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Autore: LysandraBlack    05/03/2019    5 recensioni
Marian è scampata al massacro di Ostagar. Garrett ha assistito alla distruzione di Lothering, mettendo in salvo la loro famiglia appena in tempo. Senza più nulla, gli Hawke partono per Kirkwall alla ricerca di un luogo dove mettere nuove radici. Ma la città delle catene non è un posto ospitale e i fratelli se ne renderanno conto appena arrivati.
Tra complotti, nuovi incontri e bevute all'Impiccato, Garrett e Marian si faranno ben presto un nome che Kirkwall e il Thedas intero non dimenticheranno facilmente.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Anders, Hawke, Isabela, Varric Tethras
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The unlikely heroes of Thedas'
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CAPITOLO 10
Drink it off


 

 

«Mi dispiace, non ce l'hanno fatta.»

Rimase a fissare il nano che aveva di fronte, rifiutandosi di accettare la notizia.

«Un crollo della sala, li ha seppelliti vivi. Non siamo riusciti nemmeno a tirarli fuori, avremmo solo rischiato di restare intrappolati anche noi. Una tragedia, non ho parole per descriverlo.» Bartrand Tethras si soffiò rumorosamente il naso nel fazzoletto di stoffa candida. «Credetemi, so come vi sentite. Ho perso anch'io un fratello, quel giorno. Se solo avessi potuto fare qualcosa... avrei dato la mia vita per la sua. Oh, il mio fratellino...»

Marian rimase a fissarlo, muta e immobile.

Com'era possibile?

Erano così sicuri di farcela, che sarebbero tornati ricchi sfondati nel giro di qualche settimana, e invece ora quel nano le aveva appena annunciato che era rimasta completamente sola. Che non avrebbe mai più rivisto Garrett e Carver, persi per sempre in qualche cunicolo delle Vie Profonde.

La realizzazione la colpì come una stilettata nello stomaco.

“Non li ho nemmeno salutati.”

Le lacrime della madre, quel giorno, quando l'aveva scongiurata di provare a fermarli. La freddezza con la quale l'aveva trattata. Le parole orribili che aveva detto a Garrett l'ultima volta che lo aveva visto, il veleno che aveva sputato, ingiustamente, solo perché imbottigliato per anni dentro di sé.

E ora, non avrebbe mai più avuto la possibilità di scusarsi. O di arrabbiarsi di nuovo. Nè di tirare di spada con Carver, o fare a gara di bevute con Garrett. Non avrebbero più rincorso Bu per le strade polverose, né sopportato le lamentele della madre tra occhiate di soppiatto e zuppe insipide.

Barcollò all'indietro, e sarebbe caduta se non ci fosse stata Aveline a sorreggerla.

«Grazie per avercelo detto, Serah Tethras.» Disse la donna al nano, congedandolo. Quello ricacciò il fazzoletto nella tasca, girando i tacchi e andandosene per la sua strada come se nulla fosse.

La fece sedere su una delle fredde panche di pietra della città alta, circondate dalle gigantesche statue degli Antenati che i nani avevano posto in tutti gli angoli del loro quartiere.

«Marian...» Le disse, dopo un po'. «Mi dispiace così tanto.»

Scosse il capo. «Non dovevo farli scendere là sotto. Non- avrei dovuto fare qualcosa.»

Le appoggiò una mano sulla spalla. «Non c'era niente che potessi fare. È stata una loro decisione.»

Sentiva gli occhi pizzicarle, ma le lacrime non si decidevano a scendere. Le mancava l'aria, la nausea che le attanagliava lo stomaco al punto da farla piegare in due. «Devo... devo dirlo a nostra madre. Deve saperlo da me, che-» le si mozzarono le parole in gola.

L'altra esitò un attimo, in imbarazzo, senza sapere bene cosa fare. Poi, improvvisamente, sorprese entrambe stringendola in un abbraccio ferreo. «Ti accompagnerò, se vuoi.»

Marian nascose il volto, la fronte premuta sulla placca di metallo dell'armatura dell'altra, lasciandosi finalmente andare ad un pianto disperato, scossa dai singhiozzi.

Rimasero così finchè non ebbe finito le lacrime, finchè l'unica cosa che sentiva era una desolante, terribile sensazione di vuoto.

Vuoto che non l'abbandonò quando dovette andare a riferire alla madre la notizia, nemmeno dopo che Leandra cadde a terra con un urlo d'angoscia, un fiume di lacrime a solcarle il volto straziato dal dolore, Bu che correva al suo fianco uggiolando e cercando inutilmente di consolarla. Incrociò lo sguardo di Gamlen, che chino sulla sorella la abbracciava in un impacciato tentativo di confortarla. Persino lo zio aveva gli occhi rossi, ma li nascose subito dietro il suo solito cipiglio.

«Và pure, torna alla Forca, ci penso io a tua madre.»

Non si ricordava nemmeno come era arrivata ai dormitori, solo che ad un certo punto era nel corridoio scarsamente illuminato che conduceva al piano superiore, e Aveline non era più al suo fianco. Raggiunse la camera che divideva con Ruvena e altre tre colleghe, senza nemmeno controllare se ci fosse qualcuno, buttandosi sul letto ancora in armatura.

Rimase a fissare il soffitto di legno sopra di sé.

Se mai uscirai da lì, prega di non incrociarmi più mentre sono in servizio.” Che razza di sorella poteva dire una cosa del genere?

Voleva piangere, ma le lacrime sembravano essersi prosciugate.



 

Un ragno tesseva la sua ragnatela in un angolo, poco sotto una delle torce appese al muro. Gli insetti, attirati dalla luce, restavano intrappolati nei fili e diventavano facile preda dell'aracnide. Ironicamente, scampavano alle fiamme solo per ritrovarsi in un fato forse peggiore.

Voltò lo sguardo verso il vassoio appoggiato sul tavolino di fianco al letto, la zuppa ancora intonsa, il pane appena sbocconcellato.

Ruvena l'aveva portato ore prima, in una vana speranza che mangiasse qualcosa.

Era passato anche il Capitano Cullen, l'aveva sentito oltre la porta chiedere alla templare informazioni su di lei.

Marian non aveva mosso un muscolo, ignorando entrambi. Non aveva la forza di alzarsi, lo stomaco le si era chiuso per la nausea e si sentiva stanca, a pezzi. Appena chiudeva gli occhi per dormire, gli incubi tornavano ad assalirla, quindi passava le ore a fissare il vuoto, le compagne di stanza che cercavano in tutti i modi di evitare di tornare lì e darle lo spazio necessario.

Persino Aveline aveva provato a farla uscire da lì, senza successo. Era tornata due volte in quei giorni, Marian non sapeva nemmeno più da quanto tempo si fosse rinchiusa là dentro, pregandola di prendere una boccata d'aria, di mangiare qualcosa.

Si girò da un lato, sospirando.

Qualcuno bussò alla porta, richiamandola alla realtà.

«Marian?»

Isabela.

«Marian, sappi che sto entrando.»

«Vai via.»

«Nemmeno se mi prendi a calci.»

«Isabela-»

Con uno schianto, la porta si aprì di scatto, facendo entrare la pirata, che si avvicinò al letto con aria critica. «Sei uno spettacolo pietoso.»

«Grazie.» Le diede le spalle, infastidita.

L'altra sbuffò. «Dico sul serio, Marian. Sono quattro giorni che fai la reclusa, chiaramente non sta funzionando. Quindi, cambiamo metodo.»

Sentendola rovistare tra le sue cose, si voltò a guardarla di soppiatto.

La pirata sollevò due camice davanti a sé, esaminandole e scegliendone una che buttò poi sul letto, seguita da un paio di pantaloni puliti di morbida pelle chiara e una giacca. Cogliendola a guardarla, le strizzò l'occhio. «Adesso ti dai una lavata e poi usciamo a bere l'inimmaginabile. Ti trovi un bel bocconcino, anche due o tre se ti va, e lasci perdere quel muso lungo. La vita va vissuta, amica mia, non puoi stare rinchiusa qui per sempre a piangerti addosso.»

«Non sono in vena di portarmi a letto nessuno, Bela. Come puoi immaginare.»

«Questo perché sei ancora schifosamente sobria, Marian.» Ribattè l'altra con l'aria di chi la sapeva lunga. «E poi, anche se non lo fai va bene lo stesso, almeno ci avrai bevuto su. Forza, in piedi.»

Senza darle il tempo di replicare, la prese per le spalle, sollevandola di forza e tirandola fuori dal letto. Le indicò la bacinella con l'acqua e le pezzuole pulite in fondo alla stanza, facendo poi per uscire. «Se entro qualche minuto non sei vestita e fuori da qui, ti trascino al porto così come sei. E fidati se ti dico che non ci faresti una bella figura.» Uscì sbattendo la porta, lasciandola a chiedersi come diamine fosse riuscita ad entrare.

Pensò per un attimo di bloccare la porta con una sedia e il tavolino e mandarla a cagare, ma l'idea di andare a bere non era male. Se non altro, con abbastanza alcol in corpo sarebbe crollata a dormire senza fare sogni o incubi.

Dopo essersi lavata e vestita, intrecciando i capelli in due crocchie alte per evitare si notasse che non erano propriamente puliti, si ritrovò ad esitare, la mano sulla maniglia. Lo sguardo saettò verso le sue armi, appoggiate alla rastrelliera accanto all'ingresso. Prese soltanto la sacchetta di pelle con dentro del denaro e un piccolo pugnale, che si infilò nella cintura.

Aprì la porta, trovandosi davanti Isabela con un sorriso soddisfatto stampato sul volto.



 

L'Impiccato era come al solito affollato, pieno di gente che beveva, gozzovigliava, mangiava, rideva sguaiatamente, scommetteva e giocava a dadi, in cerca di compagnia o di qualche facile guadagno in affari illeciti.

Il primo pensiero di Marian, appena varcata la soglia, fu che probabilmente non era stata una brillante idea, quella di seguire Isabela fin là.

Il suo secondo pensiero, alla vista della pinta di birra scura e del bicchiere di whisky con cui la pirata l'aveva corretta, fu che in fondo non le importava un accidenti.

Quelli successivi si persero nel fiume di alcol che seguì, accompagnato da una frittura di pesce che Isabela consigliava come cura per qualsiasi male e che puzzava quasi quanto l'avventore che avevano accanto, un nerboruto marinaio che stava intrattenendo alcuni dei commensali con una rocambolesca storia che spiegava come avesse perso la gamba contro una piovra gigante.

«Lo conosco quello lì, sai?» Le sussurrò ad un certo punto l'amica, sogghignando. «Una volta era così ubriaco che cadde da molo scendendo dalla barca, ecco come l'ha persa, la gamba. Altro che mostri marini...»

Marian si ritrovò a ridere più del dovuto. Lo sguardo le si posò per errore sulla scalinata che portava al piano superiore, dove era certa che la camera di Varric fosse ancora intonsa. Quante volte aveva visto scendere i fratelli da quelle scale, in cerca di qualche guaio per un paio di Sovrane?

Riportò il naso nel bicchiere di rum, scolandoselo tutto d'un fiato, la gola che le bruciava.

«Hei, chi abbiamo qui?» Le diede di gomito Isabela, indicandole un giovane uomo dai capelli rossi seduto in disparte in uno dei tavolini.

Marian, la memoria annebbiata dall'alcol, pensò che le sembrava di averlo già visto da qualche parte. Indossava un'armatura leggera, il metallo quasi bianco lucido e pulito all'inverosimile. Accanto a sé, appoggiati sotto la panca, un arco di legno chiaro e una faretra.

Lo sguardo imbronciato era puntato nel boccale ancora pieno, la mano stringeva il manico con tanta forza che Marian temeva potesse romperlo.

«Non sembra-» Si fermò, intercettando lo sguardo da predatrice con cui Isabela puntava l'uomo. «Bela...» La richiamò all'ordine, tentando di fermarla, ma l'altra era ormai partita alla carica.

La pirata si alzò ancheggiando, facendo voltare la metà dei clienti dell'Impiccato, una serie di occhi languidi ed espressioni che lasciavano poco ad immaginare cosa stesse accadendo nelle teste di ciascuno di loro. Perfettamente consapevole dell'effetto che aveva sugli altri, la Rivaini si sedette accanto all'uomo dai capelli rossi, chinandosi verso di lui e mostrando la scollatura provocante. «Quella birra non si berrà da solo, bocconcino.»

«Scusa, che hai det-» Chiese quello, alzando lo sguardo e arrossendo violentemente quando si ritrovò il seno della pirata all'altezza del naso. Cercò di dissimulare con pochi risultati, voltandosi a lato e tossendo rumorosamente. «Ahem, dicevo, avete bisogno di qualcosa?»

Il forte accento di Starkhaven, pensò Marian, non faceva che aumentarne il fascino.

Isabela gli rivolse un sorrisetto capace di perseguitare i sonni altrui per anni a venire. Si raccolse una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio, facendo tintinnare i grandi orecchini d'oro, per poi accarezzarsi il collo con la punta delle dita, scendendo verso la clavicola. «Ho notato che sei qui tutto solo. Sai, non si dovrebbe bere da soli, credo metta tristezza, non pensi anche tu?»

L'uomo, tirandosi indietro più che poteva, scosse la testa. «Credo mi abbiate frainteso, signorina. Non sono...» si guardò intorno, accennando alla gente che avevano intorno «non sono nel mio solito ambiente, per così dire.»

«Beh, è solo una questione di trovarsi a proprio agio...» Lo spronò allusivamente lei, ammiccando a Marian che nel frattempo la guardava ammirata. «La mia amica, qui, stasera è anche lei come un pesce fuor d'acqua. Non vorresti aiutarmi a tirarle su il morale?» Si mise a giocherellare coi lacci della camicetta, allusiva. «Ha sempre avuto una preferenza per i rossi...»

Marian si sentì arrossire leggermente, dando subito la colpa all'alcol.

Era davvero arrivata al punto di aver bisogno di Isabela per...? Scosse la testa. Non era in vena, ma ormai l'amica si era lanciata in una delle sue solite bravate e, come sempre, l'aveva tirata in mezzo. Certo, le sue intenzioni erano buone, ma avrebbe preferito che l'avesse semplicemente lasciata annegare i suoi dolori in un barile piuttosto che farle da maîtresse.

L'altro rivolse la sua attenzione su di lei, aggrottando le sopracciglia color rame. «Mi dispiace ma non sono la persona adatta con cui... cercare simili distrazioni.»

«Oh, invece mi sembri proprio perfetto, scommetto che sei rossiccio anche lì sotto.»

«Isabela!» Sbottò Marian, che a quel punto non ne poteva più. «Ora basta, non è interessato, non vedi? E io non ho alcuna intenzione di farmi vendere al primo belloccio che incontro!»

«Ah, allora ammetti che è un piacere per gli occhi!» La colse in flagrante l'amica, vittoriosa. «E guarda che sta per cedere, chi non vorrebbe fare un giro con noi due, in fondo?»

«Veramente, non-»

La pirata gli posò un dito sulle labbra, sussurrandogli qualcosa all'orecchio che lo fece arrossire ancora di più.

«Andraste benedetta!»

«Isabela, dacci un taglio.» Prima che potesse rendersene conto, aveva afferrato l'amica per una spalla, tirandola via dal poveretto che ormai non sapeva più come togliersela di torno. «Gli stai rovinando la serata, e già non sembrava essere una delle migliori.»

«Guarda che l'avevo quasi convinto!»

«Non mi pare.»

L'uomo tossicchiò, attirando la loro attenzione. «Vi assicuro che non è colpa vostra, siete entrambe molto belle ma... ho fatto voto di castità, quando sono entrato nella Chiesa.»

Marian si rese conto di starlo fissando a bocca aperta. La richiuse, riscuotendosi dalla sorpresa, per poi scoppiare a ridere per l'intera situazione.

Isabela scosse la testa, ridacchiando anche lei. «Che spreco! Con un faccino del genere, quegli occhioni blu e quell'accento, sono certa che mezza Rosa gli cadrebbe ai piedi senza nemmeno farsi pagare, e lui invece perde tempo tra statue e-» Si immobilizzò, indicandogli il basso ventre. «Ah. Avrei dovuto capirlo dalla faccia di Andraste sul pacco.»

Sulla fibbia della sua cintura, effettivamente, in oro massiccio e con tutta la sua aria di divina e giudicante superiorità, troneggiava il volto della Sposa del Creatore.

Isabela le diede di gomito. «Hei, stai fissando un po' troppo.»

Smise immediatamente di immaginare cosa ci fosse poco sotto. Afferrò la bottiglia mezza vuota di rum, scolandosela quasi tutta d'un fiato.

«Whoah, tesoro!» Esclamò Isabela, divertita. «Non esagerare, altrimenti non farò in tempo a trovarti qualcuno per tirarti su il morale. E tu, bello mio, quando cambi idea sulla tonaca sai dove trovarci, potrei pure chiudere un occhio sul tuo gusto negli accessori.» Gli strizzò l'occhio, andandosene ancheggiando verso il bancone in cerca di altro da bere.

Rimasti soli per un poco, Marian cercò di salvarsi la reputazione. «Mi dispiace, la mia amica è un po'... esuberante.»

L'uomo le fece cenno di non preoccuparsi. «La capisco, un poco. Un tempo ero solito condurre una vita sconsiderata come la sua, riempendone il vuoto con alcol e compagnie passeggere. Fortunatamente, ho trovato uno scopo migliore grazie alla Chiesa.» Indicò con un cenno la pirata, che nel frattempo aveva iniziato a discutere animatamente con un omaccione alto due volte lei. «È chiaro che ci tenga a voi, comunque.»

«Sì, mi ha praticamente dovuta trascinare fuori...» Sospirò, la testa che le girava furiosamente, sentendo il mondo sul punto di ricrollarle addosso. «Scusa, ho bisogno di prendere un po' d'aria.»

Si alzò traballante, dovendo appoggiarsi al tavolo per non cadere all'indietro. Lo stomaco rischiò di rivoltarsi violentemente, ma in qualche modo riuscì a tenere sotto controllo la situazione.

«Avete bisogno di aiuto?» Si alzò immediatamente l'altro, preoccupato, sorreggendola per le spalle. «Forse se mangiaste qualcosa-»

«Sto bene, grazie.» Lo scostò lei, bofonchiando e allontanandosi verso l'uscita. Le mancava l'aria.

Spalancò la porta a fatica, l'aria fresca della notte che le permise di respirare di nuovo.

Fece qualche passo incerto verso il vicolo sul retro del locale, cercando di schiarirsi la testa, inoltrandosi nelle viuzze e sedendosi poi su un barile di legno abbandonato, appoggiando la testa contro il muro della casa di pietra che stava costeggiando. Chiuse gli occhi, respirando a fondo, cercando di tenere giù tutto quello che aveva bevuto.

Sentiva delle risate in lontananza e, poco lontano, lo sciabordio delle onde del mare che si infrangevano sul molo. Doveva essere finita nelle vicinanze del porto.

Quando sembrò che il peggio fosse ormai passato, si tirò in piedi, facendo per tornare all'Impiccato. Si guardò intorno, incerta su quale fosse la strada giusta da prendere.

Un conato di nausea la sorprese dopo qualche metro, costringendola ad appoggiarsi al muro finchè non riuscì a riprendere il controllo del suo stomaco.

«'Fanculo. 'Fanculo tutti.»

Si infilò in un vicolo a caso, camminando senza meta fino a che non si ritrovò su una balconata che dava sul mare, il vento che le scompigliava i capelli che ormai sfuggivano disordinatamente dagli chignon che si era fatta.

Si appoggiò alla balaustra, a fissare le barche che ondeggiavano nell'oscurità.

«Questo sì che non si vede tutti i giorni.»

La voce la fece sobbalzare, risvegliandola dal torpore in cui era caduta. Portò istintivamente la mano alla cintura, alla ricerca delle spade, trovandovi solo un pugnale minuscolo. Maledisse la propria idiozia.

Dall'ombra della scalinata di pietra che scendeva verso il porto emerse un volto conosciuto.

«Samson.» Lo riconobbe al volo, contorcendosi in una smorfia. «Non sono in vena.»

L'ex templare stirò le labbra in un sorriso di scherno. «Non capita spesso che riesca a guardare uno di voi perfettini dall'alto in basso.»

Gli rivolse uno sguardo irritato. «Sto comunque più in alto di te.»

Samson scoppiò a ridere, una risata senza gioia che rimbalzò tra i vicoli deserti. Finì di salire le scale, accostandosi a lei con un sogghigno. La superava di tutta la testa. «E adesso?»

Marian si rese conto di quanto fosse vicina alla balaustra. Nelle sue attuali condizioni, non ci sarebbe voluto nulla a buttarla di sotto e a farlo sembrare un incidente. Sbuffò, trovando che non le importava affatto. «Ti semplifico il lavoro.» Si sedette sul muretto che dava sullo strapiombo, la schiena rivolta al mare, senza perdere di vista l'uomo.

Quello scosse la testa. «Nah, neanche io sono in vena, stasera.» Le si sedette accanto, tirando fuori una fiaschetta di metallo e portandosela alle labbra, bevendo avidamente qualche sorso. Storse la bocca, grugnendo schifato. «Che porcheria.»

Incuriosita, si voltò verso di lui. «Che roba è?»

«Niente che tu voglia bere, damerina, te lo assicuro.» Le rispose con l'ennesimo sorrisetto. «Liquore di licheni, l'ho comprato da un tizio del carta ieri sera. Dice che c'è dentro del lyrium, ma secondo me è solo un tentativo di avvelenarm-»

Marian gli sfilò la fiaschetta dalle mani. «Sono ancora troppo sobria per le tue stronzate.» Senza nemmeno pensarci, se ne versò il contenuto giù per la gola.

Sembrò di aver bevuto fuoco liquido.

Si piegò su se stessa, in preda ai colpi di tosse. Le bruciava tutto, dalla gola al cervello.

La risata di Samson echeggiò per tutto il vicinato, per una volta genuina. «Te l'avevo detto.»

«Per il culo secco del Creatore... Devo andare ad Orzammar prima o poi.» Biascicò Marian, restituendogli la fiaschetta. «Tremenda, ma funziona.»

Si sentì barcollare all'indietro, ma l'altro le afferrò una spalla, tenendola ferma.

«Forse è meglio non sedersi proprio qua.» Le disse facendola alzare e, reggendola per un braccio, conducendola sui gradini della scalinata. Si accomodarono entrambi in cima, prendendo poi un altro sorso di quella robaccia nanica.

«Cosa direbbe Cullen della sua recluta preferita, se ti vedesse ora?» La prese in giro, stuzzicandola.

Per tutta risposta, Marian dovette trattenere un fragoroso rutto, portandosi la mano alle labbra. «Può andare a farsi fottere. Lui e tutti gli altri, l'intera merdosissima città.»

«Guarda che con questo vocabolario la promozione non te la daranno mai.»

Fu il suo turno di rivolgergli un ghigno strafottente. «Non l'hai saputo? Non sono più una recluta.»

Samson sollevò le sopracciglia, fingendosi ammirato. «Ah, complimenti, Ser Marian. Avrei dovuto notarlo dal vostro comportamento così composto, degno di un Cavaliere dell'Ordine-»

Gli piantò una gomitata nelle costole, infastidita. «'Fanculo pure te. Non puoi prendermi in giro.»

«Ah no? Cos'è, una nuova regola che ha messo Meredith? Oppure sta scritto in qualche pezzo del Cantico della Luce del quale non sono a conoscenza?»

Con un grugnito, Marian riprese la fiaschetta, bevendone un altro sorso e quasi mozzandosi il fiato coi colpi di tosse. «Perchè, sai leggere?» Si stese all'indietro, appoggiando la testa sui gradini freddi, incurante di qualsiasi cosa. Le nuvole grige sopra di loro viaggiavano veloci, trasportate dal vento.

«Ringrazia che sei una ragazza e per di più ubriaca, Hawke...» La minacciò velatamente lui, portandole via l'alcol e bevendone un altro po'.

«Come no...»

Si accorse che la stava fissando, improvvisamente serio. «Che c'è?»

«Ho sentito della spedizione del nano...» Iniziò lui, incerto. «Mi dispiace.»

«No!» Lo fermò lei, cercando di zittirlo prima che potesse continuare. «No.» Ripetè, rendendosi conto di aver urlato. Scosse la testa. «Ora mi devi un altro sorso.»

Samson sollevò le spalle in segno di resa, cambiando subito argomento. «Sai, a proposito di debiti... questa roba mi è costata parecchio.»

Lei sbuffò, portando una mano alla cintura in cerca della sacca di pelle contenente le monete. “Merda.” Isabela doveva essersela portata via quando era partita alla ricerca di qualcos'altro da bere, perché non era lì. Oppure, peggio ancora, aveva perso metà della paga mensile in qualche vicolo.

Si tirò su di scatto, allarmata.

«Cazzo!»

Non c'erano solo soldi, ora che ci pensava, ma anche-

«Cerchi questa?»

Dovette strizzare gli occhi per mettere a fuoco l'oggetto azzurro brillante che Samson le stava facendo ballare sotto il naso. La piccola fialetta di vetro contenente il lyrium della settimana riluceva nel buio, riflettendosi negli occhi scuri dell'uomo, che la fissava divertito.

«Quella. È mia.» Fece per afferrarla, ma l'altro si scostò appena in tempo per evitarla, facendola restare con la mano a mezz'aria e uno sguardo da ebete sulla faccia.

«Chi trova, tiene, mia cara.» La sbeffeggiò divertito, stappandola e tracannandone metà. La mano gli tremò leggermente mentre la richiudeva e se la infilava in tasca, ignorando le sue flebili proteste. Schioccò le labbra, socchiudendo gli occhi, perso nell'estasi degli effetti del lyrium sulla sua dipendenza.

«Sei uno stronzo.»

«Me lo dicono spesso.»

«Puoi farti perdonare...»

Samson si girò a guardarla, incredulo.

Marian, notandolo, proruppe in una fragorosa risata, rischiando di scivolare di qualche gradino verso il basso. «Non in quel senso!» Cercò di ritornare seria, mentre l'ex templare la fissava offeso, scuotendo la testa e cercando di dissimulare i propri pensieri. Si sporse verso di lui, afferrando la fiaschetta di liquore che aveva appoggiato sul gradino, facendogli il verso mentre gliela sventolava sotto al naso come aveva fatto lui poco prima. «Maniaco...»

«Hawke, non ci avrei pensato nemmeno se fossi l'ultima donna in città.» Grugnì Samson guardandola litigare con il tappo. «E ne hai già bevuto abbastanza.» Si allungò verso di lei, stringendo la fiaschetta e facendo per strappargliela di mano.

Marian oppose resistenza, tirando a sua volta e sbilanciandolo, al che Samson cercò di liberarsi spingendola via. Lei si scostò di scatto, sghignazzando, facendo per alzarsi.

Un giramento di testa improvviso le fece perdere l'equilibrio.

L'uomo si sporse ad afferrarla, ma incespicò pure lui.

Si ritrovarono qualche metro più in basso, il fondoschiena dolorante dopo aver spazzato una dozzina di gradini consumati e scivolosi.

«Cosa ti ridi...» Grugnì Samson, massaggiandosi un fianco e cercando di ridarsi un contegno, trovandosela a pochi centimetri dal volto.

Marian poteva contare i nei sulla faccia dell'altro. Notando il suo disagio, smise di ridere, fissandolo dal basso all'alto inarcando un sopracciglio nella sua migliore smorfia strafottente. Non le sfuggì nemmeno il rigonfiamento nei pantaloni dell'ex templare, in quel momento premuto poco sopra il suo ginocchio. «Dicevi, riguardo all'ultima donna in città...?»

Gli occhi di lui erano puntati sulle sue labbra. Scosse la testa, inspirando forte. «Hawke. Sei ubriaca.»

«Sono uscita apposta...» Mosse un poco la gamba, lo sguardo allacciato al suo.

«E in lutto.»

Lo guardò male, scuotendo il capo. «Ti ho detto che non ne voglio parlare.»

Samson sospirò, rompendo il contatto visivo e tirandosi indietro. «Non ho intenzione di approfittarmi di te, Hawke. Abbiamo entrambi abbastanza problemi.»

Furente, Marian lo afferrò per il bavero della giacca. «Cazzo, fai sul serio?!» Gli inveì contro, tirandolo a sé. «Come cazzo ti permetti di-»

Fu un attimo.

Si liberò dalla sua presa senza alcuna difficoltà, bloccandole con una mano le braccia sopra la testa e tenendola ferma con il suo peso, schiacciandola sugli scalini freddi mentre le afferrava il viso costringendola a guardarlo mentre si avvicinava ad un soffio dalle sue labbra.

Marian cercò di divincolarsi, inutilmente.

«È questo che vuoi?!» Sibilò lui, gelido. «Che ti scopi su dei gradini luridi mentre sei completamente ubriaca? Pensi che domani ti sentirai meglio, che non penserai più ai tuoi fratelli morti in qualche dannato buco sottoterra?!» Le strinse i polsi con forza. «È questo che vuoi?!»

La ragazza emise un gemito dolorante, smettendo di divincolarsi. «Mi stai facendo male.»

«Potrei farti di peggio, idiota.»

Cercò di sputargli addosso, furente, con scarsi risultati. Aveva la bocca secca e impastata. Appoggiò la testa sul gradino sotto di lei. Gli occhi le pizzicavano. Tirò su col naso. «Stronzo.»

«Ora sì che ti riconosco...» Ribattè Samson divertito. La liberò dalla sua presa, alzandosi e tendendole una mano. «Andiamo, ti riporto alla Forca. Chissà mai che quel palo in culo di Cullen non mi veda fare una buona azione e metta una buona parola...»

La tirò in piedi a forza, sorreggendola mentre salivano i gradini verso la balconata.

«Sono uno schifo di Templare.» Bofonchiò Marian ad un tratto.

L'altro fece spallucce. «Non sarò certo io a giudicare...»

«E una sorella orribile...» continuò lei imperterrita, senza ascoltarlo. «Non avrei dovuto lasciarli... se solo mi fossi imposta... e ora-» Tirò su col naso, rendendosi conto di star piangendo come una cretina. «E ora ne sto parlando con te!»

«Potrei offendermi.» Replicò lui, sbuffando e fermandosi di nuovo. La guardò a disagio, senza sapere cosa fare. «No dai, non piangere. Non...» Grugnì il proprio disappunto, continuando a sorreggerla con un braccio e con l'altro porgendole una pezza di stoffa che teneva nelle tasche. «Datti un contegno, Hawke.»

Marian guardò sospettosa il fazzoletto, come se potesse morderla. Si risolse ad asciugarsi il volto, soffiandosi poi rumorosamente il naso. «Non sei orribile come sembri.»

«Ah, grazie. È il migliore complimento che ricevo da parecchio tempo, non contando quelli pagati.»

«Ed è la seconda volta che qualcuno si rifiuta di andare a letto con me, oggi.»

«Deve essere uno shock, per te.»

Lei annuì, barcollando. «Garrett dice che faccio paura.»

Samson scoppiò a ridere, la voce roca e impastata dall'alcol. «Non fai paura proprio a nessuno in questo momento, stai pur tranquilla.»

Appoggiò la testa sulla sua spalla, mentre procedevano a rilento. «Ho sonno.»

«Manca poco.»

«E fame.»

L'uomo sbuffò profondamente. «Forse dovrei riconsiderare l'offerta di prima.»

Marian lo guardò, tra l' ammiccante e l'assonnato, la testa che le girava. «Sei ancora in tempo...»

Le rivolse un ghigno divertito. «Ti addormenteresti ancora vestita.»

«Non serve spogliarsi del tutto...»

«Hawke, non so che idea hai di me, ma quando vado con una donna mi piace che sia partecipe, non mezza svenuta e per niente collaborativa.»

Fu il suo turno di sbuffare. «Come se avessi molte alternative, di solito...»

«Ouch.»

«Marian!»

«Oh, guarda, ti cercano.»

«Uh?» Riaprì gli occhi a fatica, mettendo lentamente a fuoco Isabela che le correva incontro. Dietro di lei, lasciandola sorpresa, c'era l'uomo di Starkhaven con il quale la pirata ci aveva provato all'Impiccato.

Isabela le volò addosso, abbracciandola. Si ritrovò stritolata contro il suo seno, faticando a respirare.

«Cosa ti è saltato in testa, uscire così senza avvertirmi!» La liberò dalla stretta, puntando un dito accusatorio contro Samson. «Lui chi è?»

L'uomo alzò le braccia. «L'ho solo tenuta al sicuro.»

«Sì, come no, uno come te non si fa scappare un'occasione del genere-»

«Bela...»

«Marian?»

«Ho sonno.»

«Sì, tesoro, lo vedo. Ma ti ha fatto qualcosa?» Le chiese preoccupata, dandole un buffetto sulla guancia per farla svegliare. «Lo faccio a pezzi, se ti ha anche solo toccata...»

«Oh, certo, perché no.» Commentò acido Samson, gesticolando. «Uno fa una buona azione e-»

«La gente come voi non fa buone azioni.» Lo interruppe l'uomo di Starkhaven. «Vuole sempre qualcosa in cambio.»

«E tu cosa c'entri, eh?» Rimbeccò l'ex templare, irritato. «Torna a lucidare la tua armatura nuova, damerino, non vorrei si sporcasse!»

«È una minaccia?!»

«Oi!» Alzò la voce Marian, barcollando tra i due. «Zitti. Ho mal di testa.» Si voltò verso Samson, traballando. «Grazie.»

«Figurati, il damerino qui ha ragione, alla fine ci ho guadagnato del blu...» Guardò Isabela, la sua solita espressione distaccata sul volto. «Riportatela dai suoi virtuosi colleghi, prima che possa farsi portare a letto da qualche losco figuro.» Diede loro le spalle, allontanandosi nella direzione opposta.

Marian rimase a fissarlo, confusa.

«Sai, tesoro, quando ho detto che una scopata ti avrebbe fatto tanto bene, credevo avessi standard più alti.» Commentò Isabela scuotendo il capo con disapprovazione.

L'altro annuì. «Poteva finire molto male, fortunatamente vi abbiamo trovato in tempo...»

La sorressero per le spalle, salendo faticosamente i gradini per la città alta con una lentezza esasperante.

«Mi ha rifiutata.» Bofonchiò dal nulla lei, dopo qualche tempo. «Nessuno mi vuole, stasera.»

«Non dire così, tesoro. Dovresti esserne contenta, dato il tipo. Vedrai che domani te ne renderai conto.»

«Appunto.» Calcò Marian, insistente. «Persino Samson

«Marian, se posso permettermi...» Tossicchiò l'uomo, in imbarazzo. «Non risolverete nulla, buttandovi sull'alcol e sul sesso. Anzi, rischiate di peggiorare la vostra situazione.»

«Hei, ti ho portato dietro per darmi una mano, non per farmela sentire peggio!» Lo sgridò Isabela. «Il mio metodo funziona, è solo stata una serata di merda in quanto ad incontri.»

«Non voglio criticare il vostro stile di vita, ma non mi sembra quello a cui dovrebbe aspirare una Templare-»

«E cosa dovrebbe fare, darsi alla castità come te? Ah! Quello sì che sarebbe triste!»

«Non c'è nulla di triste nell'abbracciare la luce del Creatore, Andraste stessa-»

«Non è la fottutissima Andraste, ha bisogno di una scopata!»

«Non mi pare il caso di bestemmiare...»

Marian barcollò in avanti, trascinandoli entrambi con sé e rischiando di farli cadere. «Smettetela...» mugugnò assonnata, la testa che le scoppiava. «Sembrate...» Non finì la frase, sospirando pesantemente e tirando su col naso. «Non importa.»

«Scusatemi. Non volevo farvi la predica.»

«Io non mi scuso. Avrebbe funzionato, se non fossi scappata via.» Ribattè Isabela, ostinata. Diede di gomito all'altro, ammiccando. «Non vedi che l'hai resa triste? Però potresti rimediare...»

«Creatore, dammi la forza...»

In qualche modo, mettendoci dieci volte il tempo che ci avrebbero impiegato normalmente, la riportarono alla Forca.

Quando le due reclute di guardia ai cancelli li squadrarono dall'alto in basso, chiedendo cosa ci facessero lì a quell'ora della notte, Marian riuscì a malapena a bofonchiare qualcosa sull'essere una Templare.

I due si guardarono interdetti.

«Posso capire che non sembri, ma vi assicuro che è stata appena promossa!» Cercò di convincerli Isabela. «Chiamate pure i suoi amici, se non ci credete.»

«Qualche nome?» Domandò uno dei due, fissandola scettico. «Non posso certo andare in giro a svegliare l'intero dormitorio solo perché un'ubriaca e una... prostituta me lo chiedono.»

«Prostituta?» Ripetè scioccata Isabela, portandosi platealmente una mano a coprirsi la bocca. «Oh, che linguaggio! Questo qui è un fratello della Chiesa, sapete, potrebbe denunciarvi alla somma sacerdotessa! » Tirò a sé l'altro, che le diede corda.

«Non mi sarei mai aspettato un trattamento del genere da due cavalieri dell'Ordine, davvero, non-»

«E va bene, va bene! Dateci un nome e andiamo a chiamarlo!» Li fermarono le due reclute, cercando di placare il fracasso che stavano facendo.

«Runeva. Ravena.» Isabela scosse la testa, sforzandosi di ricordarsi il nome giusto. «Qualcosa del genere?»

«Non sapete nemmeno-»

«Ruvena.» Bofonchiò Marian, sbadigliando. «Ruvena mi conosce.»

Dubbioso, uno dei due partì alla ricerca della Templare.

Tornò poco dopo, seguito da due figure.

«Oh, merda.»

Quando Marian realizzò chi si trovava davanti, era ormai troppo tardi.

Il Capitano Cullen la squadrava con disapprovazione, le braccia conserte sul pettorale dell'armatura lucida. «Che sia la prima e ultima volta, Marian. Date le circostanze, non farò rapporto.»

«Capitano-»

«Ringrazia i tuoi amici e fila nel dormitorio. Ruvena, accompagnala. Niente deviazioni e non una parola a nessun altro.» Tagliò corto l'altro.

Ruvena, dietro di lui, annuì rigidamente, correndo in aiuto di Marian che, senza il sostegno dei due, si reggeva traballante sulle gambe.

«Sapevo che non dovevo fidarmi della tua... amica.» Borbottò la templare, mentre salivano le scale per i dormitori. «Non è certo il modo per-» Sbuffò, scuotendo la testa. «Non importa. Almeno sei tornata qui, senza finire chissà dove a letto con chissà chi, come quella aveva proposto.»

Marian mugugnò indispettita. «Ci ho provato, ma senza successo.»

«Creatore, meno male!» Esclamò l'altra, aprendo la porta e portandola verso il letto.

Due delle compagne di stanza erano di ronda, mentre la terza le rivolse uno sguardo infastidito. «È un po' tardi. Ruvena era preoccupata.»

«Mentre a te non frega mai un cazzo di niente, Mina, lo sappiamo.» Ribattè piccata l'amica. «Tornatene pure a dormire.»

«Lo stavo facendo, prima di essere svegliata...» Sibilò l'altra, ma tornò ad infilarsi sotto le coperte, dando loro le spalle.

«Lei avrebbe proprio bisogno di una scopata.» Commentò Marian ad alta voce, facendo scoppiare a ridere Ruvena. «Più di me.» Bevve il bicchiere d'acqua che le porgeva l'altra, assetata. «Pensandoci, mi sento un po' meglio.»




























Note dell'Autrice: temevate stesse per succedere, eh? Fortunatamente per Marian, no, non ha dovuto aggiungerla alla lunga lista di sventure che le sono capitate tra capo e collo. Isabela prova a fare del suo meglio ma il fato è contro di lei, Sebastian non si capacita di come sia finito lì e Samson... è meno peggio di quanto si creda (sì Cullen, sto guardando te, sentiti in colpa).
Al prossimo capitolo! :D 

  
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