Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: Itzi    01/03/2019    8 recensioni
[STORIA INTERATTIVA -ISCRIZIONI CHIUSE]
Il ragazzo si appoggiò alla vetrina, studiandosi le unghie corte con finta noncuranza. «Perché, abbiamo cose di cui preoccuparci?»
            «I nostri cari vecinos avranno di nuovo fatto casino…Ottanta anni fa se ne sono usciti con quella cosa degli imperatori; abbiamo avuto le comunicazioni bloccate per mesi, un incubo!» Gesticolò con una mano, ritirando i soldi che gli aveva poggiato vicino alla cassa «Convivenza civile un cazzo. Entro la fine di questo secolo finirò per prendere qualcuno a calci in culo, me lo sento!»
           «Uuh, quindi… Siamo di fronte a uno scontro tra Pantheon ? Ma davvero?»
*****
«Non è stata colpa mia.» Da come Olivia lo guardò, dedusse che non era per nulla credibile.
            «Allora perché sei scappato?»
         «Perché tutti saltano alle conclusioni! Senti, ieri sera, è successo qualcosa.» Si avvicinò leggermente allo schermo, con fare furtivo, quasi avesse paura di essere ascoltato. «Qualcosa che la Casa non può più ignorare.»
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Ecate, Gli Dèi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

V
THE HIEROPHANT
 
 
 «Aspetta, cosa? Gli dei avrebbero intenzione di fare che?!»
      Max si strozzò con il caffè che stava bevendo, e per alcuni secondi la telecamera del suo cellulare inquadrò la moquette scura di una camera d’albergo. Il ragazzo si colpì il petto con un pugno, e alla fine riuscì a mandare giù la bevanda, ustionandosi la bocca.
      «Credo di essermi perso qualche passaggio.»
      «Purtroppo hai capito benissimo.»
      Olivia reclinò la testa all’indietro, serrando le mani attorno alla tazza di thè in modo che il calore le sciogliesse le dita tese. Si sentiva stremata e aveva freddo, una combinazione letale che si aggiungeva alla lunga lista di malesseri che negli ultimi tempi avevano iniziato a tormentarla. Iside non aveva ancora parlato, ma percepiva la sua presenza con un’intensità tale da farle tremare le ossa, tanto sembrava agitata e arrabbiata.
      Sospirò. Si era arresa ormai anni prima al fatto che, prima o poi, quella bisbetica divinità della magia le avrebbe tenuto il broncio a seguito di qualche scelta non condivisa. E invece che parlarne, sfoggiava un infantilismo che aveva cominciato a darle davvero sui nervi, tanto che alla fine, si era ritrovata a smettere di frenare anche ai suoi stessi pensieri. C’erano cose più importanti da discutere di un capriccio, al momento.
      «Tra due giorni ci sarà una sorta di incontro tra le divinità - a Manhattan - per discutere dei problemi che stiamo avendo nell’ultimo mese. A richiederlo è stato Zeus, e a quanto pare non siamo gli unici a essere stati coinvolti. Sembra arriveranno dei da ogni parte del mondo; decine di Pantheon sono in fermento.»
      Max si ravvivò il ciuffo con le dita, cercando di mantenere un’inquadratura decente.
      «Beh, se posso dirtelo, mi pare un’enorme cazzata.» Disse, assottigliando lo sguardo. «Gli dei egizi non vanno d’accordo nemmeno tra di loro, figuriamoci con gli altri! La diplomazia non è nella loro natura, tout ira en enfer
      Iside sibilò minacciosa come il peggiore dei serpenti velenosi, e Olivia sentì un odio acido salirgli in petto, corrodendole le vene in profondità e offuscando qualsiasi suo pensiero razionale. Chiuse gli occhi e la figura della dea le riempì la vista; uno sguardo minaccioso come mille tempeste e capelli scuri sciolti sulle spalle, crespi e irosi quanto la loro proprietaria.
      Finiscila!
      L’ammonì, e prima che la donna potesse replicare, aprì di scatto le palpebre, trovandosi di fronte lo schermo del tablet. Max si schiarì la gola, in un tentativo abbastanza impacciato di nascondere il suo disagio.
      «Oli, tutto bene?» Le chiese alla fine, grattandosi una guancia. Dall’ultima volta che lo aveva visto sembrava più rilassato: si era rasato barba e capelli lasciando solamente il suo proverbiale ciuffo a coprirgli gli occhi.  Indossava vestiti nuovi, e in generale aveva un aspetto più riposato. L’Ankh che gli aveva regalato quando erano ancora bambini era posato con cura contro il colletto della maglia bianca.
      «Sì. Sono solo un po’ stanca.» Disse. Iside non parlò, ma sentì il suo disappunto crudo scivolarle sulla pelle, e per quanto fosse un gesto rude, una parte del suo animo restò colpita da quella preoccupazione inaspettata. «Sono successe tante cose nel giro di poche settimane. I Nomi sono un po’ in subbuglio, ma quello che ci serve è solo del tempo per poterci organizzare, tutto qui.»
      Socchiuse gli occhi, bevendo un sorso del suo infuso. Sapeva di arancia e melograno, una combinazione dolciastra che non l’aveva mai fatta impazzire; eppure da un po’ di tempo a questa parte, era l’unica cosa che riuscisse a bere senza problemi.    
      «Ne hai già parlato con gli altri?»
      «Non ancora, pensavo di farlo a cena. Magari accennerò qualcosa a Jacob dopo, giusto per dargli tempo di assimilare: sai come è fatto, ha bisogno di rimuginare parecchio in queste situazioni.»
      Max annuì, anche se era palese che avrebbe voluto chiederle di più. Nonostante tutto gli mancava Parigi, glielo leggeva negli occhi, ma esprimere un pensiero del genere sarebbe stato come rendere quella distanza ancora più concreta. Fingere che l’incidente non ci fosse stato era più facile, e poi uno schermo, per quanto sottile, non era lo stesso un buon tramite per parlare di argomenti troppo seri come la condanna che si portava appresso.
      «Credi che questo incontro porterà davvero a qualcosa?»
      «Lo spero.» Disse Olivia. «Se capiamo cosa diamine sta succedendo, sicuramente smetteremo di andare in giro alla cieca. È una situazione delicata, considerando anche che molti maghi non hanno idea dell’esistenza dei semidei, o di divinità all’infuori di quelle del mondo egizio.»
      «Potresti sfruttare tutto questo per fare un annuncio pubblico.» Le suggerì. «Probabilmente ci saranno già molti maghi a conoscenza della cosa, sarebbe un aiuto anche nei loro confronti. Eviterebbero di spaccarsi la testa nel trovare una risposta. Forse hanno anche dei contatti diretti con altri ragazzi, chi lo sa? Nelle scuole, al giorno d’oggi, si trova proprio di tutto.»
      Olivia sorrise, rilassando appena le spalle.
      «Non è una cattiva idea. Ci penserò.»
      Max inarcò le sopracciglia, sfoggiando un sorriso morbido, furbo e tremendamente familiare. «Le mie idee non sono mai cattive.» Dichiarò, conscio della mezza verità appena detta. Scoppiò a ridere subito dopo, e Olivia pensò, che in fondo, anche a lei mancava molto vederlo in giro per il loro Nomo.
      «Fai meno lo sbruffone e ascoltami: voglio che tu stia attento, e che non ti sforzi troppo in questi giorni.»
      «Come mai?» Max non era bravo a nascondere le sue emozioni, e Olivia notò immediatamente la piega scettica che aveva preso la sua voce nel formulare la domanda. Bevve un ultimo sorso di thè, ignorando Iside che con forza le stava serrando la mente e bloccando le parole, in un tentativo abbastanza violento di zittirla.
      «Venerdì, per poter partecipare, gli dei dovranno materializzarsi direttamente dalla Duat, senza usare ospiti mortali.» Cominciò. Iside ringhiò e sparì dalla sua mente, facendo cadere un vuoto improvviso che la lasciò interdetta per qualche istante. «Per farlo avranno bisogno di parecchia energia, e la attingeranno direttamente da noi maghi.»
      Il ragazzo sgranò gli occhi grigi, impallidendo all’istante. Dall’inquadratura non riusciva a vederlo bene, ma era sicura si fosse irrigidito sul posto. Posò il bicchiere di caffè con un gesto davvero troppo meccanico per essere naturale, e poi tornò a guardarla, prendendo fiato e cercando di articolare una frase che non risultasse tremendamente idiota.
      «Hein
      Ovviamente fallì.
      Olivia inarcò un sopracciglio, e represse un sorriso coprendosi abilmente le labbra con le dita.
      «Non tutti gli dei parteciperanno, Maximillien, e l’energia che preleveranno sarà una minima parte del potenziale magico di ciascuno, perciò varierà in base alle proprie capacità, per evitare che qualcuno rimanga ucciso.»
      «Oh.» Le labbra del ragazzo descrissero una curva perfetta. «Questo non mi rassicura per nulla.»
      «Non pensarci troppo.» Lo troncò la ragazza, agitando una mano e facendo scintillare un paio di anelli smaltati. «Te lo sto dicendo solo perché, probabilmente, ci sarà anche Ra.»
      L’espressione di Max passò dal dubbio alla confusione più assoluta in un lasso di tempo incredibilmente breve.
      «Spero non in gonnellino.» Commentò, con una nota di nervosismo. Olivia fece finta di non averlo sentito e continuò.
      «Attualmente, non ha un ospite tra noi maghi. E tu sei l’elementalista del fuoco più potente che la Casa abbia visto da decenni, la persona più vicina a seguire il suo cammino.»
      Il ragazzo toccò istintivamente i due piccoli amuleti che teneva appesi a un braccialetto di cuoio un po’ rovinato, anch’essi vecchi regali di compleanni ormai passati. Il primo era uno scarabeo di corallo con il guscio fatto di smeraldo; l’altro raffigurava un Udjat orientato verso destra, di ceramica bianca. Il bordo dell’occhio era smaltato di blu e la pupilla era formata da un singolo lapislazzulo screziato d’oro. Entrambi, secondo la tradizione, erano associati al dio del Sole.
      «Non voglio diventare l’ospite di Ra.» Borbottò. L’intera faccenda di dei, occhi e risorse magiche infinite l’aveva sempre messo a disagio più di quanto amasse ammettere. E poi, con tutta onestà, le infinite discussioni che Olivia sembrava portare avanti con la sua parassita personale non erano proprio incoraggianti.
      «Non ho detto questo. Solo, è probabile che Ra farà molto affidamento sulla tua magia, lasciandoti stanco e stordito per qualche giorno. Mi sembrava giusto avvisarti.» Lo rassicurò.
      «Ah, quindi non potrò nemmeno usare gli incantesimi? Fantastique
      «Smettila di lamentarti e riposati, hai capito?» Gli disse, sbirciando l’orario sull’orologio appeso alla parete. «Ora devo andare. Non far passare una settimana prima di avere di nuovo tue notizie, o giuro che ti incenerisco.»
      «Reçu fort et clair! Salut
      «Salut
      Max chiuse la chiamata e lei si accasciò contro il divano, chiudendo gli occhi, accorgendosi solo in quel momento di quanto fosse effettivamente stanca, nonostante non avesse fatto nulla.
      Iside la stava, ovviamente, aspettando. Si materializzò davanti a lei in un turbinio di colori, facendo frullare le ali con impazienza.
      “Non avresti dovuto dirglielo.” Esordì, stagliandosi con prepotenza contro il vuoto che il suo subconscio stava proiettando dietro i suoi occhi. “Non era necessario sapesse.”
      “Invece sì. Ne ha tutto il diritto, come Jacob.”
      Iside non nascoste una smorfia schifata, il volto bellissimo contratto nel disgusto più totale e puro.
      “È inutile che fai quella faccia.” La rimbeccò Olivia, come se stesse parlando a una bimba capricciosa. “Saremo le tue fonti principali di energia durante la materializzazione, è un dato di fatto.”
      “Ti prego, non ricordarmelo. Sto per vomitare.
      “Pensavo che la cosa ti facesse piacere, dopotutto.
      La dea sciolse l’intreccio delle sue braccia, facendo increspare la veste trasparente e impalpabile.
      “Oh Olivia, non sei tu il problema.” Le fece presente. “Sei perfetta, ragazza mia. Altrettanto non si può dire di quell’altro… Oh, non mi vengono nemmeno le parole per descriverlo…
      “Ragazzo?” Provò la giovane. Iside schioccò la lingua.
      “Abominio.” Scandì, e il suono di quelle sillabe le ruggì in testa con prepotenza.
      “Ma per favore!” Esclamò, senza impedirsi di sbuffare. “Jacob ha un’affinità naturale per seguire il tuo cammino, dovresti esserne lusingata. Un giorno, potrebbe persino rivelarsi un ospite molto più potente di me.
      “In tal caso preferisco marcire per tutta la mia eternità nella Duat, grazie tante.”         
      Olivia aprì di scatto gli occhi, per nulla intenzionata a continuare una conversazione del genere. Si massaggiò le tempie indolenzite e, alla fine, decise di alzarsi, raccattando la coperta che aveva trovato in uno degli armadi.
      Non ne poteva più. In tutta la sua vita non si era mai sentita così stanca, arrabbiata, confusa, instabile. Iside era impossibile. Gli altri maghi a capo dei Nomi erano impossibili. Tutta la faccenda della magia era impossibile.
      Si bloccò al centro della stanza, imponendosi di prendere un bel respiro profondo, prima di continuare. La nausea aveva ricominciato a tediarla, salendole fino alla bocca dello stomaco, in un supplizio che sarebbe terminato – ormai lo sapeva fin troppo bene – con lei china sul pavimento del bagno.
      «Mamma mia…» Borbottò. Si fermò davanti allo specchio appeso alla parete, come se scrutare così intensamente il suo riflesso avesse potuto farla stare meglio.
      Occhi azzurri, capelli indomabili, piercing sul naso e sul labbro: era sempre la solita Olivia, nella sua vecchia stanza al Primo Nomo con le pareti color carta da zucchero. La sua altezza spropositata era sempre la stessa; la matita che si era mezza sciolta sbavandole la riga dell’eyeliner pure. Ma più si guardava, e più si sentiva strana, come se non fosse veramente il suo corpo, quello.
      Una fitta più dolorosa le accartocciò lo stomaco, e d’istinto si portò le mani al ventre, strizzando gli occhi. Durò solo per un istante, e quando rialzò lo sguardo vide Iside riflessa sulla superficie lucida davanti a sé.
      “So come ti senti.” Disse, dopo un silenzio irreale in cui si era limitata a fissarla. La sua immagine tremolò impercettibilmente, i tratti del viso si ammorbidirono, finché davanti a lei non rimase che una ragazza della sua stessa età, con grandi occhi scuri e capelli lisci. La serietà che le segnava l’espressione stonava completamente con la sua figura; e Olivia sentì qualcosa smuoversi da qualche parte nel suo animo, rendendosi conto – forse per la prima volta -  di quanto in realtà si somigliassero.
      “Mi preoccupo solo per te.” Continuò, serrando le labbra e lasciando che l’incrinatura impalpabile nella sua voce si disperdesse nell’aria. “Questo lo sai, vero?
      Annuì. Iside la guardò un’ultima volta, e poi svanì.
 
 
 
Odiava, con ogni singola molecola del suo essere, l’America.
      Aveva sempre trovato ridicola la sua affermazione di potenza a livello mondiale, e l’egocentrismo degli uomini che l’abitavano le faceva salire la bile allo stomaco, oltre ad aumentare il suo personale disgusto verso tutto ciò che respirava e si vantava di possedere un briciolo di raziocinio.
      Nulla sembrava salvarsi: tutto quello che le passava davanti agli occhi riusciva ad irritarla, in una maniera che neanche lei avrebbe mai immaginato fosse possibile. Gli umani, la folla, quei ridicoli cartelli colorati pieni di indicazioni, e soprattutto l’uomo seduto dietro il bancone di fronte a loro. Sospirò seccata facendo sibilare l’aria accanto a sé, assottigliando gli occhi neri fino a renderli due piccole fessure.
      «Qualcosa non va, Onee-sama
      Tsukuyomi si voltò a guardarla, piegando un poco il viso pallido e perfetto. I capelli scuri gli ricadevano ordinati sulle spalle, legati in un’impeccabile coda alta che gli scopriva le orecchie; sulla fronte, appena percettibile, c’era l’alone di una voglia a mezzaluna.
      Gli strinse con la mano il braccio che le aveva porto appena scesi dall’aereo, e che lei aveva accettato di buon grado.
      C’erano un sacco di cose che non andavano, avrebbe voluto dirgli, a partire dal fatto che per arrivare in quel luogo squallido avevano dovuto utilizzare un ridicolo mezzo di trasporto umano invece che un portale, partendo addirittura due giorni in anticipo. Poi, ovviamente, c’era la questione dell’incontro con le altre divinità, che aveva brutalmente fatto a pezzi tutti i suoi sforzi millenari di isolarsi dalla feccia – o comunque da entità che, secondo il suo modesto parere, non erano nemmeno degne di respirare la sua stessa aria. Ultimo, ma non meno importante, era il luogo in cui era stato organizzato il tutto.
      Manhattan.
      Un nome volgare per una città altrettanto volgare. Quell’accozzaglia di edifici alti che si ostinavano a chiamare grattacieli non era nulla paragonata alla raffinatezza della sua Tokyo, che nonostante il passare degli anni continuava a mantenere un gradevole equilibrio tra innovazione e tradizione. Il palazzo della famiglia reale aveva ancora i tetti spioventi e decorati, e i tatami delle stanze interne – dove i piccoli principi si divertivano a giocare in sua presenza – rispecchiavano esattamente l’estetica che aveva portato grande splendore al suo Paese.
      Nonostante questo però, anche una qualsiasi città dell’Asia le sarebbe andata bene. Anche l’Europa, per quanto le facesse nascere sentimenti contrastanti, possedeva il suo fascino. Ma l’America era, in assoluto, la scelta più orribile e mediocre a cui potevano ricorrere. E no, la scusa che quel gradasso di Zeus le aveva dato era riuscita solo a indispettirla ancora di più, facendo nascere il desiderio incontrollabile di sputargli in un occhio alla prima occasione disponibile. Non le importava che metà dei Pantheon più influenti della loro epoca si trovassero lì, né le interessava in alcun modo la Civiltà Occidentale. Avevano attraversato un oceano su uno squallidissimo aereo per essere presenti, solo perché quel bambino viziato non aveva voglia di far fatica e muovere qualche passo in più.
      Non era stupida: sapeva benissimo come stavano le cose, e l’ipocrisia di quell’invito non l’avrebbe scordata facilmente. Era una dea molto più antica di lui, e non avrebbe esitato a farlo scendere da quel piedistallo che gli uomini e i simili della sua stessa stirpe avevano osannato per secoli.
      «Non voglio essere qui.» Sillabò furiosa, frenando il flusso dei suoi pensieri per concentrarsi su suo fratello. Tsukuyomi abbassò le palpebre e le poggiò la mano libera sulla sua, in un gesto intimo per esprimerle conforto.
      «Lo so, Onee-sama. Nessuno di noi vorrebbe, ma è il nostro dovere.»
      Gli occhi blu l’osservarono attenti, ma senza rimprovero. Fece una smorfia e tornò a fissare davanti a sé, perdendosi nelle pieghe della giacca di Susanoo, al momento intento a rispondere alle domande della guardia. Con un cenno, l’uomo fece segno di venire avanti, e un minuto dopo Amaterasu si ritrovò con uno scanner elettronico puntato in faccia.
      Represse la sua indignazione e si limitò a squadrare con disgusto quell’umano: A Narita il personale ormai era composto solamente da androidi, e le procedure di controllo duravano così poco che le file non avevano nemmeno il tempo di formarsi.
      «Non pensavo ci fosse così tanta gente.» Borbottò Susanoo mentre si allontanavano, riponendo con cura i loro passaporti nella tasca interna del suo giaccone bianco. Aveva deciso di tenere i capelli molto corti, e la barba gli segnava con cura la mascella squadrata.
      Le si affiancò e, anche lui, le porse il braccio. Amaterasu fece scivolare la mano sul suo gomito, e artigliò il tessuto con le unghie, nella disperata ricerca di un sostegno che l’aiutasse a trovare la forza per uscire da quell’aeroporto.
      «Forse è già periodo di festa per i mortali americani.» Provò Tsukuyomi, guardando con interesse la pubblicità di un rasoio elettrico su uno dei numerosi schermi presenti.
      «Mancano due mesi a Natale.» Borbottò. Susanoo alzò un sopracciglio e tese le labbra in un sorriso.
      «Qualcosa ti da fastidio, Onee-san
      Non si sprecò nemmeno ad alzare la testa per incontrare il suo sguardo. «Tutto.»
      Susanoo rise di gusto, e li trascinò verso il nastro trasportatore per ritirare i bagagli. La calca di persone intente a sbracciarsi e controllare i dettagli del volo sul monitor incassato sulla parete le fece venire il voltastomaco. Azzardò un paio di passi, cercando di seguire il minimo di coda che si era formata, ma rinunciò quasi subito ad andare avanti.
      «Io lì in mezzo non ci vado.» Fece presente ai fratelli, mentre aspettavano. Non capiva perché la gente continuasse a spingere, a starle così tremendamente vicina e soprattutto ad urlare. Con il tacco della scarpa, pestò un piede all’uomo dietro di lei, che si era permesso di toccarle una spalla, e si voltò inferocita quando quest’ultimo iniziò a sbraitarle contro, facendogli morire in gola le parole.
      «Onee-sama.» La riprese Tsukuyomi, preoccupato. Avanzarono di qualche metro, e finalmente riuscirono a scorgere il nastro trasportatore e le valige ammassate le une sulle altre. Al suo fianco, il dio della Luna sporse la testa, probabilmente cercando di individuare le loro, impresa tutt’altro che semplice. Susanoo sospirò sconsolato, vedendo che, effettivamente, in quei pochi metri quadrati erano raggruppati almeno i bagagli di due voli differenti.
      Stava per esprimere tutto il suo disappunto quando, dalla folla, emerse un ragazzo. Si fece largo a spintoni e con noncuranza si sfilò le scarpe, balzando sul nastro con i piedi fasciati in un paio di calzini azzurri.
      Era il tipo più assurdo e mal vestito che i suoi occhi avessero mai visto in tutta la sua vita, una specie di apparizione futurista color neon: portava pantaloni rosso mattone con dei discutibili risvoltini all’altezza del polpaccio, e un paio di bretelle larghe appese ai passanti della cintura; una giaceva inerme lungo il fianco, l’altra continuava a scivolargli sul braccio. Aveva il coraggio di andare in giro in canotta scollata, nonostante il freddo, sfoggiando anche un orribile ciondolo a forma di teschio – con tanto di becco – probabilmente placcato d’oro, al collo. E, per finire, legato in vita teneva un giacchetto di un’improbabile tonalità di rosa con tanto di piumino e imbottitura sintetica.
      Il ragazzo balzò agilmente tra le borse, spostando con i piedi quelle che lo intralciavano, e alla fine arrivò di fronte a un trolley giallo canarino. Lo sollevò con entrambe le mani e poi si voltò verso la folla, sotto lo sguardo sgomento dei vari passeggeri.
      «Ohi, Sis!» Gridò, sogghignando quando la ragazza che stava chiamando si voltò. «Prendi!» E senza il minimo senso civico lanciò la valigia.    
      La folla si separò per levarsi dalla traiettoria dell’oggetto, tra urla di protesta e grida. Qualcuno aveva sfilato il proprio telefono dalla tasca per poter riprendere la scena, prima che qualche agente della sicurezza fermasse quel delirio da visualizzazioni facili.
      La ragazza non si mosse dal suo posto, ma si limitò ad alzare una gamba per colpire un angolo del trolley, che deviò sfracellandosi al suolo con un gran fracasso.
      «Ale, cha cazzo fai!» Gli urlò di rimando, ridendo. Non riusciva a vederla bene in faccia perché degli occhiali da sole le coprivano metà del viso, ma aveva capelli chiari raccolti in uno chignon e in una mano teneva un bubble tea rosa, in perfetto abbinamento con il colore della sua giacca di jeans di almeno tre taglie più grande.
      Per tutta risposta il fratello le lanciò un’altra valigia, questa volta di tela e di color verde scuro, che fece la stessa identica fine, schiantandosi per terra.
      «Spero che Mordecai non ci tenesse il portatile, lì dentro.» Commentò la biondina, spostando con la punta del piede il suo trolley vicino all’altra borsa. Bevve un sorso del suo thè mordicchiando la cannuccia, mentre il ragazzo sollevava un’altra valigia ancora.
      «Di chi è questa?»
      Mostrò l’oggetto camminando sul nastro, e per poco non inciampò. Un uomo si sbracciò dalla folla, e il ragazzo gliela passò ridendo, raccattandone un’altra.
      Nonostante il metodo poco ortodosso – e l’inspiegabile divertimento con cui quel tipo continuava a passare bagagli – il recupero si velocizzò abbastanza da svuotare gran parte del nastro, e la folla si dissipò in fretta.
      «Oh, questa è di Lucio!» Disse il tipo, e sghignazzò lanciando alla sorella un vecchio trolley nero pieno di adesivi appiccicati sopra. La ragazza non si sforzò nemmeno di prenderlo, semplicemente si spostò per non essere colpita, ficcando una mano in tasca mentre finiva la sua bevanda.
      Amaterasu avanzò di un passò, arrivando finalmente davanti al nastro. Per quanto la riguardava, quello sciocco teatrino avrebbe potuto anche continuare, non le interessava, l’unica cosa che non voleva era essere coinvolta. Ma prima che Tsukuyomi potesse anche solo allungare la mano, il ragazzo arraffò il suo bagaglio, stringendolo tra le mani.
      «Questo?»
      «Qui, per favore.» Suo fratello fece un cenno con la mano, e il giovane gli allungò la borsa con premura, sporgendosi e rimanendo in equilibrio su un piede.
      «Immagino che anche queste siano vostre, giusto?» Raccattò le due valige vicine e gliele passò. Amaterasu cercò di afferrare il manico senza sfiorargli nemmeno un centimetro di pelle; e il ragazzo sembrò trovare la cosa divertente.
      Continuava a fissarla in maniera insistente e dovette far ricorso a tutta la pazienza che le era rimasta per non sfregiargli la faccia con le unghie. Forse un tempo era stato biondo, ma ora i capelli erano solo un ammasso confuso di ciocche azzurre, rosa e viola che gli ricadevano in un ciuffo disordinato sugli occhi. Oltre alla collana portava due orecchini diversi, pacchiani alla stessa maniera, e un paio di piume e perline pendevano su una trecciolina di stoffa posta dietro il collo, dove il taglio dei capelli sfumava e si faceva più corto. Le sorrise, mettendo in mostra un generoso spazio tra gli incisivi; cosa che contribuì ad aumentare enormemente al suo malumore.
      «Grazie.» Susanoo la invitò ad andare avanti con un cenno della testa, e lei voltò il capo mettendo fine a quell’irritante scambio di sguardi.
      «Dai Ale, non abbiamo tutto il giorno!» Si lamentò la biondina, tirando su i fondi di quello che rimaneva del suo thè. Le passarono accanto e lei, senza nemmeno provare a essere discreta, si abbassò gli occhiali sul naso, occhieggiando Tsukuyomi e facendogli l’occhiolino quando questo alzò il viso nella sua direzione.
      «Per favore…» Borbottò esasperata, e camminò spedita verso l’uscita, sorvolando sulla faccia paonazza di suo fratello minore, e il sogghigno morbido che avevano preso le labbra di Susanoo.
      «Ne ho già abbastanza di questo posto.» Decretò alla fine.
 
 
 
Loki era felice. Tremendamente felice.
      Un sentimento così prepotente e genuino non lo provava da decenni; nemmeno il momento in cui, ottanta anni prima, era riuscito a liberarsi dalle catene con cui lo avevano costretto gli dei, riusciva a competere con l’euforia che ora gli ruggiva nelle vene e gli piegava le labbra sfregiate nel più entusiasta dei sorrisi.
      Probabilmente però, la cosa non era condivisa. Gli bastava guardarsi attorno per capirlo: gli Asi e i Vani continuavano a squadrarlo con insofferenza, attenzione e una palpabile voglia di farlo a pezzi, incenerirlo e prenderlo a martellate… Insomma, le solite cose per vendicarsi dei tiri mancini che aveva giocato loro nel corso dei millenni.
      Trovava la cosa estremamente esilarante.
      «Ti serve qualcosa, Sif cara?»
      La dea serrò le labbra indispettita, rifiutandosi di rispondergli, e scosse la chioma dorata voltandosi dall’altra parte. Suo marito, Thor, inarcò entrambe le sopracciglia con una smorfia, cercando un pretesto abbastanza credibile nelle sue parole che gli potesse dare il permesso di stampargli una martellata in faccia. Loki fissò il suo faccione contrarsi per il disappunto, e lo trovò adorabile.
      «Oh andiamo! Cosa sono quelle facce? Non mordo mica!» Disse sorridente, facendo scorrere lo sguardo sulle divinità presenti, sedute in modo stranamente civile attorno a un tavolo ancora integro. Sygin, accanto a lui, si mosse appena e allacciò le mani in grembo.
      «Loki, abbiamo sospeso la tua pena in vista di questo incontro, non farci rimpiangere questa scelta.» L’ammonì Frigg dall’altro lato della tavolata, con una serietà eccessiva che lo divertì ancora di più.
      «Non lo farei mai!» Si portò una mano al petto, ma nessuno credette al suo tono fintamente offeso. «Sono davvero lusingato di essere qui.» Il che era la cosa più vicina alla verità che avesse mai detto.
      Frigg socchiuse gli occhi, per nulla convinta, ma prima che potesse aggiungere altro, Odino si materializzò a capotavola, facendo starnazzare i suoi due corvi.
      L’uomo si grattò la barba corta, soppesando i presenti con l’unico occhio che gli era rimasto.
      «Ah, bene, vedo che siete già tutti qui.» Asserì, dedicandogli una lunga occhiata a cui rispose con un sorriso innocente. «Dei! Abbiamo molto di cui parlare!»
      I minuti successivi furono un susseguirsi di spiegazioni fuorvianti, riassunti in elenchi puntati e diapositive in PowerPoint: il Padre Universale sembrava andare molto fiero della sua presentazione con i testi in bianco su sfondo nero, in modo che fosse più facile capirli e più difficile distrarsi. Loki non ascoltò nemmeno una parola e si limitò a coprirsi la bocca con una mano, nascondendo uno sbadiglio annoiato.
      Ancora non gli era chiaro perché uno del calibro di Odino avesse bisogno di tenere discorsi seguendo una scaletta di punti; ma d’altra parte era conscio del fatto che non tutti fossero fantastici come lui, e riuscissero a improvvisare sempre su qualsiasi argomento facendo un’ottima figura.
      Forse era una prerogativa delle divinità della conoscenza quella di essere strana, pensò. Tezcatlipoca gli aveva raccontato, ridendo, di come suo fratello fosse geniale in un sacco di campi, ma ancora non era riuscito a laurearsi a causa di un paio di esami che continuavano a spostargli. E poi c’era anche quel tale egizio, Toth, che oltre agli evidenti problemi di vista si ostinava a circondarsi di babbuini e rinchiudersi in biblioteche universitarie, invece che usare il suo tempo in attività più produttive quali progettare la fine del mondo, per esempio.
      Odino continuò a ciarlare imperterrito, mandando avanti la sua presentazione finché la foto di un uomo non coprì metà dello schermo: Zeus aveva la faccia contrita, occhi azzurro sporco e una barba striata di grigio come se fosse percossa dai suoi fulmini.  Fece una smorfia guardando l’immagine: lui e quel bisbetico greco avevano più o meno la stessa età, ma certamente lui non aveva mica tutti quei capelli bianchi.
      «Credi che anche io sia così vecchio?» Sussurrò, voltandosi verso sua moglie, distraendosi per l’ennesima volta.
      Sygin battè le palpebre, prendendosi tempo per studiarlo in viso. Una ciocca di capelli le era sfuggita dal cappuccio che indossava, e ora le sfiorava piano una tempia. Gli occhi erano sempre rossicci, un po’ stanchi, ma almeno aveva smesso di piangere – cosa che personalmente gli aveva sempre dato un certo fastidio.  Alla fine lei scosse la testa, arricciando appena le labbra.
      «Volevo ben dire!» commentò, passandosi una mano tra i capelli.       
       «Loki.»
      Odino lo guardò storto mentre tornava a girarsi; il telecomando con il puntatore stretto in una mano.
      «Non sei qui per chiacchierare.» Gli ricordò.
      «Oh, ma io stavo ascoltando!» Disse, offeso. «Zeus e l’incontro di domani sera, a Manhattan. “Caraval Place, ore 19:30, vestirsi in modo adeguato per l’occasione.”» Recitò a memoria, sotto lo sguardo sbigottito dei presenti. «È per questo che mi avete chiamato vero? Oh, io adoro le feste!» Esclamò, accavallando le gambe sotto il tavolo.
      I corvi di Odino sbatterono le ali infastiditi, e il dio lo fissò per secondi interi con aria indecifrabile.
      «Sì… È esatto.» Disse. Probabilmente aveva anticipato qualche punto nel suo PowerPoint, per questo ora sembrava così seccato. «Per domani, Zeus ha indetto un incontro tra tutte le divinità; e noi siamo qui per decidere chi ci rappresenterà, visto che per problemi logistici non potremmo essere tutti presenti. Ho compilato alcune liste che vi pregherei di leggere, per poi passare all’approvazione…» E ricominciò a parlare illustrando i vari motivi che lo avevano portato a una soluzione del genere.
      Loki sghignazzò. Si era beccato un’occhiataccia da Vidarr, che a braccia incrociate stava cercando di seguire il discorso; un’impresa coraggiosa, dovette ammetterlo. Lui, d’altro canto, si concentrò sul bordo di legno scheggiato che aveva davanti.
      Aveva ricevuto la notizia ben tre giorni prima, in modo tutt’altro che normale: quel gran gradasso di Seth gli si era materializzato davanti – o meglio, la sua essenza – e lui lo aveva riconosciuto solo per la pelle rossa e il sorriso da carogna. Gli aveva detto qualcosa che suonava come “Ah, ma ancora non hai saputo?” e poi era sparito ridendo; senza lasciargli il tempo di chiedersi a che cosa si riferisse, o perché avesse l’aspetto di un ragazzino ricoperto di tatuaggi.
      Sygin era stata decisamente più utile e gli aveva porto l’invito con entrambe le mani, sul viso un’espressione di trepidante attesa mentre articolava la prima frase dopo più di un millennio di silenzio. La cosa gli aveva fatto uno strano effetto, ma visto come lui stava gestendo l’intera faccenda – nemmeno si fosse iniettato qualche droga strana direttamente nelle vene – poteva comprendere la sua euforia.
      «Questa è la proposta definitiva. Qualcuno ha qualcosa da dire?»
      Alle spalle di Odino era comparso l’ennesimo schema che illustrava i nomi di chi, il giorno dopo, avrebbe partecipato all’incontro. Il dio si era impegnato affinché la lista apparisse ordinata, suddividendo in colonne gli Asi e i Vani, e in righe le donne e gli uomini.
      Erano in sette e, onestamente? Nulla di sorprendente. Loki scorse rapidamente la lista: Odino, Thor, Sif, Frigg, Freya, Freyr… Il suo nome era l’ultimo, e la cosa lo divertì più del dovuto. Non che facesse qualche differenza, comunque: a prescindere da qualsiasi decisione – e presentazione motivazionale – di quel vecchio svampito, lui aveva già deciso di presentarsi. Non poteva certo sprecare un’occasione del genere, considerato anche le illustri personalità che ci sarebbero state.
      «Perché deve venire anche lui?»
      Thor batté un pugno sul tavolo, facendone scricchiolare le gambe, in un gesto pieno di eloquenza degno di un bambino di cinque anni.
      «Perché non dovrei?» Ribatté prontamente. «Sì, è vero, il mio scopo è quello di far iniziare il Ragnarok… Ma senza fretta.» Scrollò le spalle, alzando le mani. «Anche perché questo non è proprio il momento giusto per scatenare il Giorno del Giudizio. I problemi che la magia sta causando dappertutto sono il sintomo di qualcosa di più grande e molto meno divertente del Ragnarok, credimi.»
      Il faccione di Thor si contrasse, mentre processava le sue parole e cercava di capirle. Per lo sforzo, una scintilla gli attraversò la barba e i capelli, facendoglieli rizzare sul cranio.
      «Lo sanno tutti che non ci si può fidare delle tue parole.» Freya incrociò le braccia sotto il seno, facendosi più vicina al gemello.
      «Non avrei motivo di mentirvi.» Le disse, scoprendo i denti in un sorriso gelido. «Se non ve ne siete accorti qui non stiamo parlando di giganti e navi fatte con le unghie dei piedi. Stiamo parlando di magia; e se scompare allora non rimarrà la benché minima traccia di nessuno di noi. Puff! Tutto svanito nel nulla, come se non fosse mai esistito.» Agitò le dita a mezz’aria, e dalla punta baluginarono piccole fiammelle. «Quindi, sì. Preferisco rimanere vivo ancora un po’, grazie mille.»
      «Loki ha ragione.» Odino sospirò, mentre i corvi gli beccavano la testa. «Un problema di questa portata non è mai capitato, e non mi stupirei se in futuro ci trovassimo a collaborare direttamente con altre realtà differenti dalla nostra. Ed è scontato che non possiamo tirarci indietro! Che esempio saremmo, sennò?»
      Loki alzò un sopracciglio notando il fervore che animava le parole del dio; forse qualcuno di quei seminari motivazionali era davvero servito a qualcosa. Thor si lamentò ancora, minacciando di sfondare il cranio di chiunque fosse il responsabile di quel macello a martellate – cosa difficile, visto che la magia era qualcosa di astratto; ma il rosso non sembrava arrivarci, e finì per portare il suo divertimento a picchi estremi, che difficilmente avrebbe superato.
      «Altri?»
      «Potrei venire anche io?»
      Tutta la tavolata si voltò verso Sygin, che si torse nervosamente le mani poggiate in grembo. Non le piaceva essere al centro dell’attenzione – una delle tante cose per cui differivano sostanzialmente – eppure dovette riconoscerle una certa audacia.
      Gli dei la osservarono straniti, in silenzio, negli occhi la confusione come quando aveva espresso il desiderio di rimanergli accanto durante la sua atroce tortura.
      Pazza.
      «È un problema?» Chiese, la voce ridotta a un sussurro. Avevano ancora da lavorare su questo aspetto, ma lo sguardo deluso con cui stava guardando Odino era al pari delle sue recitazioni migliori. Sapeva che Sygin non si sarebbe mai sognata di ingannare nessuno ovviamente ma, chissà, forse secoli di matrimonio le avevano insegnato qualcosa, almeno a livello inconscio.
      «No, non c’è nessun problema.» Disse Odino, scambiando una rapida occhiata con il resto delle divinità. Sygin ringraziò facendo un cenno col capo e increspò leggermente le labbra all’insù, in un sorriso discreto come la sua presenza.
      «Devi essere proprio disperata, eh.» Le disse, avendo fin troppo chiaro il motivo per cui desiderasse partecipare. Che poi, alla fine, era uguale al suo.
      «…Potrei dire la stessa cosa di te.»
 
 
 
«Manu, ho un problema!»
      Emanuel rise, sistemando meglio la webcam del computer in modo che gli riprendesse il viso e la parete piena di poster sopra il letto.
      «Centra qualcosa con il fatto che sei nudo?»
      «Non sono nudo.» Precisò, uscendo dal bagno della sua camera. Aveva passato le ultime due ore a lavarsi e asciugarsi i capelli in vista della cena di quella sera, soffrendo in maniera allucinante: i phon messi a disposizione dall’hotel conoscevano una sola potenza di calore - quella minima - e lui era stato costretto a usarla per rendere quantomeno presentabile la sua capigliatura. Alla fine, preso dalla rabbia, ne aveva ghiacciato uno e lo aveva scaraventato per terra in una pioggia di schegge, distruggendolo con una certa soddisfazione.
      «Ho ancora i pantaloni addosso.»
      «Ah beh, questo si che cambia tutto.»
      Lucio lo guardò dallo schermo crepato del proprio cellulare, facendo finta di non averlo sentito.
      «Ho un’ora per prepararmi, è non ho alba di cosa mettermi.» Gli disse, cacciando sotto il letto il suo paio di Vans nere con una suola bucata. «Felipe mi ha minacciato dicendo che, se non mi vesto decentemente, mi picchia a sangue e poi mi fa anche pulire!»
      Manu si sistemò meglio sul letto, probabilmente incrociando le gambe, e spostò qualcosa fuori dall’inquadratura.
      «Questo potrebbe essere un problema effettivamente. Camicie ne hai?»
      Si mordicchiò l’unghia del pollice, guardando l’ammasso di vestiti sparpagliati per tutta la stanza: la sua valigia giaceva inerme sul tappetino vicino all’armadio, ormai vuota; il fulcro nevralgico di tutto quel casino. Un paio di jeans neri e strappati era appeso a cavallo di un’anta, mentre la sedia della scrivania stava assolvendo perfettamente al suo ruolo di “accumulatrice”, accogliendo sul suo schienale un paio di magliette che erano troppo sporche per l’armadio, ma allo stesso tempo troppo pulite per finire in lavatrice. Gli anfibi erano stati lanciati con molta grazia sotto la televisione –sicuramente con un paio di calzini infilati ancora dentro – e il comodino era un cumulo traballante di carte di merendine, lattine di Coca Cola vuote e una quantità indefinita di gioielli e monili vari.
      «Probabilmente sì, da qualche parte.»
      «Dio mio Lucio, sei via da meno di tre giorni, non puoi aver già messo tutto in disordine!»
      «Tu mi sottovaluti.» gli disse sghignazzando, mostrandogli il delirio che imperversava in quelle quattro mura. «Il bagno è messo peggio.»
      «Immagino.» Il ragazzo provò a guardarlo con un’espressione di rimprovero, ma appena vide un paio di calzini – spaiati – precariamente appesi su uno degli appendini vicino all’ingresso, cominciò a ridere senza remore.
      «E quelli?!»
      Si prese addirittura del tempo per girarsi a osservare quella nuova forma di arte architettonica.
      «Non ho alba di come ci siano arrivati lì. Ma hanno il loro perché.»
      Emanuel si sfilò gli occhiali asciugandosi le lacrime con due dita. Ogni volta che rideva gli si formava una fossetta sulla guancia sinistra, e ora era diventato così rosso che le lentiggini sembravano scomparire sulla sua pelle. Cercò di ricomporsi, ma il minimo di serietà che aveva racimolato andò in briciole non appena si guardarono di nuovo.
      «Ma alla signora delle pulizie non ci pensi?» Gli disse alla fine, sforzandosi di calmarsi. Sorrideva ancora, con gli occhi lucidi e divertiti, e Lucio sapeva che sarebbe bastata la minima cavolata per farlo tornare a piegarsi in due dal ridere.
      Era una cosa che succedeva spesso, in realtà. Una volta, avevano passato ben due ore ad annaspare e a soffocare risate durante la lezione di chimica inorganica, questo perché il loro professore aveva qualche problema di pronuncia, e ogni volta che diceva “carbocatione” era un’esperienza mistica. Alla fine erano stati cacciati comunque dall’aula, e Manu ci aveva messo almeno dieci minuti prima di tornare a un colorito normale. Lui, d’altro canto, non ne era uscito incolume, e per tutto il giorno aveva avuto la mascella indolenzita.
      «Non capisci! Questa è la mia personale forma di protesta contro le pareti oscene di questo hotel!» Gli disse, avvicinando il telefono al viso, in modo che il ragazzo potesse avere una visuale perfetta del suo naso largo e schiacciato. «Cioè, sono qualcosa di aberrante! Guarda!»
      Uscì dalla stanza, puntando il cellulare contro i muri, che sfoggiavano un’invidiabile tonalità arancione acceso; per poi tornare dentro come se nulla fosse, sotto lo sguardo perplesso dell’androide che stava spingendo un carrello pieno di lenzuola pulite, dall’altra parte del corridoio.
      «È tutto un complotto ai miei danni.» Continuò. «Vogliono che diventi cieco! Non bastava il colibrì scemo con il suo daltonismo ad attentare alla mia vista, ora ci sono pure questi!»
      «Beh, almeno a Zaina e Pablo sarà piaciuto di sicuro.»
      Fece una smorfia. «Non hai idea. Quelli sono pazzi.» Il che era tutto dire. Manu rise e piegò appena la testa per vedere qualcosa alla sua destra.
      «Il bue che disse cornuto all’asino.»
      «Almeno io sono un bue bellissimo.» Si vantò, portandosi i capelli dietro le spalle con un gesto secco della mano. Solo in quel momento si accorse della spia rossa che lampeggiava vicino alla fotocamera, e quando guardò la barra del menù notò con orrore l’indicatore della batteria vuoto.
      «Merda, ho il telefono scarico!» Si precipitò verso il comodino, e riuscì a salvare il cellulare dallo spegnimento per un soffio. «Aspetta che ti passo sul computer, Manu.»
      «Oh, fai con calma.» Ne approfittò per alzarsi, e Lucio lo vide scomparire dall’inquadratura.
      Arrancò sul letto, sfilando il portatile da sotto il cuscino, che ancora aveva il cavetto dell’alimentatore attaccato. Lo sistemò al meglio sul materasso, in modo che inquadrasse l’armadio e non la porta del bagno, che si apriva su un campo di battaglia minato, con tanto di resti di quello che era stato un phon sparsi per terra.
      Cominciò, dopo ben venti minuti di procrastinazione, a frugare tra i vestiti, alla ricerca delle fantomatiche camicie: era sicuro di avercele messe, ma visto che aveva buttato dentro la valigia le prime cose che gli erano capitate a tiro, non poteva esserne davvero sicuro. La verità era che non aveva assolutamente voglia di essere lì, ma, come al solito, i suoi adorabili fratelli maggiori se ne erano infischiati, e alla fine lo avevano trascinato a Manhattan sfruttando l’età e i seimila anni di differenza che si correvano. In pratica, era vittima di un sopruso familiare bello e buono.
      Sentì Emanuel tornare, e cadere sul letto con tutta la grazia di cui un diciannovenne maschio fosse capace.
      «Trovato qualcosa?»
      Lucio alzò una mano, mostrando al ragazzo una camicia semitrasparente, scollata e con una stampa floreale che si allargava sulla schiena, scomparendo sotto il colletto. Non aveva ancora alzato la testa, e Manu fischiò in apprezzamento.
      «È quella che hai messo l’hanno scorso per il Dia de los Muertos
      Non era una domanda. Sorrise mentre spostava una maglietta distrutta dei Metallica, e finalmente si imbatté in quello che stava davvero cercando.  
      «Ah! Che ne dice di questa?»
      Trionfante, gli sventolò davanti alla faccia un’altra camicia, molto meno appariscente. Era a righe bianche e nere, e il tessuto era così morbido che gli scivolava tra le dita come se fosse acqua.
      Emanuel ammutolì, fissandolo con gli occhi sgranati da dietro le lenti degli occhiali. Non aspettò risposta, e slacciò con cura la fila di bottoni neri prima di infilarsela.
      «Hai aperto il mio regalo! Avevi promesso che avresti aspettato domani per farlo!» Lo accusò, aggrottando le sopracciglia e assumendo un cipiglio che lo divertì ancora di più. Gli aveva consegnato il pacchetto in aeroporto, prima che partisse, visto che per il suo compleanno non si sarebbero visti. Aveva mantenuto il buon proposito di non toccare il regalo per i primi dieci minuti; ma appena decollati non aveva resistito e lo aveva scartato, troppo curioso.
      «Ops.» Lo fissò sogghignando, allacciandosi la camicia davanti a lui, nel chiaro intento di provocarlo. «La colpa è tua. Non puoi darmi un regalo e dirmi di non aprirlo.» Gli fece notare, ovvio. Si voltò verso lo specchio e si aggiustò le maniche, studiando il modo in cui il tessuto si increspava sulle spalle.
      «E tu non puoi fare sempre di testa tua.»
      «Comunque mi piace un sacco.» Gli disse, tralasciando un attimo il suo riflesso. «Come sempre hai un ottimo gusto, Manu.»
      Il ragazzo distolse lo sguardo, mordicchiandosi l’interno della guancia per sviare l’imbarazzo. Lucio notò come il rossore gli avesse chiazzato le guance, risalendo fino alla punta delle orecchie; ma non disse nulla. Si perse a guardarlo finché l’altro non si girò, e lui fu costretto a concentrarsi su altro per non fare la figura dell’ebete.
      «Se pensi di cavartela così, ti sbagli di grosso: il prossimo anno di attacchi!»
      Per tutta risposta rise, e vide l’espressione di Emanuel ammorbidirsi.
      «Me ne farò una ragione. Qualche idea per i jeans?»
      «I Levi’s azzurri a vita alta.»
      «Oh.» Inarcò le sopracciglia. «Questa te la sei preparata?»
      «Non era una proposta, ma un ordine. Ho comprato quella camicia solo per vederti con qualcosa di chiaro addosso.»
      «E se non li avessi portati?» Ribatté, divertito.
      «Non fare il furbo, sono sulla sedia. Li ho visti, prima.»
      Ridendo li recuperò, e finì di vestirsi. Emanuel assottigliò lo sguardo quando rimase in mutande, inarcando un sopracciglio.
      «Hai davvero dei boxer con dei cactus sopra?»
      Abbassò lo sguardo sulla sua biancheria, e le stampe sorridenti di piccoli cactus verdi. Probabilmente la sua ossessione verso tali piante grasse era data da qualche trauma infantile, però sì. Aveva dei boxer con dei cactus sopra. E ne andava fiero.
      «Se vuoi me li tolgo.» Gli propose, con la sua peggior faccia da schiaffi, tanto che Manu alzò gli occhi al cielo.
      «Per carità, mettiti quei jeans.»
      «Come se fosse la prima volta che mi vedi nudo.»
      Emanuel sospirò, ma Lucio vide comunque l’accenno di sorriso che cercava di nascondere.
      «Perché non ti ho ancora dato un pugno?»
      «Perché mi adori.» Infilò con cura l’orlo della camicia nei pantaloni, e poi si voltò un’ultima volta verso il computer. «Allora?»
      «Ti sei salvato. Non dovrai ripulire il tuo sangue dalla moquette arancione, stasera.» Gli sorrise, spingendosi sul naso gli occhiali. «Ora devo andare, c’è mamma che mi chiama. Fammi sapere come va, d’accordo?»
      «¡Claro que si!»
      Si salutarono, e Lucio chiuse il portatile lasciandolo in stand-by. Svogliatamente finì di prepararsi, indossando orecchini, piercing, e collane varie; si legò i capelli in una treccia bassa perché si erano gonfiati tutti, e lui non aveva le forze per armarsi di piastra e spazzola. Si infilò gli scarponcini, recuperò il telefono e la giacca, e uscì in corridoio.
      La telefonata con Manu gli aveva decisamente risollevato l’umore, e lo aveva lasciato con una bella sensazione addosso, che gli faceva formicolare piacevolmente la pelle. Si stava convincendo che, dopotutto, quella serata non sarebbe stata poi così male.
      Poi arrivò in atrio, e le sue speranze si sgretolarono senza pietà.
      «Bella camicia!»
      Alejandro gli sorrise mettendo in mostra lo spazio tra i denti mentre, a cavallo dell’entrata, fumava una sigaretta. Indossava una giacca rosa e jeans strappati di una tonalità più scura – ovviamente muniti dei soliti risvoltini ad altezza polpaccio - insieme a un’accecante camicia azzurra e un paio di snaekers immacolate.
      Insomma, era inguardabile in tutti i sensi.
      «Grazie. Tu gli scaldamuscoli dove li hai lasciati? Negli anni ottanta?»
 Suo fratello rise, e Lucio sentì l’impellente desiderio di tirargli un pugno sul naso già storto.
      «State buoni, voi due.» Li rimbeccò Santos, sporgendosi dal divanetto dove era seduto. La maglia che indossava gli si tendeva sul petto e sulle spalle enormi, dandogli un’aria ancora più imponente del solito. Aveva cambiato le perline delle sue treccine di stoffa, in modo che fossero intonate con i vestiti e gli orecchini di metallo.
      Lucio avrebbe voluto accontentarlo, davvero, ma nei minuti che seguirono l’atrio si riempì con il resto del loro gruppo, e lui rimpianse con tutto il cuore di non essersi portato appresso dei fottutissimi occhiali da sole.
      Zaina e Pablo lo placcarono appena scesi dalle scale, in un vorticare di arancione – la stessa, identica, sfumatura delle pareti – nero e tatuaggi messi in bella vista da spacchi e scollature; nonostante fuori ci fossero cinque gradi. Rebeca indossava una gonna di pelle gialla e Miguel, al suo fianco, aveva deciso di non essere da meno sfoggiando una salopette blu elettrico. Elia era quasi presentabile, se non si contavano gli occhiali da sole ben piantati sulla testa e il rossetto fosforescente rosa, che si abbinava alla perfezione con quello azzurro di Alejandro.
      L’ultimo ad arrivare fu Mordecai, e scese le scale sistemandosi i polsini della camicia verde oliva, il giubbotto sottobraccio. Li squadrò, e Lucio sperò quasi che li rispedisse tutti a cambiarsi; o che per la vergogna decidesse all’ultimo di non farli partecipare. Purtroppo si limitò a scusarsi per il ritardo, e a commentare la camicia di Felipe, uno dei pochi a essere davvero presentabile.
      «Hai messo quella bianca alla fine.»
      «Sì.» L’uomo inarcò un sopracciglio, come se si aspettasse una frase del genere. Le treccine gli ricadevano sulla schiena in una massa scura, ornata da piume e applicazioni in oro. «Avete qualcosa contro la mia camicia, oggi?»
      «No, semplicemente pensavo avresti scelto quella nera.»
      «Anche io gliel’ho detto!» Ada circondò la vita del marito, nel suo svolazzante abito rosso, e Felipe le passò un braccio dietro la schiena, abbassando la testa per guardarla. «Non che il bianco non ti stia bene, caro, ma il nero è più elegante. Si confonde con la tua carnagione. Ti fa sembrare nudo, il che è sempre fantastico.»
      «Donna, per favore.»
      La dea rise, e Lucio decise che si sarebbe buttato giù dal primo ponte che avesse trovato per strada. Sfilò il telefono dalla tasca e mandò un messaggio a Emanuel, giusto per non avere rimpianti nel caso non fosse sopravvissuto alla cosa.
     
      TI PREGO, SALVAMI.
 
 
 
Caraval Place era, probabilmente, l’edificio più lussuoso che avesse mai avuto modo di visitare nel mondo mortale. Svettava sul cielo buio di Manhattan, con l’architettura che si incurvava morbidamente verso l’alto, dando l’impressione che potesse prendere vita da un momento all’altro. Un parco sconfinato circondava l’intera struttura, e ordinate file di larici affiancavano il vialetto principale.
      C’erano molte cose che lo rendevano nervoso, prima fra tutte il suo essere lì. Non era per nulla a suo agio, e sapere che quello era proprio il suo corpo, e non una manifestazione evanescente della sua essenza, gli faceva arricciare lo stomaco, non migliorando affatto la situazione. Quando glielo aveva detto, Diana aveva riso, allungando le mani per sistemargli la catenina con l’Ankh, in modo che spuntasse poco più sotto del colletto del maglione che indossava. Gli aveva detto di non preoccuparsi, e che era forte abbastanza per donargli tutta la magia di cui avesse avuto bisogno.
      Nonostante non mettesse in dubbio le doti della ragazzina, non era per nulla convinto. Ad alimentare ulteriormente la sua angoscia c’era anche il fatto di aver lasciato gli Inferi incustoditi: o meglio, i giudici erano rimasti per mandare avanti i processi, ma Osiride camminava placidamente davanti a lui; la pelle di una sfumatura più fredda di un normale essere umano, ma non blu. Iside gli stava accanto, facendo frusciare il vestito di seta verde e mantenendo una postura perfetta nonostante il tacco delle scarpe sprofondasse nella ghiaia.
      Più si avvicinavano all’ingresso e più sentiva il desiderio di scomparire sottoterra, nelle profondità della Duat; un pensiero davvero poco nobile considerando il suo essere, a tutti gli effetti, una divinità. Horus, al seguito dei genitori, era il suo esatto opposto: il portamento da guerriero rispecchiava l’eleganza di Iside, e lo sguardo truccato era così severo che era difficile non rimanere in soggezione.
      Ma più di Horus, in realtà, quello che lo preoccupava realmente era suo padre. Seth aveva un’espressione un po’ troppo divertita sul viso, per uno che doveva solo presiedere a una cena. Nella sua forma umana aveva la pelle brunita, quasi scottata -un richiamo lontano della sua usale carnagione rossa- e indossava un borsalino nero che si abbinava al completo a righe. Sicuramente stava tramando qualcosa, e il fatto che gli avesse posato una mano sulla spalla, pochi minuti prima, chiamandolo “ragazzo mio” già la diceva lunga sulle sue intenzioni.
      Arrivarono all’ingresso, sicuramente più affollato. Gruppi di mortali ben vestiti erano radunati fuori, sotto il portico, dove le colonne e i muri erano illuminati dalla luce proveniente dall’interno. Le porte erano composte solamente da vetro, e lasciavano in bella vista l’atrio e il bancone in mogano del guardaroba.
      Si avvicinarono, e in quel momento Ra, a capo del loro gruppo con Bast al fianco, alzò leggermente la testa verso l’alto, posando lo sguardo sul primo cornicione della struttura.
      Una decina di ragazze stavano appollaiate lassù, con i giacconi d’argento aperti sui vestiti e gli archi puntati contro di loro, pronte a colpire. Non che non le avesse percepite prima, ma trovarle tutte lì, schierate, lo aveva lasciato abbastanza interdetto. Bast soffiò indignata, ma Ra la fermò con un cenno della mano, senza scomporsi: una delle ragazze abbassò l’arco e fece segno alle compagne di fare altrettanto.
      «Sul serio?» Bisbigliò Iside all’orecchio del marito, mentre si dirigevano all’interno. Prima di superare il portico, Anubi alzò gli occhi, e vide le ragazze inchinarsi leggermente al suo passaggio.
      «Non parlare alle spalle degli altri, Iside.» La riprese Ra, senza nemmeno voltarsi. «Non è educato.»
      La dea non replicò, il che fu una fortuna. Anubi studiò l’ambiente con circospezione, soffermandosi sugli arredi che, proprio come l’esterno, erano di uno sfarzo senza limiti. C’erano lampadari di cristallo appesi ai soffitti alti, che sicuramente nascondevano dei neon di ultima generazione, perché la luce che irradiavano era bianchissima e innaturale. Le pareti erano stuccate e dipinte di colori caldi, che sfumavano verso l’alto dando l’impressione di un ambiente ancora più ampio, ed enormi vetrate si affacciavano sul giardino curato.
      I minuti seguenti furono stranamente infiniti. Anubi si ritrovò ad eseguire una fila si gesti meccani – porgere la giacca alla ragazza del guardaroba, prendere il proprio numero, ringraziare – e solo quando furono scortati verso la sala dove era stato allestito l’aperitivo, capì veramente di non essere pronto a una cosa del genere. Era la prima volta che incontrava altri dei, e non sapeva nulla di più di quello che Diana gli aveva trasmetto tramite la sua memoria e i suoi ricordi. Seth gli diede una pacca sulla spalla allargando il suo sorriso, incoraggiandolo ad avanzare; un gesto che gli fece fremere l’intera spina dorsale.
      Il salone non era molto grande, a discapito delle sue aspettative. La pianta era circolare e un grande mosaico astratto svettava al centro, con le tesserine che sfumavano in colori diversi, tutte differenti tra loro. Quando ci camminò sopra, si accorse quasi con stupore che anche i materiali erano dei più disparati: si passava dal vetro alla ceramica, dalla pietra al gesso. Cercò di imprimersi bene nella memoria quell’immagine, in modo da poterla condividere con Diana, più tardi.
      In fondo c’era un lungo tavolo allestito alla perfezione, con il cibo ben disposto in piatti rigorosamente bianchi, quadrati e con i bordi tendenti leggermente verso l’alto. I bicchieri per il vino erano capovolti in file ordinate, e tre camerieri erano pronti a servire gli invitati. In un angolo, su un palchetto rialzato, una piccola orchestra era intenta a suonare.
      Ad accoglierli c’era un uomo fasciato in un completo blu scuro, con una barba striata di grigio e la postura severa. Gli occhi scintillavano come il crepitio dei fulmini un attimo prima di colpire il suolo, e perfino l’aria, vicino a lui, aveva un odore diverso. Una donna gli stava accanto, sorreggendo un calice di champagne, i lunghi capelli marroni sciolti sulle spalle. C’era qualcosa che gli ricordava terribilmente Iside, forse i tratti del viso affilati ed eleganti, forse la disinvoltura con cui pareva muoversi per la stanza.
      Ra, avanzò, tendendo la mano verso l’uomo, un sorriso pacato sul viso abbronzato. Le rughe si concentrarono ai lati della bocca, increspandogli la pelle come ragnatele.
      «Benvenuti.» Persino la voce di Zeus era bassa come le nuvole cariche di pioggia. «Ci sono stati problemi per il viaggio?»
      «No, nessuno. Grazie mille per l’invito Zeus, Era.» Con un cenno del capò salutò la dea, che distese le labbra rosse in un sorriso. «Siamo onorati.»
      «L’onore è nostro.» Disse, anche se tutta quella formalità sembrava eccessiva. Ra rivolse un ultimo sorriso alla coppia, e con Bast al seguito si spostò verso il tavolo, lasciandogli spazio.
      Anubi scoprì che, essendo effettivamente i primi ad essere arrivati, avrebbero dovuto eseguire un giro di saluti obbligatori. Sua madre dovette percepire il suo nervosismo, perché con una scusa lo prese sottobraccio e insieme si diressero verso gli dei greci.
      A posteriori, non fu così brutto. Se si concentrava abbastanza, riusciva a percepire l’essenza di ognuno di quei volti sconosciuti, che spesso prendevano nome e coscienza dopo che si erano presentati. Zeus rombava come i suoi tuoni, sua moglie invece aveva una mano più piccola e una grazia decisamente più pacata. Un ragazzo biondo lo salutò, e sentì su di lui l’odore dell’estate e del Sole, molto simile a quello che provava di fronte a Ra; la sua gemella – perché erano davvero troppo simili per non esserlo - era più schietta invece, fredda, e percepì lo sforzo che fece nel toccarlo, come se la cosa le costasse fatica.
       Un uomo riccio e con un sorriso tutt’altro che onesto gli diede qualche pacca sulla spalla, e Anubi ebbe come l’impressione che lui e suo padre sarebbero andati davvero d’accordo. Una donna bassa e con gli occhi pesantemente truccati indugiò più del previsto a sciogliere la stretta, e sentì la sua magia reagire sulla pelle, come una scarica elettrica. Quando arrivò alla fine, si trovò di fronte a un uomo alto e allampanato, vestito di nero, e ancora prima che lo toccasse sentì la piega familiare che aveva la sua presenza, che rispecchiava in tutto e per tutto quella di Osiride. Al suo fianco c’era una ragazza con indosso un grazioso vestito a stampe floreali, i capelli chiari raccolti sulla testa. Non disse nulla, ma Anubi pensò che non doveva essere molto più grande di lei.
      Tornato al fianco di suo padre, si sentì decisamente meglio, cosa che non credeva fosse possibile. Nefti sciolse la presa dal suo braccio e gli sorrise, sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
      «Non rimanere in un angolo tutta la serata, d’accordo? Sono sicura ci sarà qualcuno anche della tua età con cui parlare. E sorridi un po’ di più, vuoi?»
      «Va bene. Ci proverò.» Poi piegò la testa, perché sentì distintamente l’imbarazzo colorargli il viso. Nefti rise e tornò al fianco del marito, lasciandolo da solo.
      Scrutò la sala. Nonostante le apparenze, anche i greci sembravano abbastanza sulle loro, divisi in piccoli gruppi. Apollo gli sorrise dall’altra parte del tavolo; e sarebbe anche venuto a parlargli, se Ra non lo avesse avvicinato prima. Il ragazzo inarcò le sopracciglia verso il basso in un’espressione di muto dispiacere, prima di voltarsi di spalle.
      Non ebbe tempo di fare altro nemmeno lui, perché Osiride lo chiamò con un cenno della mano e lui lo raggiunse, decisamente sollevato. Il dio gli poggiò una mano sulla spalla con affetto, un gesto decisamente più sentito rispetto a quello di suo padre, e lo presentò in maniera ufficiale alle due divinità degli Inferi greche.
      «Ho sentito parlare molto di te.» Commentò Ade, scrutandolo. Era molto alto, e superava di almeno una spalla Osiride.
      «Ne sono onorato.» Non sapeva esattamente cosa dire, né come intendere quelle parole. Se anche gli altri dei erano permalosi almeno la metà di come lo erano loro; allora doveva assolutamente fare attenzione a qualsiasi cosa gli uscisse dalla bocca. Far arrabbiare Iside era un conto; scatenare una lite tra Pantheon un’altra.
      «Spero siano state solo cose belle, allora!» Osiride rise, spazzando via senza problemi il suo disagio. «Anubi è un bravo ragazzo; mi da una mano, è sempre preciso.»
      «Diventerà sicuramente un ottimo dio.» Disse Ade, con un accenno di un sorriso sul volto pallido. «Nulla di cui stupirsi, visto che si tratta di te.»
      Osiride rispose con incredibile tranquillità a quel complimento, e la discussione si restrinse unicamente a loro due. La ragazza con il vestito a fiori – Persefone, se non sbagliava – spostò il peso da un piede all’altro, dimostrandogli che non era l’unico a sentirsi fuori luogo. Voltò la testa verso il rinfresco, dove una donna con un vestito marrone stava animatamente discutendo con Bast, e sospirò.
      «Mi accompagneresti?» Chiese. «Non penso saremmo di compagnia comunque.»
      Annuì, e l’affiancò mentre si dirigevano verso il tavolo. Si concentrò su gesti semplici, come passarle un bicchiere di vino bianco, e lo trovò estremamente rilassante, nonostante l’aria tra loro fosse ancora un po’ tesa. Persefone sorseggiò la bevanda, e passò in rassegna l’intera sala prima di rivolgersi di nuovo a lui.
      «Osiride è entusiasta di te. Gli brillano gli occhi ogni volta che ti nomina.»
      «Io… Uuuh, non l’ho mai… Notato?»
      La dea rise, e gli angoli della bocca si arricciarono all’insù facendola sembrare ancora più giovane di quanto non fosse.
      «È una cosa carina.» Disse, bevendo ancora. «Sei suo figlio?»
      «Purtroppo no.» Questa era una domanda più facile a cui rispondere. «Horus lo è.»
      Guardò suo cugino, impeccabile nell’aspetto e nel portamento, pochi metri più in là: stava ridendo per qualcosa che il suo interlocutore, un giovane uomo con i capelli a spazzola e gli occhi ambrati, aveva detto. Persefone seguì il suo sguardo e socchiuse gli occhi.
      «Oh. Conosco il genere, bruto e di bell’aspetto. Infatti sembra andare magnificamente d’accordo con Ares.»
      Non avrebbe trovato modo migliore per descriverlo. Per carità, Horus non gli aveva fatto nulla di male e, anzi, quando erano bambini avevano passato giornate infine presso le rive del Nilo, a giocare assieme. Ma poi erano cresciuti, prendendo strade diverse, e insomma, lui non era mai stato il tipo da voler attirare l’attenzione.
      «Beh, non è importante. Osiride sembra prestare più attenzione a te.» Fece ovvia, scrollando le spalle.
      «Diciamo che Horus è il preferito di Iside.» Con un cenno del capo gliela indicò, nel suo vestito esageratamente scollato. L’influenza di Olivia si faceva sentire, perché solo lei avrebbe scelto di mostrare così tanta pelle senza problemi. Sottili gioielli d’oro le scendevano sul petto, mettendo in risalto la carnagione ambrata.
      «Sembra… Anzi, non dirò nulla.» Decise Persefone, guardando Era avvicinarsi e sorridere in maniera quasi forzata. «Spero non si scannino tra loro, sarebbe davvero il colmo.» Sospirò di nuovo, e si perse ad osservare la scena.
      Anubi la imitò, non avendo nulla da aggiungere. Persefone gli sembrava quasi rassegnata; una sensazione che non era riuscito a togliersi di dosso dal primo momento che l’aveva vista. Era indubbiamente legata al mondo dei morti, ma c’era qualcosa di intrinseco nella sua stessa essenza che, invece, era completamente differente. Nonostante la curiosità però, evitò di fare domande, per non risultare scortese; avrebbe potuto cercare la sua storia su Wikipedia più tardi, assieme a Diana.
      «Ti stanno chiamando.» Gli fece notare, e Anubi vide Seth spaventosamente felice fargli un cenno con la mano. Ebbe la tentazione di voltarsi e fare finta di non averlo visto, ma alla fine il suo buon senso lo costrinse a raggiungere il padre.
      «È stato un piacere, Anubi. Ci vediamo.» Persefone gli sorrise ancora una volta e poi tornò da Ade.
      Con pochi passi anche lui si allontanò, fermandosi al fianco del genitore: aveva una gran voglia di chiedergli come mai stesse sorridendo così tanto, visto che dubitava che il suo obiettivo ultimo fosse quello di avere una paralisi facciale per tutta la settimana seguente. Poi dall’ingresso si affacciò un altro gruppo di divinità, e Anubi capì, con una lucidità disarmante, che in realtà da lì in poi le cose sarebbero progressivamente peggiorate, senza ombra di dubbio.
      L’uomo che apriva la fila era corpulento, fin troppo alto, e con una benda su un occhio. Una personalità che non passava di certo inosservata, se si contavano anche i due corvi appollaiati sulle spalle; eppure non ebbe tempo di prestargli attenzione, semplicemente. Si ritrovò a fissare, confuso, un altro dio, che a braccia spalancate si era diretto verso di loro ignorando completamente il resto dei presenti.
      «Carissimo!» Salutò, palesemente rivolto a Seth, e il suo sorriso si tese ancora di più. «E i tatuaggi?» Si bloccò a un passo da lui, stupito, ma Anubi avrebbe notato il suo divertimento anche se non fosse stato così vicino.
      «Non si abbinavano con il vestito.»
      «Non ne sarei così sicuro, del resto erano pacchiani alla stessa maniera. Come il tuo ridicolo pizzetto del resto!»
      Seth, invece che disintegrarlo in un cumulo di sabbia come avrebbe fatto con chiunque, scoppiò a ridere, afferrando la mano che gli porgeva e trascinandolo in un mezzo abbraccio con tanto di sonore pacche sulle spalle, in un gesto di pura amicizia virile.
      Il che era, già di per sé, davvero preoccupante.
      «Nefti, cara, ti trovo in splendida forma!» Continuò l’uomo, e sua madre gli sorrise educata. Poi si voltò verso di lui, e gli occhi chiari gli scintillarono di malizia nel vederlo. «Ah, quanto sei cresciuto!» Esclamò, posandogli le mani sulle spalle.
      Anubi batté gli occhi, perché quella era davvero l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentirsi dire. Quell’assurdo teatrino però fu interrotto ancora prima che potesse formulare una risposta di qualsiasi tipo; e si accorse che, effettivamente, non era l’unico ad essere rimasto confuso da quell’improbabile re unione.
      «Loki.» L’uomo con i due corvi lo fulminò all’istante con l’unico occhio che gli era rimasto, di un blu profondo e cupo. «Cosa…»
      «Ah, ma dove ho lasciato le mie buone maniere? Certo, prima i padroni di casa; Zeus, Era!» E senza il minimo problema si avvicinò ai due per salutarli, con al seguito quella che, probabilmente, era sua moglie.
      Si voltò verso Seth, e tutto quello che riuscì a fare di fronte a quel ghigno esagerato fu aggrottare le sopracciglia.
      «Padre… Sul serio?»
      «È un mio carissimo amico.» Gli disse solo, alzando le spalle con indifferenza. Avrebbe voluto rispondergli in qualche modo; ma non aveva parole abbastanza adeguate per esprimersi. Al momento, l’aria di strana euforia che aveva permeato gli ultimi tre giorni e il divertimento quasi esasperante di suo padre erano diventati palesemente chiari. Persino sua madre, che solitamente era molto tranquilla, aveva accettato la notizia di quella cena con un’allegria insolita che però non lo aveva insospettito più di tanto.
      «Ah, eccoci qui! Scusate, le solite cose: “ah Loki, che cosa vuol dire questo? Perché non ce ne hai parlato?” e via dicendo. Dove eravamo rimasti?»
      Si aggiustò le maniche della giacca bianca che indossava, da cui spuntavano i polsini di una camicia rossa. Aveva un viso di una bellezza bestiale, con occhi chiarissimi e cicatrici che gli si increspavano sul naso, irregolari e sottili. Attorno alle labbra, un po’ sbilenchi, c’erano diversi buchi; come se qualcuno si fosse divertito a cucirgli la bocca con un ago smussato. Una massa di capelli rossi gli ricadeva sulle spalle, dalle sfumature ricche e calde.
      La donna al suo fianco si chinò verso di lui, dicendogli qualcosa, e Loki tornò a dedicargli tutta la sua attenzione.
      «Sì giusto, il ragazzo! Sygin me lo stava facendo notare, è proprio la tua copia spiccicata!»
      Anubi inarcò un sopracciglio d’istinto: quella era davvero l’ultima cosa che si aspettava gli dicessero, senza dubbio. Ed era stata abbastanza scioccante da fargli morire qualsiasi volontà di rispondere, o quantomeno intervenire nella conversazione. Sentì la flebile speranza che aveva nutrito nei minuti precedenti svanire nel nulla, e si chiese se, effettivamente, sarebbe mai riuscito ad andarsene da quel luogo senza riportare qualche genere di trauma psicologico, che lo avrebbe segnato per il resto della sua eternità. Neanche amare per una vita Sadie Kane l’aveva mai provato così – il che era tutto dire, considerando che da quando era morta, era diventata ancora più irritante e molesta nei suoi confronti.
      Decise a priori di non ascoltare, anche perché tutta quell’intesa tra Loki e Seth lo inquietava, e si concentrò sulle divinità appena arrivate. Per quanto la sua cultura in fatto di mitologia norrena fosse nulla, Thor lo riconobbe lo stesso, anche se la figura di quell’uomo tozzo, con la barba rossiccia e due trecce ai lati del viso cozzava completamente con l’idea che anni di film avevano coltivato nel suo immaginario. La prossima volta che avrebbe rivisto Walt, magari avrebbe omesso quel particolare.
      C’erano anche dei gemelli, un’altra coppia. Erano molto più eleganti rispetto agli altri, e non solo nei lineamenti o nella postura; sembrava quasi facessero parte di un’altra generazione, una parentesi stranamente raffinata in quell’ammasso di rudezza che ogni divinità sembrava emanare dalla propria pelle. Persino Loki, che gli ricordava un serpente per la morbidezza della sua voce e delle sue parole, aveva un che di brutale che gli sporcava il viso.
      Finì per indugiare un po’ troppo su di loro, e quando la donna si voltò verso di lui, sorridendogli, si ritrovò a distogliere lo sguardo, imbarazzato.
      La sala aveva finito per riempirsi in fretta, e il chiacchiericcio generale aveva coperto la musica in sottofondo. Zeus continuava a stringere mani con la faccia contrita; e a quel punto Anubi immaginò che quella fosse la sua espressione usuale. I gruppi si erano allargati e alcuni temerari, come il vecchio Ra, erano intenti a finire un nuovo giro di saluti, cosa a cui lui aveva rinunciato immediatamente sia per la timidezza, sia per evitare figure abbastanza sconvenienti.
      Quando posò lo sguardo sulla porta - curioso di vedere chi ancora sarebbe arrivato – capì, forse con un po’ di ritardo, che quella sera non avrebbe fatto altro che stupirsi.
      La prima cosa che notò furono i colori: nonostante il ragazzo che guidava la fila indossasse una semplice camicia verde e un paio di jeans scuri; dietro di lui c’era un marasma di stoffe, tessuti e gioielli delle tonalità più disparate. Un uomo basso e tarchiato sfoggiava un completo arancione su una camicia nera, e come se il vestito non fosse già appariscente di per sé, aveva la faccia completamente tatuata, compreso il cranio rasato. Assomigliava a uno scheletro vivente, e persino sulle labbra l’inchiostro disegnava i solchi dei denti. La donna che lo seguiva non era da meno, con un vestito smanicato che a stento le copriva le cosce, anche lei ricoperta di tatuaggi dalle colorazioni sature. Le ossa disegnate sul suo corpo riprendevano quelle nascoste da muscoli e pelle, ma ognuna di loro era la base per piante rampicanti, rose che si intrecciavano le une sulle altre, e falene che si posavano sulle ginocchia o i dorsi delle mani. Un tizio assurdo aveva le labbra azzurre, cosa più che sufficiente a sconvolgerlo.
      Il loro ingresso - impossibile da ignorare a priori – fu coronato inoltre da una sequela di gomitate, ammiccamenti e saluti molto poco discreti da parte di Loki e suo padre, che riportarono inevitabilmente l’attenzione su di loro.
      «Guarda chi è arrivato!» Seth rise di gusto, e Loki assottigliò gli occhi con il divertimento che gli piegava le labbra sfregiate.
      «Com’è che si fa chiamare adesso… Lucia?»
      «Oh no, aspetta, penso iniziasse per “f”…»
      Un uomo li guardò con la coda dell’occhio, sogghignando e scatenando una serie di risate incontrollabili. Era altissimo, con la pelle così scura che sembrava fosse nera, e due occhi di un’innaturale sfumatura di verde, screziati d’oro al centro. A differenza di Loki, aspettò il suo turno per salutare Zeus, e poi sotto lo sguardo attonito dei presenti, li raggiunse.
      «Signori.» Disse, e schiuse le labbra mettendo in mostra una chiostra di denti bianchissimi. «Loki, non sapevo avessi cominciato a vendere gelati.»
      «È il business del futuro. E poi il bianco mi dona!» Rispose il dio, stirando i bordi della sua giacca.
      «Il problema è la faccia.» Disse Seth, sghignazzando. «A quella non puoi porre rimedio.» 
      «Che ci vuoi fare, così è la vita. Almeno adesso posso partecipare alla gara di cicatrici brutte, qui dentro.»
      Il nuovo dio inarcò elegantemente le sopracciglia, schioccando la lingua.
      «Carini i tuoi punti di sutura, peccato non possano competere con il carbonio ultraleggero della mia gamba.» Ribatté, come se fosse una cosa ovvia. Inclinò la testa verso destra, e sorrise verso la dea che li stava raggiungendo.
      «Ah donna, sempre in ritardo sei.» La stuzzicò.
      «Sono stata placcata.» Disse, con un grande sorriso sul viso. Era minuta e nonostante indossasse i tacchi, arrivava a malapena al petto dell’uomo. I capelli erano corti e acconciati in treccine che partivano dall’attaccatura della fronte, ornati da perline e piume.
      Girò il viso verso di lui e si illuminò di felicità.
      «Mamma mia quanto sei cresciuto!» Il fatto che un sacco di divinità sconosciute continuassero a commentare la sua effettiva crescita gli stava dando qualche problema. «L’ultima volta che ti ho visto eri un fagottino grande così! Feli, te lo ricordi?»
      L’uomo annuì, sorridendo appena. «Ti somiglia proprio, Seth.»
      Più lo guardava, più gli sembrava familiare: il modo in cui spostava il peso su una gamba, la piega divertita delle labbra, l’espressione rilassata che nascondeva una malizia sottile. Un pensiero gli attraversò la mente, e l’immagine del direttore del museo che tre settimane prima avevano visitato gli si palesò di fronte.
      Il giro di saluti fu imbarazzante, non trovava altre parole per descriverlo. La dea bassina si presentò come Ada – un grazioso nome mortale a sua detta, perché quello vero era troppo lungo e complicato -  e nel giro di due minuti aveva pizzicato il fianco del marito – Felipe, anche se Loki insisteva a chiamarlo Lucia a causa di chissà quale aneddoto passato – lisciato le maniche del vestito di sua madre e abbracciato la moglie di Loki, il tutto senza smettere di sorride e ridere.
      Si ritrovò, ben presto, a essere il fulcro di discussione delle tre donne che, oltre a complimentarsi per il suo bell’aspetto – cosa che lo lasciò ancora una volta perplesso – si lanciarono su un lungo discorso sulle responsabilità che alla sua età avrebbe dovuto avere, e come le cose fossero cambiate da quando loro erano giovani dee. La cosa rasentava così tanto l’assurdo, che non voleva crederci. Diana si sarebbe piegata in due dal ridere per una settimana, non appena l’avrebbe ospitato di nuovo, prendendosi gioco di lui per qualcosa come tutta la vita. Sospirò.
        Aveva ormai perso il conto di quanta gente era arrivata, e tutta quella folla lo fece desistere subito dall’allontanarsi. Persino se si concentrava faceva fatica a ritrovare volti noti, o per lo meno non sconosciuti. Vide di sfuggita Zeus che si inchinava appena di fronte a una donna altissima e furiosa; a braccetto con altri due uomini. Non riuscì a cogliere tutti i dettagli della sua espressione, ma la rabbia con cui piegava le labbra rosse era difficile da non notare.
      Il suo personale supplizio ebbe una svolta quando, dalla calca, comparve il ragazzo in camicia verde. Avanzò verso di loro tirandosi su le maniche in modo da scoprire i polsi, in un gesto involontario, probabilmente.
      «Buonasera.» Salutò con un lieve sorriso, prima di poggiare una mano sulla spalla di Felipe.
      «Tutto bene?»
      «Sì. È appena arrivato Thot, sto andando a salutarlo. Dai un occhio ad Ale, evita che faccia cazzate. E già che ci sei ferma Lucio dal mettergli le mani addosso.»
      «Per chi mi hai preso, un babysitter?» Gli chiese l’uomo, facendo una smorfia.
      «Per l’unico con un po’ di maturità sulla coscienza.» Rispose il biondo, e se ne andò prima che l’altro potesse replicare.
      Loki sghignazzò, e Felipe lo guardò con la rassegnazione dipinta negli occhi.
      «Bisogna avere pazienza.» Disse solo. «Ringraziate di non avere venti fratelli problematici a vostro carico.»
      Suo padre si perse a commentare il fatto che si, lui di fratello ne aveva uno, ma gli bastava e avanzava. Visto la piega che la situazione stava prendendo, Anubi non si sarebbe sorpreso se l’idea di fare a pezzi Osiride e rinchiuderlo in un sarcofago fosse stata partorita, all’epoca, da uno degli altri due dei.
      «I più piccoli sono sempre i peggiori.» Commentò Felipe, scrutando gli invitati, alla ricerca di qualcuno. Alzò il braccio, e con un cenno della mano richiamò l’attenzione di un ragazzo.
      «Mordecai ti ha chiesto di guardarmi?» Esordì quello al suo arrivo, aggrottando le sopracciglia indispettito. «Perché se ha paura che picchi quel colibrì scemo sta’ fresco: questa serata è così pallosa che anche la mia voglia di suicidarmi se ne è andata.»
      Per tutta risposta Felipe rise, e gli passò una mano dietro la schiena per incoraggiarlo ad avvicinarsi.
      «Dai, smettila di lamentarti e presentati.»
      «Ah-ha. Sono Lucio. Piacere eccetera, eccetera.» Disse, alzando gli occhi al cielo e cominciando a stringere mani. Quando toccò a lui gli rivolse uno sguardo pieno di comprensione. «Tu sei davvero Loki?» Chiese poi.
      «L’ultima volta che ho controllato sì, il mio nome era quello.»
      «…Ma non sei moro.» Constatò.
      A quanto pare non era l’unico lì che si era sorbito ore e ore di film Marvel, decine di anni prima. Il sorriso di Loki si allargò ancora di più, appena colto il riferimento.
      «Posso esserlo se lo vuoi, tesoro.»
      Lucio lo guardò con la più plateale espressione di disgusto sul viso.
      «No. E non chiamarmi tesoro.» Loki rise, più divertito di quanto avesse dovuto.
      «Lasciamelo stare.» Lo ammonì Felipe. «È l’unico che si salva.»
      «Grazie al cazzo.» Sbottò il moro. «Per fortuna che sei rimasto qui a fare il simpatico, almeno non hai dovuto assistere all’imbarazzante presenza di Ale. Anzi, sai una cosa? Spero che sua maestà “Sono-offesa-quindi-mi-chiudo-in-una-grotta-per-mesi” gli sputi in un occhio e lo accechi malissimo!»
      «Lucio, modera quelle parole.» Lo riprese Ada.
      «Tanto mica mi sente quella vecchia, è troppo impegnata a guardare la gente con lo schifo sulla faccia. Non che la biasimi eh.» Continuò imperterrito, con una disinvoltura che lui non avrebbe mai avuto. Dal modo in cui Seth e Loki continuavano a guardarlo, Anubi capì che era appena entrato a pieno titolo nelle loro grazie.
      «Il tuo fratellino è un amore.»
      «Faccio del mio peggio.» Poi si voltò verso il fratello. «Posso andare ad affogarmi nel laghetto delle anatre, ora?»
      «No.»
      «Quanto sei noioso.» Ruotò ancora una volta gli occhi verso l’alto, prima di voltarsi versò di lui. «Dai, vieni, mi serve qualcuno che mi faccia da palo o muoio prima.» E senza aspettare una risposta lo trascinò per un braccio verso il tavolo del buffet.
 
 
 
Lucio riuscì a confermare tutte le prime impressioni che si era fatto su di lui nel giro di cinque minuti.
      Si diresse a passo spedito verso i piatti, schivando con abile maestria qualsiasi persona avesse potuto rivolgergli la parola, e nel tempo di un battito di ciglia aveva arraffato quanto più cibo possibile, infischiandosene dello sguardo basito dei camerieri, o di qualsiasi regola di galateo esistente.
      «Non ringraziarmi.» Gli disse, masticando un crostino con del caviale sopra. «Ho visto che faccia avevi, volevi morire. Ti capisco, anche io mi farei un giro nel Mictlan in questo momento.» Si mise in bocca un tortino salato e passò almeno due minuti con le guance piene.
      «Non pensavo fosse così palese.»
      «Fidati, la tua credibilità è pari a zero.»
      Molto confortante. Anubi lo seguì mentre scivolava verso il fondo della tavolata, e si ritrovò con un bicchiere di vino in mano.
      «Non bevo.»
      Lucio lo guardò con sufficienza, sfoggiando un sorrisetto davvero irritante.
      «Sta’ zitto e manda giù.»
      Se si fosse trovato in un'altra occasione, probabilmente non avrebbe ceduto così facilmente. Ma, a quanto pareva, era così esasperato che alla fine prese a sorseggiare il vino, lasciando che il palato gli pizzicasse appena. Lucio socchiuse gli occhi, ma almeno non disse nulla.
      «Allora, il piano è questo: noi ci facciamo gli affari nostri, e se qualcuno si avvicina troppo ci spostiamo dalla parte opposta e lo seminiamo. Ci sono alcuni pali in culo da evitare assolutamente, quali: Thor.»
      «Sul serio?» Non aveva avuto l’occasione di parlarci, ma il dio non gli pareva scontroso, o pronto a fracassargli il martello in testa. Aveva un faccione rubicondo e faceva un gran chiasso, nulla di più.
      «Beh, che c’è? Non ho mica i soldi per pagarmi ogni mese di abbonamento a Netfix, cosa credi? Due minuti con quello, e sta sicuro che ti avrà spoilerato metà delle serie che ci sono là dentro.» Lucio lo fissò tra la moltitudine di gente, e poi si voltò verso di lui, tirando fuori la lingua in ribrezzo e mostrando la sommità lucida di un piercing. «Grazie al cazzo, con un martello che ti fa da satellitare sono bravi tutti.»
      La cosa lo fece ridere, perciò nascose il suo divertimento bevendo un altro sorso.
      «D’accordo, Thor no. Chi altro?»
      «Zaina e Pablo.» Con un cenno del capo gli indicò quella strana coppia vestita di arancione. «Sono pazzi, e molto probabilmente verranno a cercarti perché sei una divinità degli Inferi, hai la testa di un cane e menate varie. Tu ignorali, nel caso ti rapiscano a tradimento; prima o poi si stuferanno di parlare al vento.»
      «Sono i vostri dei della morte?»
      «Sì. E questo già ti dovrebbe far capire il grado di disagio che permea la mia intera esistenza.» Dalla tasca posteriore dei jeans estrasse un telefono, guardò lo schermo, sorrise, e poi digitò una risposta rapidissima, prima di rimetterlo a posto. «Se te lo stai chiedendo – perché si, te lo leggo in faccia – anche io sono una divinità degli Inferi. Per farla breve, il mio dominio si estende sul quarto girone del nostro Inferno: giudico le anime che ci arrivano, e se sono abbastanza forti e non scompaiono prima, allora possono continuare il loro viaggio.»
      «Non siamo molto diversi.»
      «No.» Si voltò di nuovo a guardare gli dei. «Però diciamo che, confrontando i ruoli, sei molto più simile a mio fratello Xolotl. Cioè siete identici, pure lui è un cane; oltre ad essere il più sveglio, perché come vedi è riuscito ad evitare tutta questa gran rottura di coglioni non presentandosi!»
      Lucio finì il vino e tornò a concentrarsi sul suo cellulare, evidentemente molto più interessato a quello che leggeva. Lui alzò il viso, e colse Apollo da lontano sorridergli e avvicinarsi.
      «Anche io avrei volentieri evitato tutto questo. Non penso che la mia presenza cambi effettivamente qualcosa.»
      «Non dirlo a me.» Rispose il moro, con la testa ancora china. «Io e Manu avremmo potuto finalmente breedare la nostra squadra di Pokemon, e invece no! Dovremmo farlo durante le ore buca di lezione; il problema è che tra un mese e mezzo inizia la sessione e ciaone, abbiamo qualcosa come cinque esami da dare, lo schifo!» Sciorinò, finendo di digitare e spegnendo il display. Faceva fatica a stare appresso a tutto quello che diceva – quindi andava a scuola? Aveva tempo per giocare in competitivo a Pokemon anche se la fine del mondo era potenzialmente dietro l’angolo? Sul serio?
      «Ah comunque, tornando a noi, un altro tizio da evitare assolutamente è mister “occhiali da sole” Apollo, quel biondino appiccicato alla tizia inquietante con le sopracciglia scure.»
      «Artemide?»
      «Si vabbè, quello che è. Ho un problema personale con tutti gli dei del Sole, inoltre è molesto da morire, ergo, non guardarlo e non dargli corda.»
      «Ciao!»
      Il suddetto dio del Sole li raggiunse, e Anubi vide Lucio sbiancare nell’arco di due secondi netti, prima di voltarsi di scatto facendo frustare la treccia nell’aria.
      «Ciao.»
      «Sarei venuto a parlarti prima, ma sono stato trattenuto da Ra. E poi ho visto che eri impegnato, quindi non mi sembrava il caso.» Apollo gli rivolse un sorriso luminoso – letteralmente – e gli strinse di nuovo la mano.
      «Noi invece non ci siamo presentati, vero? Piacere, Apollo.»
      Lucio guardò la mano tesa verso di lui, afferrandola solo dopo secondi infiniti.
      «Itztlacoliuhqui-Ixquimilli.» Gli sillabò in faccia, sfoggiando una freddezza atroce. Persino la temperatura dell’aria sembrava essersi abbassata, e Anubi comprese perché sceglievano nomi umani per andarsene in giro.
      Apollo rimase perplesso giusto pochi istanti e poi, con tranquillità, gli sorrise.
      «Bel nome. Come il resto d’altronde.»
      «Per favore, risparmiatelo.» Il moro corrucciò così tanto le sopracciglia, che invece di una ruga gli si formò un vero e proprio solco in mezzo alla fronte.
      «Non ti facevo così frigido.» Lo stuzzicò ancora il biondo, girandosi verso di lui per ricevere un minimo di appoggio, suppose.
      «Non sono frigido.» Lucio scosse la testa facendo ondeggiare i capelli, rivolgendogli il ghigno più velenoso che gli avesse mai visto in faccia. «È che sono già impegnato.»
      Il trionfo sul suo viso affiorò con la stessa velocita con cui il sorriso di Apollo si spense. Evidentemente però, il greco doveva aver presto legnate peggiori nella sua lunga vita, per arrendersi a una risposta del genere.
      «Oh, non importa, non sono geloso.»
      Lucio batté gli occhi due volte, incredulo, stringendo così forte il bicchiere tra le mani da mandarlo quasi in frantumi. Poi decise che ne aveva abbastanza, o che finalmente fosse arrivato il momento di andarsi ad affogare nel laghetto; Anubi non avrebbe saputo dirlo.
      «Io però sì.»
      E, con divina classe, gli mostrò il dito medio.
 
 
 
La scelta fu abbastanza semplice: da una parte c’era il tavolo dei “Big”, e questo implicava discorsi noiosi sulla fine del mondo, sull’equilibrio dell’universo e affini. No grazie. Dall’altra quello dei piantagrane e no, quel giorno aveva già retto Felipe abbastanza; il tavolo degli Avengers brutti lo avrebbe lasciato a qualcun altro, e non era così disperato da passare le ultime ore ad ascoltare tutorial illustrati su come preparare un campo per la semina.
      «Vieni.»
      Trascinò Anubi per la sala diretto al tavolo in fondo, dove il gruppo delle dee dell’amore e cose sdolcinate si stava accomodando; facendo un gestaccio ad Alejandro quando gli passò di fronte per rispondere al suo occhiolino.    
      «Oh cari, venite con noi?» Ada gli sorrise e gli spostò la sedia vicino a lei.  Anubi occupò l’ultimo posto, tra sua madre e la tipa norrena che aveva i capelli d’oro e una faccia da innocentina per nulla credibile.
      «Sto cercando di arrivare a casa senza essere stuprato. Anubi mi fa compagnia.»
      Il dio si agitò un po’ sulla sedia, e si alzò le maniche del maglione per dissimulare l’imbarazzo: era un moretto parecchio più basso di lui, con la carnagione cadaverica e le mani nervose. Gli ricordava in maniera impressionante Emanuel: stessa ansia sociale, stessa tendenza ad arrossire per nulla e via dicendo. E siccome era un disastro di dio adolescente, sapeva benissimo che quello era l’unico motivo per cui aveva deciso di intrattenere una conversazione con lui, trascinandoselo appresso.
      «È successo qualcosa?» Domandò Ada, decisamente troppo interessata. Lucio fece passare lo sguardo sul tavolo, e non si soprese per nulla nel vedere cinque paia di occhi addosso. Si prese un attimo per studiare le dee: tralasciando Sygin e Nefti – sì, non era così negato con i nomi dopotutto – c’era una donna con i capelli biondo fragola e un vestito con uno spacco inguinale seduta accanto ad Ada; e per finire la biondina moglie di Thor che non somigliava minimamente alla sua trasposizione televisiva, ma pazienza, quello era il trauma minore. Ancora doveva superare il fatto che Loki non fosse moro; aveva come l’impressione che ci sarebbe voluto tempo e un sacco di cibo spazzatura per colmare la crepa che il suo cuore di nerd ora aveva.
      «Apollo ci ha provato ed è stato, francamente, orribile.» Disse, scatenando gridolini vari.
      «Non siete male come coppia.» Commentò la donna bionda, che era quasi sicuro fosse Afrodite, andando per esclusione.
      «No, cara, ma lui è già impegnato!» La informò Ada, dandole una leggera gomitata. «Non è vero?»
      «Ah boh, chiedilo a Manu, è lui quello confuso sulla nostra relazione, mica io.» Rispose, prendendo a dondolarsi sulla sedia giusto per infastidire Santos che, dal suo tavolo, lo stava guardando con quello che sembrava un vero e proprio sguardo di rimprovero.
      «Quindi è un ragazzo!» Esclamò Sif entusiasta, e perfino Nefti gli sorrise. «E com’è, bello?»
      «Il più bello del reame.» Rispose monocorde, sfilandosi il telefono dalle tasche per rispondere, guarda caso, a Manu. Gli mandò la foto del tavolo accanto a loro, quello degli Avengers brutti: Thor aveva piantato il suo martello al centro del tavolo, e Alejandro stava cercando di tirarlo su insieme ad Ares, mentre Elia filmava la cosa col telefono. Probabilmente avrebbe mandato il video sul gruppo di Whatsapp, più tardi; ma lui non poteva aspettare per mostrare tale disagio al ragazzo.
      «È lui che ti scrive?»
      «Ma una foto, non ce la mostri?»
      Lucio alzò lo sguardo, basito.
      «Ma i cazzi vostri?» Chiese retorico, scatenando risatine generali.
      «Sei tu che ti sei seduto qui, sapevi benissimo sarebbe finita in questo modo!» Lo rimbeccò Ada, con una prontezza che stava cominciando a trovare esasperante. Per un secondo, uno soltanto, provò compassione per Felipe. Poi si ricordo che gran cagacazzi fosse, e quel sentimento svanì velocemente così come si era formato.
      «Tenete, assatanate. Non rovinatemela che è l’unica che ho.»
      Dalla cover sfilò una vecchia polaroid che risaliva alla bellezza di due estati prima, e che Ivory gli aveva ceduto dopo un sacco di esperienze disagianti volte a distruggere l’ultimo briciolo di dignità che gli rimaneva. Nella foto si stava legando i capelli, ed Emanuel, accanto a lui, teneva il pallone da pallavolo sotto il braccio, mentre con le dita storte faceva il segno della vittoria.       
      Le dee se la passarono tra loro, sospirando di felicità solo come delle donne di fronte a una coppia carina sapevano fare. Afrodite osservò Manu con un sorriso furbo, prima di restituirgli lo scatto.
      «Che carino, quindi tu mi vedi bionda?»
      Era tentato di dirle no solo per infastidirla, ma a prescindere dalla sua risposta, sapeva che la dea non avrebbe creduto a qualcosa che fosse diverso da un’affermazione.
      «Ci sono biondi e biondi, non dimenticarlo.» Ada rise, trascinando le altre, e Lucio fissò Anubi solo per fargli sapere che non si era dimenticato della sua presenza, e che se voleva si sarebbe volentieri lanciato da una finestra assieme a lui.
      Poco più avanti rispetto a loro, di fronte alla vetrata che dava sulla città, c’era il tavolo dei piantagrane; che vantava tra le sue schiere, oltre che il trio imbarazzante dell’Ave Maria, il messaggero cleptomane dei greci, un tizio che sembrava uscito da un casinò di Las Vegas con almeno due chili di platino addosso - in competizione con Alejandro per il titolo di “dio più pacchiano del 2k83” – un’altra tipa greca con più capelli che altro, e Susanoo direttamente dal clan Uchiha.
      Personalmente la cosa non gli creava nessun fastidio, al contrario di Mordecai che continuava a trafiggere Felipe con lo sguardo, nella vana speranza di inchiodarlo alla sedia e limitare così la sua presenza caotica. Premura del tutto inutile, visto che il moro aveva la divina capacità di scatenare il pandemonio solo parlando; e infatti due minuti dopo Ada aveva alzato la testa verso di lui, facendo cadere il silenzio tra i due tavoli dopo le ennesime risatine a mezza bocca.
      «Ma stai parlando male di me?»
      Felipe sfoggiò un perfetto sorriso da schiaffi. «No donna, figurati, ho solo detto che sei estremamente bassa.» La stuzzicò, guardandola assottigliare gli occhi con estremo divertimento.
      «Ah, davvero? Non mi pare fossi di questa opinione ieri sera…»
      Era pur sempre Ada, senza un briciolo di pudore. Loki diede una gomitata a sua fratello mentre si piegava in due dal ridere, sulla sedia, e il loro tavolo esplodeva in esclamazione e risate varie.
      «Quello perché ero in ginoc-»
      «AH, MA QUINDI STAI SOTTO?» Urlò Alejandro dall’altro tavolo, dando prova dell’esistenza di un unico buco nero all’interno della sua scatola cranica, intento a risucchiare qualsiasi pensiero coerente potesse mai formulare. Mordecai alzò esasperato lo sguardo, ignorando il fatto che più di quaranta dei stessero assistendo a quel teatrino scemo, e li richiamò all’ordine.
      «Finitela, voi tre.»
      «Colpa tua donna, così me le tiri proprio fuori di bocca.»
      «Fossero solo quelle!» Ada dedicò un sorriso innocente a Felipe. Poi vide la faccia assai provata di Mordecai e sbuffò. «Dai, siamo tutti grandi e vaccinati, nessuno si sconvolge!»
      «Sei impossibile donna; e poi non mi credono quando dico che vengo seviziato in casa mia! Non mi posso nemmeno chinare senza preoccuparmi della mia incolumità.»
      «Oh poverino.» Gli fece il verso Ada, estremamente divertita. «Sei tu che mi hai rapita! A quest’ora avrei potuto palpeggiare il sedere di Miguel, e saremmo stati tutti felici e contenti. Ma tu ti sei messo in mezzo, ergo…» Assottigliò lo sguardo, e il sogghigno di Felipe si allargò sul suo viso. «Mo’ ti attacchi al cazzo.»
      «Davvero una grande dimostrazione di classe, cara.» Le sussurrò Afrodite sghignazzando.
      Ada rise, incurante del fatto che la sua dichiarazione avesse scatenato una serie di reazioni esilaranti sulle facce delle altre divinità: Era probabilmente si stava chiedendo come, nell’universo, una tappetta del genere con una proprietà di linguaggio degna di uno scaricatore di porto avesse una vita matrimoniale migliore della sua. Zeus sembrava basito, ma per un motivo diverso. Sua maestà “Luce del Giappone” invece aveva intensificato la sua espressione di disgusto verso l’umanità, espandendola direttamente a tutte le creature del creato e non.
      «Per la cronaca, Eve dice che siete imbarazzanti e che potete anche evitare di tornare a casa.» Disse, leggendo la risposta che la ragazza gli aveva dato dopo aver ascoltato l’audio di quel teatrino idiota.
      Lucio sapeva per esperienza che chiunque, nella sua famiglia, se si metteva d’impegno poteva risultare assai imbarazzante – certo, alcuni avevano un talento particolare, e non gli serviva nemmeno aprire la bocca per dimostrarlo – perciò l’arrivo dei menù fu una manna dal cielo, e decretò la fine momentanea del suo personale supplizio.
      Sfogliò senza entusiasmo le pagine, leggendo più nomi complicati di quanti un piatto dovrebbe averne. Alla fine lo lanciò senza grazia in mezzo al tavolo.
      «Hai già scelto?»
      «Sì, circa. La cena la paga Zeus vero? Perché io sono povero, vi ricordo.» Le sue finanze ammontavano a circa 20 pesos; una singola banconota ripiegata in quattro, e custodita gelosamente nella cover del suo telefono. «Non mi pagano abbastanza a lavoro.»
      Anubi lo guardò richiudendo con cura il menù, evidentemente interessato alla sua triste storia di studente universitario che, pur di risparmiare, va avanti a gallette e confezioni precotte di cibi decisamente poco salutari. Certo, sarebbe stato interessante raccontare le sue mirabolanti imprese culinarie – inclusa la volta in cui lui e Manu erano addirittura riusciti a bruciare della pasta – ma non era quello il momento. Non con Santos a portata d’orecchio almeno; suo fratello lo avrebbe ammazzato sentendo una cosa del genere.
      I camerieri arrivarono per prendere le ordinazioni, ognuno a un tavolo diverso. La sala che Zeus aveva prenotato si trovava in uno dei piani superiori dell’edificio, con le vetrate che davano sulla città e carta da parati scura sulle pareti. L’uomo che li serviva appuntò gli ordini su un taccuino in pelle, utilizzando una penna. Una normalissima penna. Lucio rimase basito, perché anche nel Mac più scadente di Città del Messico, ormai le ordinazioni erano tutte elettroniche, i camerieri non esistevano più.
      «Io voglio tutto.» Disse, quando fu il suo turno. Mordecai alzò l’intera testa per guardarlo male; un onore che gli scaldò il cuore.
      «Lucio, non puoi ordinare il menù intero.» Lo ammonì.
      «Perché pensi sia uno spreco di cibo, o perché credi io non sia in grado di mangiare così tanto?»
      «Non puoi e basta.»
      «Tu mi sottovaluti.» Ribatté. Tornò a voltarsi verso il cameriere. «Tutto. E doppia porzione di tagliata.»
 
 
 
Organizzare quell’incontro era stato un azzardo, e fino alla fine aveva sentito la pelle pizzicare, mentre sprazzi di magia diversa si mescolavano in quella saletta. Il risultato era stato… Inaspettato. Mettere a confronto così tante realtà differenti aveva portato alla formazione di gruppi interessanti e, davvero, le sarebbe piaciuto rimanere a studiarli un po’ più a lungo, ma ormai il tempo stava per finire e non potevano rimandare ancora.
      Zeus richiamò l’attenzione schiarendosi la gola, alla fine della cena. La sua posizione non era delle migliori, glielo aveva detto fin da subito, e vedere come cercasse di limitare millenni di arroganza di fronte ad altri dei – molto più antichi, più potenti, con occhi che avevano visto il mondo nascere dal nulla – la fece sorridere. Per una volta, si sentiva importante. Rispettata.
      L’uomo non parlò molto. Non ce ne era bisogno: ognuno di loro aveva sperimentato diverse sfumature di quello che era un unico, allarmante problema. Perdere tempo a spiegare come le barriere centenarie dei loro Campi fossero cadute, piuttosto che rimarcare il fatto che ogni tipo di portale, al momento, fosse instabile e potenzialmente pericoloso non li avrebbe portati da nessuna parte. Ben presto Zeus non ebbe più nulla da dire, e le passò la parola.
      Ecate si alzò, lisciandosi le pieghe del vestito scuro. Tezcatlipoca, l’unico forse più vecchio di lei, incrociò le braccia sul tavolo facendo tendere le maniche della camicia.
      «Buonasera.» Iniziò. «Non ho molto di cui parlare, perciò sarò veloce. Come sapete, da quasi un mese a questa parte i mortali sembrano notare più cose. La magia non riesce ad eludere la realtà; inutile dire quanto questo possa essere seccante.» Fece una pausa, voltando appena la testa, in modo da poter osservare i presenti. Iside si lisciò una ciocca di capelli con le dita, assorta. «Confrontandoci, siamo arrivati a una possibile risposta che spieghi la cosa.» Si premurò di parlare al plurale: al momento il suo era un ruolo di ambasciatrice; non poteva permettersi distrazioni che avrebbero compromesso tutta la fatica delle ore precedenti. «Il problema non è la magia di per sé, ma le forme originali di cui è manifestazione tangibile: gli Archetipi
      Ci fu un momento di agitazione, di sussurri e borbottii sommessi.
      «E cioè? Voglio dire, so cos’è un archetipo; ma non è appunto qualcosa di astratto? Un concetto, un’idea, cose così.»
      Ecate guardò Itztlacoliuhqui-Ixquimilli con una punta di ammirazione: nonostante fosse molto giovane gli aveva dato una buona impressione, e questa non era che una conferma.
      «Non del tutto. Gli Archetipi sono manifestazioni delle culture e della civiltà umana. Ogni Archetipo non è solamente un concetto, ma incarna l’essenza più profonda dell’animo umano.» Spiegò. Le risultava difficile descrivere una cosa che aveva sempre solo percepito con altri sensi. «Sono esattamente come noi, con l’unica differenza che operano su un piano dimensionale diverso, letteralmente. Noi incarniamo, dall’inizio del mondo, qualità e difetti degli umani, e infatti la nostra esistenza è legata indissolubilmente a loro. Gli Archetipi non fanno eccezione, ma risentono l’influenza umana in maniera differente.»
      «Ovviamente, nulla di cui stupirsi.» Disse Iside. «Questo non risolve nulla, però. La dimensione degli Archetipi è dissociata dal mondo mortale, e nonostante gli strati più profondi della Duat le si avvicinino molto, resta qualcosa di precluso a noi dei.»
      «Non possiamo varcarla, è vero. Per questo abbiamo bisogno degli umani. Dei semidei: loro sono naturalmente sospesi tra due dimensioni opposte, per questo hanno una sensibilità diversa. Sono sempre stati, e sempre lo saranno, il tramite per riunire realtà differenti.»
      «Quello che mi lascia perplesso è…» Iniziò Tezcatlipoca, assottigliando lo sguardo. «A che cosa stiamo andando incontro, esattamente? Più che un decadimento, una corruzione degli Archetipi, penso ci sia in atto un cambiamento. E invece che concentrarci su come bloccarlo, dovremmo trovare il modo di assecondarlo
      Dal tavolo di fronte a lei, Thor aggrottò le sopracciglia folte.
      «Perché?» Disse, rispecchiando la confusione di metà dei presenti. «Se blocchi e distruggi qualcosa, poi non ti devi più preoccupare dei problemi che può creare. Perché l’hai distrutta!»
      Loki diede un paio di pacche sulla spalla di Tezcatlipoca, che ebbe il buon senso di ignorare quell’uscita.
      «Gli Archetipi non si possono distruggere, perché non hanno corpo. Sono astratti, e l’unico posto in cui si possono manifestare, in qualche modo, è la loro dimensione.» Disse l’uomo. «E poi gli umani ne hanno bisogno; non possiamo semplicemente estirparli e rischiare di fare la stessa identica fine.»
      Quetzalcoatl, dal suo posto, scambiò un’occhiata con il fratello.
      «Quindi mi pare evidente che dovremo trascinare anche i ragazzi in questa storia. Non c’è altro che si possa fare?»
      Ecate piegò la testa verso di lui, concedendosi il lusso di non prestare attenzione ad altri.
      «Ci sono gli ingressi da cercare. Nonostante noi, personalmente, non possiamo accedervi; possiamo benissimo essere in grado di localizzarli e permettere ai semidei di utilizzarli per raggiungere la dimensione degli Archetipi. È solo questione di tempo prima che qualcuno di loro ne entri in contatto: visioni, sogni, marchi. Qualsiasi cosa.»
      «Profezie?» Chiese Zeus.
      «Questo non lo so. Gli oracoli potrebbero parlare, ma non è il caso di affidarsi completamente a loro.»
      Zeus annuì cupo, guardando la sala, un’espressione indecifrabile sul volto spigoloso.
      «Allora è deciso. Cercheremo gli ingressi, avvertiremo i semidei. Mi pare evidente che la cosa non possa essere risolta diversamente.»
      «La Casa della Vita ha sedi in tutto il pianeta; i nostri maghi li troveranno in un’istante.»
      «Noi faremo la nostra parte.» Sillabò Amaterasu, stringendo la mascella. «Ma non ci lasceremo coinvolgere dalle vostre inutili dispute. Mi rifiuto anche solo di mettere di nuovo un piede su questo continente: se avete bisogno di noi, sapete dove trovarci.»
      «Sarà impegnativo.» Quetzalcoatl si massaggiò le tempie con due dita, cercando di far ordine tra i suoi pensieri. «D’accordo, si può fare. Troveremo il modo.»
      Ecate tornò a sedersi in silenzio, osservando la sala. Era stato un azzardo; e ancora adesso non sapeva dire se fosse stata una buona idea. Durante la sua lunga esistenza aveva preso molte decisioni, vissuto momenti di instabilità che l’avevano segnata per sempre; eppure non si sentiva così, in quel momento.  C’era qualcosa di diverso che le si agitava in corpo, qualcosa che non sapeva come definire, e che pure le risultava familiare.
      Decise di farsi scivolare addosso quella sensazione, di lasciare che la se imprimesse appena sulla pelle.
      Dopotutto, c’era ancora un dolce da gustare.
 
 
 
 

Image and video hosting by TinyPic


- FRANCESE –
     
      Tout ira en enfer!: Andrà tutto all’inferno!
      Hein?: Eh?
      Fantastique!: Fantastico!
      Reçu fort et clair!: Ricevuto forte e chiaro!
      Salut: Ciao.
 
- GIAPPONESE –
     
      Onee-sama; Onee-san: Sorella. Sono entrambe espressioni che utilizzano i fratelli minori per appellarsi alle sorelle maggiori, quello che cambia è il tono. In questo caso, tutte e due sono molto formali; ma il primo risulta essere molto più rispettoso.
 
- SPAGNOLO –
 
      ¡Claro que si!: Chiaro che si!
 
 - NOTE -
 
      Ankh: Amuleto a forma di croce con un occhiello su una delle estremità. Oltre che ad essere un geroglifico, rappresentava la vita e, più nello specifico, la vita eterna per gli dei.  
      Udjat: Altro nome per “ l’Occhio di Horus ”; nonostante sia diverso da quello di Ra, rappresenta molti dei suoi stessi concetti. Viene associato alla protezione e alla buona salute.
      Mictlan: Inferi Aztechi, hanno una struttura molto simile all’Inferno dantesco, con girono che si snodano verso il basso.
     

 
- THE HIEROPHANT -
 
Image and video hosting by TinyPic      

DIRITTO
                  Il Papa apprezza soprattutto la tradizione, incoraggiando la conformità e la fiducia nelle istituzioni stabilite.
                 Potresti trovarti a cercare istruzioni in nuovi settori della vita. Metti la tua fiducia in metodi a lungo fidati.
ROVESCIO
                 Il Papa si è fatto troppo comodo nella fortezza della tradizione, a spese dei progressi necessari.
                 È tempo di rompere le convenzioni, mettere in discussione le tue convinzioni più lunghe e accettare cambiamenti positivi.
     
     
     


Image and video hosting by TinyPic



Questo capitolo è stato il coronamento di almeno due mesi di disagi, messaggi improbabili e vaneggiamenti vari.
      E non recrimino nulla di quello che ho scritto.
      Siamo arrivati finalmente alla fine del prologo! Certo, un traguardo davvero esiguo in confronto a quello che effettivamente sarà questa storia, ma ne sono davvero soddisfatta!
      A discapito di tutti gli altri, queste quarantadue pagine hanno visto la luce in due giorni. Nei tre successi ho passato solamente ad aggiungere, e aggiungere, e aggiungere altre scene perché ormai avevo già tolto la dignità a tutti, e quindi!
      Spero lo amiate come lo amo io; anche se è solo un’accozzaglia di paragrafi davvero frivoli che, verso la fine, acquista un minimo di senso. O almeno così si spera XD
      Vorrei davvero dire molto, sul serio, il problema è che non ho abbastanza parole per commentare… questo. Mentre scrivevo mi ripetevo “aah, è così divertente! È sicuramente la cosa più divertente che abbia mai scritto!” per poi ricredermi a quello successivo XD
      Non ho nulla di aggiungere sugli Aztechi perché mi pare che l’andazzo sia più che chiaro e nulla. Sappiate solo che i deliri sui loro abiti sono stati il frutto di un quarto d’ora di fuoco, a mezzanotte e mezza, su Whatsapp.
      Per il resto, fatemi sapere cosa ne pensate. RECENSITE. SCRIVETEMI COSA VI È PIACIUTO E COSA NO, SE AVETE RISO, O ERA TUTTO COSÌ PATETICO CHE VI SIETE ARRESI PRIMA.
      Non fatemi passare per quel tipo di autrice che deve impostare una dittatura e imporre un minimo di recensioni per continuare! Siete in tanti, ci sono un sacco di oc, e lo so che sono numeroni, ma per una storia che ha iniziato con una media di quindici recensioni; almeno la decina è d’obbligo.
      Altre informazioni di servizio su come proseguirà ARCANA da qui in poi: allora, questo capitolo è più lungo perché probabilmente il prossimo aggiornamento tarderà un po’. Devo fare un mega brainstorming per decidere cosa scrivere e come sviluppare i prossimi capitoli perché non ho uno straccio di guida.
      O meglio, so cosa faranno i personaggi in gran parte delle occasioni, ho già pronti tutti gli spostamenti e chi incontra chi e quando. Il problema sono proprio le scene specifiche in sé, i paragrafi, i pov e via discorrendo. Per chi non lo sa; io tendo a scrivere su un quaderno a parte tutte queste cose, in modo da avere la vita più facile dopo.
      Per i personaggi, non seguirò l’ordine di presentazione avuto nel prologo. In base alle necessità verrà prima uno piuttosto che un altro, l’unica cosa che posso dirvi per certo è che non porterò avanti una narrazione parallela in continuazione.
      Bene, vi lascio davvero. Un bacione e a risentirvi presto!
      itzi     
   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: Itzi