Dal capitolo 4:
"«Bene.
Ora lasciami solo.».
La
donna alzò un sopracciglio, contrariata.
«Per
favore.» aggiunse l’uomo, sforzandosi di essere
gentile.
Lei
annuì e uscì, senza emettere un fiato e
richiudendosi piano la porta alle
spalle.
Keller
ascoltò i suoi passi allontanarsi e sospirò,
immergendosi nel silenzio
che finalmente regnava sovrano nella piccola e umida stanza. Dopo
qualche
minuto passato a contemplare il vuoto, si decise a muoversi e estrasse
dal
cassetto nascosto sotto al tavolo alcuni fogli di carta ingiallita e
una
vecchia penna.
Era
una stilografica, l’uomo si sorprese chiedendosi per quanto
tempo fosse rimasta
abbandonata lì dentro.
Poi
si chinò sul foglio, cominciando a scrivere.
“Cara
Isabelle...”."
Ho scelto il silenzio
GIORNO
40 – 24 Dicembre.
Frederich
Keller rientrò nella
propria cella lentamente, tanto che una guardia non mancò di
dargli una spinta
poco gentile per intimargli di sbrigarsi.
Una
volta solo, sedette sulla scomoda panca che sporgeva dal muro ed
estrasse
dalla tasca ciò che era riuscito a rubare dalla mensa.
Sapeva che non sarebbe
stato complicato ottenerla, ma vi aveva comunque pensato a lungo prima
di
rubarla.
Ormai
era in carcere da quasi due settimane, ma prima non ne aveva avuto il
coraggio.
Sistemò
l’oggetto sulla panca, alle sue spalle, estraendo dalla tasca
qualcos’altro: la foto della sua famiglia.
Era
riuscito a tenerla con sé, sempre, nonostante tutto. Anche
sotto le
macerie, quel giorno, agonizzante in mezzo ai massi, era stato attento
a non
perderla.
La
spiegò e, con calma, cominciò a studiarla. Come
sempre, come se la guardasse
per la prima volta.
Sophie
e Martha, le sue due bambine: la prima, sette anni, aveva i capelli
scuri e ricci e gli occhi grigi del padre, taglienti ma al tempo stesso
incredibilmente profondi. Era così carina nel suo vestitino
a quadretti gialli,
così allegra e solare. Accanto a lei, Martha, catturata
nella foto mentre
faceva una buffa smorfia rivolta alla sorella. Capelli biondi, occhi
azzurri,
la copia perfetta della madre. Aveva solo quattro anni. Poi, tra le
bambine,
Isabelle. L’amore della sua vita. La donna a suo avviso
più bella che avesse
mai incontrato, la più dolce, la più comprensiva.
Keller
sorrise alla foto, come sorrideva ogni volta che le vedeva: la sua
ragione di vita.
Una
musichetta conosciuta arrivò alle sue orecchie da un
corridoio lontano. Le
guardie provavano a distrarsi, ad accontentarsi di dover essere in
servizio
anche quella sera, forse sperando di poter essere a casa prima della
mezzanotte.
Era
la vigilia di Natale.
Ben
si sedette sul divano, esausto. Chiuse gli occhi per un momento, solo
per
un momento, e quando li riaprì Margaret era davanti a lui,
con un sorriso
dipinto sulle labbra e un maglione rosso attorno alle spalle.
Il
giovane poliziotto le fece cenno con la mano e lei si sedette accanto a
lui,
accoccolandosi sul divano tra le sue braccia.
L’atmosfera
attorno a loro era quasi perfetta.
Le
luci soffuse, il piccolo albero di Natale addobbato alla perfezione,
fuori
il buio della sera e dentro il calore emanato dalla piccola stufa
sistemata
nell’angolo del salotto. Quasi
perfetta.
Perché
a Ben, quella vigilia di Natale sembrava strana.
Durante
gli ultimi anni aveva trascorso il Natale con la famiglia Gerkhan,
piuttosto che con la sua famiglia, attorniato dalle risate scherzose
delle
bambine, suonando la chitarra e spacchettando regali al posto di Lily,
divertendosi come un bambino.
Ora
le cose erano cambiate, ora c’era Margaret, e per questo
probabilmente non
avrebbe trascorso il Natale con la famiglia Gerkhan a prescindere da
ciò che
era successo. Tuttavia, sapere Semir e Andrea soli in un letto
d’ospedale lo
angosciava terribilmente.
«Dovresti
rilassarti, Ben.» disse Maggie a un tratto, come se gli
avesse letto
nel pensiero «Sei stato con loro fino a poco fa, tornerai
domani a vedere come
stanno. Ma ora, per un momento, prova a non pensare.».
«Non
riesco a non pensare.» mormorò Ben, guardandola
negli occhi «Loro sono...
è come se fossero la mia famiglia, come faccio a non
pensare?».
La
ragazza sospirò, annuendo comprensiva, ma estrasse qualcosa
dalla tasca dei
jeans che indossava: un foglio piegato in quattro e leggermente
ingiallito.
Con
un mezzo sorriso, lo spiegò e lo mise davanti agli occhi di
Ben,
mostrandoglielo.
«La
lettera di Keller?» chiese il poliziotto, con il timore negli
occhi.
«Non
credi sia giunto il momento di leggerla, Ben?» fece lei,
stringendosi di
più al poliziotto e mettendogli il foglio tra le mani.
«Non
so se voglio farlo, Maggie...».
«Dai...»
sussurrò lei, stringendogli la mano.
Poi,
cominciarono a leggere.
Keller
ripiegò la foto e la mise in tasca, dove era sempre stata.
Ripensò
a Semir Gerkhan e a tutto quello che gli aveva fatto.
Ripensò
a quegli occhi colmi di terrore e rivide per l’ennesima volta
se
stesso, sette anni prima.
Ripensò
alle grida della moglie e delle bambine, legate in
quell’edificio
predisposto all’autodistruzione e alle parole piene di odio
di Kate.
Ripensò
a Ben Jager, a quel ragazzo che gli aveva parlato, lo aveva ascoltato,
nonostante tutto.
Aveva
ottenuto quello che voleva, aveva rovinato la vita a Gerkhan,
esattamente
come aveva previsto.
Immerso
nei propri pensieri, si alzò, prese la corda che aveva
rubato dalla
mensa e rimase fermo a guardarla: era una corda sottile, gli addetti la
usavano
per chiudere i sacchi delle patate. Ma era abbastanza resistente.
Spostò
lo sguardo sulle inferriate della piccola finestra che si apriva nel
muro grigio e uniforme.
Poi
tornò a guardare la corda e, con un mezzo sorriso, la
legò a cappio.
Sapeva
perfettamente quello che stava facendo.
Cara Isabelle,
lo so, non sarai tu a leggere questa lettera, ma
voglio comunque indirizzarla a
te. Perché a leggerla sarà qualcuno che si prende
il diritto di scavare nella
mia vita... e la mia vita sei tu, sei sempre stata tu.
È il 17 Novembre e ti scrivo da una
sudicia cantina nella periferia di Colonia.
Sto preparando la mia vendetta, Isabelle, sto
preparando la vostra vendetta. Tu
e le bambine sarete vendicate, finalmente, dopo sette lunghi anni.
Lo so, non approveresti. E, probabilmente, non
approverei nemmeno io se non
fossi accecato dall’odio.
Ma io vedo solo questo, Isabelle, vedo solo odio.
Ho trascorso sette anni in
una cella di cui qualcuno aveva già buttato via la chiave e
l’unica cosa che mi
ha tenuto in vita, oltre al vostro ricordo, è stato
l’odio per quell’uomo.
Quell’uomo che vi ha portate via da me. Che vi ha ridotto in
cenere.
Lui vedrà la sua vita crollare, fosse
l’ultima cosa che faccio.
Semir Gerkhan desidererà di morire,
esattamente come l’ho desiderato io. Ma
sopravvivrà, così come io sono sopravvissuto.
Lo so, Isabelle. Lo so che non approveresti. Ma non
riesco a darmi pace in
nessun altro modo.
Erano per l’America, sai? Quei quattro
biglietti che ti ho consegnato in una
busta chiusa, sette anni fa, e che ti ho chiesto di custodire in borsa
fino a
che non fossi tornato alla macchina.
Erano per l’America.
Avrei concluso lo scambio, saremmo fuggiti insieme.
Io, te, le nostre bambine.
Avremmo cambiato vita, avrei cambiato
vita. Sarei diventato il padre che loro meritavano, perché
loro meritavano di
più. Lo volevo davvero.
Ma poi quell’ispettore si è
messo in mezzo, Isabelle.
E mi ha tolto tutto.
Tu mi aspettavi in macchina, non avrai capito che
cosa stesse succedendo. Avrai
udito gli spari, magari avrai provato a farti notare, ma i vetri erano
oscurati. Magari avrai provato a scendere, ma le portiere erano
bloccate.
E Gerkhan ha continuato a sparare.
Tu avrai visto le fiamme, Isabelle. O forse non hai
avuto nemmeno il tempo per
vederle, per sentire il loro calore.
Siete diventate cenere sotto i miei occhi, e io ho
cessato di vivere e
cominciato a sopravvivere, in quel preciso istante.
Chiunque tu sia, lettore, probabilmente la mia
vendetta ora che leggi è già
stata compiuta. Ebbene, tu sappi che io avrei voluto cambiare vita, che
quell’uomo me l’ha impedito e mi ha tolto tutto
ciò che amavo, e che io avevo
bisogno di far provare a lui le stesse cose, per ricominciare a vivere.
Chiunque tu sia, sappi che sono stato un uomo, non
solo un mostro. E ciò che mi
rendeva uomo, erano mia moglie e le mie figlie. E lui me le ha
strappate.
Chiunque tu sia, non è pietà
quella che ti chiedo. Non chiedo niente. Ho
scritto perché sento il bisogno che qualcuno legga, che
qualcuno ascolti. Che
qualcuno sappia perché.
Isabelle, perdonami. Se puoi vedermi, se puoi
osservarmi dall’alto, ti prego,
perdonami.
Ti amo tanto quanto sette anni fa, amo le nostre
figlie e le sento ogni giorno,
sento le loro voci nella mia testa. E gridano, Isabelle, loro non
smettono mai
di gridare.
Forse dopo che avrò fatto quello che
devo fare, forse loro smetteranno di
gridare e ci sarà silenzio.
Voglio solo silenzio.
Ti amo, Isabelle. Ti amerò sempre.
Ben
e Margaret staccarono
contemporaneamente gli occhi dal foglio e incrociarono tra di loro gli
sguardi.
Entrambi
avevano gli occhi lucidi.
«Voleva
davvero cambiare vita.» mormorò Maggie, in quella
che sembrò una via di
mezzo tra una domanda e una semplice affermazione.
«Maledetto
bastardo.» fu l’unica cosa che riuscì a
sussurrare Ben, trattenendo
a stento le lacrime e allontanando da sé il foglio, per
vincere l’impulso di
strapparlo «Maledetto bastardo...».
Non
gridavano più.
Keller
non le sentiva più.
Per
la prima volta, dopo sette anni, appeso a quelle inferriate con un
cappio
stretto attorno al collo, non sentiva più le grida di dolore
delle sue bambine.
Solo
silenzio.
Per
la prima volta.
Stava
scegliendo di non sopravvivere.
Ora
le bambine gli correvano incontro, allegre. Martha, sorridente, seguita
da
Sophie nel suo vestito giallo a quadretti. E poi lei, Isabelle, con gli
occhi
blu scintillanti e pieni di speranze.
Per
una nuova vita, insieme.
Le
guardie lo trovarono lì, nella
sua cella, la mattina seguente, con uno strano sorriso disegnato sul
volto
ormai immobile.
Margaret
si alzò dal divano, per poi tornare a sedersi accanto a Ben
con un
plico di fogli rilegati alla bell’è meglio, che
mostrò al poliziotto. La prima
pagina era di cartoncino nero e non vi era scritta nemmeno una parola.
Lui
la guardò con fare interrogativo, ancora sconvolto dalle
parole di Keller
che aveva appena finito di leggere.
«Che
cosa...».
«Ho
finito il libro, Ben.» spiegò lei, posandogli il
plico sulle ginocchia
«L’ho finito e vorrei che lo leggessi. Non lo
pubblicherò. Ma vorrei che tu lo
leggessi.».
L’ispettore
guardò il cartoncino nero, senza capire.
«Questo
è il romanzo a cui stavi lavorando?».
La
ragazza annuì, guardandolo negli occhi.
«Ci
tengo molto che tu lo legga.».
Ben
annuì, ma non lo sfogliò. Rimase immobile a
osservare la copertina nera,
senza trovare la forza di aprirlo, pur non conoscendone il motivo.
Spostò
lo sguardo su Margaret e incatenò i suoi occhi scuri a
quelli verdi di
lei.
Lei
gli prese il viso tra le mani e gli accarezzò i capelli,
dolcemente.
«Ben,
fammi un sorriso. È mezzanotte. È
Natale.».
Ben
distolse lo sguardo, senza rispondere.
Tornò
a guardare il plico di fogli che aveva sulle ginocchia e finalmente
sollevò il cartoncino nero, scoprendo un foglio bianco sul
quale troneggiava,
al centro, una scritta in corsivo.
Il
titolo.
Leggendolo,
Ben sorrise.
“Sopravviviamo.”.
N.d.A.
E qui si conclude la storia di Keller.
Anche il contenuto della lettera
è stato svelato, piano piano tutti i pezzi si
risistemano, più o meno.
Grazie sempre, a presto!
Sophie