a lei le sembrò solo un comune ragazzo come tanti.

«Lui è David Finnston. Lei è Tracey, invece» li presentai, e i due si strinsero la mano.

«Aspetta, quindi sei il figlio dell'avvocato di Megan?» chiese e David annuì. «Senti, so che forse non è la procedura giusta in questi casi, ma il difensore d'ufficio che mi è stato assegnato è un cretino, quindi non è che potresti prendere il suo posto?»

David emise uno dei suoi soliti ghigni. «Mi piacerebbe, ma non posso: non sono ancora un avvocato.»

«Allora non puoi convincere tuo padre a prendere anche me come cliente?»

«Mi dispiace, ma anche questo non è possibile» rispose stringendosi nelle spalle.

«Perché?» domandò Tracey confusa, e anche scocciata.

Fu a quel punto che intervenni io: «Non può farlo: o difende me, oppure difende te. Altrimenti ci sarebbe un conflitto di interessi».

Tracey sbuffò e mormorò qualcosa in merito a quanto facesse schifo la legislazione americana, mentre David mi guardò con un'espressione che non riuscii a decifrare. Non sapevo se si trattasse di semplice sorpresa, o se ci fosse pure un pizzico di ammirazione, o magari di compiacimento.

«Sì, esatto» disse, e io gli rivolsi un flebile sorriso.

A quel punto, vedemmo arrivare Herman, e quindi Tracey si allontanò lasciandoci soli. David fece qualche passo verso di me. «Le devo i miei complimenti, avvocato Sinclair» disse chinando leggermente la testa in segno di riverenza.

«Io... devo averlo letto da qualche parte, su Facebook o qualcosa del genere» risposi, scrollando le spalle. In fondo non era chissà quale scoperta.

«Ah, davvero?» domandò scettico.

«Ok, d'accordo, ho fatto delle ricerche» ammisi.

«E perché l'avresti fatto?» domandò, da una parte curioso, dall'altra forse confuso.

«Be', io...» lasciai la frase in sospeso. Non sapevo neanch'io perché l'avessi fatto. In generale, mi piaceva informarmi su argomenti di cui sapevo poco, così da arricchire le mie conoscenze. A mio parere, l'ignoranza era uno dei peggiori mali del mondo. Mi piaceva apprendere cose nuove, relative a diversi argomenti, così da non rimanere in silenzio ogni qualvolta che si affrontavano discorsi diversi dalle insulse chiacchierate adolescenziali.

«Non sarà che questa professione che tanto disprezzi, in realtà ti sembra più affascinante di quello che pensavi?» chiese con voce suadente.

«Sei fuori strada» ribattei. «È solo che visto che mi tratti sempre da ragazzina inesperta, ho pensato di informarmi e dimostrarti che...»

Fui interrotta dalla risata fragorosa del ragazzo di fronte a me. Sentii una sensazione di fastidio a livello dello stomaco. Lo stava facendo ancora, mi stava trattando come se fossi ridicola. «Quando hai finito di...»

«No, scusa, scusa, non volevo riderti in faccia» mi bloccò. «È che finalmente sono riuscito a inquadrare che tipo di cliente sei.»

Lo fissai con le sopracciglia aggrottate. «Vale a dire?»

«La categoria più insopportabile di tutte: è quel tipo di cliente che fa tutto da solo, pensando di poterla far franca senza l'aiuto di nessuno, finendo soltanto con l'aggravare la propria situazione e, cosa più importante, che legge due articoli su Internet e automaticamente pensa di essere al livello del proprio avvocato, permettendosi magari di dargli anche dei consigli su come svolgere il suo lavoro.»

Quel ragazzo aveva la capacità di farmi perdere la calma in un nano secondo. Riuscii a contenermi soltanto continuando a ripetermi che era un giorno importante e che non dovevo rovinarlo cedendo alle sue provocazioni. Non volevo di certo dare spettacolo il giorno del funerale di Emily.

Così, da persona matura e superiore, canalizzai la rabbia, gli diedi le spalle e andai altrove. Perché diamine ero andata a parlargli, se tanto ero consapevole che il risultato sarebbe stato quello?

Cominciai a guardarmi intorno e vidi i genitori di Emily. Erano davanti all'entrata della chiesa e, sebbene mi tremassero le gambe al solo pensiero, alla fine mi diressi verso di loro. Dovevo smetterla di scappare dalle mie responsabilità. Ciò significava che dovevo affrontarli, invece che ignorarli come avevo fatto lunedì mattina alla deposizione. Così, con il cuore in gola, senza badare ai loro sguardi, feci il primo passo: «Salve, signori Walsh».

Non seppi cos'altro aggiungere. Cosa avrei dovuto dire? Che mi dispiaceva? Che capivo il loro dolore? Che Emily non si meritava nulla del genere? Nulla sembrava appropriato. Forse il silenzio era la cosa migliore.

Mentre il padre, Theo, annuì soltanto, come a dire: "Va tutto bene", vidi Dorothy farsi scura in volto. Non l'avevo mai vista in quel modo. Non era solo distrutta dal dolore, c'era dell'altro. Era furiosa. La sua non era solo della semplice rabbia per la figlia che le era stata portata via ingiustamente, la sua era ira vera e propria, e sembrava volerla indirizzare tutta verso di me. Ecco quindi che, dopo pochi secondo di trepidazione, esplose: «Tu! Come hai osato venire qui? Non te lo meriti, come non meritavi di avere un'amica come Emily. Non l'hai mai meritata, e io l'ho sempre saputo. Non sei come vuoi farci credere, e so che hai fatto del male alla mia piccola Emily! Lei era il mio angelo, mentre tu sei marcia dentro. C'è del male dentro di te. Avresti dovuto essere tu al suo posto... Sì, dovresti essere tu ad essere rinchiusa in una bara in questo momento. Saresti dovuta morire tu!».

   
 
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