CAPITOLO QUARANTADUE
Interrotto il passionale bacio, restò solo la curiosità.
Il paesaggio che ci circondava era splendido, ma non avevo
ancora colto tutti i suoi dettagli. Se la distante rocca era molto suggestiva,
avvolta dalla nebbiolina delle giornate afose, la città ai nostri piedi era un
mosaico di colori rossicci, tipici delle tegole, e di verde intenso, tipico
delle foglie in estate.
Purtroppo la visuale restava un po’ più ridotta per quanto
riguardava il resto, ciò che si sarebbe potuto scorgere a una distanza
maggiore, poiché il calore di metà giornata rendeva tutto sfocato e
traballante. La foschia tuttavia non nascondeva le verdeggianti colline
circostanti, e quelli che dovevano essere boschi intervallati da ampi pascoli.
“Molto bello”, tornai a dire, sorridente.
Mi volsi verso Piergiorgio e lo ritrovai a osservare verso
l’alto, i suoi occhi erano infatti rivolti alla Torre dell’Orologio. Avevamo
faticato tantissimo per raggiungerla, ed io in effetti non mi ero neanche
preoccupata di osservarla per bene. Di fattura ottocentesca, la costruzione non
era antica, seppur risultasse suggestiva al cospetto di una prima e fugace
occhiata.
Curata e tenuta bene, la Torre si innalzava rapidamente,
anche se non era una struttura che metteva soggezione al visitatore. Il suo
orologio non era visibile per chi raggiungeva quello spazio angusto.
Mi mossi verso il retro della struttura, provando un profondo
senso di vertigine quando mi ritrovai nella parte più stretta di quella
località abbastanza ostile all’uomo, dove la base della Torre si sporgeva
maggiormente verso la cinta in mattoni che la separava dal baratro sottostante.
Lì ero proprio premuta tra mattoni e cielo.
Mi si accapponò la pelle al solo pensiero di una caduta
accidentale.
Mi ritrassi e tornai dal mio George, che invece non si era
lasciato andare per nulla e si crogiolava all’ombra dell’edificio, proprio al
cospetto del piccolo ingresso dalla porta di legno.
“Mi dispiace, mi sa che non possiamo visitare l’interno. È
chiuso”, mi disse, un po’ rattristato. Un foglio protetto da una busta di
plastica troneggiava sul legno, e lì c’erano scritti gli orari di apertura.
Mi avvicinai, ma non mi misi a leggere, non mi andava e in
fondo non mi interessava più di tanto.
“Se vuoi, possiamo tornare su più tardi. L’orario estivo
prevede l’apertura alle quindici”, tornò a dire George, ma io banalizzai la
questione con una secca scrollata di spalle.
“Non fa nulla, sarà per un’altra volta”, lo rassicurai con
gentilezza. Sicuramente non avrei riaffrontato l’ardua salita per visitare un
ambiente angusto che ospitava qualche schizzo di autori locali sconosciuti al
mondo. Per me non aveva importanza, ma non volevo ferire il mio gentilissimo
accompagnatore.
“Vuoi tornare giù, allora?”, mi chiese allora il mio uomo.
“Sì, dai, così visitiamo meglio la città”, annuii.
Tornammo a prenderci per mano, per poi prepararci alla
discesa. Discesa che si preannunciava panoramica, e pure difficile. Infatti,
mentre salivo non avevo pensato che scendere sarebbe stato a sua volta alquanto
complicato. Gli scalini di pietra erano angusti, impedivano un’ampia falcata, e
inoltre erano leggermente scivolosi anche da asciutti, poiché resi lisci dai
milioni di scarpe e scarponi che li avevano levigati nel tempo.
Mi ritrovai allora a stringere con maggior vigore la mano di
George, ed egli sghignazzò.
“Non hai la stoffa dell’esploratrice”, mi fece notare.
Non gli risposi, fermandomi un attimo a osservare di nuovo la
vista panoramica che si snodava al mio fianco sinistro. Brisighella era ancora
sotto di noi, come se fosse stata il fondo di un precipizio. La vista era
splendida, la discesa un po’ meno.
Più giù, poi, si rese più docile e fu semplice da affrontare.
Quando ci ritrovammo di nuovo al cospetto del bivio iniziale, tuttavia, fu il
turno del mio amante di stringere più forte la mia mano.
“Andiamo alla rocca, dai”, propose.
Gli riservai uno sguardo in bilico tra l’irritato e lo
spaventato.
“Dio mio, no”, soffiai, “non me la sento. Non un’altra
scalata…”.
“Ehi, non ti preoccupare! Ti prometto che non è difficile
come quella che abbiamo appena affrontato”, ridacchiò George. E allora gli
rivolsi un’altra mezza occhiataccia.
“Difficile o semplice, è meglio che non ci sforziamo troppo,
con questo caldo”, provai a giocarmi un’altra carta. Non avevo tanta voglia di
tornare a faticare, contando che la maglietta leggera che indossavo era già
umida di sudore sulle spalle, e non volevo peggiorare la mia situazione.
“Sembri una bambina”, borbottò, e fu il suo turno di
mostrarsi un filino scocciato. E mi dispiacque, mi dispiacque da impazzire.
“Sei propositivo e coraggioso, George, lo so”, gli feci
allora notare, “però non me la sento. E non credo che sia una buona idea
neanche per te…”.
“… perché sono vecchio, vero?”, mi interruppe, come a
completare la mia frase.
Scossi il capo, preoccupandomi di non ferirlo. Stava facendo
così tanto per me… nessuno si era mai messo in gioco in quel modo.
“Non sei vecchio. Hai un animo da ragazzo, più di me. Questa
però è una sfida alla sorte, se ci aggiungi anche il caldo”, gli risposi.
Le mie parole non sortirono l’effetto sperato, né lo
tranquillizzarono, anzi egli mi rivolse un’occhiata infuocata e dalle palpebre
socchiuse. Di quelle colme di decisione, di rabbia. Ce la stava mettendo tutta,
e lo stava facendo per me.
“Tu non sei la mia infermiera, ma sei la mia donna e la mia
compagna. Devo ricordarti che, se lo vorrai, presto ci sposeremo? Ecco, allora
impara a comprendermi anche tu, assecondando qualche mia scelta, per favore”,
si spiegò, leggermente stizzito.
Riconoscendo che io stavo di nuovo peccando di egoismo, e
ascoltando le sue ragioni, riconobbi nuovamente che ero io stessa a frenare
quel prezioso momento condiviso, invece di farne tesoro. D’altronde, non era
giusto che io scegliessi al posto suo, dopo che lui mi aveva portato fin lì e
mi aveva aperto gli occhi. No, non lo era affatto.
Mi avvicinai e lo baciai sulle labbra, in tacita ricerca di
perdono.
“Andiamo pure”, affermai dopo il rapido contatto, sforzandomi
di donargli un raggiante sorriso. Se lo stava meritando.
Piergiorgio parve molto felice e soddisfatto della mia
reazione, e stringendomi di nuovo la mano si catapultò letteralmente verso il
sentiero che non avevamo ancora percorso. Vedendolo contento, fui contenta
anche io.
Ben presto notai con evidenza che il mio George non mi aveva
mentito affatto; la salita era più dolce, più tranquilla. Qualche punto ripido
c’era, ma era nulla in confronto alla scalata per raggiungere la Torre
dell’Orologio. Oppure ero io, forse, che ormai mi ero abituata.
Ogni tanto, ci capitava di passare a fianco di alcuni cortili
recintati, e i miei occhi correvano verso quelle casette isolate sul pendio
della collina.
“Pensa a chi vive qui, che a valle deve scenderci a piedi”,
mi fece notare il mio accorto accompagnatore.
“Io non lo farei mai. Poi chissà se ci vivono…”. La mia era
una mezza domanda, quasi retorica e senza punto interrogativo. Pareva infatti
evidente che fossero abitate, poiché nei cortili erano presenti cani e gatti, e
le finestre erano aperte.
Tuttavia, pareva che non ci fosse alcuna persona in
movimento.
“Se tira una scossa di terremoto, questi restano isolati di
certo”, riprese a dire George, questa volta con un velo di tristezza.
Gli sferrai una delicata gomitata.
“Per carità, non portiamo sfiga”, dissi, scaramantica. Sapevo
che quella era una zona fortemente sismica, non mi pareva il caso di pensare a
un possibile dramma.
Proseguimmo ancora per un po’ in silenzio, continuando la
salita e ritrovandoci presto al cospetto di scalini veramente ripidi, come
quelli di poco prima. Anche se la rocca ormai era a una decina di metri sopra
di noi, quindi non si trattava di una scalata folle.
Con un sospiro, e lasciandomi affiancare dal mio amante,
proseguii la salita.
Un breve varco si aprì al nostro cospetto, un po’
all’improvviso; nel bel mezzo di esso, una grande pianta di Opunzia si era
impadronita di gran parte della piccola piana, senza però invadere il sentiero
di pietra.
“Non credevo che queste piante vivessero anche quassù”,
borbottai, stupita. La cactacea era tra l’altro in buona salute e sembrava
essersi adattata bene all’altura.
Dall’evidente grandezza, si comprendeva che doveva essere lì
da almeno un paio di decenni.
“Strano, vero?”, mi domandò come risposta il mio George,
anch’egli pensieroso al cospetto della lussureggiante pianta grassa.
“Ma quanto è spinosa”, notai, poiché l’Opunzia in questione
sembrava una palla di spine. Non era come quelle classiche, con spini lunghi
oppure piccoli, un pochino radi. Quella era veramente una foresta di
pungiglioni, intricata. Le pale erano impossibili da afferrare a mano nuda.
“Sarà una varietà più resistente delle altre. Si vede che è
diversa”, fu costretto a riconoscere anche il mio fedele accompagnatore. “Anni
fa c’era già, ma era più piccina rispetto a ora”, aggiunse, poi.
Gli sferrai una leggera gomitata, per scherzo.
“Chissà quante fiamme hai portato quassù!”, esclamai,
divertita. Piergiorgio però non la prese bene e avvampò subito in volto.
“Non sono una persona poco seria…”, mormorò.
“Lo so, lo so”, lo rassicurai, smettendo di sorridere.
Evidentemente, non ero brava quanto lui a dosare l’ironia.
Per farmi perdonare, gli scoccai un rapido bacetto sulla sua
ispida guancia, invitandolo a tornare ad affrontare la breve salita che era
rimasta di fronte a noi.
Restammo in silenzio per un po’, ancora soli. Sembrava che
nessun coraggioso stesse percorrendo le nostre stesse orme. La salita era
ripida e difficile, nella sua parte conclusiva, ma ormai ci eravamo abituati e
sembrava un gioco, rispetto a quella che ci aveva condotto alla Torre.
Con fatica e col fiatone, ci ritrovammo al cospetto della
rocca e della sua grande mole, anch’essa incastonata su uno sperone roccioso
che a suo tempo doveva essere davvero difficile da assediare e attaccare. E
lassù, oltre a trovarci al cospetto dell’ennesimo portone sbarrato, incrociammo
il primo essere umano.
Si trattava di un signore che indossava abiti da lavoro e
aveva tra le mani un lungo scalpello da speleologo. Sembrava un tipo strano a
prima vista, però si dimostrò affabile, poiché non appena ci notò ci venne
incontro sorridendo.
“Visitatori, finalmente! Complimenti a venire fin qui, con
questo caldo”, quasi ci accolse.
George sorrise a sua volta, cortese e accomodante come
sempre.
“Siamo coraggiosi”, sancì, quasi fosse un’ammissione.
“Peccato che la rocca sia chiusa, a quest’ora”, tornò a dire
il nostro nuovo e inattesto interlocutore.
“Qui fate orari strani, si vede che siete gente di
montagna!”, George provò a fare una mezza battuta. Il signore rise.
“Voi della piana non avete orari. Lasciate che le tradizioni resistano,
almeno qui…!”, rispose a sua volta con ironia, stringendo poi il suo
martelletto e picchiettando su un piccolissimo sperone di nuda roccia che
riaffiorava dal sottile strato di terra che pareva rivestire la vetta del
picco. Con sorpresa, essa si frantumò subito, al primo contatto.
“E’ friabile, eh?”, domandò il mio compagno, che curioso come
sempre si chinò a raccogliere il frammento, passandoselo poi tra le mani.
“Il gesso lo è sempre”, affermò con decisione il signore,
allungando poi la mano per riprendersi quel campioncino di materiale.
“Gesso?”, domandai io, senza pensarci troppo.
Ricevetti subito un paio di occhiate storte.
“Signorina, sì, questo è gesso. Qui è tutto costruito su un
giacimento di gesso”, puntualizzò di nuovo il signore.
“Ci troviamo nella vena del gesso, Isa”, aggiunse il mio
amante, rigirando il coltello nella piaga. In quel preciso istante riaffiorò
tutta la mia ingenua ignoranza. Ahimè, non avevo mai amato leggere, e neppure
informarmi sul territorio in cui vivevo, oltre che a quello della mia regione.
E avevo fatto così una pessima figura.
Preferii quindi incassare il colpo e tacere, annuendo come se
in realtà avessi commesso una sbadataggine.
Per fortuna, il mio George amava chiacchierare e fare
domande, la sua curiosità era insaziabile e pareva non avere limiti.
“Come mai raccoglie campioni?”, domandò, infatti, mettendo
immediatamente in secondo piano il mio mezzo strafalcione.
“Sono un geologo, ho la passione dei minerali”, rispose il
gentile signore, tornando a sorridere.
“Ho visto che qua avete anche delle belle piante grasse…”,
aggiunse Piergiorgio, indicando con la mano la grande Opunzia che si stagliava
poco più giù di noi.
“Be’, su un terreno roccioso si trovano bene, poi se mettiamo
anche che il nostro clima sta cambiando…”.
L’interessante considerazione dell’uomo parve incoraggiare il
mio amante, che cominciò a chiacchierare con vigore, ripercorrendo con la
memoria gli inverni di quando era piccolo e anche quelli di cui gli avevano
parlato i suoi genitori.
Lasciai il mio compagno per qualche istante in buona
compagnia, approfittando della posizione privilegiata per tornare a osservare
il fantastico paesaggio. Ora la Torre dell’Orologio sembrava molto distante,
avvolta dalla foschia. Eppure, ben sapevo che era a soli dieci minuti di
impegnativa scarpinata.
Nel frattempo, si era alzato un venticello che donava un po’
di fiato, spazzando via la calura eccessiva del mezzogiorno imminente.
Osservai ancora ciò che mi circondava, puntando lo sguardo
sulla rocca, che sembrava anonima e solitaria, come abituata alla solitudine
che l’aveva avvolta da sempre. Sotto di me, i soliti tetti di Brisighella non
offrivano nuovi scenari.
Mi sentivo finalmente libera, come se i ricordi dei giorni
scorsi appartenessero a molti anni addietro. Anche solo il giorno prima, trascorso
al mare, mi sembrava ormai sfocato e quasi dimenticato.
E poi… ecco, mi tornò alla mente solo lui; Riccardo. Fu come
un fulmine a ciel sereno. Mi ritrovai con il magone in gola, all’improvviso, e
lottai per reprimere una sensazione di disagio.
Lui non era neanche un amico, non era nulla per me e non
avrebbe mai più avuto nulla da spartire con me. Era una sorta di capitolo
chiuso, di quei piacevoli incontri casuali che lasciano il segno.
Era solo un bel ricordo, e come tale doveva essere adeguatamente
riposto nei meandri della mia mente.
A interrompere quello strano momento catartico fu
Piergiorgio, che evidentemente si era stancato di chiacchierare con lo
sconosciuto ed era tornato ad avvicinarsi a me.
“Scendiamo, che ne dici?”, m’interpellò. “E’ quasi
mezzogiorno, è ora di pranzo”.
Annuii, distratta.
Tornai in me in modo totale solo quando mi prese di nuovo per
mano e tornammo ad affrontare una nuova discesa.
Salutammo il cordiale signore, ancora alle prese con la
ricerca di alcuni frammenti di minerale, e osservammo per un’ultima volta
l’Opunzia, prima di tornare in fretta al borgo.
Una volta giù, ci ritrovammo ancora tra le antiche viuzze di
un centro storico d’altri tempi.
“Sono pentito”, affermò George, a quel punto. Mi volsi a
osservarlo; era sudaticcio e mi sembrava molto stanco e provato. Tuttavia, a
sua volta mi guardava con i suoi occhi magnetici e pieni di vita.
“Non capisco”, risposi, senza riuscire a comprendere il
motivo di tal dispiacere.
Lui scosse la testa, piano.
“Non avevo pensato di venire qui, come ti ho detto. E allora
ho preparato un pranzo al sacco, che ho lasciato in macchina, nel cestino. Solo
che ci sono tanti ristoranti, e non vedo perché non dovremmo approfittarne…”,
si spiegò, imbarazzato.
Gli sorrisi.
“Non c’è problema, mangiamo quello che hai preso da casa. Non
ha importanza il ristorante, anzi, preferisco un bel pasto all’aperto”, lo rassicurai.
“No, no, andiamo al ristorante”, insistette, “scegli quello
che preferisci”.
“Davvero, smettila George! Così mi fai sentire solo in
imbarazzo. Preferisco ciò che hai preparato tu, il ristorante può aspettare un
altro giorno. Tanto sono tutti uguali, ormai”, affermai, decisa. Era vero; lui
era stato così premuroso, perché sciupare tutto? La nostra in fondo era un’uscita
romantica, e si stava svolgendo tra la natura e le opere architettoniche
antiche. Era come se il ristorante fosse alquanto fuori luogo.
Il mio amante parve convincersi, e in silenzio riprendemmo a
muoverci verso la macchina.
“Aspettami qui, seduta su qualche panchina. Ci penso io, in
fondo è colpa mia”, borbottò, impacciato.
“Non pensarci neanche! Ci vado io, aspettami tu”, esclamai,
vinta anche dai sensi di colpa. George era sempre molto premuroso nei miei
confronti, e non solo. Egli pensava sempre a me, al mio benessere e alla mia
tranquillità; io per lui ero sempre venuta prima di tutto. Ero io quindi
l’egoista di questa nostra favola.
Volevo sdebitarmi per i bei momenti che stavamo trascorrendo
e per quello che stava facendo per rendermi una persona migliore, una donna
amabile.
“Allora andiamo assieme”, sancì, e mi sorrise con
riconoscenza. Aveva apprezzato il mio pensiero.
Soddisfatta, tornai ad afferrare la sua mano e a stringerla.
Non esisteva alcuna differenza tra noi, solo la nostra pelle a dividerci.
Avevamo lo stesso cuore, che batteva a un ritmo regolare. Lo amavo, alla
follia.
Nel nostro breve percorso a ritroso, notai più volte insegne
di locali e menù esposti da poco, tuttavia nulla mi garbava. Si parlava di
pasta, ragù di carne, e solite cose. Non aveva importanza.
Preoccupato, Piergiorgio scaricò dal fuoristrada il nostro
pranzo, mentre dentro al veicolo l’aria era già pressoché irrespirabile per via
del caldo, con il sole che rendeva roventi i vetri e la carrozzeria.
“Non so se sarà più commestibile”, tornò a dire, con un tono
davvero scoraggiante.
“Oh, su! Dai, adesso sei tu il più scoraggiato dei due”,
dissi gentilmente, come a volerlo risollevare di morale. “Andrà tutto
benissimo, non ha importanza”, proseguii.
“E’ che per te vorrei sempre il meglio”, mi disse, e allora
lo abbracciai e lo strinsi fortissimo a me.
Contrariamente alla giornata trascorsa in riviera, là in
collina non c’era né traffico né passanti, era un clima così rilassato e
tranquillo che mi spingeva a sentirmi ancora più libera. Più me stessa.
“Cerchiamo uno spazio verde, che ne dici?”, lo interloquii.
“Va bene, d’accordo”, concordò, sciogliendo l’abbraccio, “ho
già un certo languorino!”.
Camminammo di nuovo verso il centro del borgo, fino a tornare
al punto in cui eravamo partiti poco prima; un’altra sfacchinata che mi aveva
veramente stancato.
“Io non ne posso più, dai, fermiamoci”, invocai la clemenza
di George.
“Oh, manca così poco”, disse lui seccamente, continuando a
tenere ben saldo il cestino da picnic.
Capendo dove voleva andare a parare, l’assecondai al fine di
tornare a raggiungere il punto in cui le stradine si biforcavano verso le
scalate che conducevano alla rocca e alla Torre. Lì c’era un ampio e isolato
spazio verde, dove gli alti alberi donavano frescura e i cespugli bassi e
lussureggianti offrivano riparo da occhi indiscreti.
George aveva portato anche una bella tovaglia su cui
accomodarci, e la distese sul terreno asciutto. Io mi occupai poi di aprire il
cestino e di preparare i viveri.
Il pasto era abbondante; c’erano diversi panini, un paio di
appositi contenitori di plastica contenenti della pasta e dell’insalata di
riso, e per finire qualche frutto e una fetta abbondante di ciambella. Insomma,
era davvero completo.
“Ma l’hai preparato tu, o l’hai fatto fare alla donna di
servizio?”, gli chiesi, stupita da una preparazione così ampia.
George rise.
“Mi sono messo di impegno e di buon ora, ma ti garantisco che
è tutta farina del mio sacco”, mi garantì.
“Si vede che è tutto preparato con grande amore”. A quelle
parole, mi diede un leggero bacetto sulla guancia destra, allungandosi verso di
me.
“Tieni”, dissi poi, estraendo l’ultimo pacchetto, che
conteneva un paio di posate a testa. Sul fondo giacevano le bibite, due
aranciate e due bottigliette di acqua, con due bicchieri di vetro.
“Preferisco la pasta, se non ti dispiace”, dissi,
accaparrandomi subito uno dei due contenitori contenenti la pasta fredda.
“Puoi scegliere quello che preferisci”, fu la sua risposta.
Inutile aggiungere che mi abbuffai; avevo una fame da lupi, e
come se non bastasse le pietanze che il mio uomo aveva preparato erano tutte
fantastiche. Mangiai anche la mia porzione di insalata di riso, un panino, e poi
anche la pesca e due albicocche.
“Per fortuna che non facciamo tanti picnic, altrimenti presto
sarei diventata una balena”, ridacchiai, facendo un po’ di ironia a riguardo di
tutto quello che avevo mangiato.
“Sarà stata una tua impressione, perché non ho preparato
niente di che. Si tratta solo di piccole porzioni fredde, un pasto davvero
misero”, replicò George, felice tuttavia che stessi gradendo così tanto.
“Ho preferito questo pasto a quello di un ristorante”,
affermai con sicurezza. Non mi andava la carne o stare seduta a tavola per
oltre un’ora e mezza, tra l’altro con un caldo così e la consapevolezza che nel
pomeriggio ci sarebbe stato da camminare. Insomma, non volevo mangiare pesante.
Era vero che avevo sbafato la parte di prelibatezze che
Piergiorgio aveva appositamente preparato per me, però non si trattava di cibo
che rischiava di restare indigesto.
Inoltre ci circondava la natura, i suoi uccellini che
cantavano sugli alberi, e le antiche mura di uno splendido borgo medievale, uno
tra i più antichi e meglio conservati della Regione. Cosa potevo desiderare di
più? Presto capii però che, passata la fame del corpo, restava solo quella
dell’anima.
“George”, mi venne spontaneo chiamarlo, mentre era ancora
alle prese con la sua fetta di ciambella.
“Dimmi”, rispose con prontezza. Lo osservai e attesi un
istante, in modo che completasse il suo pasto, poi mi allungai verso di lui e
lo baciai sulle labbra.
“Grazie per quello che mi stai facendo vivere oggi”, gli
dissi.
Lui parve un filino imbarazzato e si ritrasse di qualche
centimetro da me.
“Non è nulla di speciale”.
Sorrisi.
“Lo è, invece”, e gli passai ambo le braccia attorno al
collo, “grazie. Era da tanto tempo che non trascorrevo delle giornate così
fantastiche… vorrei che anche quest’oggi durasse in eterno”.
“Nulla dura per sempre, amore mio. Il tempo è un inganno, è
l’unica legge della vita. Ed è implacabile nel suo scorrere”.
Lasciai che infilasse il suo viso nel mio petto, poco più
sopra dei seni.
“Noi almeno lo stiamo mettendo bene a frutto”, mi venne
spontaneo dirgli.
Di certo, con il mio ex avevo messo a frutto molte meno cose.
Così poche che non mi era rimasto niente.
“Il tempo è un’entità inafferrabile, mia carissima. Spero
davvero che noi lo stiamo utilizzando al meglio”, sancì George, che sciolse la
stretta. Forse nel timore che il contatto potesse sfociare in qualcosa di più,
poiché ormai sapevamo bene che a volte non sapevamo come trattenerci e
l’istinto si faceva vorace.
Notando il leggero rigonfiamento dei suoi pantaloni, capii
con maggior evidenza il motivo per cui stava evitando il prolungarsi delle mie
moine. Restai infatti in silenzio a guardarlo, mentre ormai si era divincolato
da me e con alcuni gesti impacciati si era messo a sistemare il cestino, raccogliendo
ciò che avevamo sparpagliato sulla tovaglia.
Capivo la sua scelta molto razionale e corretta, ma preferivo
fosse lui a rompere quel velo di imbarazzo che era calato su di noi.
“Che ne dici se completiamo la visita alla città, andando a
dare un’occhiata alla Via degli Asini?”, domandò infatti poco dopo, senza
lasciarmi a languire per troppo tempo.
“Va bene”, acconsentii. Dovevo ricordare che eravamo in gita,
non in casa nostra.
Lo aiutai a ripiegare la tovaglia, e fummo presto pronti per
tornare a camminare. La fortuna volle che la fantomatica Via fosse proprio lì
vicino, e la raggiungemmo davvero in fretta.
“Oh”, mormorai, osservando quell’ennesimo luogo insolito.
La Via degli Asini era davvero un posto strano; a metà tra la
strada e un porticato antico, appariva molto lunga a un primo sguardo e il suo
basamento era tutto disconnesso. In alcuni punti erano presenti delle sorte di
dossi, ove il pavimento si era alzato, mentre in altri c’erano delle conche.
“Leggi lì”, mi consigliò il mio accompagnatore, indicandomi
la targhetta color oro che era stata assicurata al muro retrostante.
Mi avvicinai e lessi con attenzione crescente.
La Via del Borgo o
degli Asini
Costruita probabilmente
nel XIV secolo, permise di realizzare in uno spazio ristretto una strada
sopraelevata, un baluardo difensivo e un nucleo abitativo. Risulta storicamente
che da questi archi i “Brisighelli”, famosi soldati di ventura, impedirono nel 1467
alle truppe del duca di Urbino, Federico da Montefeltro, di penetrare in paese.
La denominazione “Via degli Asini” deriva dal fatto che di qui transitavano
file di animali da soma che trasportavano il gesso delle cave sovrastanti il
borgo.
Mi guardai meglio attorno e notai che in effetti molti
portoni sembravano incastonati nel muro, più avanti, assieme a tanti
campanelli… quindi quella parte antichissima del borgo era ancora abitata.
Presi per mano George e riprendemmo la nostra esplorazione,
relativamente rapida, poiché dopo qualche altra decina di metri la Via si
esauriva e tornava a far convogliare i suoi visitatori nelle strade meno
antiche.
Tirai un sospiro profondo.
“E’ stata una vera emozione. Questa antica Via è… non lo so,
è stato come camminare nella Storia”, ammisi. Non c’era nessuno, eravamo stati
da soli ad aver percorso in silenzio quel luogo storico, godendoci il momento.
Piergiorgio tornò a sorridermi.
“Sono lieto che ti sia piaciuta”.
Sorrisi a mia volta, stringendomi nelle spalle.
“Solo che ormai è ora di tornare a casa. Che ne dici? La
città l’abbiamo visitata tutta. Oppure vuoi aspettare per cenare da qualche
parte?”, tornò a interpellarmi. Non ci pensai su neanche per un secondo.
“A malincuore, ma andiamo a casa. Domani torno a lavoro, non
voglio giungerci sfinita”, dissi, tornando mogia. Lui mi passò un braccio
attorno alla vita, consolandomi.
“Qua ci possiamo tornare tutte le volte che vuoi e quando
vuoi, intesi? Ma adesso, come mi hai fatto notare, è giusto pensare anche al
domani”. Annuii.
Il ritorno alla macchina fu triste e mogio, con i miei occhi
che non abbandonarono Brisighella fintanto che l’ultima sua casa non rimase
alle mie spalle, con il fuoristrada che si allontanava velocemente.
Una volta a casa, sapevo cosa fare. Avevo tutto molto chiaro.
Rientrai e salutai la mamma, rassicurandola e dicendole che
era andato tutto benissimo, però ero molto stanca e volevo restare un po’ sola.
Salii in camera e mi svestii, poi feci una doccia.
Infine, tirai fuori dall’armadio la valigia con cui ero
tornata a casa di mia madre, e la riempii con i miei pochi oggetti personali.
Era giunto il momento di prendere una decisione… il fatidico momento di
scegliere.
Con un sospiro molto profondo, la chiusi appena fu piena e me
la trascinai dietro, senza pensare. Sapevo bene che se mi fossi fermata a
riflettere avrei fatto un passo indietro, di nuovo assalita dalle mie solite
incertezze.
Scesi al piano inferiore e mi affacciai alla porta della
cucina, dove mia mamma mi aspettava raggiante. Tuttavia, non appena notò la
valigia e la mia espressione seria, parve mortificata.
“Quindi… te ne vai?”, chiese.
“Vado a convivere a casa sua. Glielo devo, ho capito che
dobbiamo provarci”, le spiegai. Non riuscii a dilungarmi, poiché avevo gli occhi
che già mi si inumidivano di pianto. Ero molto emozionata.
Lei si limitò a stringermi forte e a darmi un bacio sulla
fronte, come quando ero bambina. Probabilmente si aspettava che quel fatidico
momento sarebbe giunto presto.
“Continueremo a vederci tutti i giorni, verrò da te ogni
volta che potrò. Ti chiamerò sempre, non sarai mai sola”, le dissi, come a
volerla rassicurare. Ma lei si staccò da me e mi accompagnò verso la porta.
“Voglio per te solo il meglio. Che questa tua nuova partenza
possa essere preambolo di tante, tantissime e belle cose”, mi augurò,
sorridendo. Anche lei si era emozionata molto, anche se forse non aveva colto
il lato più istintivo di quel mio gesto. Ciò era tuttavia una cosa che dovevo
sapere solo io. E il mio uomo.
Giunsi a casa sua e lo ritrovai lì, nel mezzo portone, come
se mi stesse attendendo. Anche il grande cancello sulla strada l’avevo trovato
già aperto. Tra noi era come se si fosse instaurata una sorta di telepatia.
Non disse nulla quando vide la mia valigia, anzi, mi aprì la
porta e mi invitò tacitamente in casa sua. La nostra convivenza sotto lo stesso
tetto ebbe inizio in quel modo, durante quella sera giunta dopo un paio di
fantastiche giornate condivise e di svago.
NOTA DELL’AUTORE
La gita è finita, così come i due giorni di vacanza. Ora si
torna ad affrontare la quotidianità… e a compiere anche delle scelte
importanti!
Vi ringrazio tantissimo per l’attenzione, e spero di non
avervi annoiato ^^