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Autore: AdhoMu    18/02/2019    8 recensioni
["Principenny" Clearwater / Charlie Weasley (et Percy Weasley)]
"Weasley.
Patronimico riferito ad antichissima famiglia magica inglese, appartenente al rinomato gruppo delle Sacre Ventotto. I suoi membri sono tradizionalmente affiliati alla Casa di Grifondoro e presentano un biotipo ben preciso, costituito da capelli rossi, pelle chiara e lentigginosa ed occhi di colore variabile fra il celeste e il nocciola."
Ah: e sono anche maledettamente numerosi, aggiungerei io.
E pure fascinosi, accidenti a loro.

Dodici caselle. Dodici draghi.
Riusciranno Penny e Charlie a recuperarli tutti prima della Battaglia Finale?
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Antonin Dolohov, Charlie Weasley, Filius Vitious, Penelope Clearwater, Percy Weasley
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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9. Vecchie fiamme ed altre ustioni.
 
“Ad una condizione; anzi no: a due” avevo detto a Charlie prima di acconsentire a lasciarlo andare alle Shetland da solo.
“Spara”.
“Intanto, la Scatola portadraghi la tieni tu” avevo iniziato io, porgendogli il nostro prezioso carico. “Nel caso in cui...”
“Non dirlo. Non succederà” mi aveva zittita lui, prendendo però fra le mani l’oggetto di legno dentro il quale i nostri amici squamosi sonnecchiavano ignari. “E la seconda?”
“Mi devi fare un Languelingua Esteso Condizionale” avevo ordinato io, con la voce che mi tremava.
Charlie aveva spalancato gli occhi.
“Co... No, non se ne parla neanche” mi aveva risposto, in un tono che non ammetteva repliche.
“E invece sì” avevo insistito io. “Altrimenti, niente Galles”.
Lui si era accigliato.
“Ma tu lo sai che, in determinate circostanze, questa scelta potrebbe costarti molto caro?”
Lo sapevo.
Sapevo che, se mi fossi fatta apporre quello speciale incantesimo che impediva ad una persona di raccontare un determinato segreto a qualcuno cui non avesse intenzione di svelarlo spontaneamente, mi sarei giocata la carta della salvezza in caso di cattura. Il Languelingua Esteso Condizionale era un vero e proprio sigillo di segreto: io avrei potuto parlare della nostra Missione con chiunque avessi voluto, ma non avrei potuto farlo con qualcuno disposto ad estorcermi la verità, neanche sotto Imperius né per vie traverse, come ad esempio il mimo o la scrittura. Eppure, essendo ben conscia del fatto che probabilmente, se mi avessero catturata, avrei finito col cantare (mi conoscevo abbastanza bene da sapere che la paura mi avrebbe indotta a rapida capitolazione), ero giunta a questa conclusione chiara e semplice: non potevo rischiare.
“Avanti” avevo detto a Charlie, fissandolo con una risolutezza che non provavo. “Non abbiamo tutto il giorno”.
Lui aveva protestato, argomentato, imprecato e preteso.
Io non avevo ceduto.
Acconsentii solamente a portarmi dietro uno dei draghi, opportunamente rimpicciolito e addormentato in un sacchettino di velluto a Scomparsa Apparente.
“Non si sa mai” mi disse Charlie, mentre riponevo delicatamente il piccolo Ungaro Spinato all’interno del suo nido improvvisato."Potrebbe sempre tornarti utile"
Alla fine, dopo essermi infilata in tasca anche una vecchia radiolina consegnatami da Morag (“Tienila sintonizzata su questa stazione: è Radio Potter. Ti permetterà di tenerti informata”), mi avvicinai  a lui per salutarlo.
“Comportati bene, fai come ti ordina il dottor Bell e guarisci alla svelta” gli raccomandai, tendendo la mano per carezzargli i morbidi riccioli che gli ricadevano sugli occhi.
“E tu raggiungimi il prima possibile” replicò lui, tirandosi su dalla brandina per abbracciarmi con tutte le (poche) forze di cui disponeva. “Andrà tutto bene, ne sono sicuro”.
Lo spero proprio pensai io, godendomi a fondo quell’abbraccio dal quale non avrei voluto sciogliermi mai.
 
Ovviamente, era andato tutto storto.
In Galles, purtroppo per me, non ci ero mai arrivata: mi era bastato mettere piede a Londra – dove, secondo istruzioni, avrei dovuto incontrarmi con il nostro contatto gallese il quale, in seguito, mi avrebbe condotta alla Riserva dei Verdi – che Dolohov e la sua squadra mi avevano immediatamente individuata e catturata.
“Mi farò trovare tutti i giorni alle 13.23 a Trafalgar Square, fra le zampe del leone sud” erano state le istruzioni del contatto. Alle 13.15 di quel mercoledì di fine marzo mi ero quindi recata puntuale sul posto e, dopo meno di cinque minuti di attesa, avevo avvertito una mano che mi toccava delicatamente la spalla. Subito dopo, una voce maschile dall’accento duro dell’Est europeo mi aveva sibilato:
- Arrenditi subito, Miss Clearwater, o scateno una strage di babbani.
Oh, merda.
Mi ero girata lentamente verso di lui, ruotando su me stessa con tutta la calma che mi era riuscito di mantenere. Dolohov, oscuro come la Morte nel suo mantello completamente nero, mi scrutava impassibile.
- Non fate del male a nessuno, vi prego – gli avevo detto alzando le mani e faticando non poco a sostenere il suo sguardo di pietra.
- Io, questo attaccamento a creature cotanto inferiori, non lo capirò mai.
Io avevo abbassato il mento, lisciandomi piano piano la gonna del mio vestito primaverile a fiorellini azzurri.
- Se non facciamo qualcosa noi, che abbiamo la magia dalla nostra – gli avevo mormorato in risposta, senza guardarlo, per poi alzare nuovamente il viso mentre terminavo la frase - chi mai li potrà aiutare?(*)
Lui era rimasto immobile per qualche attimo, fissandomi come se volesse passarmi da parte a parte.
- Andiamo. La bacchetta, prego.
 
E il mese di aprile lo trascorsi così: reclusa in una cella buia nei sotterranei del Ministero della Magia.
Durante i primi quindici giorni non si fece vedere nessuno: mi avevano isolata, lasciandomi a maturare in completa solitudine la paura per quello che mi avrebbero fatto. A stimolare a dovere la mia immaginazione, oltre le sbarre che chiudevano il mio angusto ricovero udivo spesso le grida e le implorazioni dei prigionieri sottoposti a tortura, sovrapposte agli insulti e alle risate dei loro carnefici.
Io ero a dir poco terrorizzata.
Non sono durata neanche ventiquattr’ore senza Charlie, continuavo a ripetermi, dandomi della stupida. Stupida, stupida, stupida Penny, che si era illusa, nonostante tutte le sue abissali incertezze, di potersela cavare da sola.
Di come accidenti avessero fatto a scovarmi in così poco tempo, non ne avevo la più pallida idea, ma ormai la quaglia era andata, giusto per dirla in modo un tanto triviale. Mi avevano presa e mi tenevano imprigionata; e non solo il recupero del Gallese era andato a farsi benedire ma, senza bacchetta, non sarei mai stata in grado di avvertire Charlie che ormai, su al Nord, doveva chiedersi dove diavolo mi fossi ficcata e che, di sicuro, doveva essere oramai preoccupatissimo.
Dopo qualche giorno trascorso a progettare piani di fuga, uno più mirabolante e improbabile dell’altro, mi misi il cuore in pace e mi rassegnai all’attesa, che la solitudine e le ristrette dimensioni della cella resero quasi subito insopportabile. Avevo con me László (che, essendo infilato nel sacchettino a Scomparsa Apparente, loro non avevano trovato), è vero, ma senza bacchetta non sarei stata in grado di risvegliarlo né di ingrandirlo, e così non potei neppure beneficiarmi della sua pungente compagnia.
Gli interrogatori cominciarono alla metà del mese.
Ricordo ancora il terrore che provai quando, preceduti da un agghiacciante clangore metallico di chiavi non oliate, Dolohov e due dei suoi loschi compari penetrarono nella cella e rimasero in piedi davanti a me, fissandomi in silenzio per una manciata di eterni minuti.
- Saletta Alfa. Andiamo.
Ares Mulciber e Aidan Avery, scoprii quasi subito, erano quelli cattivi.
Le tentarono tutte, ma proprio tutte per farmi confessare, venendo fermati con un cenno di mano da Dolohov, che di solito si limitava ad assistere all’interrogatorio immerso nel silenzio più completo, solo quando rischiavano di eccedere in tentativi di convincimento troppo estremi.
Ovviamente nessuna delle loro tecniche, più o meno aggressive, funzionò minimamente.
Non perché io non avessi la minima intenzione di collaborare (altroché: dopo il secondo assaggio di una blandissima Cruciatus sarei probabilmente stata pronta a sbandierare tutti i miei più intimi segreti in mondovisione) ma perché, proprio come avevo preventivato, l’incantesimo Languelingua che avevo convinto Charlie ad appormi me lo impediva. E così, dopo circa una settimana di tentativi frustrati che rischiarono più di una volta di sfociare in marchiature forzate (a Mulciber prudevano i ferri) e violenza allo stato puro (Avery si conteneva a fatica, lo si vedeva, e non me la faceva pagare solo perché Dolohov glielo vietava), il tutto condito da urla e lacrime mie e minacce di morte da loro pronunciate ogni mezz’ora circa (avevano entrambi l’Avada Kedavra facile, quei due cani), la Commissione Verità decise di ricorrere alle maniere forti.
Perché Dolohov era un assoluto bastardo, ma era anche dotato di un’intelligenza sottile: aveva capito, l’infame, che con i metodi tradizionali non avrebbero ottenuto niente.
Cosicché, all’inizio dell’ultima settimana di aprile, si presentò da solo sulla soglia della mia cella, e sempre da solo mi scortò fino alla maledettissima Saletta Alfa.
Io ero talmente stanca e rassegnata che lo seguii come in trance, pronta al peggio.
Non c’erano ferri né loschi individui ad aspettarmi, però: soltanto una poltroncina di velluto azzurro dall’aspetto confortevole, sulla quale Dolohov mi fece segno di accomodarmi con un gesto silenzioso.
- Legilimens!
La prima seduta fu orrenda, e le altre non furono da meno.
Giorno dopo giorno Antonìn Dolohov mi lesse dentro, denudando la mia anima e rivoltando i miei pensieri, i miei sogni e i miei ricordi come calzini: indagò la mia vita e la mia infanzia, lesse sogghignando i miei segreti di bambina e derise crudelmente le mie insicurezze di ragazzina e di giovane donna. Dinnanzi ai suoi occhi che scrutavano e schernivano le pieghe più segrete e indifese della mia personalità mi sentii nuda, esposta e incapace, e il suo giudizio mi annichilì, mi umiliò, mi lacerò l’anima e mi fece così male da farmi desiderare di ricevere, al posto di quel supplizio, qualsiasi tipo di violenza fisica.
Scavò, Dolohov,  scavò.
Giunse a scoprire di me cose che nessuno, forse neppure io stessa, avrebbe mai sospettato; e più io lo scongiuravo di lasciarmi in pace, più lui si accaniva a cercare, fra le curve e i meandri della mia anima martoriata, l’unica verità che avrebbe voluto carpirmi e che io, che subivo impotente le sue cruente intrusioni, non sarei mai stata in grado di rivelargli.
E i giorni passavano ed io, fra le lacrime, lo imploravo:
- Non ti posso dire quello che vuoi sapere: non lo posso fare, lo sai anche tu!
E lui proseguiva imperterrito, pur sapendo che ogni nuovo tentativo si sarebbe rivelato inutile. Si divertiva. E andava avanti.
Finché ad un certo punto, con il cuore gonfio di sgomento, mi resi conto che aveva smesso di cercare l’informazione che gli serviva. Mi accorsi invece che aveva ripreso a leggere e analizzare i frammenti della mia vita che mi erano più cari, ma senza giudicarli in modo crudele, bensì con una certa curiosità che mi atterrì, perché mi parve morbosa.
La lettera da Hogwarts, il vestitino nuovo di raso azzurro cielo, la nomina a Prefetto, la festa dei Caposcuola. Le lodi del professor Vitious, il sorriso di Percy, la finale dei Mondiali di Quidditch, un raro abbraccio da parte di mia madre, il permesso di usare i ferri magici arricciacapelli.
Le labbra di Charlie sulle mie, in quella sera di fine luglio.
- S-smettila!...
Dolohov continuava a scrutare, ignorando le mie suppliche.
Le mani di Charlie sulla mia pelle, i suoi polpastrelli ruvidi e caldi. Il cuore accelerato. Il suo bianco sorriso. La mia lingerie di seta che scivolava via.
- Vattene... vattene, ti prego...
“Vorrei rimanere qui alle Azzorre per sempre”.
“Vieni con me sull’Isola Deserta, Principenny?”
- Lasciami!... Lasciami andare!...
L’invasione cessò all’improvviso. Ad aleggiare nella mia mente subitamente bianca come una tela ancora intonsa, una voce profonda dall’accento spigoloso.
Lo ami?
Mi accasciai sulla poltroncina, non più in grado di sostenermi da sola.
 
Non so per quanto tempo rimasi incosciente.
Quando mi risvegliai tutto era buio, tutto era silenzio.
Mi tirai su a fatica e, guardandomi intorno smarrita, constatai che mi trovavo di nuovo nella mia cella.
La testa mi faceva malissimo; mentre tentavo di riorganizzare le idee, un rumore di passi subito seguito da un acceso diverbio richiamò la mia attenzione.
- Non... non potete! – protestava una voce che riconobbi immediatamente. – Sono un alto funzionario ministeriale, giù le mani!...
Nel corridoio buio volarono un paio di lampi di luce; dopodiché, la grata della mia cella si aprì e un corpo alto e sottile, che si dibatteva tanto furiosamente quanto inutilmente, venne spinto dentro.
- Ve ne pentirete! – urlò invano il nuovo arrivato che io, nonostante in quel momento mi sentissi fin troppo emotivamente provata, guardai con immensa gratitudine.
- P-Percy?!
I lisci capelli color del rame, che lui portava corti e pettinati con la riga in parte come un giovanotto per bene degli Anni Trenta, brillarono alla luce della bacchetta. Un secondo dopo fui in grado di scorgere anche i suoi acuti occhi chiari, che brillavano oltre le pulitissime lenti degli occhiali di corno.
- Cosa ci fai...
- Ho letto il tuo dossier – mi interruppe lui, mettendosi ad ispezionare freneticamente le pareti della cella, evidentemente in cerca di una via di fuga (che non c’era). – Beh, non avrei dovuto, ovviamente, ma non importa. Lascia che te lo dica, comunque – mi disse, guardandomi con severità – non avrei mai, mai! pensato, primo, che saresti stata capace di ficcarti in un guaio così grosso, e secondo, che saresti riuscita a trascinarci dentro anche me!
- Ehi – protestai debolmente io. – Io non ti ho mica chiesto niente, sai?
Lui si fermò un attimo e finse di ridere.
- Ah-Ah. Ma certo – sbuffò poi. – Come dire che, una volta venuto a conoscenza di quello che ti stavano facendo, sarei riuscito a rimanermene con le mani in mano.
- Che cosa stavi cercando di fare, esattamente? – gli domandai allora, incuriosita e grata.
- Tirarti fuori – rispose lui, facendo spallucce. – Ho falsificato la firma del Ministro O’Tsuoe...
- Che cosa?? Hai falsifi... Tu?! – ribattei, incredula.
- ...ma mi hanno beccato, come puoi ben vedere.
Stavo per ribattere qualcosa, quando dal corridoio giunse nuovamente l’eco di passi in avvicinamento.
- Vediamo un po’ se... – stava dicendo qualcuno, la cui voce non mi piacque affatto.
Agii di impulso.
- Percy, dobbiamo evadere. Subito.
Lui mi guardò stringendo le labbra.
- Più facile a dirsi che a farsi, mia cara. E-vi-den-te-men-te.
Gli strappai di mano la bacchetta e mi sfilai dal collo il sacchettino di velluto con dentro László.
- Penny! Ma cosa accidenti ti...
- Tappati le orecchie e mettiti al riparo, Perce – gli intimai, per poi urlare in rapida sequenza: - Reinnerva!... ENGORGIO!....
In quell’esatto istante i carcerieri aprirono la porta della cella, giusto in tempo per vedere un gigantesco Ungaro Spinato incazzato nero che si dilatava davanti ai loro occhi e metteva in mostra una chiostra di denti da far impallidire uno squalo bianco.
László ruggì così forte da far tremare le pareti di pietra, che si sgretolarono come gesso man mano che lui cresceva, recuperando le sue dimensioni abituali.
“Un Ungaro Spinato in tenuta da combattimento ha lo stesso potenziale distruttivo di un panzer in un asilo nido “ mi aveva detto una volta Charlie; beh, non eravamo in un asilo nido, ma anche le segrete di un Ministero avevano tutta l’aria di vedersela brutta al cospetto di una bestia del genere.
Il drago scosse gli aculei e fece partire una fiammata che arrostì all’istante una mezza dozzina di Mangiamorte, subito richiamati da tanto chiasso; con la coda dell’occhio vidi Dolohov che indietreggiava atterrito e si gettava a terra per sfuggire al rogo.
Tutto intorno a noi cumuli di macerie, calcinacci in caduta libera e piccoli fuochi d'incendio apparentemente inestinguibili.
- Attaccati e tieniti forte, Perce! – urlai allo sbalordito terzogenito Weasley mentre László, dispiegate le ali coriacee, si accingeva a prendere il volo.
Lo vidi che si avvinghiava con tutte le sue forze ad una zampa del rettile; subito dopo, stavamo sfrecciando a tutta velocità sui cieli di Londra.


Prima che io avessi il tempo di posare i piedi per terra, Percy era già scivolato giù dal dorso di László e mi aveva puntato contro la bacchetta.
- Ma cosa caspite...
- Finitus! – urlò lui, scagliando un incantesimo che andò a colpire il braccialetto di cuoio che portavo al polso.
- Ahia! Percy, cosa accidenti...
- L’aveva stregato! – rispose lui, riponendo con uno sbuffo la bacchetta nella tasca interna della giacca. – Dolohov vi teneva d’occhio attraverso quelli.
E a me, che lo guardavo sconcertata, Percy raccontò di avere origilato una conversazione confidenziale (“Quelle Orecchie Oblunghe sono davvero fenomenali Penny, ma non riferirlo ai miei fratelli, te ne prego”) fra Dolohov e uno dei suoi compari, nel corso della quale il primo rivelava di avere apposto sui braccialetti di Charlie un ingegnoso Incantesimo di Localizzazione.
- C’è stato uno scontro alla Tana, il giorno in cui Bill si è sposato – disse Percy, gli occhi chiari adombrati da un’ombra cupa di rimpianto e avvilimento. – Non so se Charlie te l’ha detto.
- Sì, lo sapevo – confermai io.
- Mentre... mentre combattevano, Dolohov, che per vie traverse era stato informato per sommi capi dei piani dell’Ordine circa la Missione Squamosa (l’ha chiamata così), ha pensato bene di affatturare gli unici oggetti da cui, ne era sicuro, Charlie non si sarebbe mai separato.
- È vero – mormorai io, massaggiandomi le tempie con due dita. Mi scoppiava la testa. – Un domatore di draghi non si separa mai dai suoi polsini.
Percy mi rivolse un’occhiata indagatrice e aprì bocca per dire qualcosa, ma poi non proferì parola.
La mia mente, nel frattempo, cogitava a ritmo accelerato.
- È per questo che sapeva sempre dove eravamo – sospirai, avvilita. – Beh, quasi sempre in realtà.
- Dolohov non è riuscito a produrre un Localizzatore perfetto – spiegò Percy, aggrottando la fronte. – Troppa confusione, probabilmente; fatto sta che, quando non vengono eseguiti alla perfezione, gli Incantesimi di questo tipo perdono di forza in determinate condizioni geografiche o climatiche.
- Sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire che se, per pura coincidenza, Dolohov si fosse trovato ad una distanza relativamente breve da voi e le condizioni climatiche fossero state accettabili, vi avrebbe individuati con facilità. In caso contrario il segnale si sarebbe interrotto, o sarebbe stato troppo debole per essere sfrutatto.
Scossi la testa, ormai completamente consapevole di quanto era accaduto.
- Ecco perché in alcune tappe del nostro viaggio non ce lo siamo trovato fra i piedi. Ci stava cercando altrove.
- Già.
- E una volta rientrati sul territorio nazionale... bingo, è stato in grado di rintracciarci in un battito di ciglia.
- Esatto.
Rimanemmo in silenzio per un lungo attimo mentre László, stanco per il lungo volo dopo tanto tempo di inattività, si era acciambellato su se stesso e russava rumorosamente. Senza sapere bene come comportarmi, tirai fuori la radiolina di Morag e l’accesi, a volume bassissimo. Le trasmissioni di Radio Potter erano sospese, in quel momento: nell’aria si avvertiva soltanto un basso ronzio.
Era davvero strano trovarmi di nuovo insieme a Percy, il Weasley con cui mi ero accompagnata durante tanto tempo e alla cui immagine seria e affidabile, nel corso degli ultimi mesi, si era via via sovrapposta quella, altrettanto affidabile ma eccezionalmente sorridente, di Charlie.
Lo vidi che andava a sedere su una pietra squadrata, proprio accanto al punto in cui la convessità della collina inaugurava la sua declività; mi dava le spalle e guardava lontano, immerso nei suoi pensieri. E mentre io lo osservavo in silenzio, indecisa se lasciarlo da solo o raggiungerlo per fargli compagnia, mi parve di vederlo scosso da un tremito convulso.
Lo sentii tirare su col naso.
- Che succede, Perce? – gli domandai a labbra strette, portandomi cautamente al suo fianco. Non mi sedetti, però. Rimasi in piedi, evitando di guardarlo.
- Non ero con loro, quel giorno – rispose lui dopo qualche attimo.
- Il giorno del matrimonio, intendi dire? – gli domandai, molto delicatamente.
– Già. Né quel giorno, né tutte le altre volte in cui avrei dovuto esserlo – mormorò lui, inghiottendo la saliva. La sua voce suonava addolorata, densa di rammarico.
Percy si tirò su di scatto e ristette in piedi davanti a me, dritto come un fuso.
- Sono stato... oh, Penny... se il pentimento uccidesse!... Sono stato (anzi, sono) un vero cretino, ecco cosa sono.
- Suvvia, Percy... – azzardai io, un po’ a disagio.
- Non mi sarei mai dovuto comportare come mi sono comportato – continuò lui, guardandomi negli occhi. I suoi erano pieni di lacrime. – Se tu sapessi che cosa ho visto là dentro... oh, per Merlino, Penny.
Non osavo immaginarlo, per cui non dissi nulla, limitandomi a giocherellare con il bracciale di cuoio.
- La mia famiglia non meritava assolutamente un simile trattamento da parte mia – proseguì Percy, ormai inarrestabile. – E neppure tu.
- Oh – replicai io, guardandolo di sottecchi. – Non... non ti preoccupare, io sto...
- Non sai quanto mi sono preoccupato quando ho scoperto che eri sparita!... – mi interruppe lui, afferrandomi i gomiti con le sue belle mani eleganti, da pianista. – Anche i tuoi genitori: erano davvero in ansia. Ti ho cercata dappertutto Penny, ho seriamente pensato che sarei morto di angoscia!
- ...
- Ed è stata tutta colpa mia! Mia, che non ho saputo accettare la mano che mi tendevi!...
Percy sembrava davvero sconvolto; la situazione era oltreché surreale perché io, in cinque anni di fidanzamento, non l’avevo mai visto in quello stato. Mi sarebbe piaciuto, per puro spirito di onestà, dirgli che sì, che un po’ (tanto) cretino lo era effettivamente stato; eppure, vedendolo ridotto ad uno straccio intriso di autorecriminazione, non ebbi il cuore di procedere a quel minimo di invettiva che si sarebbe meritato.
Mi sentii in dovere di consolarlo, anzi. Percy era davvero pentito, lo si vedeva.
- Percy – gli dissi allora, alzando il mento per ricambiare il suo sguardo. – Capita a tutti di commettere degli errori, ma... ma tu sei una brava persona, non sei come loro. Ed è questo che conta.
Percy mi guardò per un lungo istante e poi, del tutto inaspettatamente, fece un’altra cosa che, in altri tempi ed altro contesto, mai mi sarei sognata di vedergli fare.
- Mi sei tanto mancata, Penny...
Mi abbracciò di slancio, stringendomi convulsamente.
Io rimasi di sasso.
Talmente di sasso da non avere la forza di muovere neppure un muscolo quando lui, chinandosi in avanti in un surplus di slancio, spostò una mano dietro la mia nuca e catturò le mie labbra in un bacio infuocato.
Oh. Per. Priscilla.
O Rowena.
O Corinna.
O come diavolo si chiamava la beneamata Fondatrice dall'ingegno sottile.
Ad essere sconvolta, questa volta, ero io; tantopiù che, oltre alla sbalorditiva performance linguistica di cui non l’avrei mai creduto capace, una ben nota pressione proveniente dal basso mi rivelava che Percy, oltre ad essere giustamente sollevato per avermi ritrovata e portata via (beh, all’incirca) sana e salva dalle prigioni del Ministero, era anche sommamente contento di vedermi.
Prendere atto di quel tutt’altro che trascurabile dettaglio mi sciolse i muscoli.
Immediatamente riscossami dal mio impietrito torpore mi divincolai dal suo abbraccio e saltai indietro, apostrofandolo con un coloritissimo:
- Ma che cosa cazzo (Percy spalancò gli occhi nell'udire la parolaccia) fai, Percival?!
Lui sbattè le palpebre e mi guardò stupito, boccheggiando affannato.
- Io...
Mi sentivo le guance in fiamme, ero imbarazzatissima. Il cuore mi martellava furiosamente nel petto;  perché ormai lo sapevo (lo sapevo: c’era poco da fare) che, proprio in quel momento, avrei dovuto informarlo di una certa cosina riguardante me e il suo delizioso fratello maggiore.
E così, senza sapere ancora come accidenti glielo avrei detto, aprii bocca per parlare, ma lui mi anticipò.
- Non c’è bisogno di dire nulla – mi disse anzi, gelido. – Ho già capito.
- Co-come, scusa...?
Lui tese il braccio e picchiettò con l’indice sulla superficie di cuoio duro del braccialetto di Charlie.
- L’ho notato subito, cosa credi. E l’ho riconosciuto immediatamente – Percy fece una smorfia. – Come dicevi? Ah sì: un domatore di draghi non si separa mai dai suoi polsini. A meno che, evidentemente, suddetto domatore non abbia qualcuno di molto, molto speciale cui regalarli.
- Percy... – cominciai io, respirando fondo.
- E perché mai, effettivamente – mi chiese allora lui, le iridi chiare pregne di beffarda amarezza – una strega assennata perderebbe il suo prezioso tempo con quel secchione di Percy Weasley, quando può avere uno dei suoi fratelli più fighi?
Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo, al quale però avrei voluto rispondere a chiare lettere, vomitandogli addosso una vera e propria filippica. Avrei voluto dirgli che quello che facevo erano affari miei e che lui aveva perso il diritto di giudicarmi nel momento in cui aveva deciso di ignorare le mie richieste di pace; avrei voluto dirgli che negli ultimi mesi, finalmente, avevo trovato più di un motivo per credere in me stessa ed essere orgogliosa di quanto sapevo fare.
Al tempo stesso, però, avrei voluto urlargli anche che capivo la sua insicurezza, perché era la medesima con la quale io stessa avevo combattuto per tutta la vita. Avrei voluto dirgli che vederlo così tentennante e insoddisfatto di sé mi faceva soffrire almeno tanto quanto ne soffriva lui, perché io lo conoscevo e sapevo quanto valesse. Avrei voluto dirgli che il senso di inferiorità che si portava dietro fin da bambino era una stupidaggine e che il fatto di essere nato dopo Bill e Charlie non significava assolutamente nulla, perché lui era valido e capace tanto quanto loro.
Ma non ebbi il tempo di dirgli nulla.
Proprio nel momento in cui stavo per aprire bocca e dare fuoco alle polveri, infatti, una voce squillante echeggiò nell’aria, neutralizzando all’istante la tensione che si era venuta a creare fra noi.
Lo speaker di Radio Potter, nella sua dizione forte e chiara, lanciava il suo appello:
- Attenzione, attenzione! A tutti i maghi e streghe all'ascolto, ibridi, creature fatate e simpatizzanti della Causa. Convocazione immediata ad Hogwarts! La battaglia si prepara! Ripeto: convocazione immediata ad Hogsmeade! Accorrete tutti, aiutate la Resistenza a difendere ciò che resta della nostra beneamanta scuola!...(**)
Io e Percy ci scambiammo una lunga occhiata, gli occhi sgranati, le parole ancora ad aleggiare a mezz’aria, immediatamente dimentichi di quanto ci stavamo reciprocamente dicendo.
- Forse... forese è meglio che io vada a svegliare László – gli dissi mentre lui annuiva e, prudente come sempre, infilava gli occhiali nel taschino della giacca.
 
Post-Scriptum:
E povera Londra! Nel giro di poche ore, ben due fughe di draghi: una, come sappiamo, dalla Gringott; ed ora pure quella di László & Co. dalle segrete del Ministero!...
(*) Frase pronunciata da Rodina Hlavačkova, grande protettrice di babbani cecoslovacchi durante la Guerra Fredda e donna amata da Antonìn Dolohov nell’OS Tramonto ad Est. La questione verrà meglio chiarita in fase di chiusura ma, per ora, l’aver casualmente prununciato queste stesse parole ha fatto sì che a Penny venga risparmiata la vita.
(**) La convocazione da parte di Radio Potter l’ho ripresa pari pari dalla mia mini La cura universale, giusto per amalgamare tutte le storie.
   
 
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