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Autore: MackenziePhoenix94    27/03/2019    0 recensioni
PREQUEL DI 'LIKE A PRAYER'.
“Non stiamo parlando di pazzia, ma c’è il serio rischio che quel seme possa depositarsi e germogliare, signora, se non interveniamo in tempo. La società rischierebbe di doversi occupare, un giorno, di un soggetto pericoloso. Anche lei sa che è meglio prevenire che curare… Non sarà un percorso semplice o indolore, ma è necessario. Assolutamente necessario”.
Tutti sanno chi è Theodore ‘T-Bag’ Bagwell, e quali sono i crimini che lo hanno portato a scontare due ergastoli nel penitenziario di Fox River; ma nessuno, neppure Nicole Baker, conosce la storia che si cela dietro l’uomo ribattezzato dalla stampa: ‘Il Mostro Dell’Alabama’.
Perché alcune storie, come i segreti, anche se logorano interiormente, sono più semplici da custodire che da confessare.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: T-Bag
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Nessun essere umano nasce con il dono della preveggenza.

A nessuno di noi è dato sapere in anticipo quando la propria vita cambierà per sempre.

Spesso, poi, accade nel corso di una normale giornata, che non ha nulla di diverso da tante altre.


 
“Ragazzino, mangia subito tutto quello che hai nel piatto”.

Smetto di giocherellare con la forchetta che ho in mano e guardo l’uomo che ha appena parlato, seduto a capotavola.

“Lo farei” rispondo, poi, per nulla intimidito “ma questa poltiglia informe ha lo stesso odore di una carcassa in putrefazione”.

Non vedo l’uomo alzarsi e non lo vedo neppure raggiungermi in pochi secondi, ma sento la sua mano destra schiantarsi con violenza contro il mio viso, spaccandomi il labbro inferiore: cado a terra, picchiando con forza la schiena sulle assi di legno, mentre cerco d’interrompere il flusso di sangue che si sta già riversando sulla maglietta che indosso.

Percepisco il suo gusto ferroso anche contro il palato e, anziché sputarlo, lo deglutisco insieme alla mia stessa saliva.

“Sei un ragazzino insolente che non sa stare al suo posto. Un ragazzino insolente, stupido proprio come la madre. Come diceva quel vecchio detto? Tale madre tale figlio?” urla lui, sovrastandomi, con il volto paonazzo dalla rabbia e l’alito che puzza già di birra ed altri superalcolici; mi afferra per un braccio, costringendomi ad alzarmi prima di ricominciare con la sfuriata “non sei neppure in grado di preparare un pranzo decente. Non combinerai mai nulla di buono nella tua vita, lo sai? Non combinerai mai nulla. Adesso vai in cucina a lavare i piatti e non azzardarti a rompere qualcosa, altrimenti dovrai vedertela di nuovo con me”.

Non rispondo alle minacce, non gli lascio neppure la soddisfazione di vedermi tremante e con gli occhi lucidi di lacrime, mi limito a rivolgergli uno sguardo carico di odio prima di prendere i piatti, i bicchieri ed il resto delle posate, e sparire in cucina.

Pulisco ogni oggetto con cura e lo ripongo al proprio posto prima di prendere un vassoio e posizionarci sopra un piatto colmo di una zuppa fumante, dall’odore e dall’aspetto molto più invitanti della poltiglia informe.

Prendo il vassoio e salgo le scale che conducono al primo piano; abbasso la maniglia di una porta aiutandomi con il gomito destro ed entro in una camera da letto completamente vuota, ad eccezione di una donna: se ne sta seduta sul materasso e guarda un albero che sorge al di là dell’unica finestra presente nella stanza.

Ha le braccia avvolte attorno alle ginocchia, premute contro il petto, ed i lunghi capelli castani le scendono in tante ciocche arruffate e disordinate, fino a metà schiena.

Prendo posto a mia volta sul materasso e mi schiarisco la gola, per attirare la sua attenzione; si gira verso di me, ma non so se mi vede veramente, perché i suoi occhi sono distratti e lontani, persi in chissà quale dimensione fantastica.

In realtà, credo che non sappia neppure chi sono.

“Mamma, è ora di pranzo. Ti ho portato la zuppa di carote, la tua preferita” mormoro.

Lei sorride ed io, nonostante tutto, mi ritrovo a ricambiare.

La imbocco pazientemente, perché a causa di una grave malattia non è in grado di mangiare in modo autonomo; mi occupo anche di pettinarle i capelli con cura, prima di scendere le scale e tornare in salotto.

L’uomo che ha contribuito alla mia nascita sta guardando qualcosa in TV, probabilmente una partita di rugby,  ed ai suoi piedi c’è già un piccolo esercito di lattine completamente vuote; mi ordina di andare in cucina a prendergliene un’altra di birra ghiacciata, ma quando gli volto le spalle, dalla sua bocca esce un verso strozzato, seguito da una richiesta d’aiuto sottoforma del mio nome.

Lo vedo alzarsi dalla poltrona, portarsi la mano destra al petto e poi crollare a terra, completamente immobile.

Sbatto le palpebre più volte prima di scavalcare il corpo e avvicinarmi al telefono, posizionato sopra un piccolo tavolino: sollevo la cornetta nera e premo tre semplici tasti.

Nove.

Uno.

Uno.

Quasi subito risponde la voce femminile di una centralinista.

“Noveunouno, qual è la sua emergenza?” domanda, in tono piatto.

“Una persona ha appena avuto un collasso” rispondo, altrettanto tranquillamente “ma non c’è alcuna fretta per l’ambulanza. Credo sia troppo tardi ormai”.



 
Quando i soccorsi arrivano, appena una decina di minuti più tardi, non si limitano a caricare e coprire il corpo sopra ad una barella, ma portano via anche mia madre e me.

Non so con esattezza per quale motivo lo fanno, forse a causa delle scarse condizioni igieniche che regnano nella casa dei miei genitori.

O, forse, perché non ci vuole un genio a capire che qui dentro c’è qualcosa che non va; qualcosa di profondamente sbagliato.

Resto in osservazione in ospedale per un’intera notte e solo la mattina seguente ricevo la visita di una persona a me familiare: zia Margaret.

“Come stai?” domanda, scompigliandomi i capelli con la mano destra “mi dispiace essere venuta così tardi, ma i dottori non mi hanno permesso di entrare prima. Sei pronto ad andare? Ti porto a casa”

“Sto bene. Dove si trova mia madre? Che cosa le hanno fatto?”

“Ti spiegherò tutto in macchina”.

Meg mantiene la parola data e, non appena occupa il posto del guidatore, mi spiega con chiarezza e con parole semplici quale è la situazione: l’uomo che mi ha messo al mondo ha avuto un infarto; mia madre, invece, è stata trasferita in una clinica privata.

“In una clinica privata? Stai parlando di quelle strutture in cui imbottiscono i pazienti di medicinali per tutto il giorno affinché sia più semplice occuparsi di loro? Mia madre non può stare in un posto simile, ha bisogno di me. Ho quattordici anni, non sono un bambino, sono in grado di occuparmi di lei” protesto, senza sprecare una sola parola per il bastardo.

Perché ha avuto esattamente ciò che meritava.

“Proprio perché hai quattordici anni e sei ancora un ragazzino non puoi farlo, Teddy. Ti prometto che tua madre riceverà le migliori cure possibili. Mi occuperò io di pagare la retta mensile della clinica, è il minimo che possa fare”

“Quando potrò andare da lei?”

“Molto presto” risponde Meg, senza mai staccare gli occhi dalla strada davanti a sé “ma non oggi”.

Mi lascio ricadere contro lo schienale in pelle del sedile e sospiro.

Ho l’impressione che non vedrò mia madre per molto tempo.



 
Appena scendo dalla macchina, vengo raggiunto da un ragazzo che mi abbraccia con trasporto, facendomi quasi cadere all’indietro.

È mio cugino James.

Io e lui siamo molto simili; oltre all’età condividiamo anche gli stessi occhi scuri e gli stessi capelli castani.

“Sono contento di vederti, Teddy, hai fame? Vuoi mangiare qualcosa?”

“D’accordo” mi limito a rispondere, acconsentendo, anche se ho lo stomaco completamente chiuso: so che cosa sta facendo James; cerca di distrarmi in qualunque modo possibile e sono sicuro che è stata zia Margaret a chiederglielo.

Ho la conferma a questa supposizione durante la notte, quando io e James siamo coricati sotto le coperte: mentre fingo di dormire, sento Meg entrare nella stanza e sussurrare poche parole al figlio, per non essere sentita da me.

“Cerca di stare vicino a tuo cugino in qualunque modo possibile” gli dice “si trova in una situazione molto particolare e delicata. Ha bisogno di tranquillità e di avere a suo fianco persone che gli vogliono davvero bene”.
 
 
   
 
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