Perché
tu possa ascoltarmi
QUANDO
MARISA LI CONOBBE
La
prima volta che aveva accompagnato maman
ad una visita, un’infermiera gentile gli aveva preso la mano
e Demian aveva
avuto paura. Le aveva appena afferrato la punta delle dita, con un
imbarazzo
infantile di chi bambino non lo voleva più essere ma non
aveva ancora la forza
di camminare da solo.
Marisa
era indulgente con lui, intenerita
da quel suo raccogliersi, stringersi nelle spalle per difendersi dai
volti che
gli scorrevano accanto e non conosceva. Da quell’infermiera
stessa, che pure
sembrava tanto gentile ma proprio per questo gli faceva aumentare i
battiti
cardiaci in ansia compressa tra lo stomaco e il diaframma.
Marisa
gli aveva offerto una cioccolata e
Demian vi si era aggrappato quasi disperatamente. Le dita pallide e
magre
tremavano, il liquido minacciava di uscire dal bicchierino, e lui vi
appoggiò
piano al bordo, con esitazione, le labbra delicate e sottili come
buccia d’uva,
e bevve lentamente, quasi solo a bagnarsi il palato con tutta quella
dolcezza
per allungare il momento e goderne più a fondo. La sua
leggera oasi di dolcezza
era tutta lì, raccolta in quel bicchiere: lo sapeva che
finita quella sarebbero
arrivate le notizie.
Non
sarebbero state belle notizie.
Aveva
dieci anni e il suo corpicino
rannicchiato e rattrappito su se stesso, quasi cercasse di sparire e
fondersi
con la parete, era una curva di fragilità e delicatezza,
trasmetteva un senso
d’impotenza che spaccava il cuore. La linea del collo,
così indifesa e sottile,
i capelli corti e morbidi e quegli occhi, docili e insicuri che
scavavano, che
cercavano in Marisa conforto.
La
donna non aveva potuto darglielo, non
aveva avuto il coraggio di sfiorarlo, aveva quasi allungato una mano
verso di
lui, come per raccogliere quell’angoscia, ma era inerme e
distrutto, così
distrutto che il braccio le era ricaduto sul fianco morbido, e lei si
era
vergognata della viltà che non le aveva permesso di aiutarlo.
Gli
occhi di Dami si erano allargati, il
nero aveva inghiottito tutto, si era mangiato l’iride gelida
che lo faceva
apparire distante e aveva mostrato solo un bambino spaventato che nella
sua
esitazione aveva colto l’abbandono. Davanti al suo sguardo
ferito e implorante
Marisa aveva piegato la testa e distolto il viso.
«Vuoi
andare a giocare con gli altri
bambini?» gli aveva chiesto per sciogliere
l’imbarazzo che la sua presenza,
troppo grande per essere solo un bambino, gli stava causando.
Dem
aveva scosso la testolina chinata verso
il pavimento.
«Cosa
vuoi fare? ci vorrà ancora un po’ di
tempo»
Lo
osservò mordersi l’interno della
guancia, poi appoggiare a terra accanto alla seggiola il bicchiere di
plastica,
sfilarsi lo zainetto dalle spalle ed estrarre un quadernetto. Senza
dirle
nulla, quasi senza considerarla, aveva iniziato a disegnare.
Da
allora, Demian non le aveva più
afferrate, le sue dita.
Aveva
abbozzato sorrisi, per tutte le
cioccolate che erano seguite a quella, aveva ringraziato e aveva
raccolto il
suo dolore.
Quando
Marisa lo vedeva di schiena, la sua
postura sempre un po’ curva, di chi si difende da solo,
pensava solo a quanto
sembrasse inerme e sguarnito, a come fosse sempre stato delicato, fin
dal primo
giorno.
Ora
che il tempo era trascorso, entrava
dritto e sicuro, e i suoi occhioni dal taglio obliquo, nordico
-così diverso e
particolare, da creatura fatata- si volgevano al vuoto e non si
soffermavano su
nulla. Allora Marisa avrebbe voluto poter tornare indietro, ad
accarezzargli la
testa, quel giorno, a stringergli bene la mano, a superare la sua
paura, perché
forse non avrebbe fatto differenza o forse, ora, Demi non sarebbe
apparso
ancora più distante, un sogno che camminava, che sfumava
nella delicatezza della
linea insicura di un corpo etereo e irraggiungibile.
Poi
erano arrivati i lividi.
Cerano
anche prima, c’erano sempre stati,
ma mai così, mai una tale manifestazione di
brutalità. La pelle morbida dello
zigomo spaccata, il sopracciglio candido strappato, le labbra tinte di
violenza
triste come una macchia irreparabile sul viso ancora efebico ed
elegante,
candido. Il rosso della carne e del sangue sulla sua pelle lattea
sapeva di
sacrilego, sangue sulla neve, come qualcosa d’innocente e
puro che veniva
corrotto. Un malsano senso di decadenza e rovina. Eppure,
c’era della bellezza
in questo, anche in questo, e osservarlo faceva solo male, come vedere
una
statua di marmo bianco modellata nell’incanto e sfregiata
dalle intemperie.
Demian
era la purezza più degradata e sporca
e Marisa poteva solo sorridergli, essere gentile e chiedere perdono a
Jenevieve,
perché l’amica glielo aveva chiesto, le aveva
detto di proteggerlo e stargli
vicino, che suo figlio era un’anima persa che si sentiva
esclusa dal mondo, era
un artista errabondo, un bohémien che nei propri panni non
sapeva starci e se
fosse rimasto solo, anche per poco, sarebbe stato più che
sufficiente perché si
sentisse solo sempre.
Marisa
era impotente, non poteva aiutarlo.
E
allora gli sorrideva e andava avanti.
«Marisa
io ho finito con la camera sette»
La
ragazza si stava avvicinando spulciando
da una cartelletta la sua personale lista. Elena faceva tenerezza, per
l’impegno che ci profondeva nel non restare mai indietro, nel
non sbagliare
nulla. La seguiva con attenzione e l’inadeguatezza insicura
di un pulcino che
tampina la mamma chioccia, contraeva le sopracciglia ad ala di gabbiano
e
annuiva mano a mano che imparava, come se con quel gesto stesse
confermando a
se stessa che tutto era sotto controllo e ce l’avrebbe fatta
senza problemi.
Il
suo tirocinio era iniziato solo da una
settimana, eppure quella manciata di giorni era bastata per far capire
a Marisa
che tutta la sua dedizione era in realtà solo un modo per
non perdere la
bussola. Come se Elena si costringesse a essere metodica non per
passione, né
per vero desiderio di apprendere, ma perché se avesse smesso
di farlo, se
avesse fatto vacillare la propria volontà anche un solo
istante, tutto le
sarebbe crollato addosso e la sua scelta le sarebbe sembrata assurda.
Una
volta, durante la pausa caffè, la
ragazza aveva fissato fuori dalla porta a vetri con aria distratta, lo
chignon
si stava lasciando andare e tutto in lei aveva l’aspetto
sfatto di una persona
alla deriva.
«Tutto
bene?» le
aveva domandato, ed Elena aveva annuito.
Poi,
aveva fatto una smorfia.
«Perché
lo fai?» aveva risposto.
E
Marisa non aveva capito.
«Perché
hai scelto questo lavoro? Perché lo
fai?»
Aveva
scrollato le spalle «Non posso fare a
meno di sentirmi utile»
Gli
occhi grandi di quello che all’epoca
era stato un bambino indifeso la annichilirono, lui non lo aveva
aiutato.
Avrebbe dovuto solo accarezzargli la testa e dirgli che tutto sarebbe
andato
bene, ma il dolore di Demian era stato troppo forte, l’aveva
travolta e
sbattuta e Marisa aveva capito che con il tempo anche lei aveva
sviluppato quel
muro che ogni medico deve erigere fra sé e il paziente, per
non restare
impantanato e distrutto dal dolore altrui.
«Tu
non mi sembri felice» aveva fatto
notare alla ragazza, e gli occhi di Elena si erano spalancati per la
sorpresa
di essere stata smascherata.
Eppure,
era una tale ovvietà.
«A
volte ho l’impressione che se esiste un
destino io l’ho mancato in pieno. Ed ora è troppo
tardi, non posso tornare
indietro. Che mi vada o meno, sono quasi alla fine, non posso gettare
via
tutto. È questa la mia strada adesso, e che io odi questo
destino o meno non conta
molto, no?»
Elena
faceva parte di quella generazione
che poteva scegliere e aveva davanti a sé così
tante scelte da non sapere quale
fare. Marisa non poteva capirla davvero, non conosceva il panico delle
infinite
possibilità, ai suoi tempi avere la possibilità
di un solo destino era già fin
troppo.
Ma
non lo disse, perché ogni generazione
aveva la sua croce.
La
croce di Elena era Elena stessa, niente
dolori, guerre, niente battaglie e lotte per diritti lontani, niente
fame e
stenti. E allora poteva combattere solo contro se stessa e rivoltarsi e
farsi a
brandelli.
In
quel momento era entrato Demian.
Puntuale
come sempre, l’aspetto consumato
di sempre, si trascinava e il viso duro e inflessibile non lasciava
spazio ad
alcuna luce.
Elena
lo aveva osservato, seguito con lo
sguardo, con una vivace curiosità ad animarle il volto,
finché Demian non aveva
imboccato le scale ed era sparito.
«Che
strano ragazzo» aveva mormorato, e
Marisa era stata assalita dalla familiare tenerezza che
l’avvolgeva quando
guardava quel bambino troppo cresciuto.
«Parlare
di destini sbagliati quando hai
davanti Demian è talmente meschino da risultare
crudele» le disse.
Forse,
quel muro non lo aveva costruito
abbastanza alto. Forse, non si era difesa abbastanza.
Demian
sarebbe sempre rimasto il suo
rimpianto.
ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti! Avevo
pubblicato questa storia senza mai finirla anni fa, è uno
spin-off dell’originale
“A’ Demian” a cui tengo molto.
“Perché tu
possa ascoltarmi” è un prequel che racconta la
storia di Demian e Elena, di
come si sono conosciuti e legati. Voleva essere un di più
per permettere di conoscere
meglio un personaggio sfuggente come Ellie, a cui purtroppo nella
storia
principale non ho potuto dedicare troppo spazio.
Credo sia comprensibile
anche senza aver letto la storia principale, ma ovviamente i numerosi
personaggi che contornano il tutto qui non saranno approfonditi,
saranno dati
un po’ troppo per scontato, forse.
I capitoli
saranno sempre molto brevi, frammenti dei ricordi che hanno scandito i
momenti
più importanti del loro controverso rapporto.
Spero vi
piaccia e che sia apprezzabile anche per chi non conosce il mondo di
Demian.
Contrariamente
alla principale, non la ritoccherò anche se è
datata, per valore affettivo e perché
non voleva essere una cosa seria, solo un di più.
Se ne avrete voglia,
sarei felice di sapere cosa ne pensate!
A presto!