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Autore: edoardo811    03/04/2019    3 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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16

I pezzi si uniscono

 

 

Le palpebre di Edward tremolarono. Si svegliò su un pavimento di marmo bianco gelido come l’Artide. Si rimise a fatica in ginocchio, stringendosi nelle spalle per scaldarsi. Notò subito le teche con dietro le armi in esposizione, le statue, il trittico con l’uomo che combatteva con il mostro e l’espositore vuoto di Ama No Murakumo. Era di nuovo in quel museo che aveva visto in sogno.

«Grandioso…» rantolò, alzandosi in piedi. Stava di nuovo sognando quel posto maledetto, e ormai cominciava a credere che si trattasse proprio dell’Asian Art Museum. Del resto, quali altri musei avrebbe potuto sognare?

«Ben svegliato» lo accolse una voce. Edward drizzò il capo. L’uomo serpente gli sorrise dall’alto. «Dormito bene?»

Edward strinse i pugni. Odiava quel ghigno. Odiava quel tizio e basta. Si eresse, desideroso di sferrargli un pugno in faccia, ma il dolore al volto lo frenò, costringendolo a posarci sopra una mano.

«Fa male, vero?» rantolò un’altra voce. 

Il figlio di Apollo si voltò. Alle sue spalle era apparso un volto familiare. Ancora una volta, il dolore impedì a Edward di muoversi, altrimenti si sarebbe fiondato su quel verme. Il mezzo-demone che aveva rapito Rosa era lì, di fronte a lui, brutto come sempre. Tuttavia, Edward notò con una sorta di macabro piacere la cicatrice scura che gli attraversava l’occhio. L’han’yō se la sfiorò, notando il suo sguardo. «Sono felice che quella patetica carceriera non ti abbia accecato. Per me sarà un vero piacere strapparti via entrambi gli occhi personalmente.»

Le sue parole accesero una luce nella mente di Edward. La carceriera… Campe. L’ultima cosa che ricordava con chiarezza, erano i suoi artigli che affondavano nel suo volto. Tutto quello che era successo dopo erano immagini sbiadite e distorte. Credeva di essere arrivato alla fine, ma per fortuna era arrivata Stephanie.

Non ricordava affatto con esattezza quello che era successo, aveva visto qualcosa spuntare dal terreno, i mostri che venivano scaraventati via come giavellotti e sentito Campe che urlava furibonda. Qualunque cosa avesse fatto, Steph lo aveva salvato. Aveva salvato tutti loro. Adesso era lui a doverle la vita. Non appena avrebbe finito con quella pagliacciata di sogno, l’avrebbe ringraziata a dovere.

Edward osservò il demone, per poi sorridergli di nuovo. «Devi solo provarci, fenomeno. Dopo non ci vedrai nemmeno dall’altro.»

Il mostro ringhiò e fece per estrarre la spada. Edward si domandò cosa sarebbe successo se l’avesse colpito lì, visto che dopotutto non si trovava davvero in quel luogo, ma l’uomo serpente sbatté il bastone della falce a terra. «Basta così, Naito. Ricorda quello che ti ho detto.»

L’han’yō scrutò l’uomo, poi Edward ancora per qualche istante, infine allontanò la mano dall’impugnatura della katana. Girò attorno al ragazzo, continuando a guardarlo truce, poi affiancò il padrone. Fece uno strano effetto conoscere il suo vero nome. Lo faceva sembrare quasi più umano, cosa che tuttavia un obbrobrio del genere non sarebbe mai potuto essere.

«Bravo, ascolta il tuo padroncino» lo provocò ancora Edward.

Naito strinse i pugni, mentre l’uomo serpente sorrise nuovamente. «Ne hai di spirito, vero? Proprio come Kate.»

Il sorriso sfumò dal volto di Edward. «Tu non devi parlare di lei, bastardo!» urlò. Questa volta non gli importò niente del dolore al volto e cercò di fiondarsi su di lui, ma si ritrovò immobilizzato. Con il corpo immobile, tentò di nuovo di parlare, ma non gli uscì nulla dalla bocca. Era pietrificato, come negli altri sogni che aveva fatto. Riuscì solo a digrignare i denti e rivolgere al rettile uno sguardo furente.

«Ho toccato un tasto dolente? Domando scusa» disse l’uomo, sollevando le spalle. «Ma ora mi farò perdonare.»

Batté di nuovo l’estremità della falce a terra. Una massa nera e indistinta cominciò a sbucare dal pavimento, una poltiglia grumosa e disgustosa di forma ovale che si eresse verticalmente. Sembrava… sembrava un bozzolo. E a giudicare dalla forma, dentro conteneva qualcosa. Edward deglutì, disgustato e anche intimorito. Quella roba lo metteva a disagio.

«Ho assistito al tuo dibattito con Campe e… ho notato che sei disposto a scambiare la spada per le persone a cui tieni» riprese l’uomo rettile, distendendo il suo freddo sorriso. «Bene, allora. Credo di avere proprio ciò che fa al caso nostro.»

Distese il braccio verso il bozzolo, e l’oscurità cominciò a diradarsi lentamente nel punto dietro al quale avrebbe dovuto trovarsi la testa dell’occupante. Non appena le tenebre si dissiparono, fu proprio una testa ad accasciarsi in avanti. E non appena la vide, Edward sì senti come se in quel bozzolo in realtà ci fosse lui e lo stesse soffocando.

Notando la sua espressione, l’uomo serpente sorrise compiaciuto. Ma il figlio di Apollo a malapena lo notò. Il suo sguardo era fisso su quel viso innaturalmente pallido e quei capelli arancioni sbiaditi.

«Rosa…» sussurrò, incredulo. Poteva di nuovo parlare, ma non gli importava un accidente. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era il fatto che sua sorella si trovasse proprio di fronte a lui. Avvolta in una pozza di tenebre, accanto all’uomo che lo tormentava nei suoi incubi e il demone che l’aveva rapita.

«Ebbene sì. La tua cara sorella è qui con noi, ed è in perfetta salute.» L’uomo serpente si voltò verso di lei, afferrandola per il mento e drizzandole il capo in modo che Edward potesse vederla meglio. Il figlio di Apollo avrebbe voluto gridargli di lasciarla andare, ma la voce gli svanì ancora una volta. Se avesse potuto, avrebbe urlato per la frustrazione.

Naito assottigliò le labbra, mentre l’uomo osservava Rosa con uno sguardo che trapelava viscidume da tutti i pori. «Che splendida vergine» sussurrò, più a sé stesso che agli altri due. «Da quanto tempo non ne vedevo una così.» Le lasciò andare il viso, chinando il capo con un ghigno.

«V-Vergine?» domandò Edward, atterrito. Spostò lo sguardo su Rosa, mentre due pezzi fondamentali del puzzle si univano nella sua mente. "Il sangue della vergine sarà il prezzo da pagare."

La vergine… era Rosa?! Lei?!

«So cosa ti turba» continuò l’uomo, tornando a guardarlo con i suoi occhi rossi come il sangue. «Siamo… come dire… a conoscenza di quella vostra filastrocca. Il dio delle tempeste, il serpente di Yamata, la vergine. Ma… credo che forse, potremmo trovare un accordo, tu ed io.»

«Un… accordo?» chiese ancora il figlio di Apollo, sempre più disorientato. Com’era possibile che quei tizi conoscessero la profezia? Che lo stessero spiando? Dopotutto, se sapevano anche quello che era successo con Campe, le spiegazioni non potevano essere molte. 

Edward serrò la mascella. Stavano succedendo troppe cose attorno a lui, troppe cose al di fuori del suo controllo, e la cosa lo faceva imbestialire. E ora, questo. Rosa era lì, di fronte a lui. Aveva creduto di averla persa, e invece eccola, e a giudicare dalle parole del rettile, stava bene. Ma questo non migliorava le cose, perché ora anche lei era in pericolo.

«Vedi, è da secoli che non mangio. Come potrai ben capire, ho una certa fame» cominciò l’uomo serpente, distendendo il suo sorriso inquietante. «E una vergine come questa… potrebbe davvero saziarmi come non mi succede da tempo indicibile.»

Edward non credette alle proprie orecchie. «Che cosa?!»

«Per riavere Kusanagi-no-tsurugi, o Ama no Murakumo, come la chiamate voi, sono stato costretto a mandare i miei demoni a cercarti, perché io non sono nelle condizioni di farlo. Sono ancora troppo debole, troppo… affamato, per riuscire a strapparti via la spada con le mie sole forze. Ma…» L’uomo si passò la lingua biforcuta tra i denti. «… questo bel regalo che mi ha portato Naito potrebbe risolvere questo mio problema. E potrebbe aiutarmi a tornare ai miei albori.»

Si voltò verso il trittico appeso sopra l’espositore vuoto della spada. Edward lo seguì involontariamente con lo sguardo e i suoi occhi si posarono sulla creatura serpentesca del dipinto. Ancora una volta, i puntini si collegarono nella sua mente. Quel mostro… era proprio l’uomo rettile. Ma com’era possibile? Quella creatura era gigantesca, mostruosa, una specie di enorme drago verde con un groviglio di teste e code, simile ad un Idra. L’uomo invece era grosso appena quanto Naito, rachitico e malaticcio.

«Se riacquistassi il potere di un tempo, potrei venire a cercarti di persona e spazzarti via con un soffio. Mi prenderei la spada e la userei per rovesciare gli dei. Tutti gli dei. Ma… non deve necessariamente finire così. Posso risparmiare la vita di tua sorella, e anche la tua e quella di tutti i tuoi amici. In cambio, però…» L’uomo sibilò. «… tu dovrai restituirmi Kusanagi-no-tsurugi.»

Il figlio di Apollo schiuse le labbra. «C-Che cosa?» ripeté, ora con tono mite.

«Il sangue delle vergini è ciò che mi fortifica» spiegò il rettile. «Per questo, in passato, quando ancora ero potente, in cambio della preservazione del mondo chiedevo vergini in sacrificio. Le persone mi temevano, si prostravano a me chiedendo pietà, ed era meraviglioso. Ma poi… tutto quanto è finito, per colpa di un dio ficcanaso che aveva deciso di innamorarsi proprio di una delle vergini che dovevano essermi date in sacrificio. Mi ha sconfitto, si è preso la mia spada e mi ha esiliato. Adesso, però, posso nutrirmi di nuovo, e non di una vergine qualsiasi, ma di una piccola dea. La forza che il suo sangue semidivino mi trasmetterebbe… sarebbe stravolgente. Non avrei più bisogno di demoni per prendere la spada, perché potrei occuparmene personalmente. Non avresti scampo, nemmeno utilizzando Ama No Murakumo. Ammesso perfino che tu riesca a controllarla per davvero. Non mi pare che fino ad ora tu abbia svolto un buon lavoro.»

Edward strinse i pugni, ma non replicò. Dopotutto, quella era la verità. Non era riuscito a utilizzare la spada nel momento del bisogno, se non fosse stato per Stephanie, sarebbero tutti morti. Doveva proteggere i suoi compagni, e aveva fallito. Per una volta, non poté fare altro che accettare a testa bassa le parole dell’uomo rettile.

«Tuttavia… posso proporti uno scambio. Non divorerò tua sorella. Riacquisterò le mie forze poco per volta, con il passare degli anni. Non farò alcun male né a te, né ai tuoi amici, né al tuo piccolo campo estivo. In cambio, però, tu dovrai restituirmi la spada.» Il serpente distese il sorriso. «Pensaci bene, piccolo dio. Tu, tua sorella, i tuoi amici, avrete tutti salva la vita. Non è quello che vorresti, del resto? Che la tua nuova famiglia sia al sicuro?»

Edward esitò. Non lo sapeva nemmeno lui, a dire il vero, ciò che voleva realmente. L’unica cosa che aveva desiderato, era poter essere libero dai mostri, poter vivere tranquillo, anche da solo se necessario. Credeva di esserci riuscito, arrivando al Campo Mezzosangue. Ma non avrebbe mai immaginato di incontrare persone come Rosa, Tommy, o Steph. Una sorella che non sapeva di avere, un amico sincero e… una ragazza molto speciale, che non lo aveva guardato dall’alto verso il basso schifata come invece era successo nelle famiglie affidatarie o nelle scuole, che non l’aveva giudicato per via del suo difficile passato.

Era quello che voleva, quindi? Che lui… che tutti loro, anche i ragazzi del Campo Mezzosangue, Derek, Nat, Rick, Paul, perfino Jonathan e il resto dei figli di Apollo, fossero al sicuro?

«Sì, è quello che voglio. Ma…» Edward si mordicchiò un labbro. «… credi davvero che io possa scendere a patti con te? Gli dei mi stanno con il fiato sul collo, non appena sapranno che...»

«Oh, ma qui loro non ci possono sentire» gracchiò l’uomo. «Questa conversazione non sta accadendo realmente, piccolo dio. Sarà il nostro piccolo segreto. Nemmeno i tuoi amici dovranno sapere nulla, altrimenti…» Il rettile osservò di nuovo Rosa. «… immagino tu sappia che cosa accadrà.»

Il ragazzo voleva urlare per la frustrazione. Non importava cosa dicesse o facesse, quel verme avrebbe comunque continuato a minacciarlo di uccidere Rosa. Non poteva fare nulla. Poteva solo guadagnare tempo mentre pensava a una soluzione per uscire da quell’impiccio. «Ma che senso avrebbe consegnarti la spada di mia volontà?! Se cominciassi una guerra contro gli dei, il mondo verrebbe devastato in ogni caso!»

Il suo interlocutore si limitò a ridacchiare, scuotendo la testa. «Quante menzogne che ti hanno raccontato, piccolo dio. Il mondo non ha bisogno degli dei. Se io li sterminassi, non cambierebbe assolutamente nulla. E ti dirò di più: consegnami la spada, e non solo risparmierò te e tua sorella, ma anche ogni altro semidio esistente nel mondo. Dopotutto, non è colpa vostra se siete figli degli dei. Io non ho nulla contro voi mezzosangue. Lo stesso Naito è un mezzosangue, ed è il mio più fedele servitore. Potrete tutti vivere serenamente nel regno che creerò. I demoni sotto il mio comando non vi faranno alcun male, e tutti i mostri che non mi giureranno fedeltà verranno spazzati via. Non avrete più motivi per combattere.»

A quelle parole, Naito ringhiò di rabbia. «E sarebbe davvero seccante, per me. Avanti, piccolo dio. Lascia che il padrone si divori tua sorella. Non ho alcuna intenzione di doverti risparmiare.»

«Via, via, Naito, non essere scortese. La decisione spetta solo al ragazzo.»

Le dita di Edward formicolarono. Ormai era con le spalle al muro. Non voleva che Rosa morisse. E nemmeno lui era proprio in vena di crepare. «E se tu stessi bluffando? Se invece, divorando Rosa, non riacquisteresti proprio un bel niente?»

«Ma potrei comunque ucciderla, no?» Il serpente sollevò le spalle. «Come ho già detto, non hai molta scelta. Rivuoi tua sorella? Consegnami Kusanagi-no-tsurugi. Anche la tua profezia lo dice. “L’insegna rubata restituirai”. A me. Se non lo farai, tu, tua sorella e i tuoi amici morirete tutti e la spada arriverà comunque a me. Hai solo due opzioni, piccolo dio.»

«Ti sbagli. Ne ho di più.»

Per la prima volta, l’uomo serpente parve sembrare sorpreso. «Che vuoi dire?»

«Va bene, hai vinto. Ti darò la spada. Ma tu dovrai accettare le mie condizioni.»

L’uomo e Naito rimasero in silenzio per qualche istante, scambiandosi uno sguardo, poi il primo scoppiò a ridere. «Piccolo dio, lo capisci o no che non sei nelle condizioni di…»

«Chiudi la bocca e stammi a sentire» rantolò Edward, interrompendolo. Il rettile serrò le labbra, osservandolo con uno sguardo del tutto nuovo. Perfino Naito parve scioccato. Edward lo indicò. «Per prima cosa, ordina al tuo cagnolino di ritirare tutti i suoi demoni. Non voglio più vedere uno solo di quei porci per tutto il resto del mio viaggio, o l’accordo salta, e l’unica volta in cui vedrai Ama No Murakumo, sarà quando la userò per tagliarti la testa.»

«Ma come osi?!» tuonò Naito, avanzando di un passo. «Con chi credi di parlare, stupido mo…»

«Silenzio» ordinò l’uomo rettile, posando un braccio di fronte al suo vice, gli occhi incollati su di Edward. Un piccolo sorriso divertito nacque sul suo volto. «Continua.»

Il mezzo demone era incredulo, ma non disse nulla. 

«Bene» proseguì Edward. «Poi, devi dirmi chi diavolo sei tu. Sono stanco di essere contattato da un tizio senza nome che mi tratta come se ci conoscessimo da tutta la vita.»

Il tizio distese quel sorriso che manteneva fede alla sua faccia da rettile. «Sei sicuro di volerlo sapere? Non ti hanno mai insegnato l’importanza dei nomi, piccolo dio?»

«Sono abbastanza sicuro che il tuo non ne abbia alcuna» ribatté Edward.

L’uomo ridacchiò, per nulla infastidito dal tono tagliente del ragazzo. «Come vuoi tu. Il mio nome completo è Yamata no Orochi. Ma in questo momento, sono solo Orochi.»

Edward assottigliò le labbra. Un altro pezzo del puzzle andò al suo posto. Il serpente di Yamata era proprio lui, Yamata no Orochi, che significava “serpente a otto teste”. Orochi, invece, significava solo “serpente”.

«Hai spirito, piccolo dio. È una cosa che so apprezzare» disse Orochi. «Accetterò la tua condizione e ritirerò l’esercito. Dopotutto, non c’è alcun motivo per i miei uomini di cercarti se mi porterai la spada di tua volontà. C’è altro?»

Edward esitò. Stava giocando un gioco pericoloso. Se i suoi amici, o peggio ancora, gli dei, avessero scoperto stava tramando… non ci sarebbe stato alcun lieto fine per lui. Doveva stare attento a cosa avrebbe fatto o detto, una volta sveglio. Non doveva farsi scappare nulla, non doveva nemmeno dare l’illusione che Rosa fosse ancora viva, specialmente a Tommy. Sarebbe stato difficile, ma non aveva scelta. Rivoleva sua sorella, e soprattutto non voleva morire. Ma non era abbastanza. Doveva assicurarsi di sistemare ogni singola faccenda, non poteva correre nessun rischio. Se le cose non fossero andate bene… voleva almeno essere certo di andarsene con la coscienza pulita.

Ripensò alle parole di Chirone. A quello, dunque, si era riferito, quella sera maledetta. Quando gli aveva ordinato di non cedere ai ricatti dell’uomo serpente… si riferiva a quello. Probabilmente sapeva che Rosa era ancora viva e che sarebbe stata usata a vantaggio di Orochi. Per quel motivo lo aveva fatto giurare sullo Stige. Chirone… anche lui aveva cercato di usarlo, di manipolarlo quando ancora poteva farlo, per assicurarsi che facesse ciò che tornava comodo alla sua causa. Se fosse dipeso dal centauro, avrebbe dovuto ignorare Rosa, restituire la spada al museo e salvare gli dei dalla distruzione. Gli stessi dei che avevano votato per ucciderlo senza nemmeno dargli una possibilità, che si divertivano a spese dei mortali e che mandavano semidei al macello solo per risolvere i loro impicci. A quel pensiero, Edward strinse i pugni con forza, poi espirò.

«Ti voglio chiedere solo un’ultima cosa» mormorò, osservando il viso pallido di Rosa, la quale era totalmente ignara di ciò che stava accadendo attorno a lei.

«Non pensi di aver già chiesto troppo?» sbottò Naito, irrigidendo la schiena.

«Basta, Naito» intimò Orochi, con tono severo. «Ti sei intromesso anche troppo, per ora. Hai o non hai dei demoni da ritirare?»

«Ma…»

«Non discutere. Ritira l’esercito, nessuno di loro dovrà più muoversi da qui sino all’arrivo del piccolo dio. È un ordine.»

Naito sembrò voler protestare nuovamente, ma alla fine, per una volta, fece funzionare il cervello e rimase in silenzio. Lanciò un ultimo sguardo carico di odio verso Edward, poi uscì dalla stanza.

Orochi tornò a guardare Edward. «Mi dispiace per il comportamento di Naito. Perde sempre la calma quando si parla di dei. Ma torniamo a noi. La tua ultima richiesta?»

Edward assottigliò le labbra. «Se vuoi la spada, dovrai anche restituirmi mia madre.»

«Restituirti… Kate?» domandò il rettile, sorpreso. «E perché mai vorresti che lo facessi?»

Quella domanda lasciò atterrito il ragazzo. «Come "perché?” L’hai rapita di fronte ai miei occhi! Devi restituirmela!»

«Ti sbagli. Io non ho rapito Kate.»

«C-Che cosa? Ma allora…»

«Mi dispiace, piccolo dio, ma non so cosa le sia successo. All’epoca ero ancora troppo debole. Non ricordavo nemmeno il mio nome, come potevo sapere della sua esistenza?»

«Ma allora come sai il suo nome adesso, perché parli di lei come se la conoscessi meglio di me?!»

«Quando ho riacquistato le energie, mi sono messo sulle tracce di Ama No Murakumo, e inevitabilmente sono incappato nelle gesta della ladra d’arte Kate Model.»

Edward assottigliò le labbra. Non gli piaceva molto il termine "ladra" per definire sua madre. Lei era più… una cacciatrice di tesori. Non aveva mai rubato nulla, aveva sempre trovato gli oggetti che poi aveva venduto visitando luoghi chiusi ai civili, come templi, musei o siti di scavi abbandonati, di tanto in tanto anche qualche tomba. Ok, forse non proprio tutti i luoghi che aveva visitato erano abbandonati, ma comunque…

Per questo motivo all’inizio aveva creduto che proprio Ermes fosse suo padre, era quello che aveva più senso. Apollo, invece… perché mai il dio dell’arte avrebbe dovuto interessarsi a una donna che l'arte la rubava e basta? Non aveva alcun senso.

Orochi proseguì: «Non mi è stato difficile raccogliere informazioni e scoprire tutto ciò che aveva fatto. Questo stesso museo, qui in suolo occidentale, è pieno di opere che sono state sottratte proprio da lei.»

Edward schiuse le labbra, guardandosi attorno. Le rastrelliere con le armi, i dipinti, le ceramiche presente nell’altro salone… davvero c’era lo zampino di sua madre in tutto quello? Allora quello era davvero l’Asian Art Museum, non c’era altra spiegazione. In quali altri musei Kate avrebbe potuto vendere i propri tesori? E forse… forse il verso della profezia riguardante il luogo d’inizio della sua storia parlava proprio di quello stesso museo. 

«Ciò che Kate ha fatto è stato un insulto nei confronti di tutti noi» continuò Orochi. «I suoi furti sono stati veri e propri crimini contro la nostra cultura. Ha trasformato la nostra arte, la nostra storia, in meri oggetti da scambio per arricchirsi. Per questo motivo molti altri demoni, al di fuori di me, erano furibondi con lei. E la scomparsa di Ama No Murakumo deve averli spinti a credere che fosse stata lei a rubarla. Ipotesi che poi si è rivelata veritiera. L’hanno rapita perché speravano di potersi impossessare della spada e avere la forza che essa racchiude, ma dopo la scomparsa di Kate, Ama No Murakumo non ha mai fatto ritorno. In molti hanno perso le speranze, dopo questa scoperta, ma non io. Perché io sono stato l'unico a realizzare che quella donna, in realtà…» Orochi sorrise glaciale. «… poteva aver, involontariamente, tramandato la spada al proprio figlio.»

Il respirò di Edward si mozzò. Si sentì come se la sua mente fosse stata una parete di vetro e le parole di Orochi il mattone che l’aveva appena sfondata. «Ma…» provò ancora a domandare, ma Orochi gli diede le spalle.

«Ora basta, piccolo dio. Non approfittarti della mia generosità. Se proprio ci tieni ad avere altre informazioni su Kate, allora dovrai portarmi la spada. Fallo, e parleremo ancora. Potrei anche aiutarti a cercarla, sempre se è ancora viva. Ma fino ad allora, pazienta. Ci vedremo presto.» Orochi si voltò appena, per scrutarlo un’ultima volta con la coda nell’occhio. «È stato un piacere trattare con te. Fai buon viaggio, e non farti uccidere. Mi dispiacerebbe perdere la spada in questo modo così sciocco.»

Edward avrebbe voluto fermarlo, fare altre domande, ma ormai il rettile era già scomparso nell’oscurità che stava inghiottendo tutta la stanza. Ogni cosa diventò sfocata, le pareti, le teche con le armi, il bozzolo di Rosa, tutto quanto iniziò a svanire. L’ultimo dettaglio che notò, fu il trittico riguardante la battaglia tra Orochi e quell’uomo, con quest’ultimo che, per un attimo, sembrò muovere la testa per osservarlo. 

***

 

Riprese poco per volta i sensi, venendo accolto come prima cosa da un rumore sferragliante e da un tremolio alla testa, come se fosse appoggiata a qualcosa che vibrava. Si massaggiò le palpebre e realizzò di trovarsi seduto. Da qualche parte di fronte a lui, una voce parlò: «Edward!»

Era Tommy. Il figlio di Apollo spalancò gli occhi e l’amico apparve di fronte a lui, con un’espressione sollevata sul volto. Si accorse di Konnor e Lisa, seduti accanto a lui sopra un lungo sedile, entrambi che lo guardavano assorti.

Edward diede un’occhiata attorno a sé, accorgendosi di trovarsi seduto su un sedile simile a quello di Tommy. Un paesaggio sfrecciava a tutta velocità al di là di un vetro, alla sua sinistra, mentre stava cominciando lentamente ad albeggiare. Erano sul vagone di un treno. Ecco cos’erano quei tremori e quelle vibrazioni.

«Edward» lo chiamò anche qualcun altro. Edward si voltò, trovando Stephanie al suo fianco. «Grazie agli dei, ti sei ripreso…» mormorò, per poi distogliere lo sguardo con aria imbarazzata.

«E-Ehi…» balbettò lui. «Dove… dove siamo?»

«Su un treno» rispose Konnor, che come al solito adorava intromettersi e soprattutto dare risposte assolutamente inutili.

«Ok, ma come ci siamo saliti qui?» domandò ancora, voltandosi verso il figlio di Ares.

«L’abbiamo preso alla stazione di Chicago. Ci sono treni che partono tutte le ore, in grandi città come quella è tutto automatizzato ormai. Siamo saliti sul primo che era diretto verso ovest. Probabilmente ci ha ripreso qualche telecamera di sicurezza, ma di notte non c’è quasi mai nessuno a controllare. Speriamo che nel nostro caso non ci fosse proprio nessuno.»

«Ma come siete arrivati alla stazione? Io… non mi ricordo molto, ma ero fuori combattimento, come avete…»

«Ci siamo procurati una macchina con la chiave di Tommy e… beh, fortunatamente Lisa non l’ha distrutta.»

La figlia di Bacco sghignazzò. «C’è mancato poco però…»

«Hai guidato tu?!» domandò Edward, atterrito.

La ragazza scrollò le spalle. «E chi altri? Io sono l’unica, oltre a te, che ha una vaga idea di cosa fare al volante.»

«“Vaga” mi sembra un po’ esagerato» brontolò Konnor.

«Bla bla bla» ribatté Lisa, gesticolando con la mano. «Siamo arrivati tutti interi, no? La macchina era ancora intatta e Thomas ha lasciato il suo stupido bigliettino di scuse per averla presa in prestito. Tutti hanno avuto ciò che volevano.»

Thomas non parve felice di quelle parole, ma non disse nulla. Edward non capiva perché Lisa adorasse tanto tormentarlo, ma poteva immaginare che, continuando di quel passo, il figlio di Ermes avrebbe finito con l’impazzire. Tuttavia, con quella situazione arrivava qualcosa di positivo: se Lisa stava perdendo tempo a trovare modi per infastidire il piccoletto, significava che allora il pericolo era davvero passato. Erano al sicuro, su quel treno, diretti verso la loro prossima fermata senza più nessun mostro assetato di sangue alle loro calcagna, per il momento almeno. Erano tornati a essere cinque semplici ragazzi in viaggio. Malgrado tutto, ad Edward venne da sorridere. Era felice che stessero tutti bene. E, ripensando agli avvenimenti di quella stessa sera, gli veniva in mente solo una persona da ringraziare. Si voltò verso di Stephanie. «Ehi… sei stata incredibile, contro Campe. Io… ti devo la vita, Steph. Ti ringrazio. Davvero.»

Con le sue parole sperò di riuscire a rasserenarla, ma invece sembrò ottenere l’effetto opposto. E anche gli altri tre ragazzi si irrigidirono. Edward lo notò e corrucciò la fronte. Stephanie, dal canto suo, abbassò la testa e fece di tutto per non guardarlo. Forse era perché si era appena svegliato, ma non ci stava più capendo un accidente. Il dolore al volto però fu più che sufficiente per dargli una bella svegliata. Gemette, premendosi una mano sul viso, piegandosi in avanti.

«Edward!» si allarmò Stephanie, posandogli le mani sulle spalle e chinandosi accanto a lui.

Il figlio di Apollo serrò la mascella, soffocando un altro gemito e forse anche qualche imprecazione, e si rimise in posizione eretta, osservandosi nel riflesso del finestrino. E lì, li vide.

Tre lunghi graffi gli attraversavano il volto. Erano le ferite che Campe gli aveva inferto. Non erano guarite, si erano solo cicatrizzate, trasformandosi in orrendi sfregi. Il primo partiva dalla fronte e scendeva passando in mezzo agli occhi, accanto al naso e arrivando fino al mento, sfiorando l’angolo della bocca. Gli altri due partivano invece dalla tempia, attraversavano la guancia per poi concludersi allo stesso livello del primo. Nessuno di loro, fortunatamente, aveva intaccato l’occhio, e da questo piccolo ma importante dettaglio poté intuire il significato delle parole di Naito, durante il suo sogno.

Per un istante, Edward rimase pietrificato, a osservare il volto sfregiato e sfigurato che aveva come riflesso, quelle cicatrici profonde e di quel colore rosa così chiaro, della carne viva al di sotto della pelle del volto. Solamente guardarle gli faceva male. Ecco cos’erano quelle fitte allucinanti. Ecco perché si sentiva come se gli avessero iniettato dell’acido nel volto. Ma soprattutto, ora la sua faccia era davvero orripilante. Sfiorò i tagli con l’indice, stringendo i denti quando un’altra fitta di dolore lo assalì solo per quel minuscolo contatto.

«Il… il nettare non ha guarito bene quella ferita…» mormorò ancora Stephanie, con un filo di voce. Edward tornò a osservarla. Sembrava devastata, quasi come se potesse sentire anche lei il dolore che lui provava. «Noi non… non sapevamo cosa fare… ma forse ora che sei sveglio puoi provare con l’ambrosia… magari ti guarirà del tutto…»

Non sembrava molto convinta delle sue parole. Il figlio di Apollo rimase in silenzio per un istante, poi annuì. A prescindere dall’esito finale, il dolore era troppo forte. Forse l’ambrosia lo avrebbe alleviato un po’. Si voltò verso Tommy, ma non ebbe nemmeno bisogno di aprire bocca che il figlio di Ermes ne aveva già estratto un quadratino dallo zainetto. Mentre Edward lo addentava, il suo amico si schiarì la voce con aria imbarazzata. «Ehm… ho anche un’altra cosa…» mormorò, per poi estrarre alcuni moncherini di legno.

Mentre il sapore dei waffles lo rinvigoriva lentamente, il figlio di Apollo afferrò ciò che Tommy gli stava porgendo, per poi realizzare con sgomento che si trattava dei resti di Veloce come il Vento. Il dolore al viso cominciò a placarsi, ma la rabbia continuò a crescere dentro di lui. I mostri avevano fatto a pezzi i loro zaini e le loro cose e Kaze no yō ni hayai era tra queste. Non aveva usato molto quell’arco, e forse era proprio quello il suo rimpianto più grande. Era stata la sua arma, ed era sempre stato prezioso per lui. Vederlo ridotto così gli fece ribollire il sangue nelle vene. E il peggio era che adesso era totalmente disarmato. Aveva perso il coltellino quando Rosa era stata trascinata nello Yomi, e ora Veloce come il Vento era distrutto. Non aveva più niente, a parte una spada magica che compariva solo quando voleva lei.

«Grandioso» sbottò, stringendo il legno fino a farsi male alle dita. «Davvero grandioso.»

«Stiamo tutti bene, è questo l’importante» disse Konnor. Edward drizzò la testa, incrociando il suo sguardo. Il figlio di Ares si chinò leggermente verso di lui, facendosi serio. «Ma che ti è preso prima?»

«Che vuoi dire?»

«Volevi dare la spada a Campe» spiegò Konnor. «Ma che ti dice il cervello?»

Edward batté le palpebre, credendo di aver sentito male. «Come?»

«Ti ho chiesto se sei impazzito» insistette quello.

«No, quello l’avevo capito. Quello che non capisco è il fatto che tu abbia il coraggio di dar fiato alla bocca dopo quello che è successo.» Anche Edward si sporse verso di lui. «Siamo finiti in quel casino per causa tua, ricordi? Non venire a fare la predica a me solo perché ho cercato di salvare le vostre vite.»

Konnor serrò la mascella. Doveva aver toccato un tasto piuttosto dolente, ma era proprio per quello che Edward l’aveva detto.

«E dimmi…» riprese il figlio di Ares, cercando di mantenere la calma. «… consegnare un’arma divina ad un mostro assetato di vendetta appena evaso dal Tartaro, esattamente, quale utilità avrebbe dovuto avere?»

«E quale utilità pensi che abbiano i tuoi piagnistei? Campe non avrebbe fatto un bel niente con Ama No Murakumo, a malapena riesco a controllarla io, e in cambio sarei almeno riuscito a salvare voi tre! Possibile che tu debba…»

«Smettetela!» esclamò Stephanie. Edward si ammansì come un cagnolino, e anche Konnor sobbalzò.

«Volete sapere cos’è davvero inutile? Mettersi a litigare proprio adesso!» proseguì Steph, allargando le braccia. «Quel che è stato è stato. Entrambi avete sbagliato, fine della storia. Io stessa ho sbagliato! Potevo agire prima ed impedire che tu ti facessi quella cicatrice, o potevo non allontanarmi dalla stanza e impedire che Konnor venisse ingannato! Ma indovinate un po’, ormai tutto questo casino è successo e non c’è più niente che si possa fare!»

Quasi gridò quelle ultime frasi. Fino a qualche ora prima, se avesse visto Stephanie comportarsi in quel modo, Edward avrebbe taciuto e le avrebbe dato ascolto perché, dopotutto, era lei quella sveglia del gruppo. Ma dopo aver visto di cosa fosse davvero capace… forse ora stava tacendo più per rispetto, o paura, che per altro. E così doveva essere anche per gli altri, perché nessuno, nemmeno Tommy o Lisa, estranei alla conversazione, ebbero il coraggio di fiatare o anche solo di staccare gli occhi di dosso dalla compagna.

Stephanie sembrò accorgersi di ciò, perché si schiarì la gola. «In ogni caso, ci sono cose più importanti di cui vi devo parlare, e ora che Edward è sveglio posso farlo. Prima che… prima che succedesse quello che è successo, avevo fatto un altro sogno. Ho visto l’Asian Art Museum, e pullulava di yōkai. Ho anche visto il mezzo-demone che… insomma, quello che ha rapito Rosa.»

I semidei, con eccezione di Edward, sussultarono. Il figlio di Apollo annuì, cercando anche lui di apparire sorpreso. Aveva visto sia Orochi che Naito nel suo sogno, al museo. Era ovvio che con loro ci fossero anche i demoni agli ordini dell’uomo rettile. Ciò che lo sorprendeva, tuttavia, era il fatto che anche Stephanie li avesse visti. Però il sogno che aveva fatto lei era stato prima di quello che aveva fatto lui, perciò dubitava che sapesse cosa lui e quei due si fossero detti.

«L’uomo rettile ci sta aspettando» proseguì Stephanie. «Più ci avvicineremo a San Francisco, più dovremo stare attenti. Non ho nemmeno visto i centurioni romani. Forse si sono ritirati… spero che stiano tutti bene.»

«Dei romani che se la danno a gambe?» domandò Lisa, per poi sghignazzare. «Mi piacerebbe proprio sapere chi sono.»

«Anch’io ho fatto un sogno» si intromise Thomas, osservandosi le mani con aria titubante. «Ho… ho visto il Campo Mezzosangue.»

Edward sollevò un sopracciglio. Non sembrava certo una brutta cosa, quella, ma Tommy sembrava di altro avviso.

«E…» lo incalzò Konnor.

«E…» Il figlio di Ermes sospirò. «E a quanto pare hanno scoperto cos’è successo all’aeroporto. Hanno saputo che la polizia ci insegue e che non completeremo l’impresa in un giorno solo. La… la situazione è peggiorata. Abbiamo perso la fiducia di molti capocasa, e ora Buck e Jane vogliono approfittarne per mettere tutti gli uni contro gli altri per tornare a comandare.»

«Non dirai sul serio…» sbottò Edward. Con tutto quello che stava succedendo, l’unica cosa a cui Buck e Jane riuscivano a pensare era mettersi a creare altro scompiglio?

Konnor sospirò, scuotendo la testa. «Quello stupido…» mugugnò, sicuramente riferendosi al fratello e, per una volta, Edward si trovò d’accordo con lui.

Tommy sembrò voler aggiungere altro, ma alla fine si limitò a stringersi nelle spalle.

«La situazione è grave» osservò Stephanie, per poi annuire decisa. «Ma ce la faremo, vedrete. Se completeremo l’impresa, potremo aiutare anche i nostri compagni al campo. Abbiamo ancora cinque giorni di tempo, e questo treno ci ha già risparmiato un mucchio di strada. Andrà tutto bene.»

I ragazzi annuirono. «Beh…» cominciò Lisa, sorridendole. «… sicuramente, dopo quello che hai fatto a Campe, penso proprio di poter dire con certezza che finché rimarrai con noi è ovvio che andrà tutto bene.»

Steph distolse lo sguardo, imbarazzata.

«Hai… hai sempre avuto tutta questa forza?» domandò Tommy, osservandola quasi intimorito.

«Io… credo di sì, ma fino ad oggi non l’avevo mai tirata fuori.»

«Incredibile… per tutto questo tempo avresti potuto dare una lezione a Jane senza nemmeno battere ciglio.»

«I poteri non vanno usati per quello» ribatté Steph, indurendosi. «La differenza tra me e Jane è che io voglio sfruttare le mie doti per fare del bene, non per ferire gli altri. Se li usassi per vendicarmi, non sarei affatto migliore di lei.»

Tommy avvampò, massaggiandosi dietro al collo. Edward non poté biasimarlo, le ramanzine di Steph facevano sempre quell’effetto. «S-Sì, hai ragione… scusa.»

La figlia di Demetra scosse la testa. «No… scusatemi voi. Sono un po’ stanca, e stressata. Vorrei… evitare di dover parlare ancora dei miei poteri. Approfittiamo di questo viaggio per riposare. Poi studieremo la nostra prossima mossa quando arriveremo.»

«Mi sembra una buona idea» mugugnò Edward, sprofondando contro lo schienale soffice del sedile. 

Il suo sguardo cadde sul paesaggio fuori dal finestrino, una lunga distesa verde pianeggiante. Sapeva, in realtà, che ormai non correvano davvero più pericoli sul fronte yōkai. Se Orochi avesse tenuto fede all’accordo, non avrebbero più incontrato i suoi demoni in giro durante il loro viaggio. Si sentiva in colpa per aver macchinato con il nemico alle spalle di tutti quanti, dei suoi amici, degli dei, del suo stesso padre. Se avesse commesso un passo falso, e avessero scoperto cosa stavano tramando… le conseguenze sarebbero state catastrofiche. Allo stesso tempo, però, se non avesse accettato la proposta di Orochi, a rimetterci sarebbe stata Rosa. E lui non aveva alcuna intenzione di perderla subito dopo averla ritrovata. L’avrebbe salvata, in un modo o nell’altro.

Ancora non riusciva a credere che fosse davvero lei la vergine della profezia. Però… in effetti così si spiegava perché il voto di castità per unirsi alle Cacciatrici non l’aveva infastidita. Ma ciò che lo turbava era altro. Lo aveva capito chiaramente, il corso degli eventi non poteva essere modificato. Se la profezia diceva che la vergine avrebbe versato del sangue, allora sarebbe successo, a prescindere da qualsiasi accordo potesse aver stretto con il nemico. Ed era per questo motivo che l’idea che Orochi avrebbe cercato di fregarlo non aveva smesso di stuzzicarlo per nemmeno un istante. Si sentiva come se stesse camminando su un campo minato. Non avrebbe avuto seconde possibilità, se avesse compiuto un passo falso. Doveva stare attento a che cosa avrebbe fatto, e soprattutto detto, da quel momento in poi. 

E per finire… voleva scoprire cosa fosse successo a sua madre. E avrebbe accettato aiuto per poterla ritrovare da chiunque, perfino da Orochi.

Il ragazzo chiuse gli occhi, sospirando esausto. Anche se si era appena svegliato da un sonnellino, era ancora a pezzi. Aveva perso il conto di quante ore aveva guidato il giorno prima. Si appoggiò meglio contro il sedile e scivolò in un breve sonno ristoratore.

 

***

 

Il loro secondo giorno di viaggio ebbe ufficialmente inizio quando il treno si fermò per uno scalo.

I cinque ragazzi scesero sulla banchina della stazione a cielo aperto, guardandosi attorno confusi. Il sole da poco alzatosi illuminava pigramente il luogo, un edificio bianco, probabilmente la stazione, e la banchina affacciata sui due binari. La stazione aveva poi due ingressi, uno che conduceva alla biglietteria, l'altro a un bar. Erano appena le sei del mattino, perciò i pendolari non erano molti, giusto un paio di uomini in viaggio per lavoro con le teste affondate sugli smartphone e qualche anziano, nessuno dei quali fece caso a loro. Al di là dei binari, si trovava una cittadina che a occhio e croce non poteva contenere più di mille abitanti, con casette bianche e rustiche.

«Dove siamo?» domandò Tommy, aguzzando la vista in cerca di qualche indicazione.

«Non lo so» mormorò Stephanie, per poi osservare la stazione. «Non allontanatevi. Vado a dare un’occhiata alla piantina delle linee ferroviarie.»

«Beh, possiamo venire anche…»

«No» replicò la figlia di Demetra, secca. «Vado da sola.»

Tommy schiuse le labbra. «Ma… perché?»

Stephanie strinse i pugni, folgorandolo con un’occhiataccia. «Perché…» cominciò a dire, alzando la voce, per poi interrompersi bruscamente. Si schiarì la voce imbarazzata, soffocata dagli sguardi sorpresi che ricevette. Un’erbaccia sbucò fuori da una crepa sulla banchina, a pochi centimetri di distanza dai piedi della figlia di Demetra, che però non sembrò farci caso. «… perché vorrei rimanere sola per un momento. Ho… ho troppe cose per la testa e… e non vorrei creare problemi. Ecco…» si mise una mano in tasca, per poi estrarre una banconota che consegnò a Konnor. «… prendete qualcosa al bar della stazione, se vi va. Ci vediamo lì.»

«Va bene» convenne il figlio di Ares. «Tu però sta tranquilla, ok? Il peggio è passato, ormai. Non devi preoccuparti.»

La ragazza si mordicchiò un labbro, per poi annuire timidamente. Si prese per un braccio e diede le spalle a tutti loro, allontanandosi verso l’ingresso della stazione.

«Bella mossa, genio…» gracchiò Lisa, rivolta verso Thomas, il quale divenne più rosso dei propri capelli.

«Dacci un taglio, Lisa» mugugnò Konnor, intascandosi la banconota. Per tutta risposta, la figlia di Bacco sghignazzò. Cominciò a incamminarsi verso il bar, con gli altri due al seguito. Edward, invece, osservò un terzo edificio, quello dei bagni. Aveva bisogno di darsi una rinfrescata.

«Voi andate, io vi raggiungo» annunciò.

«Steph ha detto di non allontanarci» ribatté Konnor, voltandosi.

Edward roteò gli occhi, per poi liquidare la faccenda con una mano. «Se fossi stato io a chiedervi di non allontanarvi, tu mi avresti ascoltato?»

Konnor esitò, e al figlio di Apollo non servì altro. «Ecco, appunto. Ci metto solo un minuto.»

Tommy lo raggiunse. «Aspetta, vengo anch’io.»

Edward scosse le spalle. «Come vuoi.»

«Sicuramente c'è anche un bagno nel bar...» disse ancora Konnor, al che Edward perse la pazienza. «Ma la smetti di rompere?!»

«Ehi, ehi, basta, Konnor. Non lo vedi? Ai piccioncini serve privacy» canzonò ancora Lisa, riuscendo a strappare un sorrisetto al figlio di Ares. Tommy le lanciò un’occhiataccia, mentre Edward, per la prima volta dopo un sacco di tempo, rimaneva senza una risposta per le rime da dare. Si limitò a grugnire e a distogliere lo sguardo.

I quattro si separarono. Mentre camminavano, Thomas affiancò Edward. «Ehi…» cominciò, chiaramente a disagio. «… ehm… riguardo… Campe... perché l’hai fatto?»

«Fatto cosa?»

«I-Insomma… tu… quelle cicatrici…»

Edward si sfiorò d’istinto lo sfregio sul volto. Da un lato, poteva solo ringraziare che Campe non gli avesse completamente aperto la faccia, dall’altro… ormai era marchiato a vita, con quelle tre cicatrici che gli attraversavano il volto da parte a parte. Ormai chiunque lo avrebbe notato anche da un chilometro di distanza. E, non che la cosa gli importasse molto, ma adesso era davvero brutto. Ma davvero tanto. Avrebbe fatto fuggire chiunque da lui con quel muso che si ritrovava.

Thomas sospirò pesantemente. «Quando Campe mi ha afferrato, tu… ti sei intromesso. Hai… hai spostato la sua attenzione su di te, proprio come avevi fatto con Jane e Steph al campo. Ma perché l’hai fatto?»

«Beh…» Edward piegò il capo di lato. «… ti aveva puntato. Non potevo lasciare che ti facesse del male, o peggio.»

«Quindi… l’hai fatto per proteggermi?»

«Certo, Tommy. Sei mio amico, no?»

«Però… però se io non mi fossi spaventato, forse ora tu…» Tommy esitò, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace, Edward… sono stato uno stupido. Dovrei avere io quella cicatrice, non tu…»

«Ehi, Tommy.» Edward batté il pugno contro la sua spalla. «Lo sai cos’è più spaventoso di Campe?»

Il figlio di Ermes corrucciò la fronte. «Ehm…»

«Tua sorella» rispose Edward, sorridendo. «Se ti avessi riportato al campo con la faccia squartata, o peggio ancora, se non ti avessi riportato affatto, Campe sarebbe stata una gita turistica a confronto di quello che Natalie mi avrebbe fatto.»

«N-Nat?» Tommy lo osservò confuso per un istante, per poi annuire. «Giusto… mi ero dimenticato di lei… però… è questo il punto, tu non dovresti proteggermi… dovrei essere io a badare a me stesso. Non… non ho fatto niente di utile, fino a ora» mormorò, mentre un’altra ombra di incertezza scuriva il suo volto. «All’aeroporto, tu, Lisa e Konnor avete combattuto e annientato quei Lestrigoni, e Steph… lei ha sconfitto Campe da sola. Io, invece… ho solamente rubato delle macchine. Forse… forse Buck aveva ragione, io non…»

Edward si rabbuiò. «Non azzardarti a finire quella frase» sbottò, facendo sussultare il figlio di Ermes. «Vuoi dare ragione a Buck? Ma dici sul serio?»

Tommy esitò. «B-Beh, io…»

«Ti ricordi cosa ci siamo detti al lago, la prima volta che ci siamo incontrati?» disse Edward, spostando lo sguardo verso la cittadina, immaginandosi il Campo Mezzosangue al suo posto, con tutte le sue case variopinte, i semidei che trascorrevano la giornata spensierati, il bosco, i satiri, le driadi. Quel posto magico e frustrante al tempo stesso, dove tra alti e bassi aveva stretto amicizie e conosciuto la sua nuova famiglia. E Tommy faceva parte di entrambe le cose. «Non lasciare che i tuoi detrattori entrino nella tua testa. Tu mi hai detto di voler essere un esempio per Rick, per i tuoi fratelli, che vuoi risollevare il valore della casa di Ermes, dico bene?»

«S-Sì…»

«Bene, allora. Se ti piangi addosso non riuscirai mai in nessuna di queste cose. Scusa amico, ma è la verità. So che sembra una frase fatta, ma… devi solamente avere fiducia in te stesso. All’aeroporto sei stato tu a tirarci fuori dai guai, l’hai dimenticato? E devo ricordarti che cos’hai fatto nel bosco, la sera della sfida? Tutte le volte che la situazione si fa critica, riesci sempre a trovare un modo per risolverla. Credimi, non è affatto cosa da poco. Se lo vuoi, anche tu puoi fare grandi cose. E poi…» Edward tornò a sorridere, piegando il capo. «… rubare macchine ci è stato utile, dopotutto. Anche in quel caso hai contribuito all’impresa, che ti piaccia o meno.»

Finalmente, sembrò riuscire a smuovere il figlio di Ermes, perché questa volta ricambiò il sorriso ed annuì in maniera più convinta.

«Dai, non pensare più a Campe. È vero, ho una cicatrice, e allora? Voi state tutti bene, e il mio piano suicida, fortunatamente, non ha funzionato. È questo quello che conta.»

«Sì… forse hai ragione. Grazie, Edward.»

«Figurati. Ora però devi scusarmi, la natura chiama» rispose Edward, per poi spalancare la porta dei bagni.

«Ok, io aspetto qui…»

Edward si chiuse la porta alle spalle. Una volta rimasto da solo, poté sciogliere i nervi. Non aveva detto tutta la verità a Tommy. Certo, l’aveva fatto per proteggerlo, perché Nat lo spaventava per davvero – non riusciva ad inquadrare quella tipa per niente – però c’era dell’altro. In realtà, aveva sperato che… mettendosi davvero in pericolo, provocando Campe, Ama No Murakumo sarebbe apparsa. E invece non era successo. Insomma, se erano finiti in quella situazione, era stata anche colpa sua. Possedeva un’arma divina in grado di spazzare via qualsiasi nemico, perfino di spaventare Chirone e Dioniso, ma non sapeva come diamine usarla. Se non fosse stato per Steph… non voleva pensarci. Aveva creduto per un attimo che fosse davvero arrivata la fine, per lui. Si era arreso… e un po’ se ne vergognava.

Già, anche lui provava vergogna. In effetti… sembrava quasi che tutti e cinque si vergognassero di qualcosa. Forse, malgrado tutte le loro differenze, non erano poi così diversi.

Mentre si sciacquava per lavare via il tanfo dei mostri e del viaggio in macchina, si osservò nel riflesso dello specchio stranamente pulito di fronte a lui. Quelle maledette cicatrici ancora una volta furono un pugno nell’occhio. Quanto gli sarebbe piaciuto poterle cancellare con un po’ di acqua e sapone.

Il ragazzo scosse la testa. Che pensiero stupido. Tornò a ripulirsi. Avrebbe voluto farsi una doccia, ma purtroppo doveva accontentarsi di quello che aveva. Si osservò di nuovo nel riflesso, sospirando, quando il suo sguardo cadde su un dettaglio che prima aveva notato. Nello specchio, alle sue spalle, sopra uno dei muri che separavano gli stanzini dei gabinetti, era di nuovo apparsa quella statua di serpente, la stessa che aveva visto il suo primo giorno al Campo Mezzosangue. Edward spalancò le palpebre, osservando attraverso il riflesso quei maledetti occhietti gialli puntati proprio sulle sue spalle. Prima non c'era, ne era sicuro al cento percento. Trattenne il respiro, rimanendo immobile per almeno dieci secondi, e nulla accadde.

Quella statua era davvero lì, non c’erano dubbi. Si voltò di scatto. Era ancora lì, appollaiata sopra quel muro. E lo fissava. Poteva fissare qualsiasi altro punto della stanza, ma no, fissava proprio lui. Il figlio di Apollo serrò la mascella. Quindi era con quell’affare che Orochi lo spiava? Anche dopo l’accordo che avevano stretto? Non gliel’avrebbe permesso. Avanzò di scatto verso quel coso, pronto a scaricarlo dritto nel cesso, quando accadde qualcosa che mai si sarebbe aspettato.

Un secondo prima che potesse agguantare la statua, quella non solo mosse gli occhi, ma urlò perfino spaventata: «GAH! Stammi lontano

Edward sobbalzò all’indietro, gridando per la sorpresa. Quella cosa parlava?! Quella cosa era… viva?!

La statua si mosse come un lampo, schizzando verso il pavimento, per poi fiondarsi verso una crepa in un angolo. Edward la seguì con lo sguardo per un istante, immobile per lo shock, credendo di starsi sognando tutto, ma quando la vide svanire dentro la crepa, quella parlò ancora: «Sayonara!»

Quello fu ciò che permise a Edward di sbloccarsi. «Ehi! Ehi, torna qui! EHI!» gridò, fiondandosi verso la crepa, ma ormai era già troppo tardi. Si chinò, per osservarci dentro, ma era troppo stretta, e in ogni caso dentro era buio pesto.

«Maledizione!» esclamò, sbattendo frustrato un pugno sul muro. Che cavolo era quel coso?! Aveva parlato in giapponese... che fosse davvero uno yōkai? Lavorava davvero per Orochi?

«Edward!» Tommy si fiondò nel bagno, allarmato. «Edward, tutto ok?»

Il figlio di Apollo si irrigidì. Tommy lo vide chinato a terra, vicino al buco nel muro, e schiuse le labbra. «Ehm… che… stai facendo?»

«Ahm… ecco… n-niente. Non importa.» Edward si alzò, spolverandosi e schiarendosi la voce come se nulla fosse. «Forza, torniamo dagli altri prima che si preoccupino.»

Finì di lavarsi le mani e uscì dal bagno, cercando di ignorare lo sguardo confuso di Thomas. Si affrettò a raggiungere il bar, pregando che l’amico scordasse quello che aveva visto.

   
 
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