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Autore: TheHellion    12/04/2019    0 recensioni
"Mitiya mi piace, mi piace tanto, ma sul serio lo amo?
Ho paura di pensare la risposta che conosco, che ho dentro da giorni ormai, perché, come dice lei, amare una persona spezzata è un rischio gigantesco che non ho mai corso."
Cassie Dawson gestisce un negozio di vestiti di seconda mano assieme a sua madre a Townsend, una piccola cittadina del Tennessee, all’ombra delle Smoky Mountains.
Ha accettato la tranquillità di una vita sempre uguale a sé stessa, anche se spesso si trova a sognare l’ignoto che c’è oltre le montagne. Non può pensare che questo varchi la porta del piccolo esercizio commerciale in un pomeriggio autunnale e si presenti con il nome di Mitiya Kurzinik.
Mitiya è un ex trapezista di origini ucraine con un passato misterioso alle spalle, che non si fa problemi a sfidare l’immobilità e il pregiudizio della cittadina di montagna, conquistando poco a poco il cuore ferito e disilluso di Cassie, senza rendersene conto.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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2

 
Gli occhi quasi si chiudono davanti allo schermo del pc, mentre l’ennesimo episodio di una delle tante serie che seguo scorre davanti a essi. Io sono davvero fatta male, quando manca il mio personaggio preferito, tendo a ignorare i dialoghi, a perdermi, specialmente a quest’ora della notte. Mamma dorme da un bel pezzo. La sento russare dalla stanza di fronte alla mia.
Decido di salutare Netflix per un po’ e dedicarmi a un altro dei miei hobby. Adoro scrivere, anche se sono una schiappa a razionalizzare tutte le idee che ho in testa. Sono su AO3 da quando ero una bambina e ho appestato il sito di centinaia di fan fiction e storie originali. Ho ottenuto anche un buon numero di recensioni alle prime, che a mio avviso, sono le più brutte e ingenue di tutte quelle che ho scritto.
Sono un po’ scoraggiata, però, ultimamente.
Da quando ho rotto con Bryan ho perso un po’ di entusiasmo. Inizio a credere di meno nei miracoli dell’amore e, di conseguenza, mi va meno di esaltarli all’interno di alcune storie.
D’altra parte non voglio nemmeno creare vicende che finiscono male, perché mi sentirei in colpa per la sorte dei personaggi. Non è giusto che vivano una vita di merda solo perché sono delusa.
Sì, sono delusa,  ma non mi do il tempo di sentirmi così. Non mi sembra giusto perdere tempo dietro una sciocchezza; amare qualcuno non è essenziale. Si campa bene anche senza. Il vuoto che sento non è che un capriccio che mi permetto quando non ho niente a cui pensare.
Osservo per qualche minuto il foglio bianco di Word e provo a scrivere qualche frase. Non ne reputo buona nemmeno una e chiudo senza salvare.
Forse è meglio che vada a dormire.
Controllo l’ora dalla sveglia digitale poggiata sul comodino. So di avere l’orologio anche sul pc, in fondo a destra della schermata home, ma, sapete, le vecchie abitudini sono dure a morire.
Chiudo tutto, segnandomi su un foglio elettronico l’episodio e il minuto a cui sono arrivata. Appoggio il laptop grigio scuro sulla scrivania. C’è qualche libro abbandonato lì sopra che si è impolverato. Dovrei pulire, risistemare, ma quando arrivo a casa ho poca voglia di farlo. Presto si accorgerà mamma e sistemerà tutto, penso, mentre mi metto a letto, sotto le coperte e spengo la luce dell’abat-jour sopra il comodino.
***
Sono uno zombie finché non bevo una tazza di caffè. Non mi va nient’altro alla mattina; ho troppo sonno anche per masticare. Sono le otto e ventidue, me ne accorgo sollevando lo sguardo sopra l’orlo della tazza bianca, verso l’orologio agganciato alla parete.
«Oggi vai tu a fare la spesa, Cassie?» mi chiede mamma, sedendosi vicino a me. Passa un cucchiaio di marmellata sul pane tostato che ha appoggiato su un piatto.
«Ahà» rispondo io, mandando giù un altro sorso di caffè.
«Che entusiasmo.»
«Ho dormito due ore, cosa vuoi che faccia? I salti di gioia?»
«Hai dormito con il culo scoperto?» mi chiede, urtata dalle mie parole.
Io non rispondo, mi stringo nelle spalle e finisco di bere tutto il caffè, prima di puntare le mani sul tavolo e alzarmi in piedi. Mi allungo sul tavolo a prendere il foglietto strappato su cui ha segnato le cose da prendere. Lo trascino sulla superficie liscia, prima di ficcarmelo in tasca.
Mi sono pettinata alla meno peggio, ma non mi importa. Non devo andare in negozio adesso, devo andare da Betty, al minimarket a prendere due cose in croce per la colazione. Tornerò a casa per correggere le occhiaie da Netflix e andrò al lavoro perfetta come sempre. Fuori almeno.
Stamattina sono di pessimo umore, forse per come mi sono addormentata ieri.
Dopo aver preso la borsa di mia madre, perché è lì che ci sono i soldi, mi volto verso di lei e le rivolgo un sorriso. Lei se lo merita.
«Ci vediamo più tardi, ma’» le dico. «Porto a casa la roba e ti raggiungo, ok?»
Lei annuisce.
«A dopo, Cassie!»
Esco di casa e tiro un profondo sospiro quando vengo investita dai raggi deboli del sole. È autunno, non fa freddo, ma piove in continuazione e giornate come queste sono rare.  Assicurò la tracolla della borsetta alla spalla e infilo le mani nelle tasche mentre percorro il marciapiedi a passo sostenuto. C’è sempre la solita gente in giro che mi saluta e mi sorride.  Non stiamo tanto lontano dal negozio, perché viviamo nella casetta bassa vicino al Lily Stand. È stata proprio Lily a vendere a mia madre una delle sue proprietà. Mezza Townsend è della sua famiglia, da generazioni. Betty, la signora del minimarket è sua cugina, Buddy è il fratello di suo padre, Robert suo fratello. Sono tutti imparentati da queste parti. Mi fermo qualche istante davanti al Lily Stand perché non riesco a far tacere un pensiero. Anzi, questo mi spinge a entrare con la scusa di augurare il buon giorno a Lily, seduta su uno sgabello dietro il banco della minuscola reception.
È una signora snella che porta benissimo i suoi cinquantatré anni. I capelli neri sono ricci e corti fino al mento. Gli occhi scuri profondi e penetranti. Mi accoglie con un sorriso dolcissimo, come ogni volta che passo così presto, un sorriso che mi contagia.
«Ehi, Cassie!  Dormi in piedi, oggi?»
«Cristo, Lily, stanotte ho fatto tardi e ho dormito due ore in croce. Si vede così tanto?»
Lei annuisce e ridacchia ancora un po’. «Sei uscita?»
«Sì, con un angelo sexy in tv.»
La mia battuta fa ridere. «Dovresti trovare qualcuno, invece. Vuoi invecchiarti da zitella come me?»
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo. «Magari fossi come te alla tua età.»
Lei solleva le sopracciglia e storce un po’ le labbra, contraddicendomi senza dire nulla.
«Ti volevo chiedere una cosa» introduco il discorso che voglio fare con lei da quando sono entrata.
«Dimmi.»
«Per caso, ieri pomeriggio è venuto un uomo con un bambino piccolo?» domando a voce bassa.
Lily assottiglia lo sguardo sul mio, prima di spalancare gli occhi. «Sì, ha preso la stanza due.»
La privacy del cliente non esiste qui a Townsend.
«Lo avete spedito voi qui, me lo ha detto ieri» mi spiega.
Faccio per parlare, ma lei mi rivolge il palmo della mano. «Ci siamo subito presi bene.»
«Oh, bene. Sono contenta che ti sia piaciuto.»
«Solo a una cieca non piacerebbe, tesoro mio. Ma, a parte il suo bel culo, e quel sorriso bagnamutande, ha anche le mani d’oro.»
Non mi abituerò mai al linguaggio colorito che Lily usa quando è in confidenza con qualcuno. Pensavo che lo riservasse solo alle chiacchiere con mia madre, invece traumatizza anche me.
«Le mani d’oro?» chiedo, perplessa.
«Non nel senso che pensi tu. Potrebbe essere mio figlio.»
Distende il braccio sinistro e indica qualcosa alle mie spalle. Seguo la direzione del suo cenno e mi trovo a guardare la vecchia scatola del sistema di riscaldamento. Nella piccola hall non c’è il radiatore, ma il condizionatore d’aria che funge anche da pompa di calore.
Sgrano gli occhi. «Non fa più quel rumore infernale.»
«No, infatti. Lo ha sistemato lui, ieri sera, prima di andare a dormire. Quel cretino di Jim aveva detto che era da buttare, invece è bastato ripulire la ventola per farlo andare come nuovo.»
«Jim voleva vendertene uno di quelli che ha in negozio. È normale che non…»
«Jim è un imbecille che non sa fare il suo lavoro» sentenzia lei. «E mi guarda il culo ogni volta che mi giro.»
«Mi sono accorta che ti sbavava dietro quando avevo sei anni. Non penso sia cambiato niente» rido, divertita, prima che il silenzio si distenda tra me e lei.
«Lo straniero rimarrà qui per una decina di giorni. Mi ha promesso che farà un po’ di manutenzione in cambio di una stanza» riprende Lily. «So che è questo che vuoi sapere.»
Sollevo le sopracciglia e curvo le labbra in una smorfia annoiata. «Perché pensi una cosa simile?»
«Perché sono una donna anche io» risponde lei, sorridente.
Non rispondo a quella frase, perché proprio non mi va di scontrarmi contro il muro delle sue convinzioni. È presto, ho sonno e non vedo l’ora di fare quello che devo per tornare a casa.
«Ok, ti lascio ai tuoi pensieri, Lily. Adesso devo proprio andare» la liquido, mostrandole un sorriso più professionale che vero. Nemmeno io capisco perché mi dia così fastidio che lei insinui, ma sento il desiderio di lasciarmi il Lily Stand alle spalle.
***
Ho preso quello che dovevo, l’ho portato a casa e adesso ho tutta la voglia di prendermi qualche altra ora libera per riposarmi. Infatti apro il pacchetto di M &M’S che mi sono comprata, un piccolo vizio di cui mia madre non dovrà sapere niente, e inizio a sgranocchiare le caramelline di cioccolata, dopo essermi seduta sul divano. La TV è spenta e il silenzio, intervallato solo dal ticchettio regolare dell’orologio, mi fa scivolare in un sonno pieno di sogni confusi.
È Love’s only a Feeling dei The Darkness a svegliarmi; qualcuno mi sta chiamando al cellulare.
Rispondo con la voce impastata e distanzio il dispositivo non appena sento urlare mia madre.
«Che diavolo stai facendo ancora lì? Ho un sacco da fare.»
Alzò gli occhi al soffitto e sbuffo annoiata.
«Andiamo, ma’, non arrabbiarti. Ho dormito un po’ e…»
«Alzati e vieni subito qui o vengo a prenderti per un orecchio.»
Non mi lascia spazio per replicare e chiude barbaramente la chiamata. Fisso il telefono per un po’ e, infine, tiro giù il menù a tendina delle notifiche.  Spalanco gli occhi quando trovo un messaggio di Bryan su Messenger. “Passo tra un po’ in centro. Ci vediamo? Mi piacerebbe parlare con te.”
«Certo, come no?» dico ironica tra me e me, senza rispondere al messaggio.  Lo visualizzo e basta. Me ne arriva un altro subito dopo sempre dal suo profilo. “Mi manchi.”
Vorrei tanto scrivergli di andarsene a fanculo, ma sono troppo signora per abbassarmi a tanto, così metto via il telefono, nonostante vibri con una nuova notifica, mi sistemo ed esco. Avrei dovuto truccarmi, rendermi presentabile, ma non ne ho tanta voglia. Scopro di essere di pessimo umore ora che lo stronzo si è rifatto sentire.
Cammino a testa bassa in direzione del second hand e quasi mi scontro con Buddy che è appena uscito dal suo bar a sistemare la bacheca con le offerte del giorno, come se avesse una varietà di pietanze da offrire.
«Guarda dove cammini» mi dice, accennando a me con il mento.
Annuisco e basta , non mi va proprio di discutere, nemmeno quando mi sento dire quello “stronza” sottovoce.
Buddy è il minore dei miei problemi in questo momento. Continuo a pensare e ripensare al messaggio di Bryan e alla possibilità di rivederlo in giornata. Gli ho detto chiaramente che non saremmo rimasti amici, che non voglio più essere cercata, ma lui è così egoista da fregarsene di ciò che desidero io, perciò non si fa scrupoli a perseguitarmi quando si annoia.
Sì, evidentemente mi sta cercando perché si annoia.
Saluto mamma distrattamente e mi infilo nel retrobottega per togliermi il giubbetto di dosso. Mi do una sistemata davanti allo specchio. Non sono proprio male, anche senza trucco. Sto bene così, mi dico.
Torno al banco e affianco la mamma che sta facendo il conto a una coppia di ragazzi. Lei ha in braccio una bambina molto graziosa che,  col ciuccio in bocca, osserva ogni movimento di mia madre alla cassa.
Non li conosco molto bene, perché vivono fuori dal paese e non vengono molto spesso a trovarci, ma ogni volta, lui chiacchiera a ruota libera con la mamma del lavoro alla distilleria, impiego che non gli piace per niente.
Qui, quasi tutti lavorano in qualche distilleria. Ce ne sono tantissime, perché il whiskey è come il pane da queste parti. Anche il padre di quello stronzo di Bryan lavora in una di quelle aziende, ora che ci penso, ma lui non è un operaio, è un dirigente, proprio come papà. Erano amici una volta, quando io e lui eravamo bambini che giocavano insieme in riva al fiume poco distante. Siamo cresciuti praticamente insieme, finché papà non è morto. Non so bene che cosa è successo quella volta, ma è stato qualcosa che ha cancellato tutti gli anni di vicinanza con un colpo di spugna.
Mia madre è rimasta legata solo a Bryan perché era praticamente cresciuto con me e con lei, quando i suoi lavoravano,  ma dopo la bastardata che mi ha fatto il loro rapporto è andato a farsi benedire. Glielo aveva detto; comportati bene con Cassie o ti spezzo le ossa.
Non ha tenuto fede a tutto il suo proposito, visto che Bryan è un bestione di quasi due metri, ma lo ha proprio escluso dalla sua esistenza. Niente più chiamate, niente più raccomandazioni, niente più sorrisi.
Ho la tentazione di raccontare a mia madre dei messaggi, ma è come se già la sentissi; non rispondere, chiudilo fuori dalla tua vita una volta per tutte.
Ma la mia è una questione d’orgoglio, perché io non scappo mai così, non fingo che le persone non esistano. Preferisco affrontare le cose, farci i conti e sforzarmi a chiudere tutto.
***
Mamma sembra non voler andare a casa, oggi. Non so che le è successo, ma ha un’espressione strana sul viso. Siamo passate da Rob come tutte le sere, abbiamo ritirato la cena ordinata e ancora siamo in giro per Townsend.
Siamo state al parco giochi, quello piccolino vicino casa nostra. A quest’ora è completamente vuoto e nessuno ha da ridire se ci sediamo sui piccoli sedili dell’altalena.
Lo facciamo spesso da quando siamo rimaste sole e di solito sfruttiamo quel momento per parlare.
«Lily ha detto che oggi sei passata da lei per sapere come sta il ragazzo che abbiamo aiutato ieri, quello col bambino» mi dice.
Quella dannata bocca larga di Lily. Dovevo aspettarmelo che le facesse la cronaca della nostra conversazione.
«Mitiya» la correggo io. «Sì, volevo sapere come se l’era cavata con Lily.»
Mamma ride e si spinge appena puntando un piede a terra.
«Starà qui per un po’» dice. «Quindi credo si siano presi bene.»
Nessuno potrebbe prendere male uno con un sorriso così bello, vorrei rispondere, invece rimango in silenzio e alzo lo sguardo verso la distanza.
«Lo farò venire anche in negozio. Abbiamo il lavandino del bagno che perde. Ti lascerò sola con lui» mi avverte, facendo scorrere una mano lungo la catena dell’altalena.
«Mamma...»
«Che c’è? Mi sono accorta di come lo guardavi ieri. Non dico che gli devi saltare addosso, ma quell’uomo ha un bel sorriso, magari ti contagia» mi spiega, come se il suo discorso avesse un senso compiuto.
Inclino il capo da un lato e sollevo le sopracciglia. «Mamma, io sorrido sempre, sembro avere una paresi.»
«Sono sorrisi finti, quelli che tiri fuori per forza anche se non ti va.»
Il suo sguardo si allontana dal mio, perdendosi davanti a lei, nella luce violacea della sera. Il sole è tramontato da un bel po’ dietro le montagne e inizia a fare piuttosto freddo.
«Ne so qualcosa» dice, dopo una lunga pausa, trasmettendomi una profonda tristezza. Vorrei chiederle il perché della sua affermazione, ma la conosco; non mi risponderebbe mai se ha quegli occhi.
«Che ne dici se andiamo a casa? Sto diventando un cubetto di ghiaccio» le dico, ridacchiando. Lei annuisce ma non si muove da lì.
«Dammi altri cinque minuti e torniamo a casa, ok?»
«Ok» le accordo, lasciando calare il silenzio tra noi e mi dondolo un po’ sull’altalena. La carezza debole dell’aria mi sposta i capelli dal viso mentre guardo in lontananza, chiedendomi se lontano, oltre le Smoky, c’è qualcuno che sta dondolando sull’altalena con la testa mezza vuota e si pone la stessa domanda idiota.
Trentuno anni e non ho mai sconfinato da questa zona. Mio padre odiava viaggiare e la mamma non si è mai opposta; lui ha le sue responsabilità, diceva sempre.
Da piccola non capivo che cosa volesse dire, poi crescendo ho compreso che il suo lavoro valeva più di me e lei messe insieme. Ricordo bene le rare volte che eravamo tutti insieme; si mangiava in silenzio con la televisione in sottofondo che il più delle volte trasmetteva notiziari. Mamma commentava una notizia e papà le rispondeva con un paio di parole. Sembrava un pesce fuor d’acqua quando era con noi, come se non sapesse che dire o che fare. Non era parte di quello che eravamo io e mamma, era il terzo elemento di una squadra che non ne aveva bisogno.
Ho sofferto quando è morto?
Alla gente ho detto di sì, ma non ho pianto più di tanto quando lo hanno portato via. Non avevo grandi ricordi di lui, se non quei momenti a tavola, il tempo passato seduti vicini sul divano quando davano i cartoni e i viaggi muti in auto quando mi accompagnava a scuola.
Non sono nemmeno arrabbiata con lui, né gli rimprovero qualcosa, perché credo che ognuno abbia la possibilità di amare o non amare gli altri.
Papà non è mai stato crudele con me, né mi ha fatto mancare nulla, non ha mai alzato un dito su di me, semplicemente non ha mai voluto starmi troppo vicino.
Quando mamma si alza lasciamo il parco e ci incamminiamo verso casa. Passiamo davanti alla nostra Jeep Cherokee del ‘96. La carrozzeria rosso pastello si è opacizzata e c’è qualche punto di ruggine attorno al tappo della benzina.  È sporca da fare schifo, specialmente all’interno. Dovrei lavarla uno di questi giorni. Mamma mi dice sempre di lasciar perdere, perché la macchina ci serve sì e no due volte al mese, per andare a fare rifornimento al centro commerciale che si trova a sei chilometri da qui.
A me dispiace lasciarla così, nell’incuria più totale. So che è un oggetto, ma ci sono affezionata, perché è una parte della nostra storia e perché forse ancora sogno di salirci su, accendere il motore, ingranare la marcia e partire, non so per dove. Uno dei miei sogni proibiti è proprio guidare finché non ho finito il carburante, giusto per cambiare aria, per vedere qualcos’altro oltre a Townsend.
Mamma sta aprendo il portoncino per entrare in casa, quando entrambe ci accorgiamo del suono non troppo lontano di una chitarra. Riconosco la canzone intonata da una voce dolce di uomo; è You’re Missing di Bruce Springsteen.
 
You're missing, when I close my eyes
You're missing, when I see the sun rise
You're missing.
 
Proviene da una delle stanze del Lily Stand.
Non posso fare a meno di pensare che sia proprio Mitiya a cantarla. La voce sembra la sua.
Manchi tu.
Chissà a chi la sta dedicando?
«Ehi, Cassie, vieni?»
Annuisco e la seguo all’interno. Non ho nessuna intenzione di scusarmi per essermi attardata ad ascoltare, anzi, ancor prima di mettermi a mangiare, con una scusa salgo in camera mia e mi affaccio dalla finestra. Da qui si vede meglio il Lily Stand e si sente meglio la voce intonata.
La finestra aperta è quella al secondo piano, l’unica con una luce dentro accesa.  Mi sporgo un pochino per poter vedere la persona che è seduta sul letto. Non riesco a vederlo bene finché la musica non si interrompe. L’ombra disegnata dalla luce calda di un’abatjour si muove sulla parete, mentre Mitiya allunga una mano verso l’anta aperta. Sta per chiudere la finestra mentre io mi affretto a tirarmi indietro in quella di camera mia.
«Signorina Dawson?» mi richiama. Cavolo, mi ha visto per due nanosecondi e già mi ha riconosciuto? A questo punto ho due strade da prendere, o mi ritiro e faccio finta di niente, o vado fino in fondo alla mia figura di merda e lo saluto con una scusa.
Opto per la seconda. Mi sporgo di nuovo dalla finestra, curvando le labbra in un sorriso cordiale ma visibilmente impacciato.
«Salve» esclamo.
«Anche lei si gode l’aria della sera?» mi domanda, dopo aver poggiato i gomiti sul davanzale ed essersi sporto.
«In realtà...»
Glielo dico oppure no?
Non posso mentire davanti al sorriso splendido che mi sta rivolgendo adesso, rischiarato dalla luce del lampione.
«Stavo ascoltando la canzone. Ha una bellissima voce, sa?» sparo, sincera, tutto a un fiato.
Lui scuote il capo, mentre ride divertito. Sta ridendo di me e di quanto gli appaio sfigata, probabilmente.
«Non è niente vicino a quella del Boss.»
«Sei un suo fan, Mitiya?» domando, accorgendomi solo dopo della confidenza che mi sono presa con lui e mi mordo automaticamente il labbro inferiore.
«Sì, lo adoro da quando ero un ragazzino» mi risponde, per niente turbato dall’andamento di quella conversazione.
«E tu, Cassie?» e solleva un angolo della bocca. Evidentemente le formalità stanno antipatiche a entrambi.
«Mamma mi ha fatto fare il pieno della sua musica sin da quando ero un feto. Sono nata con lui nel sangue e me lo sono portato dietro fino a oggi che sono ormai una megera.»
La mia frase lo fa scoppiare a ridere. Sono un dannato giullare, lo ammetto, e in questo momento mi piace da morire esserlo.
«Non è vero» mi dice, placando un po’ le risa. «Sei giovane e si vede perfettamente.»
«Neanche troppo. Ho trentuno anni sulle spalle» ammetto, annuendo.
Lui curva le labbra verso il basso e solleva le sopracciglia, spalancando quegli occhioni blu a cui resisto sempre meno. Nah, non ho mai resistito.
«Che veneranda età» esclama, prendendomi in giro. «Stando al tuo modo di vedere la vecchiaia, io sarei il fratello minore di Matusalemme, visto che ho superato la quarantina.»
Non volevo offenderlo, dannazione.
«Non volevo dire che…»
«Io non me la prendo, perché io non invecchio» e annuisce pure alle sue parole. «Io miglioro, come il vino.»
Mi strappa una risata, che tuttavia si interrompe bruscamente a causa di uno schiamazzo infantile. Mitiya si volta subito verso l’interno della stanza. Si dà qualche istante per rivolgersi di nuovo a me. «Il dovere mi chiama» e mi fa l’occhiolino.
Io annuisco e lo saluto con il cenno di una mano. Faccio per ritirarmi, ma lui pronuncia di nuovo il mio nome e io sono tutta orecchi.
«Domani passo in negozio» mi informa. «Devo chiederti una cosa.»
Cosa?, ho la tentazione di chiedergli, ma mi limito a dirgli un “ok” appena udibile. Starò sveglia tutta la notte a pensarci e sono anche felice che sia così.
Lo guardo sparire dalla mia vista, dietro la finestra che serra. Le tende spesse coprono quasi completamente l’interno della stanza.
Solo quando anche io mi chiudo in camera, mi accorgo di quanto abbia le braccia gelate. Ma il freddo è l’ultimo dei miei pensieri, adesso.
   
 
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