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Autore: _Angel_Of_Lust_    20/07/2009    1 recensioni
Non sapeva cosa l'avesse portata lì, nè come ci fosse arrivata. É come se una forza invisibile l'avesse condotta in quel posto, come se nella sua mente lei avesse percorso quella strada buia e solitaria decine e decine di volte. (...) -Chi sei? Perchè vivi qui tutto solo? Da dove vieni? -Mia cara, io abito qui da secoli, da molto prima che lei nascesse...suppongo. (...) Quando un amore finisce in modo tragico, le conseguenze arrivano sempre, prima o poi...anche dopo duecento anni. Perchè l'amore non muore mai. E chissà...prima o poi anche voi sentirete il suono di un organo lontano, da qualche parte...
Genere: Malinconico, Dark, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non sapeva cosa l'avesse portata lì, nè come ci fosse arrivata. É come se una forza invisibile l'avesse condotta in quel posto, come se nella sua mente lei avesse percorso quella strada buia e solitaria decine e decine di volte. Nonostante fossero solamente le quattro di pomeriggio, stava calando la sera, e il sole, da dietro gli alberi contorti e spogli, minacciava di scomparire, colorando le nuvole scure di porpora e blu oltremare. Poco lontanto, i suoi occhi scorsero un castello, bellissimo e conservato perfettamente, nonostante pareva abbandonato da secoli. Non una luce dava segno di vita al castello, ma ella sentiva chiaramente che doveva andare lì dentro. Si accorse che si era fermata proprio in mezzo alla strada deserta, a contemplare quel meraviglioso maniero per più di 20 minuti. Il tempo stringeva, e presto si sarebbe fatto buio, per cui le conveniva andare. Accellerò il passo, camminando lungo un fianco della strada, evitando con cura le spine degli arbusti selvatici e i rami contorti degli alberi che crescevano maleducatamente oltre il loro territorio. Nonostante fosse autunno inoltrato, quella sera faceva piacevolmente caldo. Il vento tiepido le accarezzava le gote, scompigliandole i capelli lunghi e neri con fare giocoso.
Col passare del tempo la strada si faceva sempre più complicata e fitta di vegetazione, finchè giunse ad un tratto dove rimase solamente un piccolo sentiero poco curato in mezzo al piccolo bosco che la separava dalla sua meta. Aveva un pò di timore, a dir la verità. In fondo, lei era sola, la notte stava calando, e ogni traccia di civiltà sarebbe scomparsa insieme alla strada asfaltata che si stava lasciando alle spalle. Ecco, di nuovo quella voce.
"Vai avanti" le diceva "non fermarti, non avere timore, lui ti guiderà".
Lui chi?
"non avere paura".
Quella voce le pareva così soffice e fidata, che si sarebbe definita pazza se non le avesse dato ascolto. Mise avanti un piede con cautela, tastando il terreno selvatico, e dopo avver acquistato un pò più di fiducia, cominciò a camminare. Riecco di nuovo quella sensazione, quella strana voce che le sussurrava frasi dolci e rassicuranti, mentre le mostrava la via. Senza quella voce si sarebbe certamente persa, dato che ad ogni passo le sembrava di perdersi sempre di più nella fitta boscaglia. La luce continuava a calare, lasciando solo un debole raggio di luce che filtrava tra i rami, ma nonostante ciò continuò imperterrita a camminare, seguendo quella voce melodiosa, piena di dolcezza. In più, nelle sue orecchie ronzava una melodia, un eco lontanto di qualche solenne strumento, che ad ogni passo si faceva sempre più nitido.
In breve, dal nulla comparve un elegante sentiero lastricato di pietre, che conduceva proprio alle porte del castello abbandonato. Stanca di dover camminare sulla terra umida e vischiosa, corse sul sentiero, ansiosa di scoprire da dove proveniva quella musica e di chi fosse quella stupenda voce.
Il castello era immenso. Si trovava proprio sul bordo di un precipizio, che terminava con rocce e una fitta boscaglia. Se mai fosse caduta, nemmeno con l'aiuto degli Dei si sarebbe salvata. Sulle cime dei giganteschi contrafforti si innalzavano numerosi pinnacoli, mentre diversi archi rampanti si collegavano ai muri imponenti e massicci. Tantissime finestre bifore a sesto acuto decoravano i muri del castello, con le loro vetrate deliziosamente dipinte. Infinite decorazioni in pietra ornavano i pinnacoli, i pilastri esterni, le cupole e i numerosissimi archi. Inoltre, diverse torri si innalzavano verso il cielo, sfidando la legge di gravità. Una in particolare spiccava su tutte, la più alta e la più grande. Alla base del castello vi era una piccola scalinata in marmo, ove ai lati facevano da guardia due gargoyle marmorei, consumati dalle intemperie, accucciati sopra due piccole colonne di pietra. Nonostante fossero solo statue senza vita, pareva respirassero. I muscoli in tensione, la fronte cornuta aggrottata, la coda serpentina attorcigliata alla colonna, le venature delle ali mostruose. Sembrava che da un momento all'altro avessero spiccato un balzo verso di lei, dilaniandole la carne con i loro artigli bestiali e le loro zanne infernali. Ma tutto ciò non accadde. Si limitarono ad osservarla con i loro occhi vitrei, senza pupille, lasciandola passare con titubanza. Oltre i due gargoyle, dieci piccoli scalini innalzavano il castello sulle proprie fondamenta. Cominciò a salire, stranamente tranquilla, mentre quelle dolci note continuavano ad echeggiarle nella mente, facendosi sempre più intense. Raggiunto il decimo scalino, si trovò di fronte ad un gigantesco portone in legno massiccio, quasi completamente intagliato. Sulla sua superficie, vasti bassorilievi raffugiravano figure fantastiche, tutte estremamente tetre. In alto, schiere di demoni dalle facce mostruose circondavano l'intero portone, chi con musi aggrottati, chi con becchi adunchi. Attorno alla maniglia in argento un piccolo drago serpentino di legno dormiva quieto, nell'attesa di un visitatore. Ciò che però impressionava di più di tutta quella magnifica opera d'arte macabra, era la raffigurazione principale, una distesa di ghiacci eterni da dove emergeva un esercito di demoni degli inferi. A quella vista  il suo animo rabbrividì, ma quella musica così soave e meravigliosa la tranquillizzò, e la invitò a varcare la soglia. Appena si mosse, il portone si aprì appena, quel tanto che bastava per farla passare.
Una volta al suo interno, le si mozzò il fiato. L'aria era tiepida, accogliente, forse resa tale dal calore delle migliaia di candele che le illuminavano il passaggio, appese al muro da eleganti candelabri in argento. L'enorme salone era in penombra, mentre le migliaia di fiammelle tremolavano ad una minima corrente. Un piacevole profumo di rosa aleggiava nell'aria, mentre la melodia si faceva sempre più suadente e tangibile.
"Seguila"
La voce nella sua testa era sicura e ferma, impossibile non ascoltarla, almeno per lei. Mosse alcuni passi, e pian piano i suoi occhi color ebano si abituarono alla semi-oscurità. Pochi secondi dopo, l'immenso salone si mostrò in tutta la sua antica bellezza. Le pareti erano rivestite con pregiata carta da parati nera, decorata da arabeschi floreali bianchi. Dal soffitto a costoloni pendevano tre lampadari in ferro battuto, dove vi erano riprodotte figure grottesche e maledette di demoni e altre creature dell'inferno. Il pavimento di nudo marmo rifletteva quasi con la nitidezza di uno specchio l'enorme scalinata centrale, da dove si accedeva al piano superiore. Pochissimi mobili rendevano l'ambiente accogliente, solamente un armadio di legno intagliato, qualche piccolo tavolino e delle sedie del periodo barocco. Ai lati della sala c'erano due eleganti navate dal soffitto a costoloni, prese spunto da chissà quale cattedrale gotica.
Non aveva intenzione di staccare gli occhi da quelle meraviglie, ma sia la voce sia la melodia si facevano più insistenti, così fu obbligata a procedere. Salì piano la lunga scalinata, stando bene attenta a non inciampare in qualche gradino dispettoso. Giunta al piano superiore, un lieve soffio di vento le mosse alcune ciocche, ottenendo la sua attenzione.
"Vieni, vieni..."
Subito indirizzò il proprio passo verso est, lungo una seconda scalinata più piccola. Stava uscendo dalla sala principale, ed ora stava risalendo lungo una piccola torretta in pietra. Le scale a chiocciola durarono poco, poichè si affaccio in un altro ambiente del castello, più o meno simile al precedente. Era un piccolo salotto privato, con la carta da parati blu scura e argento alle pareti e il soffitto dipinto, raffigurante un gruppo di demoni, nel bel mezzo di una tormenta di neve. Nonostante quelle raffigurazioni così maligne e glaciali, non si sentiva affatto preoccupata. Osservò il modesto mobilio; qualche poltrona, un tavolino barocco e un piccolo quadro di famiglia, poi il vento soffiò ancora. Doveva muoversi.
Camminò lungo un corridoio deserto, attraversò moltissime altre sale, salì altre due rampe di scale, finchè il vento non cessò del tutto. Si guardò intorno preoccupata, ma dopo pochi secondi le chiare note di un organo giunsero alle sue orecchie. "É qui" pensò. Purtroppo però non sapeva più dove andare. Il vento e la voce erano cessati, e la melodia, benchè non fu più solo nella sua mente, la sentiva ancora troppo debole e lontana per riuscire ad orientarsi con essa. Inoltre, si trovava in una situazione alquanto sconveniente. Un lungo corridoio si estendeva davanti a sè, e avrà avuto almeno sei diverse scale a chiocciola, che portavano ciascuna ad una delle tantissime torri del castello. Sei rampe di scale erano troppe, così provò ad accostare l'orecchio e a chiudere gli occhi. Ecco, di nuovo quelle note struggenti, malinconiche, così belle e pure...Le sentiva chiaramente, seppur in lontananza. Sentiva il picchiettare dei tasti, sentiva le note uscire una ad una dalle canne dello strumento. Doveva trovarlo. Provò a concentrarsi, ma non udì nessun tipo di aiuto, finchè un raspare sospetto la costrinse ad attraversare l'intero corridoio. Corse fino al punto dove sentiva chiaramente qualcosa che grattava contro il muro di pietra. Tastò a lungo tutte le singole pietre circostanti, finchè una si mosse sotto il suo tocco. Pochi secondi dopo, la parete di pietra svelò un secondo corridoio, da dove uscì un grosso topo affamato. Ecco spiegata la causa di tutti quei rumori. Ma aspetta...ora il vento era ricominciato, più impetuoso. Ora i suoi capelli fluttuavano leggeri nell'aria, e gli abiti erano leggermente scossi dal vento, che indicava chiaramente la direzione ora.
"Si, stai andando bene. Ora procedi, in fretta! su!"
Quella voce profonda era tornata insieme al vento, per aiutarla a trovare quell'organo, e magari, scoprire chi fosse a suonarlo. Con passo accellerato attraversò anche quel corridoio, e si ritrovò di nuovo davanti ad una scala a chiocciola. Questa, però, era più malsana e infida, in ferro battuto, in alcune parti arrugginito. Non si fidava molto, ma il vento la spinse in avanti, costringendola a prosegiure. Uno dopo l'altro, scalava con fatica tutti gli scalini, che parevano non finire mai. Diede uno sguardo verso il cielo, e vide una sola porta, socchiusa, in cima alla torre, da dove usciva senza sosta quella melodia celestiale. Carica di curiosità, prese a fare gli scalini a due a due, per cercare di fare più in fretta possibile. Giunta infine all'ultimo gradino, si concesse un minuto di riposo, ansimante dallo sforzo. Gettò lo sguardo alla porta di legno, simile al portone d'entrata, solamente più piccolo, e per un istante ebbe paura. Cosa avrebbe trovato oltre la porta? E se fosse tutta opera di qualche stregone? Se l'avesse convinta ad entrare per...no, in cuor suo sapeva che erano ipotesi infondate. Come può essere che il proprietario di una voce tanto carezzevole e profonda fosse un qualche pazzo omicida? No, ne era sicura. Non doveva avere timore. Prese coraggio, appoggiò la mano esile e delicata sulla maniglia d'argento, attese qualche istante ed entrò.
Appena mise piede nella stanza, il possente suono dell'organo la accolse come un vento primaverile, pregandola di entrare. Solamente quando richiuse la porta alle sue spalle si rese conto che il vento si era afflievolito, riducendosi ad un sottilissimo zefiro, delicato come un battito d'ali di farfalla. La musica giungeva prepotente nelle sue orecchie, facendosi strada nella sua testa. La inebriava, come se stesse respirando incenso profumato o qualche spezia esotica. La luce degli ultimi raggi del tramonto entravando dall'enorme vetrata a tutto sesto che occupava la maggior parte della parete opposta, illuminandole il bellissimo viso, dalla pelle chiara e perfetta, come una bambola di porcellana. Alzò gli occhi verso il soffitto, anch'esso costolonato, e spalancò gli occhi quando si rese conto dell'altezza di quella stanza. Era immensa. Aveva più o meno le dimensioni del salone principale, compresa l'altezza vertiginosa. Guardò davanti a sè, e mise a fuoco la scena. L'organo gigantesco era perfettamente al centro della parete, che copriva la prima parte della vetrata decorata in ferro battuto. Le pareti restanti erano celate da elegante carta da parati, questa volta sui toni dell'argento-azzurro, dove piccoli gigli e arabeschi floreali più scuri si rincorrevano e si intrecciavano a formare deliziose composizioni. Nessun mobilio era presente nella stanza, a parte un quadro, sulla parete a sinistra.
Era bellissimo. Raffigurava una donna elegante, ottocentesca, dipinta su uno sfondo totalmente nero. Da lontano non riuscì a scorgere perfettamente le fattezze della dama, così si concentrò sulla cornice, in legno argentato e perfettamente intagliato. Era un quadro di grandi dimensioni, circa un metro per un metro e mezzo, insolito per un ritratto. Cercò di avvicinarsi al dipinto, noncurante del suono che l'organo produceva, insistente e inpaziente. Voleva osservare meglio quella donna. Qualcosa le diceva che aveva qualcosa in comune con lei, e non solamente i capelli neri e la pelle bianchissima...
-Benvenuta, mia cara.
Una voce potente e sensuale sovrastò il suono dell'organo, giungendo alle sue orecchie e distraendola dall'obiettivo. Non aveva visto nessuno in quella stanza, chi poteva mai essere?
-Sono lieto che siate riuscita ad arrivare fin qui. Non è d'ordine comune che una fanciulla così bella come lei visiti la mia dimora, per cui la ringrazio del suo prezioso tempo e della sua meravigliosa presenza.
-Chi sei? Dove ti trovi?
-Mia cara...non crede che sia inconsueto che un tale magnifico strumento si possa suonare da solo?
Si, in effetti non c'aveva minimamente pensato. Era convinta di trovare qualche cosa di magico, o chissacchè. Che stupida. Sforzò gli occhi, dato che le nubi erano ormai scomparse, e gli ultimi, intensi raggi del sole battevano attraverso la grande vertata gotica, impedendole la vista nitida. Dovette avvicinarsi un poco e sbattere più volte le palpebre, per accorgersi che l'artefice di quella melodia così struggente e intensa, il domatore di quel gigantesco animale di ferro e d'ottone, era un uomo. Un semplice, comunissimo uomo. Un semplice, comunissimo uomo che suonava un organo maledetto. Era orribile, le canne d'ottone erano contorte, dando l'impressione di soffrire tremendamente. Le loro bocche non erano quelle di comuni canne d'organo, ma vere e proprie fauci di strambi animali, da cui usciva una strana nube verdognola, simile al vapore delle fetide acque della palude. La vista di una sola delle decine che componevano lo strumento era a dir poco indefinibile, non voglio provare a descrivere cosa provò quando ebbe la visione completa di ciò che era quell'organo. Persino il legno sembrava trasudasse qualche sostanza viscida e putrida, eppure non riusciva a scappare. La musica che usciva da quell'inferno di legno e metallo era soave, dolce, creata da quell'uomo dal talento inequivocabile. La musica non cessava mai, lui era sempre chino sulla tastiera, impegnato a non perdere il ritmo, a non distruggere quel fantastico sogno di melodia. Non si era voltato, o almeno lei credeva, forse lo sperava. In fondo, non si era nemmeno accorta della sua presenza, fin ora. Si avvicinò ancora di qualche passo, fin quando l'ombra dell'organo fu abbastanza lunga e le difese la vista dai raggi troppo lucenti. Allora lo vide perfettamente. Purtroppo era girato di spalle, e non dava segno di volersi girare. Notò che indossava abiti ottocenteschi, eppure non doveva avere più di 18 anni. Aveva indosso un elegante gilet blu scuro di velluto, decorato con ricami non troppo sgargianti o eccentrici, del colore del ghiaccio. La candida camicia copriva le braccia con le sue maniche a sbuffo, molto in voga a quell'epoca. Il suo collo era celato da un bianco colletto inamidato, fermato da un gala infilato gentilmente dentro il gilet. I pantaloni erano neri, da cavalcatura all'inglese, mentre ai piedi indossava degli stivali di pelle neri, calzati fin sotto il ginocchio. Era un abbigliamento eccentrico per quel tempo, questo era certo, ma aveva il suo fascino. Alzò leggermente lo suardo, posandosi sui biondi capelli lunghi, che cadevano ordinatamente tra le scapole, addomesticati da un nastro nero. La sua testa si muoveva dolcemente, mentre i capelli, che parevan oro appena filato, catturavano i pochi riflessi del sole che osavano avventurarsi fin là, fancendoli suoi. La testa ondeggiava a rimo delle sue mani gentili, che parevano volare sopra quella enorme tastiera, sbizzarrendosi in melodie mai sentite prima. Adagio, poi sempre più frenetiche, un breve assolo e il trionfo, seguito da un calare progressivo di toni. E ancora così, ancora una volta, continuando all'infinito, senza stancarsi mai. Sembrava che se si fosse staccato da quell'organo, che se si fosse fermato sarebbe morto. Sembrava che la sua vita fosse attaccata a quello strumento, che quell'organo fosse l'unico modo per farlo rimanere in vita. Dava l'impressione di dipendere da esso, e, in un certo senso, di esserne prigioniero.
Era rimasta affascinata dal modo in cui le sue dita abili toccavano appena i tasti d'avorio e carbone, dal modo in cui agitava dolcemente il capo a destra e sinistra, quasi a guidare le sue stesse mani. Era rimasta ad ascoltarlo per...oh, aveva persino perso la cognizione del tempo. Le sembrava che fossero passate ore da quando aveva messo piede in quella stanza, eppure erano passati solamente una manciata di minuti. Si destò da quella melodia, e, curiosa, cominciò a fare domande a quello straniero.
-Chi sei? Perchè vivi qui tutto solo? Da dove vieni?
-Mia cara, io abito qui da secoli, da molto prima che lei nascesse...suppongo.
Un enorme punto interrogativo crebbe nella sua testa. Secoli? Ok, questo spiegherebbe i vestiti e l'arredamento vecchio stile...ma era assolutamente impossibile! Insomma, avrà avuto 18 anni, come faceva a vivere in questo castello da secoli? La confusione stava cominciando ad albergare nella sua testa.
-Mi stai forse prendendo in giro? Se è uno scherzo, giuro che te lo farò rimpiangere!
-Mademoiselle, mai e poi mai mi permetterei di prenderla in giro! Che i soldati dell'esercito piombino qui e mi taglino la testa de dico il falso! Mi creda, mademoiselle!
-Come faccio a credere a ciò che mi dici se non ti fai neppure vedere in faccia?
Un lungo silenzio calò nella sala, rotto solamente dalle tristi e malinconiche note che tintinnavano nella sua mente confusa. Dopo una lunga pausa, il giovane fece un lungo sospiro, che giunse terribilmente afflitto alle sue orecchie e alla sua coscenza. Forse era stata troppo severa con lui...ma in fondo, chi avrebbe creduto a tali parole?
-Mademoiselle, lei deve credere a ciò che dico...
-Anche se volessi...Come farei?
-Giusta osservazione...ma credo, ma chère, che se le raccontassi come e specialmente il perchè mi trovo qui, lei mi crederebbe ancora meno...
-Beh, provaci almeno!
Un'altra pausa interminabile divise momentaneamente le loro coscenze, ma presto il ragazzo ricominciò a parlare.
-D'accordo, le dirò tutto. Oh, ma che maleducato, non le ho nemmeno offerto un posto dove sedersi. Prego!
-Ma qui non c'è nessun...
Non finì neppure di parlare che un gelo innaturale congelò le sue caviglie, i suoi polpacci, salendo fino alla vita, per poi scomparire e lasciare un piacevole tepore accogliente. Appena sentì che il freddo la stava sfiorando, girò di scatto la testa, e sbarrò gli occhi, non credendo a ciò che stava vedendo. Una miriade di granelli di ghiaccio si stavano solidificando a pochi centimetri dai suoi piedi, assumendo l'elegante forma di una sedia ottocentesca. Non riusciva a credere ai propri occhi.
-Coraggio, si sieda
Come...come faceva a sapere? Che sia...che sia stato lui? La confusione stava diventando sempre più grande. Non voleva star lì a discutere, era estremamente curiosa ed eccitata di ascoltare ciò che quello strano musicista aveva da raccontare, così si accomodò titubante su quella poltrona di ghiaccio, caldo al tatto. Una cosa contro ogni legge della fisica.
-É difficile spiegarle la mia lunga storia, ma se proprio lo desidera, le la racconterò. Le chiedo solamene una cosa, ma chère...non mi faccia domande, o se proprio deve, me ne faccia il meno possibile. Vede, è estremamente doloroso per me ricordare tali avvenimenti, nonostante risalgano ormai decenni orsono, per cui cercherò di spiegarle il più velocemente possibile. Me lo promette?
-D'accordo.
-Bene. Allora cominciamo.
In un attimo, la melodia si afflevolì notevolmente. Solo piccole, timide note uscivano dalle fauci delle canne mostruose, e il fumo verdognolo si fece man mano più incolore. L'atmosfera si stava tranquillizzando, ma era una tranquillità relativa, illusoria. Ma ecco che cominciò il racconto.
-Tutto iniziò nel febbraio del 1791, anno in cui compì i miei attuali 18 anni. In quell'epoca, io ero figlio di un conte, ed ero orfano di madre. In quell'anno avrei dovuto fare la mia entrata ufficiale nella società, come principiante. Mio padre voleva che trovassi presto una compagna con cui condividere la mia vita e i miei averi, e con cui avere dei figli. É normale che un padre desideri che il proprio figlio abbia una vita lunga e prospera, non è così? Bene, il mio non faceva eccezione. Appena cominciai a frequentare feste, banchetti e balli, una moltitudine di bellissime ragazze si presentarono a me, sperando di far colpo e sperando specialmente che io chiedessi la loro mano. Me ne dispiace ancora per loro, ma non fu così. Io non avevo nessuna intenzione di maritarmi a quell'età, la consideravo una banale e vuota tradizione sociale, un obbligo che comprendeva solo cavilli e leggi, non amore. Volevo cambiare le cose. Ogni occasione, per mio padre, era buona per farmi conoscere una fancuilla, ogni sera una diversa. Erano tutte deliziose, senza ombra di dubbio, ma non suscitavano nulla in me, nemmeno il minimo interesse. Nulla. Erano solamente delle bambole vuote. Bellissime, dalla pelle d'alabastro, dagli abiti sontuosi e dalle maniere invidiabili, ma erano tutte vuote. Facevano tutte parte di una gigantesca messa in scena, di una favola creata apposta per me. Ho conosciuto donne dai capelli del fuoco e dagli occhi di bosco. Ho incontrato dame dalla pelle dorata e dai capelli bruni come il nobile ebano. Ho danzato con ragazze dagli occhi di mare e dalla voce d'usignolo. Potevo dire di conoscere la maggior parte delle principianti libere in quegli anni, ma nonostante non ce ne fossero state due che avessero le stesse fattezze, avevano tutte una caratteristica che le accomunava; erano mostruosamente ricche, o erano figlie delle più alte cariche nobili. Che riposi in pace, ma a mio padre non interessava solamente la mia felicità. Interessavano soprattutto i soldi. A me non interessavano affatto, come non mi interessavano tutte quelle bisbetiche ragazzine della mia stessa età. Finchè non conobbi lei. La incontrai a un ballo, me lo ricordo ancora come se fosse ieri...Là, in mezzo alla folla, bellissima e sola. Lei era...era perfetta. La sua pelle era alabastro puro, talmente bianca da sembrare trasparente, eterea. Il suo viso era incorniciato da lunghi capelli neri, più neri delle piume di corvo che le adornavano la complicata acconciatura, insieme a perle purissime e rubini sanguigni. I suoi occhi erano...erano meravigliosi. Non riesco nemmeno a descrivere ciò che provo, solamente rimembrando quello sguardo divino. Erano del colore delle nocciole d'atunno, dalle lunghe ciglia nere. Le sue labbra avevano una linea delicata, semplice, eppure così dannatamente bella. Tutto, in quel viso d'angelo, era perfetto; la fronte, le sopracciglia eccellenti, gli occhi da cerbiatta, gli zigomi impeccabili, il naso dritto, le labbra carnose e la linea della mandibola. Tutto era in perfetta sintonia, così il viso, così come il corpo, celato da un raffinato abito dell'epoca, che pareva essere stato tinto da sangue di vergini. Un corsetto di seta rossa, decorato da rubini e perle bianche, abbracciava delicatamente il suo busto, fasciandole il ventre e facendole risaltare il seno perfetto. Pizzi e volant lo rendevano più elaborato di quanto non fosse già, intonandosi alla magnifica gonna a balze del medesimo colore e stoffa. Aveva delle gambe lunghe e magre, bellissime. Era davvero un angelo, in tutti i sensi. Dovevo conoscerla. Sentii il bisogno irrefrenabile di udire la sua voce, di immergermi nei suoi occhi e di gustare il dolce miele delle sue labbra. Fu mio padre a presentarmela, essendo lei figlia di un pittore molto famoso, e quindi, naturalmente, ricco. Appena i nostri sguardi si incrociarono, il mio cuore si destò dal suo sonno. Me ne innamorai a prima vista.
-Come si chiamava?
Un silenzio imbarazzante calò nella stanza, senza contare ovviamente lo strumento. Non doveva fare domande. Se ne ricordò in quel momento, sentendosi molto stupida.
-...Preferirei non rivelarle il suo nome, ma chère...sarebbe alquanto doloroso per il mio cuore.
-..s-scusami, non intendevo...
-Non vi affannate. É normale questa curiosità, ma purtroppo non posso togliervi questo dubbio, me ne dispiace infinitamente. Ma non crucciatevi, piuttosto, ascoltate ciò che vi dico.
Era estremamente affascinante quel racconto. Di sottofondo, l'organo non smetteva mai di cantare, e le mani del giovane non smettevano mai di muoversi. Ne era totalmente rapita. Non si sarebbe mai più alzata da quella sedia di ghiaccio, nè sarebbe mai andata via da quel castello di pietra e magia.
-Da quando incontrai il suo sguardo non riuscii mai più a smettere di pensare a lei. Occupava i miei pensieri, i miei sogni, tutto. La incontrai più volte, oh, se la incontrai. Inizialmente covava qualche risentimento ingiustificato verso di me, ma riuscii a farle cambiare giudizio, e cominciò a dimostrare un attaccamento nei miei confronti. Quelli furono i mesi più belli di tutta la mia triste e solitaria vita. Ci incontravamo sempre alle feste più importanti, e le dedicavo sempre un ballo, cosicchè potessi specchiarmi ancora una volta in quelle meraviglie che erano i suoi occhi. Oh, quanto amai i valzer e le sinfonie lente...ricordo che in quel periodo frequentavo qualsiasi festa o ricevimento dove ci potesse essere lei, il mio angelo corvino, la mia musa d'alabastro. Certe volte ci appartavamo, finalmente soli, per poter parlare, conoscerci meglio. Era un vero miracolo quando le sue rosse labbra si curvavano a formare quei splendidi sorrisi di cui ho fortunatamente ancora memoria. Era davvero una Dea. Non osai mai violare quelle labbra senza il suo consenso, non volevo toccare la sua pelle così delicata senza che lei me lo permettesse, no. Non volevo che lei pensasse che fossi il solito giovanotto che abbindola una fanciulla con belle parole, solo per poter soddisfare i propri desideri. Mai e poi mai. In lei vedevo una creatura così pura e sacra, che mi pareva difficile pensare che non fosse davvero di natura divina. I mesi passarono, e la nostra relazione migliorava di giorno in giorno, finchè non arrivò lui.
-Lui chi?
-Lui...il maledetto che mi ha strappato dalle braccia l'unica donna che avessi mai potuto amare. É successo tutto pochi mesi dopo. Era una torrida sera di luglio, e in programma c'era una festa di un duca, amico di mio padre. Ero sicuro che lei avrebbe partecipato a quell'evento, perchè il duca che aveva organizzato tutto era suo zio, e aveva chiesto espressamente la presenza della nipote. Quella sera ero estremamente eccitato, perchè avevo deciso di confessarle il mio amore. In tutti quei mesi avevo atteso il momento giusto per poterle dire cosa provavo, e sentivo che questa era la serata giusta. Con mio padre al mio fianco, mi avviai verso l'entrata della reggia, ad ogni passo sempre più eccitato e nervoso. Entrammo dal portone principale nella sala d'ingresso, un'enorme stanza perfettamente illuminata grazie ai giganteschi lampadari in cristallo, che riflettevano ovunque le fiamme delle candele. L'ambiente era addobbato magnificamente con ogni genere di pizzi, fiori estivi e perle d'oriente. Sui gradini dello scalone marmoreo era stato steso un bellissimo tappeto di velluto rosso, segno di un qualche evento importante. Mio padre, sottovoce, mi disse che il figlio del duca si era fidanzato, e che quella festa era in suo onore e in quello della sua nuova fidanzata. Se devo essere sincero, non sono mai riuscito a sopportare quel damerino. Era estremamente arrogante, pieno di sè fino a scoppiare. Ma in quella serata, nulla poteva andare storto, e in fondo al cuore, serbavo un pò di felicità anche per lui. Il ricevimento stava andando meravigliosamente, le risate si susseguivano giocose tra i folti gruppi di nobili, e l'allegria non mancava di certo. C'era però un problema, ovvero che non avevo ancora visto la mia amata tra la folla. Mi sono detto "che sciocco, molto probabilmente dovrà ancora arrivare, in fonto erano solo le 20.30", e acquietai un poco il mio cuore nervoso sorseggiando del delizioso brandy. Ancora risate, allegria, brindisi e festeggiamenti. Le 22.30 arrivarono presto, fin troppo presto, e il mio entusiasmo iniziale si stava tramutando in preoccupazione. Cosa le sarà successo? Perchè non era ancora lì? Si era forse sentita male? Stava bene? Quelle maledette domande continuavano a tormentare il mio povero animo inquieto, e mi ritrovai a gettare nervosamente lo sguardo in direzione della porta d'entrata ogniqualvolta avessi avvertito il minimo movimento. Oltretutto, un bruttissimo presentimento stava calando sul mio cuore, procurandomi dolorose fitte al petto, ma cercai di non farci caso. Alle 23 in punto, da sopra la scalinata spuntò il duca, padrone di casa. Con evidente e comprensiva gioia, annunciò con un sorriso suo figlio e la sua nuova fidanzata. Grida di gioia e applausi si levarono per la sala ancor prima che la coppia si mostrasse, ma appena comparvero dinanzi alla folla, il mio cuore si fermò. Lei era lì. Lei era accanto al mio nemico, bellissima, mentre avvolgeva il suo elegante braccio intorno a quello viscido di quel maledetto. Non riuscivo a crederci, non volevo crederci! ...non poteva essere, non lei! Non il mio dolce angelo, la mia dama, la mia vita! Mi è stata rubata, strappata dalle mani e dalla mia vita!
Il suo tono di voce cresceva di volta in volta, come se ad ogni parola un fantasma gli conficcasse nel petto un coltello, una lama, sempre più a fondo e con sempre più foga. Le sue mani sembravano impazzite, suonavano ad una velocità che fin'ora credeva impossibile, la musica era sfuggita al suo controllo, lo stava dominando. Quella terribile sinfonia era dettata dall'odio, dalla rabbia e dal dolore, dalla disperazione...In quell'istante, l'organo sembrava ancora più orribile, così contorto e scuro. Le bocche che vomitavano fumo verdastro e quella musica fuori dagli schemi, senza alcun riguardo per il musicista e per l'ascoltatore, sembravano sorridere, contorcendo le loro fauci in un ghigno assolutamente diabolico. Più i secondi passavano, più si stava convincendo che quello strumento fosse uscito direttamente dall'inferno, che fosse stato creato proprio dalle mani di Astaroth, Belzebù e Lucifero. Si vide costretta a tapparsi le orecchie per qualche minuto, altrimenti sarebbe impazzita, finchè quell'assordante concerto finì per indebolirsi, ritornando alla tranquillità iniziale. Il compositore era muto, ansimante, senza mai smettere di suonare. La schiena e le braccia contratte in uno sforzo di gran lunga superiore alle sue reali capacità.
-...non avevo più forze. Non riuscivo nemmeno a respirare a causa di quella terribile vista. Lei, il mio usignolo, la mia fonte vitale, era andata perduta, rubata. Quando arrivarono in mezzo alla folla, ancora abbracciati, desiderai di andarmene, il più lontano possibile da loro, lontano da lei. Come potevo sopportare quella vista, quel terribile spettacolo per il mio cuore? Restai in disparte, cercai di non farmi vedere, e attesi. Attesi che lei rimanesse sola. Dovevo parlarle, assolutamente. Volevo che lei mi dicesse perchè aveva deciso di lasciarmi così, senza nemmeno una spiegazione. Attesi ore, finchè lei non si allontanò dal gruppo, dirigendosi verso i giardini dell'edificio. Non ci pensai due volte, e la seguii, senza che nessuno mi vedesse. Quella sera c'era la luna piena, e la sua luce fioca dipingeva il gigantesco giardino dell'argento più puro, rendendo il paesaggio etereo, quasi impalpabile. Aprii la porta a vetri che dava sul prato, e la vidi. Era appoggiata alla balaustra in pietra, con i raggi lunari che le tingevano il viso d'argento, rendendola ancora più bella di quanto non lo fosse già. La chiamai, e appena sentì il la mia voce si girò, con un'espressione indecifrabile. Forse non si aspettava di vedermi lì, e si comportava come fosse stata un coniglio di fronte ad un lupo. Aveva paura di me. Probabilmente perchè sapeva che si era comportata in maniera orribile, che mi aveva tradito, mi aveva illuso, eppure non riuscii ad odiarla neppure per un instante. Mi avvicinai a lei, e le sfiorai la guancia con la mano tremante. Avevo voglia di piangere, ma non lo feci. Non volevo rendermi debole, non davanti a lei. Nessuno dei due parlava, e Dio, quanto mi odio per non averle detto nulla. Non riuscivo a parlare, le parole mi morivano in gola, come se il mio orgoglio le soffocasse, le facesse tornare al loro posto. Neppure lei fiatò, non riusciva nemmeno a guardarmi, e continuava a fissare il pavimento di pietra, finchè alzò la testa, e senza guardarmi sussurrò la mia terribile condanna a morte. "Mi dispiace". Appena le sue labbra si chiusero, appena la sua voce si spense in gola, corse via, stando ben attenta a non inciampare. Mi è parso di vedere una lacrima solitaria correre lungo la sua guancia di porcellana, rischiarata dalla luna d'argento. Mi lascò lì, solo col mio dolore, con la mia sofferenza e i miei rimpianti, le mie incertezze e la mia voglia di morire. Senza pensarci due volte me ne andai immediatamente da quel posto, corsi via, il più veloce possibile verso casa. Non uscii dalla mia stanza per giorni, rifiutandomi di mangiare e persino di bere. Ero rimasto totalmente solo. Mio padre era partito in America per affari, lasciandomi la casa. L'unica cosa che poteva allietare il mio dolore in quelle giornate di solitario inferno era la mia passione più grande, prima che lei entrasse nella mia vita, la mia passione per la musica. Fin dai primi anni di vita ho imparato a suonare il pianoforte, ma da quando la mia vita si è interrotta, da quando il dolore è l'unico sentimento che condisce le mie giornate, ho imparato ad apprezzare questo meraviglioso strumento. L'organo. Passavo giornate intere a riprodurre opere di grandi musicisti, finchè non cominciai a comporre musica da solo. Ovviamente, ogni singolo componimento era dedicato a lei, la mia gemma preziosa.
Non ricordo quanto tempo fosse passato da quando mi ero segregato in casa, ma un giorno mi venne recapitato un quadro, perfettamente protetto e coperto, insieme ad una lettera. I servi appiccarono il quadro al muro, e quando li feci mandare via, chiusi la porta a chiave e tolsi i panni dalla tela. Caddero per terra, e il mio cuore battè forte ancora una volta, battè talmente forte che abbi paura mi uscisse dal petto. Era il suo ritratto. Era lì, bella come sempre, a guardarmi con i suoi meravigliosi occhi nocciola, le ciglia lunghe, le labbra carnose e rosse...indossava gli stessi vestiti che aveva quando ci siamo conosciuti, e questo mi fece commuovere. I suoi capelli erano lisci, lasciati andare sulle spalle, senza particolari acconciature, sempre neri come la pece, e la sua pelle bianca. Oh, se potessi mai toccarla! Ne ricordo ancora il profumo, ma non ho mai avuto la possibilità di toccare quella meravigliosa pelle di seta. Quanti rimpianti, quante occasioni perdute. Presi la lettera, mi sedetti al mio amato organo, lo misi sul portaspartito e la aprii. Appena lo lessi, il mio cuore perse un battito, per indebolirsi sempre di più, scandendo lentamente gli ultimi battiti, mentre suonavo la mia ultima dedica alla mia amata. La mia vista s'indebolì, e le dita cominciarono a intorpidirsi...sapevo che il mio cuore non avrebbe retto, lo sapevo fin dall'inizio, ma ugualmente non mi fermai, continuai a suonare, finchè poco prima che spirassi espressi un desiderio. Era un desiderio dettato dalla disperazione, dalla vendetta ma anche dell'amore. Un desiderio che si è trasformato in maledizione, quella maledizione che mi tormenta ancora oggi, e mi seguirà per sempre, rinchiudendomi tra queste mura.
-Che cosa hai desiderato?
Silenzio. Un terribile, disperato silenzio. Tutto il castello si fermò, tutto era perfettamente immobile, niente osava muovere un muscolo. L'organo era silenzioso. Lui si era fermato, non suonava più. Le dita ancora immobili sui tasti che stava per toccare. Non aveva il coraggio di rivogliergli la parola, di emettere un solo suono. Improvvisamente, l'aria tiepida cominciò a raffreddarsi bruscamente, la sedia di ghiaccio non era più tiepida e accogliente, stava diventando fredda, tremendamente fredda. Si alzò immediatamente, e cominciò a guardarsi intorno, spaventata. L'aria era perfettamente immobile, carica di tensione in una maniera tale che si sentiva schiacciare, soffocare. I muri stavano cominciando a ghiacciarsi, per un qualche strano motivo a lei sconosciuto. Rivolse uno sguardo verso l'organo, e lo vide. Vide il suo viso. Vide quegli occhi, azzurri come il cielo d'estate, farsi improvvisamente ghiaccio, deformarsi in una smorfia di dolore e fissarla insistentemente. Le sottili labbra erano serie, impassibili, anch'esse deformate dalla sofferenza di quell'innocente domanda. Vide il suo viso, il suo splendido, bellissimo viso. La sua pelle era chiarissima, come fosse stata baciata solamente dai raggi di luna. Era...era bellissimo. Bellissimo e innamorato.
-Vuole sapere cosa ho desiderato nei miei ultimi istanti di vita umana?
Non osava muoversi. Era spaventata dal suo sguardo severo, ma allo stesso tempo affascinata. Non distolse gli occhi dai suoi, non osò pensarci nemmeno per un momento. Attendeva che lui parlasse. Fu lui a distogliere lo sguardo, chiudendo gli occhi per un istante e abbassando il capo. Alcune ciocche dei suoi capelli d'oro gli erano scivolati in avanti, sfuggendo alla coda, coprendogli l'orecchio. Dopo pochi istanti rialzò il capo e riaprì gli occhi, guardando davanti a sè. Girò il viso verso di lei, ancora immobile dalla paura e dal fascino, e le sorrise dolcemente. Solo ora si era accorta che una lacrima solitaria era scesa dai suoi occhi di cielo, rigandogli la guancia, lasciando una scia umida di quel dolore che è costretto a sopportare per l'eternità.
-Desiderai...desiderai solamente la tua felicità...desiderai di poter suonare ancora per te, senza mai fermarmi, finchè il tuo ricordo sarà ancora vivo nella mia mente. Ho desiderato di poterti rivedere, un'ultima volta, quando tu fossi stata pronta. Grazie di aver esaudito questo mio ultimo, capriccioso desiderio. Ti amerò per sempre, mia dolce, adorata Selene.
Un lampo abbagliante la accecò, costringendola a chiudere gli occhi e ad accasciarsi a terra, senza forze. Quando finalmente ritornò in sè, si rialzò lentamente, ancora scossa per ciò che era successo. Fece appena in tempo a mettersi in piedi, che rimase a bocca aperta appena si guardò intorno. La grande vetrata gotica era semidistrutta, da dove entrava la neve notturna, ladra e leggera, che si posava ovunque potesse. L'intera stanza era congelata. Non era più completamente spoglia, anzi; molti mobili giacevano lì, distrutti dal tempo e con la brina attaccata, a causa del grande freddo. Diverse poltrone e sedie restavano inermi in un angolo, smembrate delle gambe e dei poggioli, in un mucchio estremamente disordinato. Un armadio di legno pesante era stato spogliato quasi completamente di tutte le sue decorazioni, in alcune parti sembrava fosse stato preso addirittura ad accettate, o comunque colpito con molta violenza. Altri mobili distrutti da qualche vandalo decoravano l'ambiente come se fosse stato un macabro campo di guerra siberiano, e loro ne erano i cadaveri. L'altezza vertiginosa le incuteva ancora più inquetudine, ma ciò che le interessava maggiormente erano il quadro e l'organo. Lui l'aveva chiamata Selene, il suo reale nome. Come faceva a conoscerlo? E lui come si chiamava? Era un fantasma? come...Non riusciva in nessun modo a rispondere a quelle domande, per cui corse vicino al quadro, cercando di risponderne ad almeno una, altrimenti sarebbe impazzita. Ad un passo dal muro, si fermò bruscamente, rischiando di scivolare per via del ghiaccio sul pavimento in marmo. Alzò lo sguardo e rimase sbalordita. Quella donna era identica a lei. Stessi capelli, stessi occhi, stesse labbra, stessa pelle alabastrina...É come se le avessero fatto un ritratto con dei costumi d'epoca indosso. La tela era anch'essa ghiacciata, come la maggior parte dei resti che giacevano nella stanza, ma il viso si vedeva perfettamente. Perse la cognizione del tempo, e rimase ad ammirarlo per quasi mezz'ora, cercando di studiare le fattezze della donna ritratta. Più cercava di trovare qualcosa che le distinguesse, almeno nell'aspetto, più i suoi occhi la convincevano del contrario. Non c'era dubbio. Era la sua sosia. Ma lei cosa c'entrava in tutto questo? Cerco qualche particolare nel quadro che potesse aiutarla a capire, quando vide in basso a destra la firma dell'autore, o meglio, autrice. Selene Swan, firma scritta con una calligrafia perfetta, da vera nobile. Non ci poteva credere. Era il suo stesso, identico nome. Selene Swan. Era la sua discendente, questo era poco ma sicuro, ma sentiva che c'era qualcos'altro. Sentiva nella sua mente voci, suoni antichi e melodie settecentesche. Vide una gran moltitudine di facce mai viste prima, ma che seppe riconoscere. Evocava ricordi di un'altra epoca. In poco tempo capì. Lei era la sua reincarnazione. Lei era la reincarnazione della sua antenata. Lo spirito di Selene Swan, dama del tardo settecento, albergava nel suo cuore, nel suo corpo e nella sua mente. Cercando di autoconvincersi di quel fatto, si avvicinò lentamente all'organo maledetto. La neve cadeva lieve e innocente sulle altissime canne di ottone, ormai ossidato dai secoli, e sul legno sfaldato e roso dai tarli. Una nebbia usciva da sotto lo strumento, un vapore di ghiaccio. Si avvicinò ancora di qualche passo, quando vide qualcosa seduto di fronte all'organo. Un qualcosa di immobile, freddo e senza vita. Lui. Era ancora lì, chino sulla tastiera, nell'atto di suonare le ultime, nostalgiche note della sua vita. Era congelato, conservato perfettamente, superando la prova del tempo. Sulla sua camicia e sul gilet c'era un sottile strato di ghiaccio, mentre sui capelli, un tempo dorati come il grano maturo, la brina aveva trovato dimora. Le mani, dolci e romantiche, erano diventate bluastre dal freddo e dal dolce bacio della morte. Si chinò per osservare il suo viso, anch'esso conservato perfettamente, dalla pelle liscia e grigiastra. Le labbra sottili e sensuali erano rilassate, tranquille, piegate in un accenno di sorriso. Gli occhi, solo quei magnifci occhi erano rimasti gli stessi. Contenevano tutte le sfumature del blu e dell'azzurro, un universo fatto di giochi d'acqua, sculture di ghiaccio e spruzzi di cielo. Leggermente socchiusi, fissavano il portaspartiti, contenente solo un piccolo foglio di carta ingiallita. Allungò la mano e lesse il contenuto, sforzandosi di non piangere dalla commozione.
"La mia anima è libera ora, e saprà ritrovarti, prima o poi. Ti amo. Selene"
Una lacrima dispettosa scappò dai suoi occhi, lucidi di tristezza e di nostalgia. Lo guardò di nuovo, questa volta liberandosi in un pianto di dolore e gioia allo stesso tempo. Pochi momenti fa lui l'aveva trafitta col suo sguardo e commossa con quella lacrima solitaria che solcava triste il suo viso. Ora, quella lacrima, quella stessa lacrima, era congelata sulla sua guancia, e brillava, oh se brillava, come il più puro dei diamanti mai visti fin ora. Con quello sguardo d'amore era ancora più bello. Era riuscito a conservare per secoli la sua bellezza senza precedenti, custodita fedelmente dal suo elemento, il ghiaccio eterno e generoso.
Ora, non le restava altro da fare che chiudere gli occhi, ricordare quanto aveva amato quel ragazzo e sorridere felice, sapendo che lui non era morto invano, rammentando le melodie che lui stesso aveva composto in quei pochi mesi, solo per lei, per la donna della sua vita, per la sua dolce, adorata Selene.
  
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