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Autore: Itzi    24/01/2019    12 recensioni
[STORIA INTERATTIVA -ISCRIZIONI CHIUSE]
Il ragazzo si appoggiò alla vetrina, studiandosi le unghie corte con finta noncuranza. «Perché, abbiamo cose di cui preoccuparci?»
            «I nostri cari vecinos avranno di nuovo fatto casino…Ottanta anni fa se ne sono usciti con quella cosa degli imperatori; abbiamo avuto le comunicazioni bloccate per mesi, un incubo!» Gesticolò con una mano, ritirando i soldi che gli aveva poggiato vicino alla cassa «Convivenza civile un cazzo. Entro la fine di questo secolo finirò per prendere qualcuno a calci in culo, me lo sento!»
           «Uuh, quindi… Siamo di fronte a uno scontro tra Pantheon ? Ma davvero?»
*****
«Non è stata colpa mia.» Da come Olivia lo guardò, dedusse che non era per nulla credibile.
            «Allora perché sei scappato?»
         «Perché tutti saltano alle conclusioni! Senti, ieri sera, è successo qualcosa.» Si avvicinò leggermente allo schermo, con fare furtivo, quasi avesse paura di essere ascoltato. «Qualcosa che la Casa non può più ignorare.»
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Ecate, Gli Dèi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV
THE EMPEROR
 
 
 
La baia si apriva in un arco allungato sotto i suoi piedi, protetta da alte scogliere sconnesse che si buttavano a strapiombo nell’Oceano. Aveva nevicato tutta la notte – la prima volta quell’anno -  e la sabbia appariva più scura del solito mentre scricchiolava sotto la suola delle sue scarpe.
            Sua madre gli aveva ripetuto fino allo sfinimento di cambiarle, perché quelle vecchie Converse blu non erano certo adatte per andare in giro con quel tempo, ma lui si era sempre limitato ad annuire, a prometterle che prima o poi l’avrebbe fatto, trascurando quella premura non appena finito di pronunciare le parole. Sinceramente non gli interessava più di tanto che le sue suole fossero così lisce e sottili da riuscire a percepire ad ogni passo tutte le crepe, le irregolarità della strada : finché rimanevano intatte gli andava bene.
            Camminò lungo la battigia, affondando le mani nelle tasche della sua giacca a vento. Era uscito di casa abbastanza presto per vedere l’alba, stupendo sua madre che lo aveva guardato assorta mentre si allacciava le scarpe. Gli aveva detto di stare attento, e lui aveva acconsentito con un grugnito, prima di sparire oltre alla porta.
            Il mare non gli piaceva. Era bello, su questo sicuramente non aveva nulla da ridire; ma per quanto trovasse ipnotico il costante infrangersi delle onde sulla scogliera, quella era pur sempre acqua salata. Un sacco di acqua salata. Niente di più e niente di meno.
            Si fermò ad osservare il sole che appariva all’orizzonte, un cerchio pallido non più grande di una moneta da cinquanta corone. Era freddo come l’aria dell’Islanda, e Hjord sapeva che nel giro di poche ore sarebbe scomparso, facendo sprofondare Reykjavik nel buio familiare dell’inverno. Le giornate si consumavano talmente in fretta che quasi faceva fatica ad accorgersi del loro trascorrere, e la sensazione che il tempo gli stesse pericolosamente sfuggendo dalle dita gli aveva accartocciato lo stomaco in una morsa davvero sgradevole.
            Si era svegliato a un orario assurdo per via della nausea, ma ora che si trovava lì non riusciva a giustificare tutta la foga con cui aveva raccattato i vestiti accasciati sulla sedia della sua stanza quella mattina, tantomeno il motivo che l’aveva condotto in spiaggia. Sospirò pesantemente e prese a mordicchiarsi l’unghia di un pollice.
            Stava malissimo. Sembrava che tutto il suo corpo si stesse ribellando, e al passare di ogni ora nuovi sintomi gli facevano sudare la pelle, stringere lo stomaco. Due giorni prima aveva avuto un mal di testa allucinante. La sera prima era rimasto aggrappato alla tavoletta del water per mezz’ora, cercando di placare i conati di vomito che continuavano a scuotergli il petto, nel vano tentativo di liberarlo da una cena che non era neanche riuscito a mandar giù. L’ansia non lo aveva abbandonato da allora, serpeggiandogli lungo la schiena, mozzandogli il fiato e rendendolo inerme: quando finalmente era riuscito ad addormentarsi, aveva sognato di affogare, trascinato su un fondo oscuro mentre un macigno invisibile lo schiacciava.
            Purtroppo non era malato, nonostante tutto quello schifo presupponesse il contrario. Conosceva molto bene quelle sensazioni, che germogliavano dal nulla, solo, non le aveva mai provate così intensamente. Non poteva definirlo come un vero e proprio dono, ma era tutto quello che suo padre si era premurato di lasciargli; come se vivere in una società costantemente stressata e sull’orlo dell’isteria a causa del progresso tecnologico non fosse già abbastanza deprimente di per sé.
            Hödr era un dio dimenticato, senza volto e senza ricordi a testimoniare la sua eterna esistenza, con il peccato del fratricidio a macchiargli il sangue e l’anima. Hjord quasi lo sentiva sulla sua stessa pelle, e la cosa gli dava il voltastomaco.
            Il cielo rombò cupo, e le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere, caricando l’aria di un’umidità gelida. Non si scompose e si limitò a tirarsi su il cappuccio della felpa quando il vero e proprio acquazzone iniziò, nonostante fosse un gesto dettato più dall’abitudine che da una vera e propria esigenza di coprirsi.
            Il primo fulmine lampeggiò lontano, e dopo secondi infiniti il suono della sua caduta gli arrivò alle orecchie, per poi essere rimpiazzato nuovamente dalla pioggia. Il cuore gli sussultò nel petto senza apparente motivo, iniziando una corsa sfrenata che lo lasciò interdetto: sentiva il sangue rombargli attraverso le vene, battergli sulle ossa, e il terrore si impossessò di lui, facendogli perdere il controllo sul suo stesso corpo.
            Una paura irrazionale gli bloccò il respiro, annaspò in preda al panico ma l’aria non voleva saperne di entrare. Ad un certo punto era di nuovo in acqua, schiacciato, mentre affogava a il buio lo trascinava inesorabilmente in basso.
            Il fragore di un tuono lo riportò alla realtà; tremante e fradicio si accasciò sulla spiaggia affondando le dita nella sabbia zuppa.
            Stava morendo, e la lucidità con cui formulò questo pensiero lo lasciò interdetto, sconvolto. Non era una cosa di cui avrebbe dovuto avere paura, si disse, anche perché era convinto che ormai si stesse condizionando da solo. Ma il suo corpo si rifiutava di alzarsi, e il cuore pompava adrenalina come se davanti a lui ci fosse un animale feroce pronto a sbranarlo.
            L’Acquazzone sfumò presto in una pioggerellina silenziosa e sottile; nel giro di venti minuti il cielo era tornato torbido come se non fosse accaduto nulla.
            Almeno, quel mezzo attacco di panico gli era servito, effettivamente, a qualcosa, fugando tutti i dubbi che fino ad allora gli avevano solleticato i pensieri.
            Non sapeva quando, o come, ma qualcosa di davvero orribile gli avrebbe sconvolto la vita. E, forse, era cominciato tutto proprio in quell’esatto momento.
 
 
 
Una mano si allungò morbidamente contro il suo fianco, e quando alzò lo sguardo dal suo piatto ormai vuoto, Areli incrociò gli occhi divertiti di Mick. Fece finta di nulla e finì l’ultimo sorso di idromele, nascondendo la felicità che quel gesto così semplice le provocava dietro il bordo del suo calice.
            «Serafini, tieni le mani a posto!»
            «Oh, andiamo, mica sei mia madre!» Si lamentò il ragazzo, facendosi più vicino a lei. Dall’altra parte del tavolo, Astrid alzò gli occhi al cielo, con l’esasperazione dipinta sul viso.
            «No, ma potrei esserlo. E, guarda, se voi ragazzi…»
            «Lei non è mica vecchia quanto te.» Continuò imperterrito, sfoggiando una faccia da schiaffi degna di Loki. Schioccò la lingua, e sul loro tavolo cadde un silenzio opprimente. Persino Brycan, che solitamente ingurgitava tutto il commestibile e non proferiva parola durante la cena, aveva alzato di scatto la testa.
            Avrebbe voluto davvero schiaffeggiare il suo presunto ragazzo, in quel momento, fino a fargli sanguinare la bocca; ma sapeva che non sarebbe riuscita a zittirlo comunque. Per essere un figlio di Thor, era troppo incline al masochismo e al massacro a suo discapito.
             «Astrid lascia perdere, adesso comincia anche la cerimonia, non ne vale la pena.» Borbottò Robin, portandosi le ginocchia al petto. Quella sera erano riusciti ad accaparrarsi uno dei tavoli delle cerchie più vicine, dopo un breve scontro in cui Brycan aveva fracassato un’intera panca in testa a tre ragazzi del venticinquesimo piano. Questo significava che non avrebbe dovuto passare la maggior parte del tempo a contorcersi sul posto nella vaga speranza di riuscire a intravedere qualcosa.
            «Quanti stasera?»
            «Solo una. C’è Honora con lei.»
            Mick si lasciò sfuggire un fischio, mentre si sporgeva per guardare di sotto: di fronte al tavolo dei capi, due ragazze stavano aspettando la chiamata. Honora era in piedi nelle sue vesti di Valchiria, la spada legata al fianco e lo sguardo truce perso in un punto non ben precisato davanti a sé.
            Era una ragazzetta piuttosto alta, dalla pelle brunita e spessi capelli neri acconciati in trecce: ogni volta che la guardava, Robin si faceva scappare un commento sul suo aspetto, che tanto le ricordava l’amica indiana che aveva avuto un secolo prima e che le mancava da morire.
            Da quello che si diceva, Odino l’aveva reclutata quando ancora doveva compiere dodici anni; a sedici aveva rifiutato il posto di Capo che le veniva concesso. Areli non sapeva se biasimarla davvero per le sue scelte, che a volte sembravano affrettate e dettate più da un orgoglio sfrenato che dall’umiltà con cui la dipingevano i suoi compagni di piano.
            Non era stata la sua Valchiria, ma Mick era arrivato con lei, così come Robin e Astrid. Più volte si erano fermati a parlarle, magari quando la incrociavano frettolosamente a cena, per poi osservarla sfrecciare abilmente tra i tavoli. Era figlia di Vidarr, il dio della vendetta, e questo spiegava il suo naturale broncio e le sopracciglia perfette perennemente corrucciate.
            «EINHERJAR!»
            Un grido si levò dal tavolo principale, seguito dal frastuono dei calici che venivano sbattuti sul ripiano. Il silenzio calò in sala e Helgi iniziò a sciorinare il suo usuale discorso su quanto bello e gratificante fosse morire tra atroci sofferenze e servire Odino nel suo personale esercito, aspettando ovviamente la fine del mondo.
            La nuova Einherji si chiamava Alessia, e continuava a torcersi le mani piegando la testa verso Honora, forse chiedendole spiegazioni su quello che sarebbe accaduto di lì a pochi minuti. Areli la capiva: far vedere la propria morte a centinaia di sconosciuti poteva essere imbarazzante. Lei non era uscita dalla propria camera per una settimana dopo la proiezione del video, che la vedeva protagonista di un incidente aereo armata di un ombrello di plastica a fiori. Orribile.
            «Mi sa che è successo qualcosa…» Accanto a lei, Mick poggiò un gomito sul legno, lo sguardo fisso verso la Valchiria. Le dita avevano ripreso ad accarezzarle distrattamente il fianco.
            «Dici?»
            «Eccome.» Fece eco Robin. «Guarda come le stritola la spalla: sembra abbia intenzione di frantumargliela in mille pezzi.»
            Effettivamente, anche da lì, Areli poteva vedere le dita sbiancarsi a causa della forza innaturale con cui la mora stava stritolando la maglietta della povera ragazzina.
            «Non l’ho mai vista così.» Astrid sospirò e tornò in silenzio.
            A differenza di molte altre sue compagne, Honora non aveva mai dimostrato particolare agitazione durante le cerimonie, anche se ogni sera si metteva potenzialmente in discussione il suo ruolo di Valchiria. Semplicemente, ogni Einherji che portava si dimostrava degno della sua morte, era un dato di fatto ormai.
            Piena di curiosità, lasciò che le parole di Helgi le scivolassero addosso, finché il filmato di ValchiriaTV non partì.
            Si trovavano in un museo.  Le riprese erano state fatte dall’alto, ma l’inquadratura continuava lentamente a girare, seguendo i profili di una scolaresca abbastanza annoiata. Alessia camminava a braccetto con un’altra ragazzina, condividendo gli auricolari, verso la coda del gruppo. Si erano fermate per seguire la spiegazione della guida o, almeno, simulare un minimo di interesse; accanto a loro, un ragazzo alto e allampanato continuava a picchiettare un dito contro una vetrina che custodiva statuette d’argilla, come se si aspettasse che queste prendessero vita da un momento all’altro.
            Era una mostra Egizia, notò, quando i ragazzi avanzarono verso la stanza successiva: al centro campeggiava un’enorme statua alta due metri e mezzo di un dio con la testa di cane e il corpo nudo coperto da gonnellino a pieghe. La guida si fermò ai suoi piedi e iniziò a spiegare con pazienza di cosa si trattasse; era una ricostruzione a quando pareva, e ritraeva il dio Anubi. La testa era interamente d’ossidiana e, a detta dell’uomo, rappresentava uno sciacallo.
            Dopo la breve digressione, i ragazzi furono lasciati liberi di aggirarsi tra le bacheche. Passò un intero minuto e poi successe.
            In un rombo assordante, la statua al centro si mosse, affondando un piede nel pavimento azzardando un passo. I vetri esplosero in una miriade di schegge e le statuine al loro interno balzarono via dai loro piedistalli, seminando il panico e facendo scattare l’allarme.
            Areli era basita. Come tutti nella sala, non riusciva a credere a quello che stava vedendo: sapeva che qualche tragedia era avvenuta, ma i suoi pensieri si erano soffermati su un incendio, un sequestro, una sparatoria. Mick accanto a lei era rigido come un tronco, e i capi continuavano a boccheggiare davanti alle scene. Odino non era presente, ma anche lui avrebbe avuto una reazione simile, ci avrebbe scommesso.
            La telecamera si fece più vicina, nonostante tutto il fracasso, segno che Honora aveva seguito la scena quasi rasoterra. Alessia, nel video, spinse via la sua compagna strillando, precipitandosi a bloccare la porta di sicurezza che si stava chiudendo, intrappolandoli dentro. Con fatica, e aiutata da altri due ragazzi, riuscì a tenere uno spiraglio aperto, e uno per uno tutti gli studenti furono ben presto fuori. Qualcuno le urlò di buttarsi, che da dietro avrebbero spinto per farla passare, ma un istante dopo la statua l’afferrò per i vestiti e la trascinò indietro.
            La porta si sigillò con un tonfo.
            Non mancava molto, Areli poteva immaginare come fosse finita. Per quanto assurdo fosse quello che stava guardando, ormai era stata testimone di una quantità allucinante di stranezze negli ultimi quattro anni. Forse, quelle statue, erano solo una malia ben orchestrata.
            Spostò, per curiosità, la sua attenzione su Honora, e la vide stringere le labbra fino a renderle una linea furente e secca sul suo viso.
            «PORCA PUTTANA!»
            Una voce squillante si impose con prepotenza sull’allarme, e Mick aggrottò le sopracciglia, sconvolto, riconoscendo immediatamente la sua lingua madre. Anche lei, che di italiano non spiccicava una parola, l’aveva riconosciuta subito.
            La telecamera si voltò con uno scatto verso il grido e lì, a pochi metri, c’era una ragazza vestita di bianco, con un vortice di sabbia che le roteava alle spalle a mezzo metro da terra.
            «E per fortuna che doveva essere un compito facile… Ma che si sono fumati nella Duat?»
            Mick tradusse basito per il loro tavolo, e Areli vide la ragazza allargare le gambe, puntando saldamente le converse bianche a terra. Aveva un caschetto di capelli biondi che le incorniciava selvaggiamente il viso, occhi verdi contornati da trucco scuro e una riga di eyeliner che le sfiorava la fine delle sopracciglia. Alzò una mano in aria, brandendo un bastoncino ricurvo, decorato in cima e gridò.
            «HA-DI!»
            Sopra la sua testa alcune figure iniziarono a brillare, ma non assomigliavano a nessuna runa. No, quelli erano geroglifici. Non voleva crederci.
            Tutte le statuine si arrestarono, esplodendo in frammenti minuscoli, sgretolandosi in sabbia. La statua di Anubi si voltò per squadrarla, e per la prima volta dopo minuti, l’attenzione di Honora e del suo video tornò a concentrarsi sulla giovane Alessia.
            Stava soffocando, il viso paonazzo, le lacrime agli occhi, con una mano della statua che la teneva per il collo. In una mano brandiva una stecca di metallo che era stata parte integrante di qualche intelaiatura.
            «Li mortacci tua…!» Biascicò l’italiana, e come prima si preparò a scagliare un’altra magia per liberarla. Aveva i denti serrati perché probabilmente si era accorta dei due corpi esamini che giacevano tra i vetri, quello di un professore e della guida.
            «NON TI AZZARDARE!»
            Un sussulto di stupore scosse la sala, quando si aggiunse anche la voce graffiante di Honora. La bionda la guardò esterrefatta, come se si fosse appena resa conto della sua presenza.
            «SEI SCEMA?» Le gridò in inglese, ma ormai era distratta. Alessia si accasciò, lo schiocco del suo collo che si rompeva si perse tra il frastuono generale.
            «Anubi, ora!» Una luce fredda la circondò; lanciò l’incantesimo con tutte e due le mani e la statua si dissolse in un cumolo di cenere. Il corpo inerme di Alessia cadde con un tonfo al suolo.
            Honora si avvicinò, ma la biondina le sbarrò la strada puntandole contro il bastoncino.
            «L’avrei salvata se non ti fossi messa in mezzo!»
            «Sei tu che ti sei mezza in mezzo!» Le urlò senza mezze riserve. «Non immischiarti nel mio lavoro!»
            «Il tuo lavoro? Ma ti senti quando parli? Non dire stronzate.»
            Passarono immediatamente allo scontro. Areli sentì la Valchiria sguainare la spada e menare un affondo perfetto alla gola della ragazza, ma qualcosa la rispedì indietro e l’onda d’urto mandò a terra Honora. Le immagini divennero turbolente, sfocate; l’allarme smise di suonare ma bisbigli sempre più forti presero posto del silenzio.
            «Diana, che è successo…?»
            «Non lo so! È colpa di quella!»
            Honora stava provando a rimettersi in piedi, con fatica: la telecamera inquadrò di sfuggita un gruppo di persone attorno all’italiana, anche lei a terra, vestite tutte nello stesso modo. Un ragazzo con gli occhiali e la carnagione scura guardò nell’obbiettivo e aggrottò gli occhi, furente.
            «Ohi, Valchiria, vacci piano che poi come ci torni a casa?»
            Altre immagini sfocate, finche un viso decisamente troppo divertito non riempì l’intera inquadratura. Era il ragazzo alto dell’inizio, con tanto di capelli corti e neri, e due occhi cobalto che promettevano le peggiori azioni irresponsabili di cui fosse capace un essere umano senziente. Non era scappato, e questo voleva dire che anche lui aveva assistito all’intera scena.
            «Non mi toccare…»
            «Non ti reggi in piedi.» Le fece notare il moro, ridendo e mettendo in mostra le fossette e il naso lentigginoso. «Ma accomodati pure se vuoi. Ah, comunque, la tua anima, lì, se ne sta andando. Scivolando per sempre negli abissi del Ginnungagap. Un risvolto interessante in effetti, ma non penso sia questo che vi chiedono di raccontare a cena, no?»
            Rise ancora, e Honora lo spinse via con un braccio, precipitandosi a raccogliere l’anima. Le afferrò il polso, e Alessia le si aggrappò con entrambe le mani, la sua figura iridescente nell’aria.
            «”Grazie dell’aiuto!” Oh, ma figurati.» Il ragazzo imitò una voce stridula beccandosi probabilmente un’occhiata assassina, che non lo scompose di un millimetro.
            «Farai meno lo spiritoso quando toccherà anche a te.»
            «Oh, non ne dubito. Una morte violenta, con sangue, budella… Non vedo l’ora! Ah, comunque, salutami i miei fratelli, o le mie sorelle, se ce ne sono.» Le fece un occhiolino, e poi lo schermo si oscurò di botto, come se la telecamera avesse preso un colpo.
            «Che cavolo…?»
            «Oooooh….»
            «Si può sapere che stai facendo!?»
            «Jacob no!»
            «Il portale si sta chiudendo, muovetevi voi due…!»
            «EHI!»
            Poi il silenzio. Il filmato terminò e l’intera sala rimase ammutolita.
            Areli non aveva la più pallida idea di che cosa avesse visto.
            Si sentiva strana, scossa, quasi fosse stata lei stessa la protagonista di quella follia. In basso, Honora continuava a portare avanti il suo stato di calma apparente: ritrasse la mano dalla spalla della sua Einherji dopo essersi abbassata per dirle qualcosa all’orecchio, forse rassicurarla su quello a cui aveva appena assistito.
            «Beh… Direi che è tutto molto… Singolare.» Provò Helgi, sfoggiando un sorriso che avrebbe dovuto essere spontaneo, ma che assomigliava a una smorfia sofferente, preannuncio di un’imminente crisi di nervi. «Qualcuno vuole commentare; qualcosa di aggiungere…?»
            «Io!»
            Dalle cerchie più lontane una mano sventolò, attirando l’attenzione. Areli ci mise un po’ per capire di chi si trattasse, e quando la ragazza in questione parlò di nuovo finalmente riuscì a inquadrarla per bene.
            «Io ho qualcosa da dire!» Ripeté. Era seduta a gambe incrociate sul tavolo, le braccia morbidamente inarcate all’indietro per sostenerla. Indossava una camicia a quadrettoni rossa e i capelli scuri le ricadevano sulle spalle in ricci perfetti.
            «Trinidad Aleix Alvarado, figlia di Loki!» Sciorinò l’uomo, quando l’ebbe riconosciuta. La mora alzò gli occhi e i suoi compagni di piano repressero sorrisi e sghignazzamenti dietro le mani.
            Di solito si faceva chiamare Trini, e da quando era arrivata non era mai morta. Sembrava assurdo, ma in un modo o nell’altro riusciva ad evitare le condanne più disparate: annegamenti, defenestrazione, avvelenamenti e persino una quasi decapitazione. Nessuno era ancora riuscito a farle esalare il suo secondo ultimo respiro. Sosteneva che l’intero concetto di “continuare a morire” fosse totalmente stupido, visto che durante il Ragnarok non sarebbero resuscitati, e l’istinto di sopravvivenza è comunque un ottimo alleato quando si parla di sopportazione del dolore.
            Solo quella mattina, per esempio, l’aveva vista alle prese con alcuni ragazzi del piano centoquattordici, che avevano trovato divertente l’idea di sfigurarle mezza faccia con dell’acido. Trini l’aveva presa con filosofia e li aveva squartati sotto i suoi occhi, per poi zoppicare allegramente ai margini del loro campo di battaglia, cercando i suoi compagni. Adesso, aveva solo delle leggere rughe su una guancia, bianche come ragnatele, che continuavano ad incresparsi seguendo le sue parole. Il giorno dopo si sarebbe svegliata e il suo viso sarebbe tornato perfetto.
            «Niente, volevo solo dire che il tipo molesto alla fine è mio fratello!» Sghignazzò, rivolta al tavolo dei capi. C’era una nota di orgoglio nella sua voce che la inquietò.    «Bro, hai visto!?» Gridò poi, all’altra parte della sala.
            Alex Fierro sollevò cripticamente entrambe le sopracciglia scure, incrociando le mani sotto il mento. Era l’unico – o unica? Areli non era molto brava a capire la differenza, e il più delle volte si limitava a rimanere in silenzio per non fare brutta figura – figlio di Loki lì nel Valhalla, e faceva parte del piano diciannove che decenni prima aveva rimandato la fine del mondo. Erano un po’ i VIP di quel posto di cerebrolesi, ed essere ammazzati da loro era considerato un grandissimo onore.
            «Purtroppo sì.» Rispose, sporgendosi un po’ verso il basso. «Ricambia i saluti se lo rivedi in giro, cara.»
            Honora mimò con le labbra un “neanche morta!” voltandosi verso di lui.
            «Ah, comunque Magnus ha qualcosa da dire, vero?»
            «Eh!?» Il figlio di Freyr tossì un paio di volte per non strozzarsi con l’idromele, sentendosi preso in causa. Cercò di protestare, ma pochi secondi dopo si era ritrovato a parlare di fronte a tutti contro la sua volontà.
            «Avanti, Magnus Chase, parla!» Lo spronò Helgi, che evidentemente riponeva molta aspettativa nelle sue parole.
            «Non è niente di certo.» Precisò il biondo, grattandosi un orecchio. «Però non credo ci sia da stupirsi tanto.» Un sussulto indignato scosse le fila di Einhajer. «Nel senso… Ok, sappiamo che esistono gli dei norreni. Wow, tutto molto figo: i Nove Mondi, Il Ragnarok, noi che continuiamo a morire… Però, voglio dire, mia cugina è una semidea greca. Sua madre è sua intelligenza divina Atena; e da qualche parte a Long Island c’è un Campo in cui dodicenni davvero poco morti si addestrano per sconfiggere mostri e altra roba. Quindi, boh, magari la ragazzina del video era solamente una semidea egiziana? O qualcosa del genere.»
            Messa in quel modo aveva un briciolo di senso in più. Mentre la sala esplodeva in manifestazioni più o meno violente sul fatto che esistessero altre divinità – che comunque non sarebbero mai state al pari delle loro, sia ben chiaro – Areli sospirò, impensierita. Quell’idea non le sembrava poi tanto stramba, ma in un certo modo aveva minato le poche certezze che aveva avuto da quando era morta: ci aveva messo molto per riuscire ad assimilare tutta la faccenda del Valhalla, e ora il mondo si era fatto improvvisamente più grande, più ostile, e più confuso che mai.
            «Questa cosa non mi piace per niente.» Asserì Robin, lisciandosi i lunghi capelli con una mano. «Se gli dei si assomigliano tutti, questo vuol dire che siamo circondati da pazzi pronti a tenere seminari motivazionali nel pieno della fine del mondo.»
            Brychan si grattò la mascella, aggrottando con forza le sopracciglia. «Io me li ricordo, i Romani.» Lanciò un’occhiata storta a Mick, visto che aveva passato tutti i suoi sedici anni di vita nella capitale italiana. «Un popolo di burattini senza anima, con l’unico scopo di marciare sopra i cadaveri dei nemici e conquistare la loro terra. Non mi stupirei se i loro dei fossero senza spina dorsale, proprio come loro.»
            Sicuramente insultare una divinità non era proprio quella che si dice un’idea geniale, ma lasciò perdere questo dettaglio. Mick scivolò sulla panca, stringendole il fianco, finché non furono spalla contro spalla.
            «Secondo me, non è nulla di così terribile. Odino è vecchio come il mondo, sicuramente è a conoscenza di tutti gli altri Pantheon e la gente che li frequenta.  Probabilmente, come ha detto Chase, ci saranno anche tonnellate di ragazzi come noi.»
            «E allora perché nessuno sa niente?»
            «Istinto di sopravvivenza, credo.» Mick socchiuse gli occhi. «È più facile tenerci separati: se ognuno bada ai fatti propri, senza immischiarsi in cose che non lo riguardano, è ovvio che si riesca a mantenere più a lungo una “convivenza pacifica”. Probabilmente è così per tutti. Noi, Greci, Egizi, Romani, Cristiani e qualsiasi altra cosa ci sia su questo pianeta.»
            «Spero tu abbia ragione.» Disse Robin. «Queste cose fanno paura.»
            «E cosa succederà quando scoppierà il Ragnarok?» Gli chiese. Mick ci pensò su, cercando di figurarsi una prospettiva del genere.
            «Beh, noi moriremo. Per gli altri non lo so, immagino che avranno qualche mito, o racconto, sull’ipotetica fine del mondo. Per i Cristiani ci sarà l’Apocalisse e poi Dio giudicherà l’umanità, no? I Maya l’hanno predetta con un calendario, e credo ci fosse qualcosa al riguardo agli Aztechi… Boh, forse dei sacrifici? Gli Aztechi facevano un sacco di sacrifici.»
            Calò il silenzio. Helgi, a un certo punto, aveva provato a concludere la cerimonia; ma le sue parole si erano perse nel fracasso generale: sopra di loro, il piano settantuno dichiarò guerra al seicentosessantasei lanciando una coppa con ancora dell’idromele all’interno. Trini la schivò, si alzò in piedi, e tagliò la gola al ragazzo che l’aveva presa di mira con il bordo scheggiato di un piatto; in un gesto colmo di brutalità non necessaria che infervorò tutti i suoi compagni.
            Due minuti dopo, il caos era già dilagato dappertutto, e i resti delle stoviglie continuavano a volare giù dalle file di panche. Mick alzò un braccio per ripararsi dai cocci, tagliandosi.
            «Direi che possiamo anche andare, per stasera ne ho avuto abbastanza.» Sentenziò, dando un’occhiata in giro prima di alzarsi. L’uscita più vicina era bloccata dagli scontri, e per raggiungerla avrebbero dovuto correre aggirando asce, spade e bicchieri in caduta libera.
            Mick rise. «L’ultimo che arriva è un gigante di pietra!» Poi le afferrò il polso e saltò giù.
 
 
 
L’odore della pioggia le pizzicava il naso. Era carico del profumo del bosco, dell’odore ricco della terra morbida immersa nel torpore dell’inverno. Non aveva mai prestato troppa attenzione a dettagli piccoli come quello, eppure da quando era arrivata le veniva più facile notare le piccole cose. La sfumatura che prende il cielo tra l’arancio e l’azzurro prima dell’alba. Il suono leggero delle campanelle appese all’ingresso del dojo. La consistenza del tatami sotto i suoi piedi nudi, prima di andare a dormire.
            Era felice, nonostante fosse lontana da casa e non vedesse la sua famiglia da quasi un mese; un tempo così lungo per una ragazzina che, come lei, non si era mai allontanata dalla città. C’era voluto del tempo e parecchia fatica da parte sua per ambientarsi, ma alla fine tutti gli sforzi l’avevano ripagata, rendendola orgogliosa del proprio impegno.
            Si alzò sulle punte, e con molta cura allacciò il cordino del suo Teru bouzu al filo di metallo che Taewook-san aveva fissato per lei quella mattina. Correva da una parte all’altra del portico in legno, coperto da un tetto spiovente. Una serie di colonne in mogano delimitavano l’ingresso del dojo; in fondo, sulla parete di roccia, c’era il Kamiza e le rastrelliere su cui tenevano bokken, jo e shinai. Non c’erano porte, o vere pareti, perciò il tatami in quei giorni era sempre umido e freddo.
            «Tsukki, guarda che i Teru bouzu non si attaccano da soli.» Disse, vedendo la sua amica intenta a fissare il prato e le montagne all’orizzonte, tra le mani la bambolina di stoffa. Era la prima volta che ne faceva una, visto che aveva la testa un po’ deforme, ma era stata felicissima di provare quando glielo aveva proposto, quella mattina. Con un pennarello, aveva abbozzato una faccina sorridente compresa di baffi, come un piccolo gattino.
            «Stavo pensando che con tutta questa pioggia il fiume deve essersi ingrossato, di sotto.» Si girò verso di lei, con gli occhi viola che luccicavano di divertimento. «D’estate andiamo sempre a fare il bagno lì. Teawook ci lascia giocare con i pesci, è divertente. Non vedo l’ora che sia estate, così potremo andarci insieme.»
            Soddisfatta, allacciò anche lei la sua bambolina. Tsukki era al campo da molti più anni di lei, ma quello era solo il secondo che si fermava anche durante l’inverno. Le aveva detto che, appena iniziava la bella stagione, il numero di ragazzi che si fermava cresceva esponenzialmente, e che organizzavano veri e propri tornei di karatè, judo e tiro con l’arco. Taewook li portava a valle dove c’erano tre grandi ryokan accumunati da un giardino immenso che curava lui stesso, e durante il Tanabata il tempio si riempiva con i cartoncini dei loro desideri e delle preghiere agli dei.
            Ayano non vedeva l’ora che facesse bel tempo, anche se l’autunno era appena finito. Attualmente erano solamente in sette, contando anche Taewook-san, e a malapena riempivano tutte le stanze della piccola abitazione che avevano a disposizione. Il campo di tiro con l’arco le sembrava sempre troppo grande e silenzioso, come se trasmettesse una malinconia simile agli alberi che hanno perso le foglie. C’era un ragazzo di qualche anno più grande che la mattina si esercitava; per il resto, rimaneva deserto.
            Più che a un campo, in effetti, le sembrava un villaggio, di quelli piccoli sperduti in mezzo alle piantagioni di riso. Tutti gli edifici erano in legno, e Tsukki le aveva detto che era stato Teawook-san a costruirli in persona, per poi farli benedire agli dei. Il complesso si sviluppava su una sporgenza rocciosa larga poco meno di un chilometro, attorno a un prato curato. Non c’era modo di accedervi se non attraverso un portale, che si trovava all’interno del tempio.
            «I tuoi sono molto più belli, Yan-chan, non è giusto!» Si lamentò Tsukki, occhieggiando le sue bambole, indispettita.
            «Io le faccio da molto più tempo. Ho imparato da mio padre, quando ero piccola le appendeva sempre alle finestre di camera mia.» Le disse. Ne prese un’altra, su cui aveva disegnato un’espressione sonnacchiosa, e l’appese.
            «Deve essere stato bello. Io… Non ho molti ricordi del mio papà. Se ne è andato che ero ancora piccola, e poi sono stata lontana dagli umani per anni…»
            Ayano alzò il viso e vide la punta delle orecchie di Tsukki pendere verso il basso, immerse completamente tra i ricci crespi dei suoi capelli rossi. Non le serviva conoscere nulla della sua infanzia per immaginare quanto fosse stata dura, e piena di pregiudizi. Né completamente umana, né completamente volpe: essere una mezza kitsune l’aveva relegata sul confine sottilissimo che divideva due mondi distanti quanto un abisso.
            «Mi dispiace.»
            «Um.» Si era rattristata, nonostante tutto, attorcigliando la coda su una gamba. «Non devi. È  passato tanto tempo, ormai.»
            Si sfregò le guance con entrambe le mani per poi sorriderle, mettendo in mostra i dentini affilati. Ayano era ancora un po’ dubbiosa, ma preferì non dire nulla. Non aveva le parole adatte per essere di conforto.
            Ripresero il loro lavoro, lasciando che la pioggia rompesse il silenzio. Si ritrovò a canticchiare a bassa voce le strofe di una poesia vecchissima, che sapeva di casa e aveva il colore dei ricordi.
            «Teru-teru bozu, teru bozu… Ashita tenki ni shite o-kure, itsuka no yume no sora no yo ni. Haretara kin no suzu ageyo
            Le orecchie di Tsukki fremettero all’istante, e la ragazzina si voltò verso di lei con il sorriso sulle labbra.
            «E questa?»
            «Una filastrocca. Serve per mandare via gli spiriti maligni.»
            Tsukki rise appendendo l’ultimo Teru bozu. «Insegnamela! Ah, aspetta, l’inizio non è difficile, allora… “Teru-teru bozu, teru-teru bozu…!”» Cantilenò, facendo una piroetta sul posto.
            «No, no, non così, hai sbagliato!» Il suo rimprovero però fu smorzato dalle risate; la ragazzina le prese entrambe le mani e insieme iniziarono a girare in tondo, sempre più veloce. Quando smisero avevano i visi rossi e il fiato corto.
            «Oh, questo è stato divertente! Super divertente!»
            Ayano dovette darle ragione, perché le guance le tiravano tutte e si sentiva leggera come una piuma, anche se il mondo non aveva ancora finito di vorticarle attorno. Prese fiato e fece scivolare lo sguardo di fuori, dove la pioggia si era attenuata un poco.
            «Ehi Tsukki…» Tiro pianò la manica del kimono che indossava. «C’è un ragazzo in mezzo al prato.»
 
            Lo sconosciuto si era seduto per terra a gambe incrociate, e Teawook-san aveva alzato le sopracciglia a quel gesto, quasi scandalizzato. Ayano non lo conosceva benissimo, ma aveva imparato a leggere il linguaggio del suo viso in maniera precisa.
            «Lo hai mai visto?»
            Tsukki scosse la testa, sporgendosi dallo stipite per poter sbirciare: la kitsune le aveva spedite a preparare il thè per il loro ospite non appena entrate, ordinando tacitamente di rimanere in disparte e non intromettersi.
            «Non sembra uno Yokai, per nulla.» Disse, assottigliando gli occhi felini. Le orecchie e la coda erano scomparse per il momento, ma Ayano poteva benissimo immaginare gli scatti irrequieti che avrebbero fatto se ci fossero state. «Forse è un dio…»
            «A me sembra normalissimo…» Bisbigliò, ricontrollando il vassoio. La teiera era in mezzo, poi aveva posizionato l’infuso, le tazze. Il servizio era molto vecchio e tutti i pezzi erano striati d’oro lì dove alcune crepe ne indicavano la rottura. Le sarebbe piaciuto saper ascoltare la voce segreta degli oggetti; chissà che bella storia avrebbero potuto raccontarle.
            Con attenzione, si incamminò nell’altra stanza, posizionando il tutto sul tavolino basso. Iniziò a servire in silenzio e Taewook-san le sorrise compiaciuto notando la sua precisione nei movimenti.
            Aveva una corporatura abbastanza massiccia, eppure il kimono gli scivolava sulla pelle alla perfezione, increspandosi leggermente sui gomiti. Si era tagliato e rasato i capelli, e ora l’unico punto in cui si arricciavano era dietro le orecchie.
            Le dedicò un cenno con il capo e aspettò prima di cominciare a bere, tendendo la schiena in una postura impeccabile. Forse stava cercando di intimorire l’altro ragazzo: era un gesto che gli aveva visto fare spesso in dojo quando, alla fine della lezione, li chiamava a coppie per mostrare una o più tecniche di fronte al resto del gruppo.
            «Grazie mille.» Il giovane unì le mani e si chinò leggermente verso di lei.
            Era vestito tutto di bianco, e a prima vista gli aveva ricordato un Teru bouzu. Aveva il viso gentile dei monaci e capelli ricci e scuri che gli ricadevano sulla fronte, occhi grandi e castani.
            «Ho visto che sono arrivati ragazzi nuovi.»
            «Un po’.» Taewook-san stirò le labbra in un sogghigno morbido. «Vedremo quest’estate.»
            Sorseggiarono la bevanda e per un po’ non si dissero nulla. Ayano era giovane, ma non stupida, e si accorse perfettamente del distacco gelido che la kitsune dimostrava in ogni singolo movimento del corpo. Il loro ospite non sembrò farci caso però. Si sentiva a disagio a rimanere lì, ma nessuno l’aveva ancora congedata e lei di certo non poteva andarsene senza dire nulla.
            «Allora, Ravi, che cosa ti porta qui?»
            «Nulla in particolare.» Rispose. «Ero di passaggio e ho pensato di venire a salutare. Le ultime giornate sono state frenetiche, un po’ di calma è tutto quello che cerco.»
            «Allora sei venuto nel posto giusto.» Un rombo di un tuono scosse l’aria, e l’acqua iniziò a cadere più fitta. «O forse no. Che tempo, sembra che gli spiriti siano irrequieti anche quassù.»
            Ravi serrò la mandibola in uno scatto abbastanza evidente. Bevve un sorso di thè, prima di parlare ancora.
            «Stanno succedendo parecchie cose…»
            «Oh, lo so.» Taewook-san sorrise, come se la cosa lo divertisse. «È un po’ difficile non accorgersene. Ecco, forse qui non è evidente, ma ho sentito che in America stanno succedendo cose interessanti. In Europa. In Egitto.» Schioccò la lingua. «Tutti si affannano come formiche sulle briciole.»
            «Non pensi dovremmo fare qualcosa anche noi?»
            Taewook-san irrigidì la bocca, e Ayano vide il disgusto dipingersi sul viso allungato.
            «No.» Rispose secco. «La cosa non ci riguarda minimamente. Che se la sbrighino da soli come hanno sempre fatto.»
            Ravi poggiò la tazzina sul tavolo, senza aggiungere altro. Sembrava provato, in un certo senso, e una ruga gli solcava la fronte in modo netto.
            «Capisco.» Aggiunse alla fine. Taewook-san finì il thè e poi inclinò leggermente la testa nella sua direzione.
            «Sei ancora qui?» Le chiese, vedendola rigidamente in piedi. «Raccogli tutto e vai di sopra.»
            Ubbidì senza protestare, nonostante il tono brusco le desse fastidio. Tsukki si era accovacciata dietro i pannelli di carta di riso, con la coda in grembo, gli occhi spalancati e in allerta.
            «Yan-chan…»
            «Non lo so.» Bisbigliò all’amica, mentre salivano in camera. Non era riuscita a carpire molto da quella conversazione, ma le aveva lasciato addosso una pesantezza opprimente. «Andiamo.»



«Oh Jacob, smettila di tormentarti quel taglio. Sei come i bambini; poi se ti levi la crosta ti rimane la cicatrice.»           
            Il ragazzo strinse le labbra e arrossì per l’imbarazzo, lasciando ricadere la mano sul tavolo.
            «Scusa.»
            Olivia gli sorrise bonariamente, più divertita che irritata. Riprese a sorseggiare il caffè dell’hotel, che aveva un curioso retrogusto fruttato che l’aveva affascinata dalla sera prima.  In un momento di follia, aveva preso ben tre dolci ricoperti di crema e cioccolato, ma non era più così sicura di riuscire a finirli.
            «Ti vedo abbastanza nervoso in questi giorni. E anche Diana è ridotta a uno straccio, penso abbia qualche problema a dormire.» Disse, indicando con un cenno la ragazza seduta a un altro tavolo un po’ più avanti. Aveva fatto a pezzi una brioches ripiena di crema, che continuava a inzuppare senza entusiasmo nel latte. Richard, accanto a lei, stava letteralmente dormendo sopra un piatto di salsicce e bacon.
            «È che…!» Iniziò, sfilandosi gli occhiali e massaggiandosi le tempie, esasperato. Uno dei camerieri si affacciò per vedere se stesse bene; Olivia lo allontanò con un cenno della mano senza scomporsi.
            «Con calma, Jacob. Fai un bel respiro. Non c’è fretta.»
            Il ragazzo annuì, premendosi le mani sugli occhi in modo da scacciare via le lacrime: avere una crisi isterica di fronte ad Olivia – per quanto lo avesse visto in condizioni molto peggiori – era proprio l’ultimo dei suoi desideri. Si impose di calmarsi, e alla fine trasse un respiro tremante mentre rialzava lo sguardo.
            «Quello che è successo a Salem… Non doveva… Non doveva andare così.»      Distolse lo sguardo abbassandolo sul suo piatto pieno di briciole e croste mangiucchiate. Tirò su col naso, e Olivia sorrise nel vederlo così umano        . L’impulso di alzarsi e consolarlo si fece prepotentemente strada tra i suoi pensieri; ma erano pur sempre in un salone di un hotel di Istambul a fare colazione, e sapeva che simili gesti non sarebbero stati graditi con tutta quella gente a fare da testimone.
            «Che cos’è che ti ha turbato così tanto?» Gli chiese. Le avevano raccontato tutto nei minimi particolari – ovviamente - inclusa la ragazza intreccinata e a prima vista invisibile, ma ancora non aveva avuto modo di approfondire la questione con nessuno. Diana era scoppiata a piangere al ritorno – per frustrazione o shock ancora doveva capirlo – e Richard era sprofondato in un silenzio stretto condito da mal di testa allucinanti. Le aveva accennato qualcosa riguardo a Seth e altri deliri che li vedano protagonisti di diatribe a suon di urla e insulti, prima di spaccare a pugni lo specchio della sua camera dalla disperazione.
            «Io… Non lo so.» Ammise Jacob. «Credo sia tutto quanto. Il museo era un disastro, ma quando siamo arrivati abbiamo solo visto Diana venire scaraventata dall’altra parte della sala. La ragazza in armatura si è volatilizzata. Il ragazzino con la maglia blu anche. E poi sono arrivati i mortali… E hanno visto…»
            Si interruppe, boccheggiante.
            «C’era sangue dappertutto…» Aggiunse con un filo di voce. Non serviva che dicesse altro: Olivia allungò le mani verso le sue in un gesto di conforto, accarezzandogli i dorsi con i pollici.
            L’odore salato che impregna l’aria. Il fumo, le lacrime, le urla. Le ossa spezzate che sporgono fuori dai corpi e occhi vitrei ancora aperti su un mondo che non possono più vedere. Anche lei aveva provato sulla propria pelle l’impotenza, l’angoscia, la nausea che le stringeva lo stomaco alla vista dei cadaveri.
            Era stato improvviso e inaspettato e lei non aveva potuto far nulla che non fosse piangere.
            «Non datevi colpe che non vi appartengono.» Gli disse piano. «Siete stati bravi, è questo l’importante. Oh, Jacob, le persone sensibili sono sempre quelle che soffrono di più. Passerà, prima o poi passerà.»
            Jacob annuì, con gli occhi già carichi di lacrime. Si sfregò il viso con la manica della maglia e poi tirò indietro la sedia.
            «Vado in camera.» Biascicò, ed uscì dalla sala a grandi passi.
            Diana si girò a guardarla leggermente stranita.
            «Vuoi che vada da lui?»
            «No.» La rassicurò, scuotendo appena la testa. «Andate a dormire voi due, ne avete proprio bisogno.»
            Agitò una mano e sopra le teste dei due maghi scintillò un piccolo geroglifico. N’dah; proteggi.
            Diana strattonò Richard per un braccio, e dopo averlo svegliato sparirono anche loro su per le scale.
            Olivia sospirò, guardando il suo piatto ancora strabordante di cibo. Non era davvero in vena di buttar giù ancora qualcosa, ma si disse che non poteva tirare avanti fino a pranzo con del semplice caffè. Specialmente nelle sue condizioni.
            Tirò fuori il telefono, controllando velocemente Skype: Max aveva visualizzato il suo ultimo messaggio ma non risposto, probabilmente perché rimasto senza credito. Le aveva detto che era riuscito a prendere un autobus e che, se gli andava bene, avrebbe raggiunto Long Island nel giro di tre giorni. Sospirò e decise di chiamarlo la sera, non aveva tempo al momento.
            «Scusi, posso sedermi?»
            Alzò lo sguardo dallo schermo, vedendo un ragazzo tenere in equilibrio perfetto tre piattini sul braccio. Le stava sorridendo appena, forse un po’ nervosamente.
            «Oh, certo, solo un attimo.»
            Spostò i piatti di Jacob verso un angolo del tavolino, lasciandogli spazio. L’osservò sistemarsi con una certa curiosità, anche perché non credeva fosse un caso che avesse deciso di sedersi lì: la sala si stava svuotando, perciò era palese che avesse qualcosa da dirle. Non ricordava di averlo mai visto prima, ma le dava l’impressione di una persona abbastanza tranquilla, di quelle con cui avrebbe parlato volentieri.
            Durante gli anni aveva ricevuto avances imbarazzanti di tutti i tipi, in momenti più o meno sbagliati; e se quel ragazzetto ci stava davvero provando, almeno aveva avuto la decenza di farlo in modo discreto.
            «Ci conosciamo?» Gli chiese, notando le continue occhiate che le rivolgeva. Lui quasi si strozzò con il caffelatte.
            «Non… Non esattamente.» Tossì, posando la tazza per evitare di rovesciare il contenuto sulla tovaglia. «Almeno, di persona è la prima volta che ci vediamo.» Precisò.
            Olivia inarcò un sopracciglio, improvvisamente interessata alla piega che la conversazione stava prendendo.
            «Davvero?»
            «Um.»
            Il ragazzo si ficcò in bocca due biscotti, socchiudendo gli occhi scuri, con l’indecisione dipinta sul viso. Aveva capelli neri e leggermente mossi che gli arrivavano alle spalle, tirati indietro in un codino in modo da lasciargli scoperta la fronte. Teneva le maniche della camicia bianca arrotolate sui polsi e l’estremità dei jeans stracciati infilata con cura dentro un paio di scarponcini nocciola. In vita teneva legata una felpa scolorita, color vinaccia.
            «Diciamo che ho fatto un sogno.» Cominciò vago, afferrando un bignè alla crema dal suo piatto. «Ecco, potrei… Come dire…»
            «Mi hai sognata?» Gli risparmiò l’imbarazzato, e lui arrossì.
            «Sì, eeh… In sostanza sì.»
            «Fai sogni strani, allora!» Aggiunse ridendo, prendendo in mano il dolce al cioccolato. Diede un morso ma appena inghiottì il suo stomaco protestò violentemente, accartocciandosi su sé stesso per via della nausea.
            No, decisamente niente dolci oggi.
            «Purtroppo sì.» Sospirò il ragazzo rassegnato, grattandosi un orecchio. «Insomma, senza scendere nei particolari…» Olivia avrebbe voluto dirgli che invece i particolari li voleva eccome. «Sono venuto per consegnarti questi.»
            Frugò nelle tasche della sua felpa e ne estrasse un blocchetto di biglietti squadrati, con sopra la stampa lucida di un museo.
            Erano ingressi per il museo di Istambul, utilizzabili per tutto il weekend. Mentre li rigirava tra le mani si sentì sollevata, come se un peso enorme le avesse abbandonato le spalle. Dall’incidente di Max, utilizzare i portali era diventato ancora più rischioso, e questo li limitava da un sacco di fronti. Entrare nei musei senza dare nell’occhio si era rivelata un’impresa più ardua del previsto, e non potevano certo sperperare una quantità immonda di denaro per pagare l’ingresso a decine di maghi ogni singola volta.
            «Ti ringrazio moltissimo.» Gli disse, veramente riconoscente. «Per curiosità, a quale divinità dobbiamo l’interessamento?»
            Il moro sospirò, sollevato di aver trovato la persona giusta.
            «Ishtar.»
            «Oh, non avrei mai detto.»
            «Già… Non so bene di preciso che cosa le sia preso, ma nell’ultimo periodo è diventata ancora più intrattabile del solito… Uh, forse questo è meglio non dirglielo, però…» Olivia capiva benissimo, Iside per prima aveva un caratteraccio, e anche se negli anni si era ammorbidita, quando era stressata tendeva a impartirle ordini, tagliare di proposito qualsiasi connessione lasciandola a corto di magia, e soprattutto chiudersi in un silenzio opprimente.
            «Mi ha detto che stanno succedendo cose strane, ma nessuno sembra sapere perché. Per quanto ne so, ha cercato di mettersi in contatto con qualcuno, penso altri dei ma… Beh, il fatto è che di divinità babilonesi non c’è ne sono molte in circolazione. Sono state tutte dimenticate o quasi, e la loro coscienza a volte è appena percettibile.»
            «Quindi ha pensato che noi l’avremmo potuta aiutare?» Chiese perplessa. Di solito gli dei cercavano di annientarli senza pietà gettandoli in pasto a problemi molto più grandi di loro, e per esperienza Olivia aveva imparato a leggere tra le righe della presunta gentilezza che Iside le dimostrava, a volte.
            «Gli egizi le piacciono.» Il ragazzo sorrise. «Ad un certo punto è diventata parte integrante del vostro Pantheon, no? Ritornare a essere una dea in carne e ossa dopo aver visto la propria civiltà morire deve essere stato un vero e proprio miracolo. Anche se non ha mai apprezzato i gonnellini.»
            Risero.
            «Un punto a suo favore. Cercheremo di fare il possibile per sistemare la situazione. Tra l’altro, non ci sono anche delle decorazioni della sua porta esposte?»
            «Si. Ne è ossessionata, forse perché è l’unica cosa che la mantiene ancora in vita: il fatto che l’abbiano smembrata e che la parte principale sia da qualche parte a Berlino… Beh, meglio non parlarne!»
            Stava per aggiungere altro ma si bloccò, sfilando il telefono dalla tasca dei jeans. «Cavolo è tardissimo! Mio padre mi ammazzerà, poco ma sicuro..!» Biascicò, alzandosi in fretta.
            «Ah, mi spiace ma…»
            «Non c’è problema.» Olivia lo rassicurò con un cenno della mano. «È stato un piacere conoscerti di persona.»
            «Anche per me!» Le allungò un biglietto da visita stampato su un cartoncino color panna.  «Alla prossima… Oh? Evet
            Si alzò incastrando il cellulare tra l’orecchio e la spalla, iniziando a parlare in turco. Olivia lo seguì con lo sguardo finché non sparì. Lesse il nome impresso in bella grafia sul biglietto: Demir Aydin. Purtroppo non le diceva nulla, ma avrebbe senz’altro fatto delle ricerche a proposito.
            Mentre si infilava il biglietto in tasca, il suo sguardo finì di nuovo sul suo piatto e il cibo intonso. Qualcosa nel suo corpo si ribellò alla vista della crema e del cioccolato. Sospirò
            «No, davvero niente dolci.»
 
 
 
 
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- GIAPPONESE –
     
      Tanabata: (Settima notte) Festa tradizionale giapponese, celebra il ricongiungimento delle divinità Orihime e Hikoboshi, che rappresentano le stelle Vega e Altair. Non ha una data precisa, visto che si celebra la settima notte del settimo mese lunare, di solito tra Luglio e Agosto.
      Tatami:
      Ryokan: Albergo tradizionale, che conserva molti elementi dell’epoca Edo (1603 - 1868) come i pavimenti in tatami, il bagno esterno alla camera e un giardino dove, molto spesso, si può trovare un padiglione per la cerimonia del thè.
      Teru bouzu: Bambolina fatta di stoffa o carta di colore bianco, molto diffusa nelle campagne. Viene appesa alle finestre come amuleto contro la pioggia. La parola giapponese Teru è un verbo che significa rispendere e bouzu è il monaco buddista. È protagonista di una famosa filastrocca per bambini*.
      Dojo: Luogo dove si svolgono gli allenamenti alle arti marziali. Letteralmente significa “ luogo dove si segue la via”.
      Kamiza: Posto d’onore. Nel dojo, è il luogo dove si colloca la foto del Sensei (maestro) a simboleggiare la trasmissione dell’insegnamento.
      Bokken: Spada di legno utilizzata negli allenamenti, solitamente ha la lunghezza di una katana, ma può rifarsi anche ad altre spade.
      Jo: Bastone di legno lungo dal metro e mezzo ai due metri, viene utilizzato in alcune arti marziali.
      Shinai: Spada di allenamento utilizzata nel kendo.
      Kitsune: Volpe. Nella mitologia giapponese, queste creature sono dotate di grande intelligenza, e tra i loro poteri c’è l’abilità di cambiare aspetto assumendo sembianze umane.
      Yokai: Tipo di creatura soprannaturale della mitologia giapponese. La parola può venire tradotta con “apparizioni” “demoni” o  “spettri”. Esistono molti tipi di Yokai, tra questi rientrano anche le kitsuni.
 
* La filastrocca che canta recita Ayano è composta da tre strofe, qui vi riporto la versione integrale con la traduzione.
     
      Teru-Teru Bouzu, Teru Bouzu, ashita tenki ni shite o-kure.
      Itsuka no yume no sora no you ni
      haretara gin no suzu ageyo.
 
      Teru Teru Bozu, Teru Bozu, portami il sole domani
      Se il cielo sarà sereno come lo sogno
      ti regalerò un campanello dorato.
 
      Teru-Teru Bouzu, Teru Bouzu,
      ashita tenki ni shite o-kure.
      Watashi no negai wo kiita nara
      amai osake wo tanto nomasho.
 
      Teru Teru Bozu, Teru Bozu,
      portami il sole domani
      Se ascolterai le mie preghiere
      ti donerò del sakè dolce.
 
      Teru-Teru Bouzu, Teru Bouzu,
      ashita tenki ni shite o-kure.
      Sore de mo kumotte naitanara sonata no kubi wo chon to kiru zo.
 
      Teru Teru Bozu, Teru Bozu,
      portami il sole domani
      Se sarà nuvoloso ti staccherò la testa.
 
 
- TURCO –
 
      Evet?: Sì?
 
 
 
 
- THE IMPEROR –
 
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      DIRITTO
                  L'Imperatore ha il controllo del proprio destino, costruendo il proprio impero su solide fondamenta.
                 Fidati delle tue esperienze. Puoi imparare molto dall'osservare le conseguenze delle tue azioni.
      ROVESCIO
                 L'Imperatore domina il suo mondo con un pugno di ferro, senza che nulla sfugga alla sua presa.
                 Fai attenzione a non stringere troppo il tuo impero. Le piante crescono solo quando viene dato spazio per prosperare.
 
 
 
 
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Allora! Eccoci finalmente di nuovo qui!
      Sono reduce dalla mia primissima sessione di esami, che mi h fruttato dei votoni davvero inaspettati, e credo che questo si sia un po’ sentito anche sulla scrittura.
      Beh, che dire. Mi sono davvero divertita a scrivere questo capitolo! Non vedevo l’ora! Ho cambiato molte scene dalla bozza che aveva buttato giù, però sono davvero soddisfatta.
      Spero vi sia piaciuto, che le note alla fine non siano state troppo prolisse e, come sempre, se notate errori o altro sarei molto felice se me lo diceste. Sono SICURISSIMA di aver cannato qualcosa ahaha.
      Passando ad altro, le presentazioni sono finalmente finite. Anche se effettivamente non credo che sia molto chiaro, in alcuni casi, quali siano i veri e propri protagonisti ahaha, ma Arcana è anche questo XD Ditemi se serve magari un riepilogo, così al prossimo capitolo lo inserisco, magari con dei disegni.
      Mi scuso tantissimo per non aver risposto ad alcune recensioni! Sappiate che le leggo tutte sempre con piacere, ma tra feste e studio matto e disperatissimo ho sempre rimandato. Prometto che nei prossimi giorni risponderò a tutti!
      E nulla, non credo di aver altro da dire (?) Il prossimo aggiornamento sarà tra due settimane, la prossima aggiornerò invece  10 sec, lo dico qua visto che molti partecipano ad entrambe ahahah.
      Un bacione e alla prossima <3
                 Itzi
   
 
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