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Autore: edoardo811    09/03/2019    3 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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15

L'urlo della natura

 

 

Ricordava bene il loro primo incontro. Era avvenuto un anno prima, nel giardino di Persefone, negli Inferi. Non era stato molto piacevole realizzare di trovarsi in quel luogo. E sapere che si era ritrovata lì perché proprio Persefone voleva parlarle, l’aveva lasciata di sasso. Certo, sapeva di avere una sorella divina sposata con il re degli Inferi in persona, era probabilmente la scoperta più sconvolgente che aveva fatto dopo quella sulla vera identità di sua madre, ma mai si sarebbe aspettata che decidesse di contattarla, anche perché era convinta che a Persefone non importasse molto dei suoi fratelli al Campo Mezzosangue. A dire il vero, questa sua convinzione ancora non le era passata del tutto.

E quando aveva sentito cosa aveva da dirle... quelle parole ancora la tormentavano.

Dentro di lei si celava un enorme potere. Un potere che avrebbe potuto far pentire di essere nato a chiunque si mettesse sul suo cammino, e lei avrebbe dovuto prepararsi, perché presto avrebbe dovuto usarlo. La natura gridava disperata... e lei avrebbe dovuto ascoltarla. O sarebbe stato peggio per tutti.

«Non sembri molto felice di vedermi» commentò Persefone, alzandosi in piedi, riportandola alla sua attuale conversazione con la sorella. 

«Stavo ripensando al nostro ultimo incontro.»

«Sì, me lo ricordo bene anche io. Eri piuttosto turbata.»

«Chi non lo sarebbe stato? Dopo anni trascorsi a credere di essere una nullità, sei sbucata fuori e mi hai detto di essere la semidea più potente della mia generazione! Come avrei dovuto reagire?»

Persefone si batté le mani sui pantaloni sporchi di terra, per ripulirli, noncurante. «Magari mostrando un po’ di gratitudine?»

«Oh, certo. Sono proprio grata che tu mi abbia regalato così tante notti insonni.»

«Volevo solo prepararti per quello che sarebbe arrivato. Che ti piaccia o no quello che ho detto è vero, sei tu la semidea più potente della tua generazione, e devi accettarlo. Non potrai tenere il tuo potere nascosto dentro di te ancora per molto. Più aspetterai e più sarà difficile sfruttarlo quando verrà il momento.»

Persefone distese le braccia e chinò il capo all’indietro, mentre i suoi vestiti da giardinaggio venivano lentamente rimpiazzati da un lungo abito verde scuro, che sembrò sbocciare su di lei come petali di fiori. Nonostante tutto, Stephanie rimase a osservarla ammirata. Non faticava a capire il perché lei e Afrodite, un tempo, fossero rivali. Anche Persefone era molto affascinante, non a caso aveva attirato l’attenzione del signore degli Inferi in persona. In un certo senso, Persefone e la dea dell’amore ricordavano a Steph il suo rapporto tra lei stessa e le figlie di Afrodite. 

 «E perché proprio tu dovevi parlarmene?» riprese il discorso.

«Perché sei pur sempre mia sorella. Non posso aiutarti a diventare un’eroina?»

«Mi sembra solo strano che tu voglia farlo senza chiedere nulla in cambio. Sei apparsa dal nulla e mi hai sconvolto l’esistenza. È vero, siamo sorelle, ma tu fai parte del ramo divino. Di fratelli e sorelle da parte di nostra madre ne avrai avuti a centinaia, e che io sappia non ti sei mai presa il disturbo di avvicinarti a nessuno di loro. Quindi perché proprio io?»

«Te l’ho già detto, tu sei molto più potente di loro.»

«Non può essere l’unica motivazione. Mi dispiace, ma non ti credo.»

La dea sembrò gettare la spugna, perché sospirò. «E va bene allora, sarò onesta. Ho deciso di entrare in contatto con te perché... perché mi annoio, negli Inferi. Non succede mai nulla di interessante! Non fraintendermi, amo mio marito, e sono felice assieme a lui, ma ogni tanto... vorrei qualcosa di più.»

Forse Stephanie avrebbe dovuto sorprendersi di quella risposta, magari sentirsi perfino offesa, ma la realtà era ben diversa. Il novanta percento delle volte che un dio faceva qualcosa, lo faceva perché si annoiava, del resto. Tuttavia, sentì ugualmente un groppo alla gola. «Quindi... io sarei questo “qualcosa di più”?»

«No, Stephanie, non sei solo questo. Ascolta, sei libera di non credermi, ma io voglio il tuo bene come voglio quello di nostra madre e di me stessa. Tutti noi dipendiamo da te e da questa impresa, e abbiamo bisogno di te al massimo delle tue forze. Ma senza il tuo potere, i tuoi amici non sopravvivranno.» Il tono grave che utilizzò per dare quest’ultima informazione non fu molto rassicurante. «So che hai parlato con Afrodite, non è vero? Io e lei non andiamo molto d’accordo, come saprai, ma su una cosa posso darle ragione: il tuo ruolo per quest’impresa è molto più importante di quanto tu possa credere. E presto sarai costretta a dover dimostrare il tuo valore. Farai meglio ad accettare quello che ti ho detto al più presto, altrimenti potrò incontrare te e i tuoi amici di persona, negli Inferi.»

Stephanie chinò il capo, stringendo i pugni. Si sentì insignificante. Sua sorella, una dea in persona, le stava dicendo di essere così potente, eppure lei si ostinava a non voler accettare la cosa. Si odiava per questo. Odiava essere così spaventata. Odiava il fatto di essere partita per l’impresa sperando che filasse tutto liscio, senza dover incappare in ostacoli, senza dover combattere. Era una semidea, non doveva avere paura. Purtroppo, ripeterselo in continuazione non serviva a farle cambiare idea. Era spaventata, e lo sarebbe rimasta ancora per molto tempo.

Espirò. «Va bene, allora. Mi hai detto quello che volevi dirmi. Mi hai chiamato solo per questo?»

«Purtroppo c’è dell’altro. Guarda.»

Persefone sferzò l’aria con la mano, e le due si ritrovarono immediatamente teletrasportate in un altro luogo. Di fronte a Stephanie apparve un enorme fatiscente palazzo di marmo bianco. Tre stendardi gialli erano appesi di fronte alle grosse finestre del secondo piano, accanto a delle colonne, proprio sopra tre porte d’ingresso. Malgrado la fitta nebbia macchiata dal crepuscolo, su uno di questi la ragazza lesse: Asian Art Museum. Schiuse le labbra sorpresa.

«Questo è il museo...» osservò. Finalmente capì perché Persefone l’aveva portata a San Francisco. «Perché mi hai…»

Si interruppe, quando si accorse della scena che si stagliava di fronte a lei. Mostri. Tanti, tantissimi. Ed erano tutti radunati attorno all’edificio. I turisti uscivano dalle porte con noncuranza, in vista dell’imminente chiusura del museo, senza accorgersi affatto dell’esercito di creature a lei sconosciute che popolava le scale. Dovevano essere gli yōkai. Riconobbe gli oni, grazie alle descrizioni di Edward, ma non c’erano solo loro. C’erano demoni con l’aspetto di donne, uomini, animali, ognuno con un muso più spaventoso dell’altro. E non v’era alcuna traccia dei centurioni romani. Stephanie si augurò con tutto il cuore che si fossero nascosti o ritirati quando avevano visto quell’esercito e che stessero tutti bene. La ragazza temette che le creature potessero accorgersi di lei, malgrado non si trovasse realmente lì, ma per fortuna nessuno di loro sembrò captare la sua presenza e quella della sorella.

Tutto a un tratto, in mezzo al gruppo di mostri ne marciò uno molto diverso, con andatura autoritaria. Non appena notò il suo occhio destro sfregiato e chiuso, Stephanie lo riconobbe immediatamente: era il mezzo-demone che aveva affrontato Edward e che aveva rapito Rosa. E se lui era lì, allora...

«Lui è qui…» bisbigliò angosciata. «… l’uomo che Edward ha visto è già qui. Ci sta aspettando.»

«Sì. Vuole la spada ad ogni costo. E farà di tutto per averla. Ma non nella maniera che credi.»

«Cosa… cosa vuoi dire?»

Persefone si voltò verso di lei, con aria lugubre e severa. Un aspetto che calzava bene con il suo ruolo di Regina degli Inferi. «Tieni d’occhio Edward» rispose con voce grave, minacciosa, perfino. «Quando sarà il momento, dovrà fare una scelta. Dovrete impedirgli di fare quella sbagliata. Lui sarà la nostra salvezza... o la nostra rovina.»

Stephanie lasciò cadere le proprie braccia a peso morto lungo i fianchi. Quelle parole l’avevano colpita come una sberla. «I-Io… non capisco…»

«Capirai, non temere. Ricordati il tuo ruolo, Stephanie. Ricordati del tuo potere. E non fidarti di Edward. Fallo, e salverai tutti noi.»

Fino a pochi attimi prima Stephanie aveva desiderato che la loro conversazione finisse al più presto, ma ora l’unica cosa che avrebbe voluto fare era tempestare Persefone di domande. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, tuttavia, la sorella le rivolse un ultimo sorriso. «Rendi me e nostra madre fiere di te, Stephanie. E ricordati che se non vuoi usare i tuoi poteri per dare una lezione a Jane, puoi sempre ricordarle che tuo cognato è il signore degli Inferi. Sono certa che questo funzionerà.»

La dea sferzò di nuovo l’aria con la mano. Stephanie provò a chiamarla, ma la loro conversazione si fermò lì.

 

***

 

Stephanie si mise a sedere di scatto. Due sogni di fila, nel giro di poche ore di distanza l’uno dall’altro, doveva essere un record personale.

Si guardò attorno, alla ricerca dei propri compagni. Accanto a lei Lisa dormiva beata, stravaccata sul materasso in una posizione assurda e con un rivolo di bava che le scivolava dalla bocca. Anche Thomas era assopito, stretto sotto le coperte. E sicuramente anche Edward stava dormendo. Stephanie si augurò che almeno loro stessero riposando sereni. Guardò l’ora sulla radiosveglia sul comodino, constatando che erano le tre del mattino. Konnor doveva ancora essere fuori a fare la guardia, e la figlia di Demetra non volle lasciarlo lì ancora troppo a lungo. Se c’era qualcun altro di esausto in mezzo a loro, doveva essere lui. Lei aveva già dormito in macchina, e le serviva un po’ di tempo in tranquillità per riflettere sul sogno appena fatto.

Scese dal letto, assicurandosi di non calpestare il povero Tommy, e uscì dalla stanza. Trovò il figlio di Ares appoggiato al cornicione, con il capo chinato affacciato sulla strada sottostante. Lo affiancò, tenendo le mani intrecciate dietro la schiena. «Ehi.»

Konnor si voltò verso di lei. «Ehi…» rispose, con voce smorta. «Non ti avevo notata, scusa. Ero sovrappensiero.»

Stephanie annuì, comprensiva. «Pensavi a tua madre?»

«A lei, a mio padre, alla storia di Edward, all’impresa… a tutto quanto.»

«Vuoi parlarne?»

«Beh, che posso dire…» cominciò Konnor. «… mia madre sa che io sono un semidio, e sa anche che mischiare semidei e mortali porta solo guai. Sicuramente saprà che tutto quello che è successo all’aeroporto è un malinteso e che io non ho fatto davvero niente di male, però per colpa mia adesso lei dovrà rispondere a parecchie domande. La poliziotta più decorata del proprio distretto che si ritrova con un criminale come figlio. Chissà come l’avranno presa i suoi superiori.» Il ragazzo chinò il capo, con un lungo sospiro. «Forse non sarei dovuto partire per quest’impresa.»

«Non dire così.» Stephanie cercò di rassicurarlo. «Chirone sistemerà tutto, vedrai. Presto questo incidente verrà cancellato. Nessuno se lo ricorderà e tua madre non avrà più problemi.»

«Non è solo per questo. Prima, quando abbiamo incontrato mio padre… si è comportato come se io non esistessi nemmeno. Mentre tu e Thomas parlavate con Afrodite, lui non mi ha rivolto neanche uno sguardo. Niente di niente. Mi ha ignorato e basta. Credo… credo che non gli sia piaciuto che mi sia schierato contro Buck.»

«E perché? Avevi ragione! Buck è stato crudele con noi!»

«Ma gli ho comunque voltato le spalle. Gli ho detto che è stato lui a farlo, ma la verità è che io ho tradito mio padre e i miei fratelli per primo. Mi sono schierato con la persona che non ha fatto altro che disprezzare Ares e la sua casa da quando è arrivato al campo. Credi che a mio padre sia piaciuto? Quello che ho fatto, giusto o sbagliato che fosse, l’ha comunque infastidito. E anche se l’impresa dovesse andare a buon fine, credi che Buck e gli altri miei fratelli saranno felici di riavermi con loro? Già è stato difficile diventare uno di loro la prima volta. Farlo di nuovo sarà impossibile.»

«Non sapevo che per te fosse stata dura…» commentò Stephanie, sorpresa.

«Perché non l’ho mai detto a nessuno. Ma è vero. Hai idea di quanto sia stato difficile per me essere il più piccolo fisicamente della casa Cinque? Nessuno mi prendeva sul serio. Ho dovuto lavorare sodo per farmi accettare. Per questo... a volte sono stato costretto a comportarmi come loro. Non è mai stata una mia vera scelta.»

Konnor si strinse nelle spalle, facendo un sorriso amaro. «La verità è che… sono troppo orgoglioso per accettare di essere inferiore a qualcuno. Per questo ho voluto a tutti i costi dimostrare di essere degno di far parte della capanna Cinque. Per questo non mi sono messo l'armatura, il giorno della nostra sfida. Per questo ho fatto di tutto per mostrare il mio valore ai miei fratelli e a mio padre. E… forse, in parte, è anche per questo motivo che sono venuto con voi. Per poter completare un'impresa e diventare ufficialmente un eroe.»

Era la primissima volta che Stephanie vedeva Konnor aprirsi in quel modo. Era strano. Ma allo stesso tempo piacevole. Era piacevole poter scoprire qualche sfaccettatura in più del suo carattere. Non parlava spesso di sé e soprattutto non con chiunque. Se aveva scelto proprio lei per farlo, voleva dire che si fidava davvero, che ci teneva. E la cosa la fece sentire onorata, nonché leggermente imbarazzata.

«Ma decidendo di partire ho creato dei problemi a mia madre, ho deluso mio padre e mi sono messo contro la mia famiglia al Campo Mezzosangue.» Il figlio di Ares strinse con forza i pugni, tornando serio all'improvviso. «Con il mio orgoglio... ho rovinato tutto.»

«No invece.» Stephanie gli posò una mano sulla spalla, per incoraggiarlo. Lui si drizzò, e i loro sguardi si incrociarono. La ragazza esitò, come sempre quando quello succedeva, e il figlio di Ares abbozzò un sorriso incuriosito. Aveva davvero a cuore quella faccenda, era evidente. Voleva bene a sua madre e nonostante tutto si sentiva legato ai fratelli e al padre, e la cosa non poteva che fargli onore. 

«Ascolta…» cominciò lei, distogliendo gli occhi dai suoi, incapace di fissarli ancora per timore di arrossire. «… tu… tu non hai commesso nessuno sbaglio. Ti sei schierato dalla parte dei più deboli, che è la cosa più nobile che qualcuno possa fare. Per quanto riguarda tua madre, vedrai che le cose si sistemeranno. Per tuo padre e i tuoi fratelli… beh, se loro non ti vogliono accettare per quello che sei e per quello che hai fatto per me e per noi come squadra, allora è solo peggio per loro. Siamo una famiglia, e non c'è niente di sbagliato nell'aiutarci a vicenda. Sei un bravo ragazzo, sei onesto, leale, sincero. Non hai nulla di cui vergognarti. Per quello che vale… io sono felice che tu sia venuto con noi. E… sappi che su di me, su di noi, potrai sempre contare.»

Si voltò di nuovo verso di lui, cercando la sua reazione a quelle parole che le erano uscite di getto, dal cuore. Per un attimo, trovò ancora quello sguardo perplesso, che tuttavia si trasformò ben presto in uno più sollevato. Konnor annuì, colmo di gratitudine. «Ti ringrazio, Steph.»

Lei ricambiò il sorriso. «Figurati.» Allontanò la mano da lui, per poi schiarirsi la gola, ancora con diverse venature di imbarazzo nella voce. «Ora… che ne dici di riposare un po’ anche tu? Continuo io con il turno di guardia.»

«Ne sei sicura? Io posso resistere ancora un po’. Posso recuperare dormendo in macchina.»

«Non preoccuparti per me. Ho… ho fatto un altro sogno. Non credo che riuscirò ad addormentarmi di nuovo in ogni caso.»

Konnor si fece serio all’improvviso. «Altri guai in arrivo?»

Stephanie si strinse nelle spalle. Ripensò ai mostri stipati attorno al museo a San Francisco, alle parole di Persefone sui suoi poteri, sul fatto che non doveva fidarsi di Edward e che avrebbe dovuto tenerlo d’occhio. «Io… non ne sono molto sicura, a dire il vero. Sarà meglio che ve ne parli domattina, comunque. Ora ho bisogno di riflettere, e…»

Un terrificante rumore la costrinse ad interrompersi di scatto. Konnor sollevò un sopracciglio, mentre lei avvampò leggermente. La figlia di Demetra si portò d’istinto una mano di fronte allo stomaco, che brontolò una seconda volta. 

«Fame?» domandò Konnor, sorridendo.

«Un sacco…» si lamentò lei. Non avevano mangiato molto quel giorno e non avevano avuto molto tempo per fermarsi a far compere in giro, con la polizia che li inseguiva e tutto il resto.

«Ho visto dei distributori automatici nel retro, mentre parcheggiavamo. Magari c'è qualcosa che può piacerti. Io ti aspetto qui. Ti do il cambio quando torni.»

«Ugh. Va bene… tu vuoi qualcosa?»

«Sono a posto, grazie» assicurò lui, con tono divertito.

«Vado e torno» promise lei, avviandosi verso le scale.

Mugugnò infastidita, con lo stomaco che si contorceva, mentre faceva il giro del motel. Aggirò alcuni cassonetti dei rifiuti e trovò una piccola zona ristoro ad attenderla in un angolo, accanto a un’uscita di emergenza: dei distributori automatici e un tavolino di ferro. Stranamente erano ancora intatti, ma non appena si accorse della telecamera di sorveglianza che puntava proprio su di loro ne capì il motivo. La ragazza si sforzò di non guardarla. Non credeva ci fosse una persona a fissare le registrazioni ventiquattrore su ventiquattro, ma preferiva non correre rischi.

Le luci a neon ronzavano e sfrigolavano, dando a quel luogo un tocco ancora più squallido di quanto già non fosse, la boscaglia alle sue spalle frusciava sospinta dalla lieve corrente notturna. Più stava in quel posto maleodorante e più si sentiva a disagio. Avrebbe fatto meglio a darsi una mossa. Infilò qualche moneta e fu costretta a selezionare uno di quegli snack nocivi per l’uomo e per l’ambiente, pregando che fosse ancora commestibile, tuttavia poco prima di cadere questo rimase agganciato alla molla di ferro.

«Oh, andiamo…» mugugnò Steph, dando un colpo al vetro per cercare di farlo scendere. Quello non si mosse di un millimetro. La giovane sospirò esausta, per poi dare altri colpi, infischiandosene della telecamera. «Scendi, scendi!»

La sua mano si bloccò a mezz’aria all’improvviso, quando sentì qualcuno gridare: «KONNOR!»

Stephanie sobbalzò, voltandosi. Non le sembrò vero per un attimo. Quella… quella era la sua voce! Prima che potesse domandarsi cosa stesse succedendo, percepì qualcosa muoversi alle sue spalle. Si scansò un istante prima che qualcosa si schiantasse contro il distributore automatico, distruggendolo. Mentre era a terra, vide la barretta di cioccolato rimasta incastrata precipitare. Sfortunatamente, dubitava che il lestrigone appena apparso di fronte a lei le avrebbe lasciato fare uno spuntino. Il gigante cannibale sogghignò, lustrandosi i denti affilati con la lingua. Stephanie si rimise in piedi e indietreggiò.

«Konnor aiutami!» gridò ancora quella voce. Stephanie commise l’errore di voltarsi di nuovo, e il lestrigone approfittò per attaccare. Riuscì di nuovo a schivarlo per il rotto della cuffia, rotolando a terra per poi rimettersi in ginocchio. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, di chi fosse quella voce che chiamava Konnor, ma non prometteva nulla di buono. Doveva tornare da lui al più presto, ma prima doveva liberarsi del mostro che le sbarrava la strada.

Corse verso il bosco, sperando di poter usare le piante per intrappolare il lestrigone, ma pochi metri prima di raggiungerlo, tre segugi infernali sbucarono fuori dai cespugli, ringhiando verso di lei. Tre mastini neri dal pelo lurido, gli occhi rossi come il sangue e i denti gialli e nauseabondi. Steph gridò e si fermò di scatto, ritrovandosi circondata.

«Non puoi scappare» gracchiò il lestrigone, sghignazzando. «Lasciati catturare. La mia padrona sarà molto felice di riceverti.»

A quelle parole, Stephanie sgranò gli occhi. La sua padrona… era la carceriera! Il lestrigone ruggì, caricandola nuovamente, e lei si scansò un’altra volta, costretta a ritornare verso il motel. Si ritrovò con le spalle al muro, con il lestrigone e i segugi che si avvicinavano lentamente verso di lei.

«Sei molto lontana da casa, fioraia» la provocò il mostro.

Stephanie serrò la mascella, adirata. Fioraia?!

«Ti ho fatta arrabbiare?» domandò il lestrigone, notando la sua espressione, per poi sogghignare nuovamente. «Che cosa vuoi farmi, piccola contadina?»

Quello era troppo. Già detestava quando la prendevano in giro al Campo Mezzosangue, non avrebbe mai permesso anche a quello schifoso di prendersi gioco di lei e della sua famiglia. Demetra faceva parte della prima generazione di dei, era antica tanto quanto i Tre Pezzi Grossi, ed era di gran lunga molto più potente di quanto chiunque potesse immaginare. Così come poteva dare vita a milioni di ettari di terreno, così poteva distruggerli. E quegli sbruffoni lo avrebbero imparato sulla loro pelle.

«Prendetela!» ordinò il lestrigone.

I segugi infernali si fiondarono verso di lei a tutta velocità, rivoli di bava disgustosa che colavano dalle fauci. Stephanie sollevò una mano verso di loro. Udì il lestrigone ridere, ma quel rumore le sembrò distante. Percepì il potere del bosco lì vicino, e attinse a esso. Si concentrò, inspirò profondamente, e individuò delle radici proprio sotto di lei. Gridò e liberò la propria energia. Le radici spuntarono dal terreno, sfondando il cemento, e si avvolsero contro i tre segugi infernali, che guairono per la sorpresa. Furono sollevati in aria, di fronte allo sguardo ora stupito del lestrigone. Stephanie strinse la mano a pugno, e i mastini furono stritolati di colpo, esplodendo immediatamente in una nube di polvere dorata. Le radici si ritirarono di nuovo sotto terra, e il lestrigone rimase da solo, sorpreso.

«Allora?» incalzò Stephanie. «Non male per una contadina, non credi?»

Il gigante si fiondò su di lei con un grido rabbioso. Steph sorrise, osservandolo mentre si avvicinava. Quello sferzò l’aria con la sua mano artigliata, ma lei si scansò, attingendo ai suoi riflessi da semidea, mentre una scarica di adrenalina le attraversava il corpo. Il mostro si sbilanciò per la troppa ferocia e lei ne approfittò. Nella sua mano apparve una piccola lama a forma di falce di luna, il simbolo della madre, che conficcò nel collo del lestrigone. Quello sgranò gli occhi sconvolto, emettendo un gorgoglio. Stephanie estrasse la lama e lui cadde in ginocchio, tenendo una mano premuta sulla ferita. Il lestrigone la scrutò un’ultima volta, furioso per la sconfitta, poi chiuse gli occhi e crollò a terra, dissolvendosi.

La ragazza si allontanò di qualche metro, osservando dall’alto il mucchietto di polvere gialla. Trasformò di nuovo la lama in uno dei suoi orecchini di smeraldo, poi si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato. Il corpo le tremava leggermente per via dell’adrenalina e della tensione, e si accorse di avere respiro irregolare. Non le sembrava vero di aver appena eliminato da sola tre segugi infernali e un lestrigone, senza nemmeno troppa fatica. Era successo tutto così in fretta, era bastato un attimo e tutti e quattro si erano trasformati in polvere. Si osservò le mani, sorpresa. Era quella la forza di cui Persefone le aveva parlato? 

Non poteva rimanere lì a pensarci, doveva tornare dai suoi compagni. Corse verso la stanza del motel, chiamando Konnor e gli altri a gran voce. Salì le scale e raggiunse la loro camera, trovando la porta accostata. La luce dentro era spenta e non c’era traccia del figlio di Ares né sul pianerottolo né nel parcheggio. Entrò nella stanza, trovandola deserta. Il letto era sfatto, e i giacigli su cui Edward e Tommy si erano addormentati erano stati lasciati tutti in disordine. Sgranò gli occhi, inorridendo. «Oh, no! Ragazzi!»

«S-Stephanie?» domandò una voce, proveniente dal bagno, infondendole un enorme sollievo. Era Tommy. «Sei tu?»

«Tommy! Sì, sì, sono io!» Steph corse verso il bagno. «Cos’è successo?»

«I-Io… non lo so. Ci hanno attaccati… s-sono ferito, aiutami, ti prego!»

Stephanie posò una mano sulla maniglia. «Resisti, ora…» Esitò. Malgrado il sollievo nel sentire la voce del suo amico, una parte della sua mente le suggerì che in quella situazione c’era qualcosa che non quadrava. Ripensò alla voce che aveva chiamato Konnor, e si sentì un'idiota colossale. Si mise sul lato della porta, incupendosi. «Ora entro, va bene? Non preoccuparti» annunciò, cercando di non far trasparire vene di irritazione nella sua voce, poi afferrò la maniglia e spalancò.

Un ciclope sbucò fuori dalla penombra del bagno, allargando le braccia ed urlando a squarciagola, fermandosi quando si rese conto di non avere nessuno di fronte. Fece un verso sorpreso, che durò fino a quando Stephanie non sbucò da dietro la porta e conficcò la lama dietro al suo ginocchio. Il ciclope strillò di dolore e crollò a terra, sgranando atterrito il suo unico occhio. Steph lo spinse con una gamba e lo fece girare sulla schiena, poi si chinò su di lui, piantando con forza la lama nei suoi pettorali e facendolo strillare per il dolore. 

Era stato lui a chiamare Konnor, prima, con la sua capacità di modificare la voce. Avrebbe dovuto pensarci subito, era stata una vera stupida. Puntò la lama contro il suo collo. «Dove sono i miei amici?!»

Il ciclope la osservò sorpreso per un attimo con quell'occhio nero gigantesco, poi sghignazzò, mostrando anche lui dei denti decisamente brutti e trascurati. «Credi forse di farmi paura?» domandò, ora con la sua vera voce baritonale e graffiante.

Ancora una volta, Stephanie sentì la rabbia pervaderle il corpo. Gli conficcò nuovamente la lama nei pettorali, strappandogli un altro muggito. «Parla!»

«Perché dovrei? Se tradisco la padrona mi ucciderà! E se non parlo mi ucciderai tu!»

Stephanie non si lasciò incantare. Rigirò la lama nella ferita, prolungando il suo dolore. Il cuore le batteva nel petto all’impazzata, aveva la fronte madida di sudore e la mano con cui stringeva l’arma tremava come una foglia. L’adrenalina scorreva a mille dentro di lei, non si era mai sentita così prima di allora. Era… una sensazione orribile. Non avrebbe mai pensato di essere capace di qualcosa del genere, ma non aveva avuto altra scelta. Doveva scoprire cosa fosse successo ai suoi amici.

«V-Va bene! Li abbiamo portati dalla padrona!» piagnucolò il ciclope, il petto ormai intriso di sangue grumoso. 

La figlia di Demetra serrò la mascella. Quella risposta non aiutava per niente. «E lei dov’è?!»

«Io non...»

Stephanie premette la lama, facendolo urlare ancora più forte. Non poteva andare per il sottile, c'era la vita dei suoi compagni in gioco.

«A Chicago!» piagnucolò il ciclope, cercando di dimenarsi. «Ora lasciami!»

Stephanie sgranò gli occhi, allentando la presa, ed il mostro boccheggiò disperato.

«Ma… come?» domandò lei. «Io sono stata via solo qualche minuto, come possono…» Si interruppe, realizzando quanto idiota fosse quella domanda. «I segugi infernali…» mormorò, mentre la realtà si faceva nitida di fronte a lei e cominciava a sentirsi terribilmente impotente. Il ciclope aveva usato la sua voce per distrarre Konnor, probabilmente attirandolo in una trappola, i mostri avevano neutralizzato i suoi amici ancora addormentati, e avevano usato i segugi infernali per saltare nell’ombra e teletrasportarsi a Chicago.

«Sì…» confermò il ciclope, con un filo di voce, tornando a sogghignare.

Lo stupore e il timore di Stephanie si trasformarono di nuovo in rabbia nel giro di pochi secondi. «Come facevate a conoscere i nostri nomi e le nostre voci? Come sapevate che sono una figlia di Demetra?!»

«Vi controlliamo da quando avete lasciato il vostro campo. Possiamo sentire il vostro odore dappertutto. Credevate davvero di passare inosservati?» Il mostro ridacchiò. «I tuoi amici sono già morti…»

Stephanie strinse i pugni, ma ignorò la provocazione. Corse fuori, lasciando il ciclope al suo destino.

Non appena si ritrovò sul pianerottolo, si accorse di diversi mortali stipati nel parcheggio, gli sguardi spaventati puntati proprio verso la stanza da cui era uscita. Stephanie sussultò. Le grida del ciclope avevano attirato attenzioni indesiderate. Li ignorò e cominciò a correre, saltando giù dal pianerottolo. Raggiunse il bosco sul retro prima che i mortali potessero fermarla. Chicago era molto lontana da lì, ma forse poteva raggiungerla in tempo, prima che fosse troppo tardi. Non poteva guidare, ma era una figlia di Demetra, poteva spostarsi in modi molto più rapidi.

Poco prima di raggiungere il bosco si fermò, e ripensò a tutto quello che aveva appena fatto a quei mostri. Non ne andava fiera. Certo, erano mostri e loro non avrebbero esitato un solo istante a farle quello che lei aveva fatto loro, ma lei non era così. Lei odiava combattere, odiava uccidere, odiava la violenza. Solo perché era una semidea, solo perché quello era il motivo per cui esistevano, non significava che fosse una cosa che gradiva. Per questo non le piacevano le sfide al Campo Mezzosangue, per questo, in una ipotetica situazione di guerra, lei si era sempre immaginata in una posizione più dietro le linee, ad aiutare i feriti magari. E invece eccola lì. Il suo istinto aveva preso la meglio, aveva agito in automatico, e aveva neutralizzato cinque mostri senza alcuna difficoltà. E ora stava andando a salvare i suoi amici, completamente da sola. Quello era il punto di non ritorno. Il destino dell’impresa, la vita di quattro persone, ora dipendevano da lei. Che fosse quello il momento di cui Persefone le aveva parlato? 

Così presto?

Le grida dei mortali la fecero distogliere da quei pensieri. Si stavano avvicinando. Non aveva più tempo da perdere. Inspirò profondamente, poi corse nel bosco.

 

***

 

Una volta, da bambina, aveva toccato un giacinto nel giardino di suo padre, e in un istante il mondo attorno a lei era scomparso. Il suo corpo era diventato etereo, ogni cosa era divenuta verde, e prima ancora di riuscire a domandarsi cosa fosse successo, si era ritrovata seduta dall’altra parte del prato, in mezzo alle viole. A Eric, che aveva assistito a tutta la scena, per poco non era venuto un colpo. Era stata quella la prima volta che i suoi poteri da semidea si erano manifestati, ed era stato allora che aveva scoperto di potersi teletrasportare grazie alle piante. 

Ovviamente non avveniva tutte le volte che toccava un fiore, altrimenti si sarebbe teletrasportata in continuazione. Da bambina le era successo perché non aveva idea di come utilizzare il potere, ma ora che era cresciuta sapeva come controllarlo. Era una tecnica che solamente le driadi o i figli di Demetra più potenti potevano eseguire – anche suo fratello Paul ne era capace – e a differenza dei salti nell’ombra, lei non poteva trasportare nessuno con sé. Per questo motivo non l’aveva usato per la loro impresa, sarebbe stato inutile. Ma in quel momento, invece, era proprio quello che le serviva.

Posò le mani sul tronco di un albero e chiuse gli occhi, concentrandosi. Milioni e milioni di bisbigli riecheggiarono nella sua testa, uno scrosciare di voci che si sovrapponevano le une sulle altre, in una lingua incomprensibile. Erano le voci di ogni albero, fiore, pianta o ciuffo d’erba di quel bosco, incluse le driadi. La ragazza gemette, le tempie che le pulsavano di dolore a causa di tutto quel rumore nella sua mente, ma mantenne comunque alta la concentrazione. La vegetazione aveva un solo canale di comunicazione, la terra, che lei sfruttò per cercare la zona che aveva bisogno di raggiungere. Realizzò di essere vicina quando le voci di quel bosco cessarono, e tutto ciò che sentì furono solo sporadici bisbigli, della poca vegetazione che si trovava nella zona urbana. Sorrise soddisfatta quando trovò ciò che cercava, e lasciò che lei e quell’albero divenissero un tutt’uno.

Fu questione di un istante: prima era in quel bosco, dopo era sotto una betulla in un parchetto, accanto a un piccolo stagno con un ponte che lo attraversava. Le luci artificiali illuminavano la strada accanto a lei in un turbinio di colori, mentre il rumore del poco traffico che scorreva a quell’ora ronzava nell’aria. La figlia di Demetra lasciò il tronco e cadde a sedere, con il respiro pesante. Si prese la testa tra le mani, cercando di scacciare la sensazione di vertigini. Non aveva usato spesso quel potere, e soprattutto non aveva mai fatto un salto così grande prima di allora. Si sentì prosciugata di ogni forza. Ingoiò un po’ di ambrosia e si rimise in piedi. Aveva ancora un salto da fare. Aveva raggiunto Chicago, o almeno, sperava che quella città attorno a lei fosse Chicago, ora doveva localizzare il cantiere che aveva visto in sogno. 

Un senzatetto accampato sopra una panchina fece un verso sorpreso, osservandola, e lei provò una vena di imbarazzo. Si augurò che la Foschia l’avesse coperta quando era stata eruttata fuori da quel tronco.

Posò di nuovo le mani sulla betulla e inspirò. Sapeva dove andare. Ricordava molto bene la sensazione che aveva provato quando aveva visto quel cantiere nel sogno, non poteva sbagliarsi. Individuò un luogo in cui la natura stava lentamente morendo, soffocata da un terreno spianato di fresco, e si teletrasportò. 

Riapparve su un suolo sabbioso, boccheggiando, sdraiata a terra. Si rimise lentamente in ginocchio, tremando. Si guardò attorno sollevata, e in parte anche intimorita, dalla familiarità che quel luogo le trasmise. Mostri di acciaio, cemento e vetro la circondavano, osservati dall’alto da delle gru. Accanto a lei, la pianta che le aveva permesso di teletrasportarsi lì: un piccolo ciuffo d’erba solitario giallognolo, l’ultimo dei suoi simili sopravvissuto al passaggio dell’uomo. Malgrado non avesse tempo da perdere, la ragazza lo carezzò dolcemente, ammirando la sua tenacia. Grazie a lui, ora aveva una possibilità di trovare i suoi amici in tempo.

Si rimise in piedi a fatica e barcollò in mezzo a quel labirinto di palazzi in costruzione. Un tempo doveva essere stato un parco, perché sentiva ancora i versi di dolore della vegetazione che era stata annientata. Il dolore emanato da quel posto era così forte che contagiò anche lei. Sentì una lacrima scivolarle lungo la guancia, ma si sforzò di ignorarla. 

Notò una luce provenire dalla distanza, e immaginò che si trattasse dei faretti che aveva visto nel sogno. Affrettò il passo, senza nemmeno avere in mente un piano ben preciso. Voleva solo assicurarsi che i suoi compagni stessero bene. Attraversò un palazzo ancora senza muri, aggirando scale, impalcature e sacchi di cemento, e raggiunse quello che stava cercando. Si avvicinò, nascondendosi dietro a un camion, e si sporse per osservare meglio la scena che le si parava di fronte. Una dozzina di mostri se ne stava radunata in semicerchio, illuminati da dei faretti in un piccolo spiazzale, di fronte ad un anfratto più buio, una scena che riconobbe immediatamente e che le suscitò una scarica di brividi. Non c’erano più dubbi, quello era il luogo giusto.

I segugi infernali erano sdraiati a terra, assopiti, probabilmente stanchi dopo aver saltato nell’ombra. In un angolo c’erano gli zainetti che si erano portati per il viaggio, tutti fatti a pezzi. Poi, si accorse dei suoi compagni.

Stephanie inorridì. Lisa, Thomas, Konnor ed Edward erano seduti, appoggiati contro un pick-up, le mani e le caviglie legate da delle catene. La figlia di Bacco e quello di Ermes avevano qualche graffio e livido sul volto, ma nulla di grave. Konnor giaceva invece semisvenuto, anche lui con il volto pesto. Ma quello messo peggio era Edward. Anche se teneva la testa abbassata, la figlia di Demetra poté comunque scorgere le sue labbra e il naso sporchi di sangue ancora fresco, più una miriade di lividi dalle sfumature violacee. Sicuramente non si era arreso senza combattere, e quello era il benservito che gli avevano riservato. Steph provò pena per lui. Aveva assistito al proprio passato venire a galla contro la sua volontà e poi era stato selvaggiamente picchiato. Doveva essere distrutto, sia fisicamente che psicologicamente.

«… e dovrebbero portarci l’ultima a momenti» stava dicendo una delle dracene verso l’ombra, con tono lievemente intimorito. «Sssono certa che…»

«SILENZIO!» tuonò uno dei ciclopi, con quell’orribile voce femminile. «Vi avevo dato un compito!»

Vi fu un forte spostamento d’aria, e il gruppo di mostri indietreggiò di scatto come un tutt’uno. Un’imponente figura uscì dall’oscurità, alta più di due metri, con due gigantesche ali sulla schiena. Non appena la vide, Stephanie sentì il proprio corpo trasformarsi in gelatina per la paura.  

Una donna dalla pelle verde squamosa e i capelli fatti di serpenti vivi, con il corpo di un drago nero dalla vita in giù, teste di animali diversi, leoni, orsi, lupi, che prendevano forma nel punto in cui le sue due metà si univano. Qualcosa di impossibile da descrivere e terrificante da guardare.

CampeL’ex carceriera del Tartaro.

Stephanie non l’aveva mai vista dal vivo, e avrebbe di gran lunga preferito continuare a vivere così. Conosceva le storie su di lei: aveva vissuto ad Alcatraz per qualche tempo, quando faceva parte dell’esercito di Crono, e aveva guidato i mostri che avevano invaso il Campo Mezzosangue passando per il Labirinto di Dedalo, battaglia in cui alla fine era stata uccisa. Non era mai più apparsa da allora, nemmeno durante la guerra contro Gea, e sinceramente in molti si erano dimenticati di lei. E ora eccola lì, in tutta la sua bruttezza. E ce l’aveva proprio con loro.

«Che cosa vi fa credere che non ci intralcerà?!»

«M-Ma è una figlia di Demetra…» cercò di giustificarsi la dracena. «Q-Qui lei non potrà …»

«Ho detto SILENZIO!» tuonò il ciclope, mentre Campe si chinava sulla dracena. La sottoposta ammutolì, emettendo un gemito che parve più uno squittio. Pareva uno scarafaggio se paragonata alla carceriera. «Dovevate portarmeli tutti…» rantolò Campe, sempre tramite il ciclope. «Tutti i semidei dovranno pagare per quello che mi è successo!» La carceriera si voltò verso i ragazzi legati, per poi sogghignare. «Beh… vorrà dire che comincerò da voi.»

Si avvicinò al gruppo di semidei, compiaciuta. Stephanie gemette. Doveva inventarsi qualcosa, alla svelta. Lei era l’unica che poteva salvarli, ma quella dracena aveva ragione: non era in un bosco, in un parco, o nulla di quel genere. Erano in un cantiere, la terra era morta, non poteva usare i suoi poteri in quel luogo e non sarebbe mai riuscita a sconfiggere Campe corpo a corpo. Forse poteva distrarla, prendere tempo, magari fino a quando Edward non sarebbe riuscito a utilizzare la Spada del Paradiso, però il pensiero di uscire allo scoperto la faceva morire di paura. Era pietrificata.

«Molto imprudente da parte vostra uscire dal vostro campo» cominciò Campe, esaminando dall’alto i quattro ragazzi. «Soprattutto quando uno di voi può emanare un potere così grande. L’ho sentito da quaggiù quando eravate ancora a centinaia di chilometri da qui. Pensavate davvero che non vi avremmo trovati?»

Nessuno rispose. Tommy e Lisa, gli unici che parevano coscienti, si scambiarono uno sguardo. Il figlio di Ermes era terrorizzato. Lisa, invece, era impossibile da interpretare. La carceriera sorrise. «Non siete di molte parole? Bene. Vi farò parlare io allora.»

Si chinò sulla ragazza, scrutandola dritta negli occhi. La figlia di Bacco mantenne i nervi saldi, cosa che Stephanie mai sarebbe riuscita a fare, non con quei serpenti che sibilavano estasiati a così pochi centimetri dalla sua faccia.

«Una figlia del dio del vino…» osservò il mostro, emettendo quell’inquietante risata gutturale. «… credo di aver già ucciso un tuo fratello, molti anni fa. Sarà una gran soddisfazione aggiungere anche te alla raccolta.»

Lisa assottigliò le labbra, ma non disse nulla, non cedendo alla paura e non lasciandosi influenzare dalle parole del mostro. La carceriera ridacchiò ancora, poi cambiò bersaglio. Si spostò su Thomas. «Un figlio di Ermes…» mormorò, facendosi seria. «Io li odio i figli di Ermes…» Si abbassò anche su di lui, arrivando all’altezza della sua fronte, ed avvicinò il suo volto orribile. Tommy gemette spaventato, e commise l’errore fatale di distogliere lo sguardo da lei.

«Hai paura» constatò la carceriera, per poi sogghignare crudele. «Perfetto.» Sollevò una mano, sfoderando degli artigli affilati come lame di rasoio. «Sarai un ottimo antipasto.»

Tommy sgranò gli occhi e cercò di indietreggiare, terrorizzato. Campe lo afferrò per la maglietta, Lisa sussultò, il respiro di Stephanie si mozzò.

«Tu non fai paura a nessuno, stronza di un’anguilla parlante» sbottò una voce all’improvviso. Edward drizzò il capo, mostrando una generosa panoramica del mosaico di lividi che aveva sul volto. Osservò la carceriera con odio. «Fai solo pena.»

Campe si voltò lentamente verso di lui. Lasciò andare Thomas e si raddrizzò con una calma inquietante. «Che cosa hai detto?»

«Oh, bene. Oltre a essere disgustosa sei anche sorda» gracchiò il figlio di Apollo. «Ti farei il linguaggio dei segni, ma sai com’è, ho i polsi legati.»

Campe si posizionò di fronte a lui, scrutandolo dall’alto con odio. Il ragazzo sorrise, per nulla intimidito. «Anche se non credo che li capiresti comunq…»

La carceriera si mosse con una rapidità sorprendente e lo afferrò per il collo, sollevandolo come un pupazzo. Edward gemette per la sorpresa quando si ritrovò faccia a faccia con il mostro, ma lo stupore svanì subito, rimpiazzato da un altro sorriso provocatorio. «Ehi, quanta confidenza» rantolò a fatica, a causa della mano attorcigliata attorno alla sua gola. «Ci siamo appena conosciuti, madame.»

«Io non ti farei paura?» ringhiò Campe, aumentando la presa, affondando gli artigli nella carne di Edward, che emise un grido soffocato. Il ragazzo tossì, ma non rispose. Le sputò direttamente in un occhio.

Stephanie si mise una mano di fronte alla bocca. Tutti i mostri presenti sobbalzarono per la sorpresa, gli occhi di Thomas per poco non schizzarono fuori dalle orbite, così come quelli di Lisa.

Campe rimase con la testa girata per un momento, una chiazza di saliva mista a sangue che le scivolava lungo la guancia ed un’espressione indecifrabile sul volto. Si ripulì lentamente con il dorso della mano, mentre Edward allargò il suo ghigno. «Ti basta come risposta, put…»

Non terminò mai quella frase. Campe ululò di rabbia, affondando la mano con cui non stava stringendo Edward nella sua faccia.

L’urlo straziante del figlio di Apollo squarciò l’aria. Fu la cosa più terribile che Stephanie sentì nella sua vita. A quel rumore i segugi infernali si svegliarono all’improvviso, cominciando a latrare come dei dannati, perfino Konnor riprese lentamente conoscenza. I mostri saltellavano sul posto eccitati, entusiasti di quel grido devastante che per loro doveva essere musica per le orecchie. Edward si dimenò, mentre il suo volto si trasformava in una maschera di sangue, che colò lentamente sui suoi vestiti.

Ora con entrambe le mani messe di fronte alla bocca per non gridare disperata il suo nome, Stephanie dovette attingere a tutta la propria forza di volontà per non corrergli incontro e farsi ammazzare dal resto dei mostri come una stupida. Calde lacrime le invasero gli occhi, mentre osservava impotente quella scena orribile.

«EDWARD!» urlò Tommy, dimenandosi, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa il ciclope che faceva da traduttore per Campe gli intimò di rimanere fermo con uno sguardo truce. Il figlio di Ermes gemette, gli occhi lucidi, ma rimase immobile. Accanto a lui, Lisa abbassò la testa, coprendosi il viso con le mani legate, singhiozzando.

Infine, Campe lasciò finalmente andare il ragazzo, che accasciò la testa a peso morto. Con enorme sollievo di Stephanie, emise diversi gemiti, quindi se non altro era ancora vivo. Per quanto tempo, però, questo non poteva saperlo.

«Pensavi di sembrare coraggioso, semidio? Perché non ci sei riuscito» sibilò Campe. «Hai solamente prolungato il tuo dolore.»

Lanciò a terra Edward, che atterrò con un tonfo sordo, emettendo un altro grido soffocato. Strisciò lentamente su un fianco e sputò una grossa chiazza scarlatta. Aveva un sopracciglio strappato, l’occhio chiuso, la faccia ricoperta di sangue sotto il quale si potevano scorgere tre grossi, orribili solchi che gli attraversavano il viso dalla fronte al mento.

Campe rivolse un cenno ad alcuni lestrigoni, che corsero verso di Edward. Lo afferrarono da sotto alle ascelle e lo misero in ginocchio, poi uno di loro gli strappò la maglietta del campo, lasciandogli scoperta la schiena. Un ciclope si avvicinò alla carceriera, porgendogli una catena arrugginita ancora attorcigliata. La donna rettile la afferrò e la esaminò con lo sguardo per qualche istate, poi la usò per sferzare l’aria. Sorrise compiaciuta, osservando ora la schiena del figlio di Apollo. «Spero che tu abbia ancora un po’ di fiato. Mi piace di più quando gridano!»

Edward emise un altro gemito, il corpo scosso da un fremito. Drizzò lentamente la testa. «A-Aspetta…» mormorò a fatica. «V-Va bene, hai vinto tu... non… non serve che tu uccida anche loro… puoi… puoi prenderti la mia spada… ma… prima devi lasciarli andare…»

Lisa drizzò di nuovo la testa, osservandolo sconvolta. Konnor parve finalmente realizzare cosa stesse accadendo, perché sgranò gli occhi. E anche Stephanie lo fece.

«E-Edward…» mormorò Tommy. «No…»

Il figlio di Apollo riuscì a sorridere al gruppo. «Mi… mi dispiace ragazzi. Non... non sono riuscito a... a proteggervi. Ma... non lascerò che… vi facciano del male… per colpa mia.»

«Spada?» domandò Campe, nel frattempo. «Quale spada?»

«Edward, non farlo» intimò Konnor. «Non ne vale la pena! Le nostre vite non valgono quelle di tutti!»

«Per me sì» rispose Edward, sputando altro sangue. Konnor schiuse le labbra, così come gli altri. Il figlio di Apollo scosse lentamente la testa. «Non mi sono… comportato bene, con voi. Avrei dovuto essere più… onesto. Su… di me, sul mio… passato. Voi… avete scelto di… venire con me, in questo viaggio. Avrei… dovuto mostrarvi più… gratitudine. Scusatemi…»

Stephanie avrebbe pianto di nuovo. Aveva creduto che Edward fosse arrabbiato con loro per quello che era successo al motel, e invece… invece voleva salvarli. Anche se non erano davvero amici, anche se non si conoscevano da molto, anche se… se avevano ficcanasato nel suo passato contro il suo volere. Nulla di tutto quello che era successo era davvero colpa sua, lui si era solamente stato sballottato dagli eventi. Non aveva scelto di avere la Spada del Paradiso, di essere un semidio, di trovarsi lì. Eppure, aveva accettato ognuna di queste cose, ed ora voleva perfino dare la propria vita per avere salva quella degli altri.

Anzi, di più. Stava anche chiedendo perdono. Perché Persefone le aveva detto di non fidarsi di lui? Come avrebbe mai potuto non fidarsi più di lui dopo un gesto del genere? Per Edward la vita dei compagni valeva di più della propria. Quel singolo pensiero era sufficiente per chiunque per potersi fidare. 

«Se muori la spada rimarrà senza proprietario!» gridò il figlio di Ares. «E non ci sarà nessuna guerra! Ma se la dai a lei allora tutto quanto sarà inutile!»

«Ma di che state parlando?!» urlò la carceriera, agitando la catena. «Quale spada?!»

«Ama… Ama No Murakumo…» ansimò Edward, ignorando le proteste di Konnor. «La… Spada del Paradiso… non puoi… non conoscerla. L’energia… che hai sentito… veniva da me. Dalla… dalla spada.»

Campe storse le labbra. «Non ho idea di cosa tu stia parlando. È vero, tu emani dell’energia, ma quella che ho sentito era molto diversa dalla tua, ed è durata solo per poco.»

«C-Che cosa?»

La carceriera scosse la testa, tornando a sorridere crudele. «Mi credi così stolta?» Strinse con più forza la presa attorno alla catena. «La pagherai per aver cercato di imbrogliarmi. Vi consiglio di prestare molta attenzione, perché dopo toccherà a voi» mugugnò, rivolta ai semidei ancora legati. «Un vero peccato che anche la vostra amica non sia qui ad assistere!»

Konnor digrignò i denti e cercò di alzarsi, ma il ciclope interprete lo spedì a terra con un calcio, facendolo sbattere contro il pick-up. Il figlio di Ares batté la testa e gemette, accasciandosi a terra. Cercò di strisciare e di alzarsi di nuovo, ma il ciclope tornò alla carica, inchiodandolo al suolo con un altro pestone che lo fece urlare.

«Konnor!» lo chiamò Lisa, ricevendo un ceffone. La figlia di Bacco gridò, piegando la testa, un rivolo di sangue che colava dal labbro.

Tommy singhiozzò, e il ciclope lo invitò a non fare mosse azzardate con un altro sguardo truce. Abbassò la testa, il volto ormai invaso dalle lacrime.

In mezzo a tutto quel trambusto, Campe indietreggiò di qualche passo. Distese la sua frusta improvvisata, per poi passarsi la lingua biforcuta tra i denti, gli occhi puntati sulla schiena di Edward. «Quando avrò finito con te, i corvi staccheranno brandelli di carne dalla tua spina dorsale.»

Edward osservò i propri compagni un’ultima volta, in preda allo sconforto. Un’espressione che Stephanie non aveva ancora visto sul suo volto. Poi, il figlio di Apollo chinò il capo, arrendendosi al suo destino. Campe non aveva creduto alla storia della spada, non c’era più nulla che potesse fare. Il suo corpo fu scosso da un singulto quando singhiozzò, e la carceriera sogghignò compiaciuta.

«Sì. Era proprio questo che volevo!» Sollevò la frusta, pronta ad abbattergliela sulla schiena, ma Stephanie aveva visto troppo. I suoi amici erano stati torturati di fronte a lei, e non aveva mosso un dito per aiutarli, perché troppo spaventata. Ma era stanca di avere paura. Nessuno sarebbe morto di fronte a lei, non finché avrebbe potuto fare qualcosa per impedirlo, a costo di sacrificare il proprio stesso corpo lanciandosi tra la frusta ed Edward. Affondò le mani nel terreno, sentendo la rabbia ribollire dentro di lei, non desiderando altro che vedere quel sorriso svanire dal volto di Campe. Serrò la mascella, e percepì qualcosa muoversi sotto terra. Una scarica di elettricità le percorse il sistema nervoso, mentre nella sua mente udiva un grido. Un grido che parve quasi di più un ordine, di una voce possente, autoritaria, ma allo stesso tempo incrinata da vene di disperazione: «Liberami.»

Stephanie trattenne il fiato e chiuse gli occhi. Il tempo sembrò fermarsi. Si concentrò e ripensò alle parole di Persefone. La natura gridava… e lei doveva ascoltarla.

Un istante prima che Campe potesse muovere il polso, una radice nera sbucò dal terreno, immobilizzandoglielo. La carceriera sgranò gli occhi. «Ma cosa…» Cercò di muovere la mano, mugugnando per lo sforzo, ma quella non la lasciò andare. Le strattonò il braccio energicamente, strappandole un grido sorpreso e facendole perdere la frusta. Campe osservò quel rampicante sbucato dal terreno, sbalordita, poi drizzò la testa. «Questa… è questa l’energia che ho sentito…» sussurrò, poco prima che si scatenasse il caos.

Decine e decine di altre radici spuntarono in superficie, avvolgendosi attorno ai mostri, sollevandoli e stritolandoli fino ad ucciderli, in un turbinio di urla di sorpresa e di dolore. I segugi infernali latrarono e cercarono di morderne alcune, ma furono infilzati immediatamente. I lestrigoni che tenevano Edward immobile furono trafitti al petto da parte a parte e catapultati in aria. Di loro rimasero soltanto le grida disperate, e polvere dorata. Il figlio di Apollo crollò a terra con un tonfo sordo e bagnato.

Campe gridò nella sua lingua incomprensibile, ma questa volta non ci fu alcuna traduzione, perché il ciclope interprete era troppo impegnato a gridare spaventato mentre veniva afferrato per le caviglie dalle piante e sbattuto in ogni direzione.

Konnor, ancora a terra, osservò le radici e schiuse le labbra: «Non è possibile…»

«Sì, invece.» Stephanie uscì dal proprio nascondiglio, mostrandosi finalmente a tutti. «Lo è.»

«Steph!» gridò Tommy, con un sorriso che arrivava da orecchio a orecchio.

Lisa rise incredula. 

«Scusate il ritardo» disse la figlia di Demetra, mentre avanzava verso Campe tenendo una mano alzata, guidando l’esercito di rampicanti come una direttrice d’orchestra, indirizzandoli verso tutti i mostri che cercavano di scappare o di combattere. Stephanie fu l’ultima cosa che videro, prima di venire trafitti in pieno petto.

La figlia di Demetra si sentì potente come mai prima di allora. Le radici che comandava erano completamente marce e spolpate, rimasugli di ciò che era rimasto in quel terreno consumato. Ma ora, grazie al potere di Stephanie, stavano rinascendo. Erano furibonde per quello che era successo alla loro casa. E la loro rabbia si stava trasmettendo dentro di lei. Era come se fossero in simbiosi, le radici utilizzavano l’energia della figlia di Demetra per vivere, ma allo stesso tempo era stata la loro rabbia a darle una simile forza.

Nel corso dei millenni la natura era stata imprigionata e oppressa dall’uomo, che ci aveva costruito sopra città, fabbriche, aveva estratto le sue risorse e l'aveva inquinata con i suoi rifiuti, e ora lei era stanca dei soprusi. Non c’era niente, assolutamente niente di più potente di lei, e l’uomo avrebbe dovuto capirlo. In qualunque città Stephanie andasse, se si concentrava poteva sentirla gridare da sotto la sua prigione di cemento. In alcuni luoghi le urla erano più flebili, soprattutto nelle metropoli che esistevano da molto tempo, ma in altri, come in quel cantiere, erano molto più nitide. Non aveva mai capito che cosa volessero dire, però, fino a quel giorno. Ma ora lo sapeva.

Lei voleva salvare i suoi amici. La natura, invece, voleva solo essere liberata, voleva rifiorire e impadronirsi di nuovo di ciò che le apparteneva. Sfruttando l’una i poteri dell’altra, sarebbero state inarrestabili.

«Aiutate Edward» ordinò, mentre altre radici spezzavano le catene di tutti i suoi amici.

Tommy e Lisa si rimisero in piedi, aiutarono Konnor a fare lo stesso e corsero dal figlio di Apollo, che ormai giaceva in una pozza di sangue. Stephanie sentì il proprio cuore stringersi in una morsa quando lo vide in quelle condizioni. Campe avrebbe pagato per quello che aveva fatto. Le piante la stavano lentamente imprigionando, immobilizzandola arto dopo arto, facendola urlare sempre più forte. La donna rettile cercò di spiegare le ali e di alzarsi in volo, ma queste le furono strappate via dal corpo dai rampicanti. Il grido straziante della carceriera fece nascere un sorriso soddisfatto sul volto di Stephanie. A ruoli invertiti era tutto molto più gratificante da vedere.

Mentre camminava, mostri venivano scaraventati via, intrappolati, soffocati o infilzati. Alla fine di tutto quel cataclisma, rimasero in sette in quel posto. Lei, i suoi amici, Campe e il ciclope interprete. La carceriera era stata messa in ginocchio, schiacciata a terra, ed era ormai al livello di Stephanie. La figlia di Demetra le si avvicinò, scrutandola dritta negli occhi. Solo una decina di centimetri le separava, ma starle così vicino ormai non la spaventava più. Non aveva più paura di lei. Non aveva più paura di nessuno.

Campe ruggì furibonda con tutto il fiato che le era rimasto in corpo. Il volto di Stephanie fu travolto dal suo alito caldo e pestilenziale, i suoi capelli sventolarono come sospinti dal vento e i suoi occhiali si appannarono perfino, ma rimase immobile. I serpenti nei capelli del mostro sibilarono e si dimenarono all’impazzata, cercando di morderla, ma erano troppo lontani per raggiungerla.

Quando la carceriera smise di sbraitarle in faccia, Stephanie si passò il pollice sulle lenti degli occhiali per ripulirseli, poi assottigliò le labbra. «Hai finito?»

Le radici si strinsero ulteriormente, strappando un gemito di dolore a Campe, che digrignò i denti aguzzi per la rabbia.

«T-Ti prego…» sussurrò il ciclope, con la sua vera voce, mentre dondolava appeso per la caviglia accanto a Campe. «L-Lasciami andare! Non vi farò più nulla!»

«TRADITORE!» urlò subito dopo, ora con la voce di Campe.

«Non ti sto tradendo! Ci hai obbligati con la forza ad aiutar…»

«SILENZIO!»

«Che ne dite di chiudere la bocca tutti e due?» sbottò Stephanie, stringendo una mano per stritolare di più i rampicanti. Entrambi i mostri mugugnarono di dolore e il ciclope smise di litigare con sé stesso.

«Come hai fatto?» sibilò a quel punto il monocolo, con la voce di Campe. «Questa terra è morta! Come hai fatto a controllare queste piante?!»

Stephanie sorrise compiaciuta. Se le avessero fatto la stessa domanda, quel mattino, non avrebbe saputo rispondere. Ma ora ora, finalmente aveva capito. «La natura non può morire» rispose. Sferzò l’aria con la mano, la lama a forma di falce balenò tra le dita. Campe sgranò gli occhi. Steph allargò il sorriso. «Ma tu sì.» 

La carceriera osservò atterrita la figlia di Demetra ancora per qualche istante, con la gola che sanguinava, poi roteò gli occhi e accasciò il capo. Le radici la lasciarono andare mentre si dissolveva lentamente. E così si concluse la storia di Campe e della sua vendetta verso i semidei. Ben zero vittime aggiunte alla sua raccolta. Un vero successo. Lasciò poi cadere a terra il ciclope, che atterrò molto poco delicatamente sulla propria faccia.

«Torna dai tuoi amici e racconta quello che hai visto» ordinò Stephanie. «Digli che se si faranno vivi, il loro destino sarà ben peggiore di quello di Campe.» 

Il mostro non se lo fece ripetere due volte. Corse via terrorizzato, svanendo nel cantiere.

Stephanie venne raggiunta dai suoi amici e distese il sorriso quando li vide tutti salvi. Konnor e Tommy stavano aiutando Edward a rimanere in piedi e, non appena si accorse delle sue condizioni, Steph si allarmò. Il suo sguardo era vitreo e non sembrava più essere consapevole di quello che stava succedendo attorno a lui. «Edward! Ha bisogno di ambrosia, velo…» Si interruppe. Una fitta di dolore tremenda le colpì la tempia, facendola gridare e cadere in ginocchio.

«Steph!» la chiamò Tommy, ma la ragazza sollevò una mano.

«S-Sto bene, aiutate Edward…» mormorò, a fatica.

Il figlio di Ermes annuì. «Subito.» 

Stephanie si massaggiò le tempie, mugugnando per il dolore. Le radici rimaste nel cantiere cominciarono a ritirarsi, mentre altre voci rimbombavano nella sua testa, questa volta di nuovo incomprensibili.

«Mi dispiace ragazzi, ma la vostra roba è distrutta» mormorò Thomas, stringendo il suo zainetto. Si chinò accanto al figlio di Apollo. «Ma abbiamo ancora la mia.» Estrasse un botticino di nettare, con cui bagnò un panno che usò per pulire il sangue dal volto di Edward. Non appena il liquido entrò in contatto con la ferita sul suo volto, il figlio di Apollo gemette e il suo corpo fu scosso da un fremito. Doveva bruciare terribilmente.

«Perché il tuo zaino è intatto?» domandò Lisa, con tono scettico ma comunque molto diverso da quello che usava con lui di solito.

«Perché è un dono di mio padre. È magico, non può essere distrutto così facilmente» spiegò Tommy, mentre estraeva un pacchetto di ambrosia. «Tenete» disse, porgendola loro. «Prendila anche tu, Steph.»

«G-Grazie…» disse lei, sedendosi accanto agli amici per consumare la sua porzione. La sensazione di potere e di benessere di poco prima stavano cessando. Prima si era sentita in grado di poter spazzare via un esercito di Titani, ora invece stava lentamente ritornando la vecchia sé stessa, la figlia di Demetra che odiava la violenza e i combattimenti. I bisbigli continuavano nella sua mente, incessanti. Avrebbe voluto farli tacere, ma non sapeva come. In genere le bastava ignorarli per farli scomparire, ma quelli non volevano proprio andarsene.

«No, Steph, grazie a te. Ci ha salvati tutti» disse Thomas.

Stephanie riuscì a sorridere. «Non vi avrei mai abbandonati, ragazzi. Mi… dispiace se ci ho messo così tanto. Se avessi fatto prima, forse ora…»

«Davvero ti stai scusando?» la frenò Konnor, scrutandola inespressivo. Il figlio di Ares scosse la testa, per poi sospirare affranto. «Mi sono fatto imbrogliare come uno stupido. Ho lasciato la nostra stanza sguarnita, i mostri vi hanno attaccati mentre dormivate, e io mi sono fatto colpire alle spalle. Abbiamo tutti rischiato di morire per colpa mia. Tu, Steph, non hai niente di cui scusarti.»

«Konnor…» mormorò lei, incrociando il suo sguardo. Tutto quel viaggio, tutta quell’impresa… stavano provando il figlio di Ares ogni istante di più. Erano partiti da appena un giorno e lui pareva già una persona completamente diversa. Stavano succedendo così tante cose attorno a lui, nella sua vita personale, alle persone a cui teneva… e ora la terribile sensazione di colpa che sicuramente stava provando. Doveva sentirsi come una bomba pronta ad esplodere.

Il suo sguardo cadde poi su Edward. Se Konnor era ferito nello spirito, il figlio di Apollo sicuramente era ferito nel fisico. Anche con il volto pulito dal sangue e la ferita che si stava rimarginando, non aveva per niente un bell’aspetto. Tre orribili squarci gli attraversavano diagonalmente la faccia. Per fortuna non avevano intaccato l’occhio o il naso, solo un piccolissimo angolo della bocca, ma formavano comunque un inquietante contrasto con la sua pelle ancora sana. Era svenuto, e non sapeva se fosse una cosa positiva o negativa, in ogni caso respirava ancora e, malgrado tutto, aveva un’aria serena, forse perché aveva visto Stephanie arrivare. La figlia di Demetra dovette resistere all’impulso di accarezzargli una guancia. Non le importava quello che Konnor aveva detto. Se solo avesse agito prima, Edward non si sarebbe trovato in quelle condizioni. Non avrebbe nemmeno dovuto cercare di dare la propria vita per salvare quella degli altri. 

Diamine, se non avesse ceduto come una stupida alla fame, probabilmente non si sarebbero nemmeno trovati in quella situazione. Se pensava che tutto quel disastro era stato scaturito da un semplice brontolio del suo stomaco, le veniva voglia di prendersi a pugni da sola fino a svenire.

«Ma… come hai fatto a trovarci?» chiese ancora Lisa.

«E… tutta quell’energia… ce l’hai sempre avuta?» domandò ora Tommy, squadrandola sorpreso, quasi intimorito.

«Io…» Stephanie si osservò le mani, per poi sospirare pesantemente. «È una storia lunga. Ve la racconterò dopo, adesso…»

Uno dei bisbigli nella sua mente si trasformò in un urlo. Si premette una mano sulla tempia, gemendo con forza, un istante prima che un altro rampicante sbucasse fuori dal terreno. Solo che questa volta lei non l’aveva chiamato. Il suo sguardo sorpreso quando lo vide dovette essere un messaggio piuttosto chiaro per i suoi compagni, perché si alzarono in piedi, allarmati. Altri rampicanti spuntarono dal terreno, mentre il grido proseguiva nella testa di Stephanie. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, sapeva solo che non aveva alcun controllo su di quello. E sapeva anche che avrebbero fatto meglio ad andarsene da lì.

«Non possiamo restare qui» asserì, alzandosi in piedi e ignorando il dolore e le grida. I rampicanti continuarono a fiorire e crescere, andando ad attorcigliarsi attorno a qualsiasi cosa incontrassero. Veicoli degli operai, pilastri di cemento, impalcature. Si stavano lentamente impadronendo di quel luogo, in tutti i sensi della parola.

«Ma che succede?» interrogò Thomas.

«Non lo so» sussurrò Stephanie. «Ma non mi piace. Andiamocene, veloci! Parleremo più tardi!»

Usò un tono che non ammetteva obiezioni. Non che fosse molto saggio mettersi ad obiettare in quel momento in ogni caso, con quella selva di radici che stava crescendo e che non sembrava per nulla intenta a fermarsi. E fortunatamente i suoi compagni la pensarono allo stesso modo. Konnor si caricò Edward su una spalla, gemendo per lo sforzo, ma assicurò gli altri con un cenno del capo che ce la poteva fare. Tommy corse a infilare i brandelli dei loro zainetti rimasti nel suo, poi, insieme, fuggirono da quel luogo maledetto, dove la natura sembrava essersi risvegliata per davvero, e questa volta in maniera permanente.

   
 
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