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Autore: _Lightning_    06/04/2019    6 recensioni
L’unica reazione di Tony è un respiro leggermente più sonoro del normale, ma i suoi occhi sembrano solidificarsi in due lastre scure e opache.
Contemporaneamente Thor si avvicina ancora, passando da osservatore esterno a potenziale partecipante, e Rhodey scatta a sua volta in piedi con fare allarmato. Nataša scruta i presenti con sguardo attento, come un felino in agguato, e Bruce non abbandona il suo atteggiamento ostile e incupito.
Steve sente la situazione precipitare.
La percepisce quasi sfuggirgli tra le dita come sabbia mentre cerca freneticamente un modo, una frase, un’azione che possa arrestarne la caduta inesorabile.

Dopo lo schiocco, Steve si trova alle prese con una squadra distrutta dalle perdite, spezzata dall'interno e incapace di far fronte unito. Toccherà a lui radunare i pezzi, suoi e degli altri, per prepararsi allo scontro finale. E molti di quei pezzi sono rimasti in Siberia, in un bunker gelido.
[post-Infinity War // Introspettivo // PoV Steve // Civil War fix-it // scritto prima di Endgame]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bruce Banner/Hulk, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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10. Disgelo
 
 
 
All I ever wanted
Secrets that you keep
All you ever wanted
The truth I couldn't speak
'Cause I can't see forgiveness
And you can't see the crime
And we both keep on waiting
For what we left behind

 
[Final Masquerade – Linkin Park]
 
 
 
Steve ha l’impressione che se provasse anche solo ad alzarsi finirebbe per distruggere del tutto ogni muscolo indolenzito del proprio corpo. Così rimane immobile, seduto e contratto, chiedendosi se prima o poi il sole arriverà a far capolino dalla vetrata chiudendo quella notte, o se è rimasto incastrato in un qualche limbo dove le lancette ticchettano sempre sullo stesso secondo. Non sa quantificare quanto tempo sia trascorso, ma viene riscosso dai suoi pensieri concentrici e martellanti da un rumore leggero di passi, che si arrestano sulla soglia della sala comune.

Alza a fatica la testa pesante, colma di biglie rumorose e assordanti, e mette a fuoco la sagoma snella di Nataša poggiata a braccia incrociate contro lo stipite. Non è troppo sorpreso di vederla, ma, invece di pronunciare un qualche prevedibile commento sarcastico, la vede scuotere appena il capo, scoccargli un’occhiata di affilato rimprovero e imboccare rapida le scale, verso il piano degli alloggi.
Lo lascia interdetto, ma invece di alzarsi e seguirla rimane con lo sguardo fisso sulla soglia ora libera e affacciata sul corridoio in penombra. È in attesa, non sa bene di cosa, ma dubita che potrebbe essere peggio di quanto accaduto.

Deve lasciar passare con agonizzante lentezza quasi un’ora, prima di udirla scendere di nuovo le scale, e stavolta entra quasi a passo di marcia nella sala comune. Steve non riesce a nascondere del tutto la sua sorpresa nel notare i dettagli fuori posto: ha gli occhi arrossati, una macchia di quello che sembra sangue sulla maglietta e un lieve sentore di disinfettante addosso. Prima che possa porre una qualsiasi domanda al riguardo lei alza un indice a frenarlo, aggrottando le sopracciglia in un’espressione minacciosa che gli fa improvvisamente ricordare perché lei fosse l’unica a poter avvicinare un Hulk fuori controllo.

«Aspetta mezz’ora,» enuncia semplicemente, in un tono che non ammette repliche. «Se non lo vedi, vai a chiamarlo,» conclude, senza sprecarsi in ulteriori spiegazioni.

Steve fa per andarle incontro, assecondando il sussulto che gli ha scosso il petto, ma lo sguardo perentorio della donna lo convince a desistere e gli fa di nuovo morire le parole in bocca.

«Mezz’ora,» ripete, a ribadire il concetto. «E non rovinate tutto,» conclude, assottigliando gli occhi da felino in una promessa di terribili ripercussioni, prima di avviarsi fuori dalla sala comune con lo stesso incedere temporalesco con cui vi è entrata.

Per la sua incolumità, Steve mette da parte la sua confusione e s’impegna a tener d’occhio trepidante l’orologio. 1

 
***
 

Mezz’ora dopo è davanti alla porta di Tony, ma lascia passare almeno altri dieci minuti prima di accostarvisi, nella vana speranza che si decida a riemergere per conto proprio spinto da non sa bene quale anatema scagliato da Nataša.

Esita ancora con le nocche poggiate contro lo stipite, per poi bussare tre volte, lievemente, in un gesto che riecheggia ancora fresco nella sua memoria2. Coglie un tramestio attutito dall’altra parte, seguito da quello che sembra uno sbuffo, o forse un respiro profondo. Non insiste e aspetta un tempo ragionevole prima di sollecitarlo di nuovo, pacatamente. Non ha più la forza di arrabbiarsi:

«Tony?»

Conta due passi esatti oltre la porta, segno che era probabilmente fermo al centro della stanza, e lo scatto della serratura che si apre ha il potere di far tornare a circolare ossigeno nelle sue vie aeree. Tony si affaccia allo spiraglio, e i suoi occhi sono più rossi e stanchi di quanto si fosse immaginato. Si è cambiato, rinunciando all’impeccabile completo sobrio e rimanendo in una semplice t-shirt grigia e un paio di jeans, e ciò lo fa apparire ancora più vulnerabile. Trasalisce appena nel vederlo e la sua mano si contrae sul pomello della porta.

«Che vuoi, ancora?» esordisce, senza però sforzarsi di suonare davvero seccato, come se quella fosse semplicemente una battuta del copione obbligatoria.

«Parlarti,» replica schietto lui, con le mani giunte davanti a sé.

Entrambi continuano a fissare intentamente un punto indefinito ai loro piedi, come se la moquette fosse improvvisamente diventata l’attrazione principale del Wakanda.

«Non sono in vena di farti da amichetta del cuore,» è la sua replica tagliente, ma non chiude la porta, poggiandovi contro la fronte con gli occhi semichiusi.

Steve sospira internamente, stringendo la propria cintura con le mani in quella posa che assume spontaneamente ogni volta che si trova a dover affrontare una situazione scomoda.

«Mi dispiace,» esala infine, badando bene a non indirizzare con chiarezza quelle parole.

Bastano a far sollevare di scatto lo sguardo a Tony. Steve non aggiunge altro, sentendosi come se il suo corpo si fosse scaldato appena in seguito a quella prima, sofferta confessione, scacciando un po’ del freddo pungente che lo attanaglia. È davvero dispiaciuto, per molte più cose di quanto avrebbe mai potuto credere, e per molte altre invece non lo è affatto. Gli sembra comunque un buon punto di partenza per un dialogo.
Tony lo scruta penetrante, poi si puntella col fianco contro lo stipite, portando una mano a stropicciarsi il volto disfatto dal pianto e dalla stanchezza, marcato da occhiaie più livide del solito. Sembra quasi febbricitante.

«Mi serve un caffè,» bofonchia infine, prima di scostarsi dalla soglia e avviarsi in corridoio, circumnavigandolo a distanza di sicurezza.

Steve riconosce che non è un brutto inizio per i suoi standard, e gli tiene dietro cautamente. Nota la sua andatura pencolante, ma non apre più bocca fino alla sala comune. Tony sembra deciso a far finta che lui non esista, almeno per il momento, così lo lascia a trafficare con la macchinetta del caffè e si siede semplicemente al bancone della cucina, in attesa. Anche quello è un altro implicito passo avanti, la richiesta di un confronto che forse non verrà del tutto accettato. Non sono mai stati bravi a sedersi al tavolo delle trattative: troppe barriere, troppi non detti, troppo orgoglio a dividerli, perché entrambi hanno sempre troppa ragione per vedere quella dell’altro.

Tony si volta infine verso di lui, la tazza fumante in mano, e assottiglia le labbra nel notare la sua presa di posizione. Esita visibilmente prima di muovere un passo verso di lui, issandosi poi sullo sgabello di fronte e accettando il faccia a faccia con manifesta circospezione. Steve nota la sua smorfia trattenuta per quel movimento e aggrotta appena le sopracciglia.

«Stai bene?» indaga, con un’occhiata colpevole al suo fianco.

Lui scrolla la testa, senza guardarlo.

«Avrei dovuto accettare le cure di Shuri,» afferma, esonerandolo di fatto dal quasi-scontro di prima e suggellando l’affermazione con un sorso di caffè. «In Siberia non ti sei fatto tanti problemi,» continua poi, senza alcun preambolo e in tono quasi casuale.

È sempre strano sentir parlare Tony così schiettamente, e gli sembra che anche lui abbia qualche difficoltà a non lanciarsi in complicate perifrasi e rotte contorte che si limitano a sfiorare il fulcro del discorso.

«Credevo stessi bene,» replica, e non riesce a focalizzare su quali basi abbia costruito quel concetto, perché quando è uscito dal bunker non si è mai guardato alle spalle.

Tony schiocca appena la lingua, trapassandolo con lo sguardo tinto da una nota di seccata rassegnazione.

«Certo, dopotutto sto sempre bene,» ribatte sarcastico. «Anche quando un super soldato mi pianta uno scudo nel petto fratturandomi lo sterno e quattro costole a trenta sottozero, rischiando di farmi morire soffocato o assiderato, a scelta,» specifica poi, fissandolo cupo, con una piega rigida a incrinargli il volto. «Anche quando scopro che un compagno di squadra mi ha mentito per chissà quanto e mi ritrovo con l’assassino dei miei genitori a un passo,» rincara sempre più caustico, stringendo la presa sulla tazza con le dita che fremono appena.

«Tony, è stato Zemo a metterci l’uno contro l’altro,» comincia Steve, prendendola alla larga, quasi a invertire i loro ruoli prefissati nel parlare. «E anche Bucky è una vittima. Lo sai anche tu,» prova a farlo ragionare, sperando che almeno con Rhodey sia stato sincero su quel punto.

Tony si limita a guardarlo fisso, ancora adombrato, come se stesse ragionando attentamente su cosa dire; non è un qualcosa che capita spesso, e si ritrova ad attendere la sua replica con lieve apprensione.

«Mettiamo in chiaro una cosa, Rogers,» esordisce infine, scandendo con lentezza le parole. «Sto parlando con te e di te. Barnes non è certo sulla lista di gente che inviterei a cena, ma non ha scelto di…» prende fiato per un momento, rinunciando a completare la frase, «… di fare ciò che ha fatto. Tu sì,» conclude poi, in tono incredibilmente pacato per la mole di astio che gli grava negli occhi.

Steve si ritrae un poco, preso alla sprovvista da quella mancanza di aggressività nei confronti di Bucky, e stringe la stoffa dei jeans per frenare le proprie mani improvvisamente agitate.

«Abbiamo fatto entrambi delle scelte,» gli ricorda, e con sua sorpresa Tony alza appena le spalle, senza difendersi dall’accusa.

«Sì,» conferma laconico. «Ma io non ho mai scelto di tenerti nascosto qualcosa di personale. E non tirare in ballo Ultron, perché un progetto di sicurezza globale non è una faccenda personale,» lo anticipa sbuffando appena, e Steve inarca un sopracciglio.

«E neanche gli Accordi, presumo,» ironizza, senza trattenere una vena di scetticismo.

Tony ha la decenza di non contestare quel fatto, limitandosi a comprimere con forza le labbra, quasi a troncare una replica pronta a lasciarle.

«Non avevo intenzione di colpire te,» asserisce infine, forse con una tinta d’incertezza appena accennata. «Sei tu che hai interpretato il tutto come un attacco mirato,» dice, gli occhi fermi a metà tra la tazza e il suo volto come se non sapesse decidersi su dove puntarli.

«Per me Bucky è una faccenda molto personale,» puntualizza lui, con più foga di quanto sarebbe necessario. «E non potevo rimanere a guardare quando tu hai deciso di dargli la caccia come fosse un criminale,» conclude, sentendo la propria voce barcollare, non sa se per la rabbia o per il dolore di vedere il volto dell’amico di una vita lampeggiargli davanti agli occhi.

«È un criminale, almeno formalmente,» ribatte ostinato Tony. «E magari se avessi evitato di unirti anche tu alla cricca dei fuorilegge mascherati trascinandoti dietro mezza squadra avremmo potuto scagionarlo, invece di farlo finire sulla lista dei ricercati,» ribatte con puntualità, senza esitare.

«E come? Grazie a Ross?» ribatte incredulo Steve, incrociando di scatto le braccia col mento proteso verso di lui. «Uno che voleva ingabbiarci tutti nella tua prigione?»

«Non ho avallato io la RAFT; è stata un’idea del governo e mi sarei fatto rapire di nuovo piuttosto che contribuire a progettarla,» sbotta Tony, piccato dalla sua insinuazione. «Per la RAFT ringrazia la Future Foundations3,» sbuffa, con aperto disprezzo.

«Perdonami se non mi interessa chi l’abbia costruita, ma solo che vi fossero rinchiusi i nostri amici e compagni,» lo rimbecca Steve, innervosito da quel suo sfuggire continuamente ad accuse più che lecite.

«I tuoi amici e compagni,» bofonchia Tony, per poi continuare a voce più alta: «Avrei voluto spaccare la faccia al Ross nel momento in cui ci ho messo piede. Non è nel mio stile sbattere la gente in gabbia solo perché non la pensa come me.»

«E Wanda, allora?» lo pungola, fissandolo in modo eloquente.

Tony sospira in modo plateale, alzando gli occhi al cielo.

«Ti ripeto che il Complesso non è una prigione,» recita, quasi in una cantilena rivolta a un bambino petulante. «Era una misura cautelare a beneficio della Maximoff per evitare imprevisti prima di…»

«È quello che ti ripeti per dormire la notte?» sbotta Steve, interrompendolo, e ciò suscita un lampo di fastidio sul volto di Tony.

«Ci sono molte cose a tenermi sveglio la notte, e aver agito in modo lungimirante piuttosto che su una fiducia inesistente non è tra queste,» mastica, picchiettando con fare seccato un dito sul bancone.

«L’hai rinchiusa,» taglia corto Steve. «Perché era la soluzione più semplice e rapida e perché non ti fidi mai di nessuno,» continua, e Tony emette un verso scocciato, parlandogli sopra:

«Tu ti fai accecare da questa tua… ossessione per la libertà,» inveisce, gesticolando imperioso e ignorando l'ultima accusa.

«Ossessione? Devo ricordarti in che mondo vivresti se non avessi combattuto per la libertà?»

Steve non trattiene un sorrisetto incredulo.

«Non siamo più nel ’43, Rogers! Non puoi pensare di poter ancora scendere sul campo di battaglia al suono della tua marcetta, e non puoi essere certo di essere dalla parte giusta solo perché indossi una tutina a stelle e strisce,» lo accusa, agitandosi sullo sgabello mentre il suo tono si colora di scherno.

«Sono certo di essere dalla parte giusta perché è ciò in cui credo. Non ho mai cambiato idea,» ribatte Steve, quasi stentoreo, e Tony si acciglia per quella netta presa di posizione. «Non credere che dover scegliere non sia stato un fardello, per me,» aggiunge poi, con amarezza.

«Il tuo fardello è aver voluto una guerra,» osserva cinicamente Tony.

«Tu hai voluto compromessi, perché a quanto pare scegliere un ideale per cui combattere è troppo “antiquato”, per Tony Stark,» lo rimbecca con malcelata fierezza.

«E dimmi, “Capitan Libertà”: ne è valsa la pena, di sfasciare i Vendicatori per un ideale?» commenta retorico, inclinando appena la testa con fare di sfida.

Steve si prende qualche istante prima di rispondere, coi pugni serrati quasi a trattenersi dal suonare troppo veemente. Ma stanno parlando di lui, del nucleo vivo di ciò che l’ha fatto andare avanti da quando si è risvegliato e che forse ha permesso al suo cuore di continuare a battere per settant’anni nel ghiaccio.

«Gli ideali a volte costano caro,» proferisce, con gravità. «Ciò non vuol dire che non valga la pena proteggerli.»

«Gli ideali non hanno mai protetto nessuno, Rogers. La gente muore, per gli ideali,» scuote la testa Tony, affatto convinto. «E tu dovresti saperlo,» aggiunge con un’alzata di sopracciglia, come se il fatto gli fosse sovvenuto in quel momento.

Steve lo fissa frustrato, ma non ha mai davvero sperato di potergli far cambiare opinione, come probabilmente non lo spera lui. La linea di tensione tra loro è ancora spessa e tangibile, ma non sembra più essere sul punto di spezzarsi e funge invece da labile tramite tra loro due, in un tira e molla controllato. Non è esattamente il tipo di dialogo che aveva prospettato, ma se lo farà bastare.

«Se non sei un idealista, come lo spieghi New York?» gli chiede a bruciapelo, consapevole di toccare con ben poca delicatezza un nervo scoperto.

Tony sobbalza e contrae ogni singolo muscolo del volto in una reazione istintiva, per poi riprendere abilmente il controllo e scrollare le spalle.

«La vita di una persona contro quella di otto milioni… non è un ideale, ma semplice matematica,» conclude con ovvietà e un’alzata di spalle.

«Io lo chiamerei buttarsi sul filo spinato,» osserva Steve, lasciando cadere quell’osservazione con noncuranza mentre scruta Tony, che vacilla per un istante.

«Non vorrei mai rubarti il posto d’onore, Cap,» commenta, interrompendosi bruscamente e arricciando le labbra come pentendosi di aver usato il suo nomignolo. «Ma forse avevo anche qualcosa da dimostrare,» aggiunge rapido, con studiata cautela e un’occhiata sfuggente.

«Del tipo?»

«Che ogni tanto, oltre ai soldati perfetti, servono anche soldati fuori dalle righe. O senza divisa. O qualcosa del genere,» conclude in fretta, forse a disagio, e prende un sorso di caffè a concludere quel commento.

Steve abbassa per un istante lo sguardo, realizzando adesso quanto quelle sue parole di sei anni fa riguardo a chi fosse senza armatura gli siano rimaste impresse a fuoco nella mente, e quasi si pente di averle riesumate poco fa.

«Non credo di essere un soldato perfetto,» butta fuori allora, altrettanto precipitosamente.

Tony solleva di colpo lo sguardo, allibito, la tazza ancora bloccata a mezz’aria.

«Ok, o sono definitivamente impazzito, o Nat aveva ragione e ho davvero la febbre,» stabilisce poi, portandosi le dita alla fronte con fare preoccupato.

Steve sospira, intravedendo però in quell’affermazione ironica un’ombra in controluce del Tony che ha sempre conosciuto.

«Se io fossi stato perfetto, non saremmo qui,» spiega quindi, poggiandosi sugli avambracci e chinando appena la testa a rafforzare quella confessione.

Tony lo fissa impassibile, stringendo il pugno in un tic nervoso, la mascella contratta.

«Abbiamo tutti fallito,» proferisce infine, con voce che trema appena, ma Steve scuote la testa, perché non è di Thanos che sta parlando, ma di una sconfitta un poco più lontana nel tempo, pungente nel suo gelo.

«Non solo oggi,» specifica quindi, cercando di cavarsi le parole di bocca, e quelle sembrano opporre una strenua resistenza.

Gli occhi di Tony si velano appena, facendosi mesti.

«No, non solo oggi,» concorda con vaghezza, forse includendosi in quelle parole.

Lo vede accigliarsi un poco, e capisci che quei fili sparsi che hanno guidato la conversazione finora si stanno riallacciando al loro fulcro originario.

«Da quanto lo sapevi?» chiede di getto Tony, in tono improvvisamente duro.

I suoi occhi si sono fatti di nuovo ostili e guardinghi e non ha bisogno di aggiungere altro, perché sanno entrambi fin troppo bene che, dalle altezze cosmiche dell’ultima battaglia persa, sono ripiombati di schianto nelle viscere di un bunker ghiacciato. Steve si umetta le labbra prima di rispondere, chiedendosi da quanto stia trattenendo quella domanda, che in tutta la sua futilità gli suona giusta, a tutti gli effetti dovuta.

«Dall'incidente Insight4,» risponde con voce chiara, senza abbassare lo sguardo.

Tony inspira bruscamente. Non riesce a capire se sia un moto di sorpresa o uno di delusione per aver trovato conferma di un’ipotesi. Steve si irrigidisce in risposta, preparandosi all’ondata di rabbia che gli si sta per abbattere addosso, ma Tony si limita a chiudere brevemente gli occhi e a stropicciarli in un gesto rassegnato, poggiandosi poi con un gomito sul bancone che li divide. Tira le labbra, come a prevenire qualsiasi commento, e di nuovo le sue iridi sembrano affondare nel nero delle pupille.

«Mi aspettavo di peggio,» afferma dopo un po’, quasi sovrappensiero. «Hai avuto solo quattro anni, dopotutto,» continua, cercando senza successo di farla passare come un’osservazione noncurante. «Perché non me l’hai detto?» sbotta però, lasciando cadere ogni finzione.

«Il perché te l’ho scritto nella lett– ,» tenta di replicare Steve, ma quelle parole vanno a colpire l’innesco ancora troppo sensibile di Tony:

«Non mi interessa cosa hai scritto nella tua cazzo di lettera!» lo interrompe, e lo sguardo che gli rivolge è lo stesso col quale l’ha fulminato in Siberia5. «Voglio sentirlo da te, adesso,» lo incalza ancora, con la mascella e i pugni serrati, e Steve non esclude che non sia sul punto di colpirlo.

Non reagisce alla provocazione, limitandosi a rispondere:

«Dovevo proteggerlo, Tony. È il mio migliore amico, è… è mio fratello e non sapeva neanche di esserlo,» la sua voce si incrina e non può farci niente, non può mantenerla integra così come non ha potuto mantenere integro Bucky quando si è dissolto a un passo da lui. «La cosa peggiore è che adesso è stato tutto inutile,» si lascia sfuggire alla fine, tamponandosi con rabbia gli occhi diventati umidi contro la sua volontà.

Tony sospira, ancora innervosito, e scuote scoraggiato il capo con un movimento brusco.

«È inutile anche discuterne, eppure eccoci qui,» commenta pragmatico, con un sottotono frustrato.

«Pensavi che sarebbe cambiato qualcosa?» indaga Steve, perplesso da quell’improvviso sconforto, quando fino a pochi istanti fa era in preda alla rabbia.

«Magari lo speravo,» borbotta lui corrucciato, abbassando le ciglia a velare gli occhi scuri per poi serrare con forza la bocca.

Steve non si era aspettato un perdono, forse neanche una comprensione totale, ma Tony adesso sembra smarrito nei suoi stessi pensieri. Lo vede girare la testa di lato a farsi da scudo, evitando il suo sguardo e prolungando quel silenzio.
Percepisce il dialogo arrivare a un brusco punto d’arresto, a schiantarsi con uno stridio di freni contro un muro che Tony sembra non riuscire ad abbattere del tutto nonostante voglia indubbiamente farlo. Steve si fa indietro col busto, permettendosi di inalare più aria del necessario nel tentativo di acquisire più sicurezza per ciò che ha appena deciso di fare. Non sa dire se sia un modo efficace per fare finalmente breccia; di sicuro non lo ritiene un modo intelligente, ma è l’unico che ha a disposizione.

«Prima vi ho sentiti parlare,» proferisce, nel modo più atono che gli riesce, e quell’ammissione gli brucia la gola.

Tony alza di scatto la testa, gli occhi guardinghi e leggermente sgranati; il dialogo si rimette in moto con un sobbalzo violento.

«Prima quando?» lo incita, allarmato e preso dallo sforzo di nasconderlo.

«Con Rhodes,» risponde conciso lui, stringendo istintivamente la stoffa dei pantaloni.

Tony boccheggia per qualche istante, disorientato, e i suoi occhi osservano allibiti il suo volto, forse alla ricerca di un segno che gli permetta di smascherare uno scherzo di cattivo gusto.

«Ci hai… spiati?» chiede conferma poi, senza più celare il proprio sbigottimento, per ora ancora neutrale.

Steve conclude che non esiste davvero altro modo per definire la cosa. Inclina la testa di lato, tentenna e infine espira seccamente la sua risposta:

«Sì.»

Tony potrebbe avere mille e più reazioni tutte perfettamente giustificate, soprattutto considerando la sua indole paranoica, ma tutto ciò che fa è sbuffare sonoramente, incrociare le braccia e inchiodarlo sul posto con uno sguardo acuminato. Sul suo volto si agita ancora un velo d’incredulo sospetto, ma sembra più spiazzato che arrabbiato.

«Da quando hai iniziato a comportarti come un fallibile essere umano?» lo stuzzica poi, ancora serio, ma con un fioco brillio impertinente nello sguardo.

Steve alza appena gli occhi al cielo, ma si concede di rilassarsi un poco a quella reazione pacifica.

«Non avrei dovuto, ma…»

«Fermo lì,» lo blocca Tony, alzando un dito a troncare le sue scuse. «Dovrei incazzarmi, ma in realtà mi hai fatto un favore, quindi tieniti le tue giustificazioni,» continua poi, con l’aria di chi si è appena tolto una tonnellata dalle spalle.

Steve segue la direttiva e tace, rassicurato di fronte a quell’ammissione amara, malamente camuffata dal suo solito modo di fare disincantato.

«Cosa hai sentito?» chiede poi, ora con tangibile apprensione.

«Dalla Siberia in poi,» risponde lui con puntualità, di nuovo con voce grave.

Tony affila lo sguardo, meditabondo, ma non mette in dubbio quell’affermazione, concedendogli una pagliuzza di fiducia che Steve non è intenzionato a sottovalutare.

«Non c’è più niente da dire, allora,» asserisce con fermezza, scostandosi appena dal bancone a sottolineare la distanza che sembra voler ristabilire tra loro.

Steve lo osserva mentire, e sa che non si è impegnato a farlo; lui lo osserva di rimando, altrettanto consapevole di quel fatto. I loro sguardi continuano a cozzare sfuggenti per ancora una manciata di secondi, finché Tony non puntella di nuovo i gomiti sul bancone con fare rassegnato. Steve riesce quasi a intravedere la domanda che aspetta da ore pendergli dalle labbra.

«Hai davvero mirato alla testa?» chiede infatti, a voce molto più bassa del normale.

Non ha bisogno di specificare a cosa si stia riferendo. Tutte quelle domande non hanno bisogno di spiegazioni, di essere collocate: si incastrano perfettamente nelle risposte che entrambi hanno cercato di darsi per due anni. Anche adesso, Steve ricorda il momento in cui la rabbia e il dolore negli occhi di Tony si sono trasformate in terrore cieco e sgomento nel vedere lo scudo pronto a calare su di lui.

«Sì,» proferisce infine. «Per un solo attimo, sì,» ripete, sciogliendo finalmente quel pensiero che gli si era contorto in testa con le sue spire fino ad ora, doloroso.

Potrebbe aggiungere che è stato puro istinto di combattimento, che in quel frangente non stava davvero pensando, che nell’istante in cui ha incrociato i suoi occhi sbarrati ha frenato il colpo e deviato la traiettoria, che non avrebbe mai potuto ucciderlo volontariamente. Ma non lo fa, perché suonerebbero come scuse effimere insufficienti a camuffare il fatto, e sa che Tony non ha bisogno di sentirle: le ha già immaginate da sé, o non starebbe neanche parlando con lui.
Tony giunge le mani davanti a sé per poi intrecciare le dita, e sembra di nuovo pensoso.

«È rassicurante,» lo spiazza di nuovo, con assoluta naturalezza.

Steve gli scocca un'occhiata interrogativa, preso totalmente in contropiede e faticando a seguire le sue solite logiche contorte.

«Vedere finalmente il tuo “lato oscuro” 6,» precisa allora lui, intercettandola e riempiendo parte dei buchi nel suo ragionamento con parole quasi dimenticate.

«L’hai visto ora?» chiede lui accigliandosi, sapendo di sembrare lento di comprendonio ai suoi occhi, ma senza davvero la minima idea di dove stia andando a parare.

«L’hai ammesso ora, il che è un notevole miglioramento rispetto a sbandierare al mondo la tua assoluta purezza d’animo per poi andare in giro a picchiare gente col tuo scudo e lasciarla a morire,» si blocca, come pentendosi delle proprie parole, e scuote la testa, mentre Steve abbassa lo sguardo, realmente mortificato. «Benvenuto anche tu nella zona grigia,» continua poi l’ingegnere, vagamente beffardo.

«Lo stai ammettendo anche tu?» indaga Steve, ancora abbastanza perplesso e aspettandosi da un momento all’altro un’altra stoccata sui fatti della Siberia.

«Non l’ho mai negato e non posso farlo,» ribatte lui, con un breve sospiro che sa di rimorso. «Ho davvero creduto che stessi per uccidermi,» esala poi dopo un breve silenzio, scuotendo appena la testa in un riflesso nervoso, e più che una stoccata quella sembra una domanda implicita.

«Tu avevi quasi ucciso Bucky. Non ci ho visto più,» risponde con franchezza Steve, senza cercare giustificazioni, ed è lieto che neanche lui lo faccia. «Ma tu sei un mio compagno, e io non sono un assassino,» conclude poi, cercando i suoi occhi e trovandoli, ancora oscurati dal dubbio e dal risentimento, ma forse meno cupi.

Annuisce rigidamente, lasciando poi uscire un respiro un po’ costretto.

«Neanch’io,» risponde infine Tony, evitando accuratamente di ricambiare la prima affermazione.

L’occhiata che gli scocca cela forse una scintilla di gratitudine per averlo fermato in tempo, ma Steve si convince di stare leggendo troppo in un uomo che non vede da anni e che forse non ha mai conosciuto così bene.

«Ma sono uno stronzo,» riprende poi Tony, senza preavviso e con malcelata insofferenza per quella confessione.

Steve lo fissa interrogativo, e Tony evita il suo sguardo, tamburellando a disagio le dita sul bancone.

«Non avrei dovuto mettere in mezzo Peggy, prima,» dice d'un fiato, sollevando gli occhi nei suoi nel pronunciare il suo nome per poi abbassarli di nuovo, in un contatto sfuggente.

È la cosa più simile a delle scuse che gli abbia sentito pronunciare da quando lo conosce, e il commento successivo gli sfugge dalle labbra:

«È la prima volta che ti sento ammettere di aver sbagliato.»

«Allora ascolti molto poco e molto male, ma forse è la vecchiaia,» sbuffa lui, recuperando la riserva di frecciatine dedicate a lui. «Sam in realtà mi ha detto la stessa cosa, alla RAFT,» riflette poi, meditabondo, picchiettandosi sovrappensiero le dita al centro del petto e rendendosi poi conto dell’inutilità di quel gesto. «Magari non sono bravo a far capire che so quando ho sbagliato,» dice, con leggerezza solo apparente, e Steve si sforza di non fare altre osservazioni pungenti sull’assurdità di vedere Tony Stark scendere dal suo piedistallo per proferire quelle parole.

«Direi che potremmo lavorarci entrambi,» replica, accettando per una volta quel compromesso.

«È un’altra ammissione, Rogers?» lo incalza Tony, una luce furbetta nello sguardo, ma Steve svicola in scioltezza, senza dargliela vinta.

«Una constatazione,» rettifica, tranquillo, e Tony quasi alza gli occhi al cielo, ma c’è un mezzo sorrisetto a premergli sulle labbra, talmente sottile da sembrare più un riflesso fuggevole.

Scivolano in un silenzio quieto, senza interrogativi molesti a infrangerlo nelle loro menti. Steve si gode quella sensazione come un balsamo che lenisce le sue ferite. Quella più fresca pulsa ancora, incurabile, ma gli sembra quasi di sentire la mano di Bucky sulla spalla, a complimentarsi con lui per non essersi gettato a testa bassa nell’ennesima rissa costringendolo a tirarlo fuori dai guai. Anche Peggy sarebbe stata fiera nel vederlo agire con così poca impulsività. Quell’ultima riflessione porta l’ennesima ombra sul suo volto.

«Tony?» lo chiama, e lui si riscuote, invitandolo a continuare con istintiva circospezione. «Davvero hai rinunciato a venire al funerale di Peggy?» chiede, pizzicandosi nervosamente una pellicina.

Tony pare sorpreso da quella domanda, ma rimane apparentemente tranquillo, solo un po’ accigliato.

«Sì. Non volevo rischiare di trasformare la funzione in un circo per la stampa,» dice, a mo’ di spiegazione. «E tu avevi più diritto di me a stare lì… ho avuto comunque modo di farle visita poco prima che morisse,» aggiunge quasi a rassicurarlo, ma evidentemente rattristato.

«Eravate in confidenza?» azzarda Steve, incuriosito.

Tony alza le spalle e oscilla col busto a indicare una risposta altrettanto vaga.

«Era di famiglia… non la vedevo così spesso, in realtà, ma mio padre l’ha sempre considerata una sorta di sorella minore. Parlava sempre di lei, quando non era occupato a parlare di te,» s’interrompe bruscamente dopo quella confessione, così di scatto che Steve potrebbe giurare che si sia morso la lingua.

«Erano molto legati,» gli conferma, in modo neutrale e un po’ nostalgico. «Lo eravamo tutti, per forza di cose,» specifica, spinto più dall’onda dei ricordi che da una precisa volontà.

«Anche Barnes?»

La domanda arriva inaspettata, tesa, ma Steve ne intuisce la logica e si forza a rispondere. Pensare a lui fa male e rievoca la cenere che sente ancora incollata sui palmi, ma spingersi più indietro è come rientrare in un abbraccio lontano nel tempo. Ricorda il calore fumoso di un pub di Londra, il sapore amarognolo di una birra scadente, le voci roche e stonate dell’Howling Commando che intonava canzonacce in suo onore per punzecchiarlo, Howard brillo e malfermo sulle gambe aggrappato a Bucky per non cadere, gli occhi di Peggy che lo trovavano tra la folla festante, in attesa di un ballo. Si rende conto di avere di nuovo la vista appannata, ma ormai è inutile nasconderlo.

«Eravamo amici, Tony,» proferisce soltanto, incapace di aggiungere altro. «Puoi non crederci, ma è così,» aggiunge, accomodante, immaginando quanto sia difficile per lui accettare che ci sia stato un tempo in cui vittima e involontario assassino bevevano insieme ridendo allo stesso tavolo nonostante gli orrori della guerra.

«Dovrò fidarmi sulla parola,» scrolla le spalle Tony, con sua sorpresa.

L’ingegnere solleva lo sguardo, forse percependo la sua perplessità.

«Non è un qualcosa che mi riesce molto bene, ma ci proverò,» puntualizza, ed esibisce un debole sorriso mesto.

Il suo sguardo però è serio, quasi compito, come se avesse davvero intenzione di impegnarsi in quell’aspetto, e Steve sa che, quando Tony dice che farà qualcosa, la farà a qualunque costo e con qualunque mezzo, a dispetto di tutti gli ostacoli. E forse può dargli un incentivo.
Si alza dallo sgabello stiracchiandosi le gambe, e Tony lo fissa interrogativamente.

«Puoi aspettare un momento qui?»

 
***
 

Arrivare in camera, recuperare il blocco da disegno e tornare in sala comune richiede non più di due minuti. Trovare lo schizzo che aveva in testa quando ha deciso di mettere in atto quell’idea discutibile e dai probabili risvolti rovinosi gli prende almeno un quarto d’ora, in cui Tony si limita a fissarlo a metà tra l’apprensivo, l’interrogativo e con una malcelata preoccupazione per la sua salute mentale che, in fin dei conti, è del tutto giustificata.

Individua finalmente la pagina giusta e d’istinto si affianca a Tony per poggiare il quaderno davanti a lui; lo intravede scostarsi un poco, contratto, e si affretta a lasciargli mezzo braccio di distanza per evitargli un attacco d’ansia, per poi sedersi sullo sgabello lì accanto. Lui rimane guardingo, ma sembra approvare la soluzione e si decide a puntare gli occhi sul disegno. Lo vede assumere un’espressione combattuta, e stringe le labbra con forza nel riconoscere i volti di Howard e Bucky, l’uno accanto all’altro mentre si sostengono a vicenda, ridendo a crepapelle. È un rapido disegno a carboncino, appena abbozzato in una rara serata di libertà dopo un lungo periodo di combattimenti, ma i due uomini sono perfettamente riconoscibili.

Tony distoglie lo sguardo, turbato, e lo punta invece sul disegno che occupa tutta la pagina precedente, su cui Steve ha posato una mano con finta noncuranza. Tony gliela scosta appena, con inaspettata gentilezza, scoprendo il volto fiero di Peggy, tracciato con cura e meticolosità. Steve non oppone resistenza, capendo che forse preferisce dirottare l’argomento principale ancora per un po’, prima di affrontarlo, ma si trova a stringere il pugno nell’incontrare quei lineamenti d’inchiostro che non le rendono giustizia.

«Non ha mai smesso di amarti,» mormora Tony, a occhi bassi, così piano che forse se l’è immaginato.

«Si è rifatta una famiglia,» controbatte lui, senza pensare né riuscire a scacciare quella malinconia dalla sua voce, ma Tony scuote la testa. «E io ero scomparso. Sono felice che l’abbia fatto,» continua quindi, con fermezza crescente, e l’ingegnere, di nuovo, non sembra convinto.

«Smetti di amare qualcuno perché ci litighi, o ti tradisce, o ti fa del male, o perché semplicemente… smetti di farlo,» ribatte lui, le sopracciglia aggrottate. «Non perché scompare,» conclude a voce più bassa, venata di una tristezza che ha tentato di reprimere finora.

Steve si concede un minuto per assorbire quelle parole, dette da chi è nella stessa situazione in cui si è trovata Peggy settant’anni fa. Cerca di immaginarla nel momento in cui la loro comunicazione si è interrotta. Per lui si è interrotto anche tutto il resto, fino a Times Square nel 2011. Per lei no. Lei ha udito il filo che li connetteva tranciarsi di netto in un urlo di lamiere e ghiaccio sbriciolato, con la promessa di un ballo che ha continuato a echeggiare per decenni. No, andarsene non è una conclusione, né un taglio netto: lascia tutto in sospeso, o forse gli permette di radicarsi in modo definitivo.

Guarda di sottecchi Tony, senza parlare e sperando che riesca a leggergli negli occhi quanto gli sia grato per quelle parole forse banali, ma che aveva bisogno di sentire da tempo. Tony s’impegna a evitare i suoi occhi, immergendosi di nuovo nelle linee spesse e grezze che formano il volto di suo padre e di Bucky.

«Puoi averlo, se vuoi,» prorompe Steve, ed è consapevole della sua voce un po’ roca e costretta.

Non sa da dove sia provenuta quell’offerta, ma ha rinunciato da tempo a non seguire sempre il suo istinto.

«Non sono un tipo nostalgico,» ribatte Tony, senza suonare molto convinto della cosa.

È quell’esitazione che spinge Steve a strappare con delicatezza la pagina, avendo cura di non intaccare il disegno.

«Cosa dovrei farci?» sbotta lui, graffiante, con la voce che trema e gli occhi puntati in un punto indefinito di fronte a sé, verso la vetrata buia che restituisce il loro riflesso.

«Quello che vuoi,» ribatte Steve, piazzando il foglio davanti a lui sensibilmente a faccia in giù; sul retro si distingue uno confuso scarabocchio a matita di Trafalgar Square. «Puoi buttarlo, o bruciarlo, o chiuderlo in un cassetto. O puoi tenerlo e pensarci su,» conclude, senza poter prevedere in alcun modo la reazione di Tony.

Lui fissa la filigrana ingiallito di quel pezzo di carta, su cui spicca una macchia di caffè forse vecchia di settant’anni, o forse caduta appena qualche settimana fa. Lo rigira con la punta delle dita, osservando quello schizzo frettoloso dai volti però ben distinguibili, aperti in una risata unisona. Lascia andare un sospiro che sfiora il disegno, per poi piegarlo con precisione in quattro, continuando a stringerlo tra le dita con più forza del necessario, forse indeciso se stracciarlo a metà o meno. Lo sente deglutire rumorosamente e rimane in silenzio, consapevole di non potersi aspettare un perdono, ma sperando che almeno Bucky potrà ottenerne uno quando sarà il momento. Ci sarà un momento, si ripete con veemenza, a scacciare la cenere.

«Possiamo parlare davvero, adesso?» lo riscuote dopo qualche minuto, senza durezza.

Per un momento, è convinto che Tony non risponderà. Che accartoccerà il foglio, si girerà di scatto rifilandogli un pugno sui denti e uscirà dalla sala comune per tornare fuori, affacciato sul buio.
Invece infila il foglietto nella tasca dei pantaloni, con un altro piccolo sospiro. Fa un semplice cenno d’assenso e rialza lo sguardo su di lui: le sue iridi sono leggermente lucide, ma anche più limpide, prive dell’ombra che le ha intaccate finora, forse libere anche dalle schegge e dal gelo.

«Dopo di te, nonnetto.»



But take the spade from my hands
And fill in the holes you’ve made
 

Note:

1L'intervento di Nataša sembra qui un deus ex machina privo di logica, ma è largamente esplicitato e approfondito nella mini-long compagna Ferite.
2Riferimento alla one-shot Speaking Terms, che vede il loro primo incontro post-Civil War.
3Piccolo richiamo ai fumetti: la Future Foundations è un'associazione messa in piedi da Reed Richards alias Mr. Fantastic. Nella Civil War originale, sono lui e Stark (con altri scienziati) a progettare la RAFT nella Zona Negativa; qui ho esonerato Tony dal fattaccio perché nel visitare la RAFT nel MCU sembra visibilmente scioccato, come se non si aspettasse di vederla così brutale.
4Questo fatto non è mai confermato nei film, da quanto so, ma in Captain America: The Winter Soldier, durante la sequenza di Zola, si vede chiaramente l'assassinio degli Stark figurare tra gli "incidenti" voluti dall'HYDRA. Ora, possiamo supporre che Steve non sapesse ancora del coinvolgimento diretto di Bucky, ma ha comunque taciuto a Tony il fatto che la morte dei suoi non fosse stata affatto un incidente.
5Friendly reminder di quello sguardo-> qui
6 Il riferimento è ad Age Of Ultron, quando Tony dice che non si fida di chi non ha un "lato oscuro". A voi le conclusioni di un'affermazione del genere ripescata in questo contesto ;)

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori, eccovi finalmente il confronto tanto atteso <3
Mi scuso per la lunghezza del capitolo... ma questo è Il Capitolo per eccellenza, e spero davvero che lo abbiate apprezzato. Ci tengo come sempre a sottolineare che manca in toto il PoV Tony, oltre che la parte integrativa della one-shot. Quindi Steve si fa tanti film mentali più o meno corretti, e alcuni "balzi" nel dialogo sono dovuti ai ragionamenti più contorti del caro ingegnere (esiste una bozza complementare PoV Tony di questa roba, ma spero che il suo filo logico risulti abbastanza chiaro anche senza conoscerla).
Ovviamente non è tutto risolto grazie a una chiacchierata e un disegnino: ferite come queste richiedono anni per essere sanate del tutto, ma al momento ci sono obbiettivamente questioni più urgenti da affrontare, e lo scopo era riacquistare quel minimo di fiducia reciproca necessaria a lavorare in squadra. Spero davvero che in Endgame non banalizzino il tutto riducendolo solo a quanto mostrato nell'ultimo trailer.

Ringrazio infinitamente T612, _Atlas_, shilyss e serica per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite o che leggono soltanto <3
Il prossimo è l'ultimo capitolo, per il quale le informazioni apprese da Capitan Marvel e l'ultimo trailer di Endgame mi hanno costretta a qualche modifica e integrazione sostanziale (oltre a illudermi di essere quasi-veggente). Spero gradirete ;)
Alla prossima, al 100% prima di Endgame,

-Light-

P.S. A questo giro, doppia canzone, perché quella dei Linkin Park in apertura sembrava cucita in toto addosso a Steve e Tony e non potevo esentarmi dall'inserirla :')
   
 
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