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Autore: lady igraine    01/03/2019    0 recensioni
Elena ha ventun anni, è bella, spaventata dal futuro e tremendamente insicura della sua vita e delle sue scelte. Al secondo anno di infermieristica, costretta all'ennesimo tirocinio sofferto per compiacere la propria famiglia, pensa di gettare tutto al vento ma ha troppa paura di prendere una decisione.
Demian è un ragazzino, ha tredici anni, è terribilmente ostile ed ha una situazione famigliare disastrata alle spalle.
In apparenza nulla li lega, eppure il destino intreccia le loro strade indissolubilmente, perché a volte le risposte più ovvie sono nelle persone più improbabili.
***
"Quante verità costellavano il suo mondo, e lei neanche poteva immaginarle. C’era troppa complessità lì, dentro quel corpo pallido e diafano, dietro a quegli occhi freddi. Lei non poteva afferrarla del tutto, non poteva capirlo e aveva deciso di non farlo.
Non aveva bisogno di capirlo per preoccuparsi per lui."
"Elena era come una poesia di Neruda, indefinita e irreale. C’era una delicatezza in lei che filtrava attraverso le parole e gli penetrava nella pelle, diventava parte di lui, di un desiderio che non trovava sfogo e si comprimeva nel petto sempre più a fondo, una spina dolorosa che non riusciva a togliere."
Spin-off della storia "A' Demian"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO MARISA LI CONOBBE

 

 

La prima volta che aveva accompagnato maman ad una visita, un’infermiera gentile gli aveva preso la mano e Demian aveva avuto paura. Le aveva appena afferrato la punta delle dita, con un imbarazzo infantile di chi bambino non lo voleva più essere ma non aveva ancora la forza di camminare da solo.

Marisa era indulgente con lui, intenerita da quel suo raccogliersi, stringersi nelle spalle per difendersi dai volti che gli scorrevano accanto e non conosceva. Da quell’infermiera stessa, che pure sembrava tanto gentile ma proprio per questo gli faceva aumentare i battiti cardiaci in ansia compressa tra lo stomaco e il diaframma.

Marisa gli aveva offerto una cioccolata e Demian vi si era aggrappato quasi disperatamente. Le dita pallide e magre tremavano, il liquido minacciava di uscire dal bicchierino, e lui vi appoggiò piano al bordo, con esitazione, le labbra delicate e sottili come buccia d’uva, e bevve lentamente, quasi solo a bagnarsi il palato con tutta quella dolcezza per allungare il momento e goderne più a fondo. La sua leggera oasi di dolcezza era tutta lì, raccolta in quel bicchiere: lo sapeva che finita quella sarebbero arrivate le notizie.

Non sarebbero state belle notizie.

Aveva dieci anni e il suo corpicino rannicchiato e rattrappito su se stesso, quasi cercasse di sparire e fondersi con la parete, era una curva di fragilità e delicatezza, trasmetteva un senso d’impotenza che spaccava il cuore. La linea del collo, così indifesa e sottile, i capelli corti e morbidi e quegli occhi, docili e insicuri che scavavano, che cercavano in Marisa conforto.

La donna non aveva potuto darglielo, non aveva avuto il coraggio di sfiorarlo, aveva quasi allungato una mano verso di lui, come per raccogliere quell’angoscia, ma era inerme e distrutto, così distrutto che il braccio le era ricaduto sul fianco morbido, e lei si era vergognata della viltà che non le aveva permesso di aiutarlo.

Gli occhi di Dami si erano allargati, il nero aveva inghiottito tutto, si era mangiato l’iride gelida che lo faceva apparire distante e aveva mostrato solo un bambino spaventato che nella sua esitazione aveva colto l’abbandono. Davanti al suo sguardo ferito e implorante Marisa aveva piegato la testa e distolto il viso.

«Vuoi andare a giocare con gli altri bambini?» gli aveva chiesto per sciogliere l’imbarazzo che la sua presenza, troppo grande per essere solo un bambino, gli stava causando.

Dem aveva scosso la testolina chinata verso il pavimento.

«Cosa vuoi fare? ci vorrà ancora un po’ di tempo»

Lo osservò mordersi l’interno della guancia, poi appoggiare a terra accanto alla seggiola il bicchiere di plastica, sfilarsi lo zainetto dalle spalle ed estrarre un quadernetto. Senza dirle nulla, quasi senza considerarla, aveva iniziato a disegnare.

Da allora, Demian non le aveva più afferrate, le sue dita.

Aveva abbozzato sorrisi, per tutte le cioccolate che erano seguite a quella, aveva ringraziato e aveva raccolto il suo dolore.

Quando Marisa lo vedeva di schiena, la sua postura sempre un po’ curva, di chi si difende da solo, pensava solo a quanto sembrasse inerme e sguarnito, a come fosse sempre stato delicato, fin dal primo giorno.

Ora che il tempo era trascorso, entrava dritto e sicuro, e i suoi occhioni dal taglio obliquo, nordico -così diverso e particolare, da creatura fatata- si volgevano al vuoto e non si soffermavano su nulla. Allora Marisa avrebbe voluto poter tornare indietro, ad accarezzargli la testa, quel giorno, a stringergli bene la mano, a superare la sua paura, perché forse non avrebbe fatto differenza o forse, ora, Demi non sarebbe apparso ancora più distante, un sogno che camminava, che sfumava nella delicatezza della linea insicura di un corpo etereo e irraggiungibile.

Poi erano arrivati i lividi.

Cerano anche prima, c’erano sempre stati, ma mai così, mai una tale manifestazione di brutalità. La pelle morbida dello zigomo spaccata, il sopracciglio candido strappato, le labbra tinte di violenza triste come una macchia irreparabile sul viso ancora efebico ed elegante, candido. Il rosso della carne e del sangue sulla sua pelle lattea sapeva di sacrilego, sangue sulla neve, come qualcosa d’innocente e puro che veniva corrotto. Un malsano senso di decadenza e rovina. Eppure, c’era della bellezza in questo, anche in questo, e osservarlo faceva solo male, come vedere una statua di marmo bianco modellata nell’incanto e sfregiata dalle intemperie.

Demian era la purezza più degradata e sporca e Marisa poteva solo sorridergli, essere gentile e chiedere perdono a Jenevieve, perché l’amica glielo aveva chiesto, le aveva detto di proteggerlo e stargli vicino, che suo figlio era un’anima persa che si sentiva esclusa dal mondo, era un artista errabondo, un bohémien che nei propri panni non sapeva starci e se fosse rimasto solo, anche per poco, sarebbe stato più che sufficiente perché si sentisse solo sempre.

Marisa era impotente, non poteva aiutarlo.

E allora gli sorrideva e andava avanti.

 

 

«Marisa io ho finito con la camera sette»

La ragazza si stava avvicinando spulciando da una cartelletta la sua personale lista. Elena faceva tenerezza, per l’impegno che ci profondeva nel non restare mai indietro, nel non sbagliare nulla. La seguiva con attenzione e l’inadeguatezza insicura di un pulcino che tampina la mamma chioccia, contraeva le sopracciglia ad ala di gabbiano e annuiva mano a mano che imparava, come se con quel gesto stesse confermando a se stessa che tutto era sotto controllo e ce l’avrebbe fatta senza problemi.

Il suo tirocinio era iniziato solo da una settimana, eppure quella manciata di giorni era bastata per far capire a Marisa che tutta la sua dedizione era in realtà solo un modo per non perdere la bussola. Come se Elena si costringesse a essere metodica non per passione, né per vero desiderio di apprendere, ma perché se avesse smesso di farlo, se avesse fatto vacillare la propria volontà anche un solo istante, tutto le sarebbe crollato addosso e la sua scelta le sarebbe sembrata assurda.

Una volta, durante la pausa caffè, la ragazza aveva fissato fuori dalla porta a vetri con aria distratta, lo chignon si stava lasciando andare e tutto in lei aveva l’aspetto sfatto di una persona alla deriva.

«Tutto bene?»  le aveva domandato, ed Elena aveva annuito.

Poi, aveva fatto una smorfia.

«Perché lo fai?» aveva risposto.

E Marisa non aveva capito.

«Perché hai scelto questo lavoro? Perché lo fai?»

Aveva scrollato le spalle «Non posso fare a meno di sentirmi utile»

Gli occhi grandi di quello che all’epoca era stato un bambino indifeso la annichilirono, lui non lo aveva aiutato. Avrebbe dovuto solo accarezzargli la testa e dirgli che tutto sarebbe andato bene, ma il dolore di Demian era stato troppo forte, l’aveva travolta e sbattuta e Marisa aveva capito che con il tempo anche lei aveva sviluppato quel muro che ogni medico deve erigere fra sé e il paziente, per non restare impantanato e distrutto dal dolore altrui.

«Tu non mi sembri felice» aveva fatto notare alla ragazza, e gli occhi di Elena si erano spalancati per la sorpresa di essere stata smascherata.

Eppure, era una tale ovvietà.

«A volte ho l’impressione che se esiste un destino io l’ho mancato in pieno. Ed ora è troppo tardi, non posso tornare indietro. Che mi vada o meno, sono quasi alla fine, non posso gettare via tutto. È questa la mia strada adesso, e che io odi questo destino o meno non conta molto, no?»

Elena faceva parte di quella generazione che poteva scegliere e aveva davanti a sé così tante scelte da non sapere quale fare. Marisa non poteva capirla davvero, non conosceva il panico delle infinite possibilità, ai suoi tempi avere la possibilità di un solo destino era già fin troppo.

Ma non lo disse, perché ogni generazione aveva la sua croce.

La croce di Elena era Elena stessa, niente dolori, guerre, niente battaglie e lotte per diritti lontani, niente fame e stenti. E allora poteva combattere solo contro se stessa e rivoltarsi e farsi a brandelli.

In quel momento era entrato Demian.

Puntuale come sempre, l’aspetto consumato di sempre, si trascinava e il viso duro e inflessibile non lasciava spazio ad alcuna luce.

Elena lo aveva osservato, seguito con lo sguardo, con una vivace curiosità ad animarle il volto, finché Demian non aveva imboccato le scale ed era sparito.

«Che strano ragazzo» aveva mormorato, e Marisa era stata assalita dalla familiare tenerezza che l’avvolgeva quando guardava quel bambino troppo cresciuto.

«Parlare di destini sbagliati quando hai davanti Demian è talmente meschino da risultare crudele» le disse.

Forse, quel muro non lo aveva costruito abbastanza alto. Forse, non si era difesa abbastanza.

Demian sarebbe sempre rimasto il suo rimpianto.

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Ciao a tutti! Avevo pubblicato questa storia senza mai finirla anni fa, è uno spin-off dell’originale “A’ Demian” a cui tengo molto.

“Perché tu possa ascoltarmi” è un prequel che racconta la storia di Demian e Elena, di come si sono conosciuti e legati. Voleva essere un di più per permettere di conoscere meglio un personaggio sfuggente come Ellie, a cui purtroppo nella storia principale non ho potuto dedicare troppo spazio.

Credo sia comprensibile anche senza aver letto la storia principale, ma ovviamente i numerosi personaggi che contornano il tutto qui non saranno approfonditi, saranno dati un po’ troppo per scontato, forse.

I capitoli saranno sempre molto brevi, frammenti dei ricordi che hanno scandito i momenti più importanti del loro controverso rapporto.

Spero vi piaccia e che sia apprezzabile anche per chi non conosce il mondo di Demian.

Contrariamente alla principale, non la ritoccherò anche se è datata, per valore affettivo e perché non voleva essere una cosa seria, solo un di più.

Se ne avrete voglia, sarei felice di sapere cosa ne pensate!

A presto!

 

 

 

 

  
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