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Autore: Kat Logan    14/04/2019    3 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.”
 
Haruki Murakami
 
 
 
 

Setsuna non amava essere contraddetta, né tanto meno sottovalutata. Lei era sottostata a tutte le regole che negli anni le si erano parate dinnanzi e aveva sudato per la sua posizione. Non avrebbe permesso a nessuno di spodestarla o sminuire la sua autorità.  E tanto meno era incline a passare dei guai per l’esaltazione e la testardaggine di altri.
«Adesso ve lo faccio vedere io, branco di inetti…» disse con un filo di soddisfazione nella voce. Sebbene fosse dotata di molta pazienza quando la corda veniva tirata troppo non si faceva molti scrupoli. Era il capo delle operazioni in fin dei conti e ciò, voleva dire avere il pieno potere di prendere le iniziative che riteneva più opportune per il bene della squadra.
«Scannatevi pure fra di voi» sentenziò apponendo la propria firma su quello che aveva tutta l’aria di essere un comunicato ufficiale.
 
La sigaretta che pendeva dalle sue labbra tinte di un rossetto acceso seminò cenere sul pavimento.
Rigirò il foglio tra le mani e lo scansionò ai piani alti per poi affiggerlo alla bacheca del dipartimento.
Un paio di telefonate e la sua piccola vendetta fu messa in atto in men che non si dica.
 
 
§§§
 
 
«Quella strega. Deve aver esagerato con il vino ieri sera» blaterò Haruka con le mani in tasca e lo sguardo pieno di disappunto per essere uno dei primi nomi segnati in quella lista degli orrori.
«Devi sbrigarti a tornare non posso reggerla da sola» brontolò portandosi nuovamente il cellulare all’orecchio.
Dan dal canto suo combatteva per infilarsi i pantaloni della tuta nella sua stanza d’ospedale.
«Ci sto provando» commentò infastidito dalla stoffa che non voleva saperne di scivolare sulle sue gambe.
«Pure i poppanti imparano a camminare. Quanto ti ci vorrà testa vuota?» lo incalzò la bionda che si trascinava con passo svogliato verso la sua nuova destinazione.
«Ancora un po’. Dicono almeno tre sedute. Che poi dovrebbero chiamarsi camminate perché le chiappe non stanno certo poggiate su una sedia».
Haruka, insofferente per la mancanza della propria spalla roteò le iridi al soffitto sbuffando.
«Mettiti a correre, così si convincono».
«Non sfinirmi anche tu…» la pregò lui.
«Ciambella, mi si prospetta una mattinata difficile, non contraddirmi…» lo avvertì l’amica strofinandosi gli occhi per il poco sonno accumulato durante la notte.
Dall’altra parte della città Dan scosse il capo sconsolato.
«Ti devo lasciare» tagliò corto nel vedere entrare il suo terapista dalla porta.
«Salutami l’infermiera del piano» commentò con fare provolone la bionda.
«E tu la psicologa».
«Spiritoso. Perché poi dai per scontato che sia una donna?».
«Perché così sicuramente sarai più di buon umore e io mi eviterò un po’ d’ingiurie gratuite».
Haruka sorrise tra sé e sé.  Sorriso che svanì nel millesimo di secondo in cui dopo aver bussato alla porta spuntò la figura longilinea di Seya vestito di tutto punto.
«Non ci crederai mai…» commentò con la voglia di vivere sotto alle scarpe. «Ti richiamo».
Terminata la chiamata tentennò sulla soglia.
Poteva sopportare tutto. Le poche ore di sonno, i colpi di testa di Setsuna, una seduta terapeutica per farsi due risate...tutto; ma non quella faccia.
«Entra» più che un invito quello di Seya suonò come una minaccia.
«È uno scherzo, vero?». Haruka non riuscì a frenare la lingua come suo solito. Con lo sguardo, incredula, cercò una telecamera.
«Ten’ō» si schiarì la voce lui cercando di mantenere un tono professionale. «Ti conviene entrare». Si scostò dalla soglia per farla passare, ma non ottenne collaborazione dall’altra parte.
«Altrimenti?».
«Posso non abilitarti al servizio» stilettò lui prendendo finalmente in mano la situazione.
Alla bionda non piaceva essere messa alle strette. A quale gioco sadico stava giocando Setsuna? Doveva proprio odiarla per farle una cosa del genere. O forse sperava che si massacrassero tra di loro, fino a che non ne sarebbe rimasto solo uno e lei avrebbe avuto una rogna in meno senza sporcarsi le mani.
Battle royal. Pensò Haruka per poi decidersi ad entrare nella stanza adibita a studio. Al dipartimento il terapista era una figura che aveva del mitologico e tutto lì dentro, all’apparenza, era nuovo e intonso.
Seya inspirò profondamente per poi controllare l’orologio. Avevano una mezz’ora e anche se nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso era chiaro sarebbero stati trenta minuti d’inferno.
Tuttavia, s’impegnò ad essere superiore.
«Dunque…».
Haruka si sedette sul divanetto allargando le braccia sullo schienale. Le mancava una birra nella mano destra per sembrare pronta alla visione di una partita di football sul proprio schermo di casa.
«Parliamo di come ti senti dopo ciò che è accaduto ieri».
Lei alzò un sopracciglio. Dovevano fare veramente una conversazione del genere?
«Queste cose non dovresti chiederle agli studenti di quella scuola?».
Lui rigirò la penna a sfera tra le dita per poi farla schioccare sulla cartelletta nera che teneva in mano.
«Non è il caso di stare così sulla difensiva» la ragguagliò in tono monocorde.
«Potresti prendermi a pugni, non si sa mai» commentò sarcastica lei.
Di certo non avevano cominciato con il piede giusto in passato, ed entrambi sapevano in cuor loro che non sarebbe mai andata meglio.
«Senti, Haruka…».
«Vacci piano. Non hai tutta questa confidenza per cui puoi permetterti di chiamarmi per nome».
«Puoi continuare fino a che ti pare. Ma fino a che su questo foglio…» sventolò un documento compilato a mano col nome di lei con l’aria di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. «Non c’è la mia firma, tu puoi scordarti di fare il tuo lavoro. E so benissimo quanto ti piaccia…».
Dio, Barbie Malibù. Non ti facevo il tipo da essere la sposa di Satana.
Haruka sorrise beffarda scatenando nel ragazzo l’insana voglia di attaccarla al muro e prenderla a sberle.
Dimenticava sempre di avere una donna davanti. Ogni volta che se la trovava di fronte prevaleva solo l’istinto di chi vuole eliminare una piaga dalla faccia della terra. E la sensazione era reciproca.
«Sei davvero così insicuro?» lo punzecchiò lei.
Seya la guardò senza capire. Drizzando ancor di più la propria postura sebbene al contrario suo fosse già seduto composto.
«Devi atteggiarti in questo modo e minacciarmi, per sentire di avere ancora un briciolo di controllo sulla tua vita? Perché scommetto…» lei tamburellò le dita sul rivestimento in ecopelle del divano, «che in realtà vorresti parlare di tua moglie piuttosto che sapere se ho dormito sogni tranquilli o meno».
Touché.
Lui abbassò lo sguardo scarabocchiando qualcosa.
«Perciò la mancanza di sonno non è un problema…» disse in tono basso e piatto. Dall’esterno sarebbero apparsi come un qualsiasi dottore di fronte al proprio paziente problematico, mentre in realtà erano due fiere pronte a sbranarsi da un momento all’altro. «E che mi dici dell’ansia? Sotto controllo anche quella? Niente sobbalzi per rumori improvvisi o…».
«L’unica cosa che mi fa sobbalzare è la vista di Michiru».
Il moro fermò la corsa dell’inchiostro sulla carta. Se avesse avuto in mano una matita l’avrebbe spezzata a mezzo.
I suoi occhi azzurri colpirono in pieno lo sguardo chiaro e beffardo che lo fissava con una certa insistenza.
Che cosa diavolo ci trova Michiru in te?. Mentre pensieri scomodi sballottavano tra le pieghe dell’anima di Haruka, la sua lingua sembrava non voler trovare un freno.
«Credo che persino il suo cuore sobbalzi quando vede me» girò il dito nella piaga, consapevole di starlo aizzando. Perché lo scopo il suo scopo era quello di fargli perdere le staffe e fargli calare la maschera una volta per tutte. Chi mai avrebbe voluto fra i piedi uno psicologo che attacca briga con qualcuno? Sicuramente quella pagliacciata sarebbe finita quella mattina stessa se lui avesse reagito. E Setsuna avrebbe avuto una lavata di capo con i fiocchi per non essere stata abbastanza diligente nel suo lavoro.
«Quindi…vuoi davvero parlare di mia moglie?».
«È l’argomento che preferisco in assoluto». Haruka portò i palmi dietro la nuca e distese le gambe in avanti per poi incrociare i pesanti anfibi l’uno sull’altro.
«Non c’è niente che non sappia di Michiru» sostenne lui.
«Scommetto che qualcosa te lo tiene nascosto…».
«Sarebbe?».
«Ah non so. Sai tutto di lei hai detto, non è vero?».
Seya sentì vacillare il raziocinio. Setsuna da che parte stava? Era a conoscenza della loro situazione? Voleva che lui desse lei una lezione, o che si distruggessero a vicenda?
«Non puoi minimamente competere…» ora era lui quello con la faccia soddisfatta forte del loro vissuto intrecciato saldamente.
«Noi siamo sempre stati insieme. Sin da bambini. Conosco ogni singolo angolo della sua anima e conosco anche i tipi come te. Pensi di spaventarmi? Credi di essere anche solo in gara? Sai cos’è che ama di più al mondo Michiru? Nostra figlia. E sai cosa desidera di più? Una famiglia in cui crescerla a dovere. Bene, Ten’ō. Per quanto tu credi di vedere crepe nel nostro rapporto ti assicuro che non è nulla di irreparabile. Lei continuerà a mettere insieme i cocci pur di assicurare ad Hotaru un’infanzia felice e due genitori. Perché è quello che è mancato a lei. Perciò…se pensi minimamente di avere una speranza, beh ti sbagli di grosso».
Haruka sentì l’ondata della rabbia omicida assalirla. Non riusciva più a starsene beatamente svaccata come se nulla fosse e finì sul bordo della seduta quasi fosse in procinto di darsela a gambe in vista di un pericolo imminente.
«Se anche Michiru ti avesse fatto credere di essere minimamente interessata...mi dispiace deluderti ma mentiva. Perché lei sa come entrare nella testa delle persone e indurle a credere o a fare quello che vuole. È il suo lavoro. È una burattinaia. Pensi davvero che dei criminali da un momento all’altro decidano di costituirsi perché sono sinceramente pentiti? No. Lei fa credere loro di avere una via d’uscita, fa pensare loro di avere una riduzione di pena e che tutto andrà per il meglio quando sa benissimo che il loro destino è un altro».
E lui? Lui giocava con la testa delle persone? Lo stava facendo in quel momento con lei? Voleva forse farle il lavaggio del cervello?
Lei sapeva di essere un osso duro. L’avevano addestrata a non perdere la testa a rimanere lucida davanti a una bomba. Haruka aveva la scorza dura, era stata forgiata sin da bambina dalla vita e allora perché sentiva vacillare qualcosa dentro di lei? Perché la sicurezza, compagna di una vita, sembrava scivolarle via dalla lingua e non riusciva più a rispondere a tono?.
«Va anche a dispensare baci in giro per convincere le persone?». Troppo tardi per fermarsi. Haruka non avrebbe mai fatto la spia se non si fosse sentita realmente minacciata come in quel momento; messa all’angolo. Aveva incassato colpi su colpi e un attimo prima di cedere, eccola lì l’occasione di mettere a segno un destro deciso.
E adesso chi era il pugile in procinto di essere messo k.o.?
Qualcosa nello sguardo del moro mutò. Haruka non era brava a leggere le emozioni altrui perciò non comprese quale demone s’impossessò di lui, ma non doveva esser nulla di buono.
Il ticchettio del barometro si arrestò. La bionda non vi aveva fatto caso sino a quel momento perché all’improvviso il silenzio tra loro fu più vuoto e pesante che mai.
«Qui abbiamo finito» sentenziò Seya lapidario.
«Mi hai firmato quel dannato foglio?».
«Assolutamente no. Non posso autorizzarti. Mi spiace».
Era il suo modo per vincere.
«Brutto figlio di p-».
Due colpi alla porta interruppero i due.
«Avanti» rispose prontamente lui.
Setsuna, nel suo paio di Jeans stretch e camicetta fece la sua comparsa.
«Tutto bene qui? Ho sentito dei toni piuttosto accesi».
«BENE UN CAZZO!» sbottò Haruka con un diavolo per capello. «Cos’è questa pagliacciata?!».
«Ten’ō contegno» il capo delle operazioni la zittì con un gesto della mano. «Ho ritenuto opportuno dei colloqui dopo ciò che è successo ieri. Voglio che i miei uomini siano nella condizione fisica e psichica migliore per tornare sul campo. E non tollererò più certi atteggiamenti».
Haruka la fulminò con lo sguardo.
«Sto bene. Sono una roccia. Glielo dica».
«Non sta a me fare una valutazion-».
«Oh al diavolo!». Senza trovare appoggio in Setsuna, Haruka, stizzita, si diresse con passo di marcia nel corridoio.
«NON CI STO!» urlò in preda al nervoso sino a che non colpì con una spallata il povero malcapitato presente sulla sua strada.
Fu un gemito sommesso a fermarla. Alzò lo sguardo e nel suo campo visivo entrò l’elegante figura di Michiru che si massaggiava la spalla.
«Brutta giornata?» chiese con voce morbida per poi sistemarsi una ciocca di capelli dietro all’orecchio.
Come faceva a dirle che il solo vederla faceva schiarire il cielo anche durante la più violenta delle tempeste?
«Haruka, ti senti bene? Sembri pallida…».
La sua mano affusolata sulla spalla e lo sguardo ceruleo macchiato di sincera preoccupazione.
Stai mentendo? Mi stai fottendo il cervello senza che me ne accorga?
Haruka sentì venir meno l’aria ai polmoni. Barcollò appena sentendo un cerchio alla testa.
Cosa diavolo mi succede?
«Ok, Haruka mi sto preoccupando. Cosa c’è che non va? Sei stata ferita ieri?».
Michiru le apparve sinceramente confusa e preoccupata anche se la sua voce si fece ovattata e lontana.
Haruka sentiva il cuore batterle freneticamente nelle orecchie.
L’aveva incantata? Doveva essere vittima di una malia o qualcosa del genere. E senza che potesse opporsi le tornò alla mente Amos che l’ammoniva ogni volta che si avvicinava al piccolo cimitero della comunità, dove al centro vi era la lapide senza nome di una ragazza ritenuta una strega.
«È solo un attacco di panico» la sua voce di Michiru divenne un eco indistinto.
I sabba, il demonio.
«Haruka, respira…».
Ma nella testa solo i rimproveri di Amos che tornavano a galla.
«Devi seguire gli insegnamenti di Dio o finirai male».
Per un momento i lunghi capelli di Michiru le solleticarono il viso. Erano come quelli della ragazzina che aveva sognato da bambina. La strega del villaggio.
E ancora una volta il suo patrigno le sussurrò all’orecchio.
«Non nominarla. Scacciala dai pensieri con le prime luci del mattino o ti avvelenerà la mente».
 
«Spostati». Haruka scacciò il tocco dell’altra ringhiandole contro come un bestia ferita.
Riprese a respirare, rendendosi conto di quanto era stato facile per Seya avvelenarle la mente.
Sentì gli sguardi di tutti addosso. Se fosse stato possibile avrebbe detto che ognuno di loro la stava strangolando con solo l’ausilio degli occhi. C’erano quelli glaciali di Seya, i pozzi scuri di Setsuna e quell’oceano capace di farla annegare con una sola ondata.
«Haruka, io…».
«Se vuoi giocare, continua la tua partita con lui. Non con me» fu tutto quello che riuscì ad esalare prima di lasciarsela alle spalle così come avevano fatto gli amish della comunità, seppellendo la giovane strega sotto metri di terra.
 
 
§§§
 
 
Makoto strofinava da cinque minuti lo stesso identico punto del bancone con lo sguardo perso verso l’orizzonte.
Il suo comportamento aveva destato numerosi sospetti al gruppo di sostegno, poiché non era da lei saltare due sedute dietro fila senza farsi sentire. Se qualcuno di loro scompariva all’improvviso non era mai un buon segno e probabilmente ognuna di quelle persone si aspettava le fosse accaduto il peggio. Lei aveva spento il cellulare dopo la decima chiamata senza risposta da parte del proprio sponsor e l’ennesimo sms senza risposta. Non poteva più tornare davanti a loro. Non era più chi credeva di essere, la nata due volte. Non aveva più la sua storia da raccontare per infondere coraggio o speranza ad ogni nuovo arrivato, perché lei non la possedeva più una storia. Tutto. Anche il suo presente, quello che si era costruita, era svanito nell’istante in cui aveva aperto il vaso di pandora e vi aveva fissato il fondo. Quello scatolone in soffitta, aveva cancellato ogni traccia di ciò che credeva di essere facendo sì che si perdesse, se possibile, ancora di più in quella vita di cui non riconosceva più niente.
Una risata di bambina la distolse da quel suo gesto insignificante ed automatico.
Makoto si rigirò tra le mani lo strofinaccio incapace di capire cosa diavolo ci facesse lì, quale fosse il suo scopo.
Si guardò attorno come se non riconoscesse più niente. Le sembrava di essersi catapultata in uno dei quei buchi neri che il suo cervello si era divertito a farle vivere una volta risvegliata in quel lettino d’ospedale.
 
Le infradito sulla passerella di legno e la zazzera mora di chi tentava di scrollarsi di dosso troppi granelli di sabbia spensero per un momento tutto quel caos che le sballottava dentro.
Lui si accomodò al bancone, guardando la riva del mare e la bambina che correva cercando di scampare agli schizzi delle onde.
«Non so da che parte iniziare…» mormorò lui sovrappensiero, con una mano che gli copriva la bocca e faceva d’appoggio al mento. Lo disse così piano da essere convinto di starlo solo pensando, ma Makoto, troppo stanca di rincorrere i suoi pensieri su dei binari morti lo aveva udito.
«È un problema comune a quanto pare» si sorprese da sola nel sentire la sua stessa voce che diceva quelle parole.
Lo sguardo di Mamoru incrociò il suo e lei parve volerlo consolare in qualche modo. «Nemmeno io so più da dove cominciare» lo rassicurò prendendo piano piano atto di ciò che stava dicendo a una persona sconosciuta. «Non sapevo nemmeno di possedere un appartamento a New York…».
«Non sembra una cosa di cui dimenticarsi» rispose sorpreso lui, per poi appollaiarsi meglio sul trespolo al banco.
«Dico anche io!» lei ridacchiò nervosamente per poi scrollarsi nelle spalle. «Quello è il meno comunque. È peggio quando capisci di non sapere più niente di te stesso. Di esserti costruito qualcosa in testa che poi a quanto pare non è reale».
Si trovò stranamente solidale con lei. Nemmeno lui, dalla morte di Serenity sapeva più davvero chi fosse. Oltre al Mamoru Chiba lavoratore, chi era? Cos’era rimasto dell’uomo che aveva sposato l’incredibile donna che aveva lasciato uno squarcio nel suo petto e di conseguenza nella sua esistenza?
«Ma sai, non è da me essere così chiaccherona. In fin dei conti io sono da questa parte del bar e tu da quella. Tocca a te parlare. Io posso solo servire da bere!».
Makoto prese un bicchiere fra le mani lanciandosi sulla spalla l’asciugamano umido con cui si era dilettata per tutto il tempo.
«Dunque, cosa ti posso dare?».
«Una buona dose di coraggio, credo» rispose lui.
«È un po’ vaga la scelta…» si permise lei, accennando un sorriso.
«Il problema è quello di cui parlavi tu. Non so chi diavolo sono, perciò non so nemmeno cosa mi piace da bere, forse».
«Non mi sembri un tipo da scotch, intanto».
«Da cosa lo deduci? Se posso chiedere…».
«Non fumi il sigaro, non sembri uno che ha l’autista e ti mancano i baffi!».
Mamoru e Makoto scoppiarono a ridere all’unisono.
«Se è così allora, direi che sì, non sono decisamente un tipo da scotch».
«Fammi pensare…». Makoto allargò le braccia sul balcone e s’incurvò appena come a volerlo studiare meglio.
«Mare o montagna?» chiese curiosa.
«Montagna». Mamoru fece una pausa. «In più credo di non poter alzare troppo il gomito. Sono reperibile per il lavoro e ho un po’ di responsabilità a cui far fronte».
«Con un succo di frutta mi offenderei. Facciamo una birra doppio malto?».
«Facciamo così!».
Makoto, orgogliosa di aver trovato una bevanda per il suo nuovo cliente si abbassò per raccattare una bottiglia dell’alcolico dal mini frigo. La stappò provocando un leggero sibilo nel togliere di mezzo il tappo e gliel’allungò.
«Non mi farai bere da solo, vero?» disse inclinando il collo della bottiglia verso la ragazza.
Makoto sembrò pensarci su per un’istante a quella proposta. In fin dei conti era il capo di se stessa e una birra non l’avrebbe certo stesa, così accettò l’invito dell’altro a fargli compagnia e ne stappò una anche per sé.
«A quelli che non sanno più niente di se stessi» annunciò lei facendo tintinnare il vetro scuro contro quello nelle mani dell’altro.
«Ma che si ritroveranno» aggiunse lui prima di prendere una lunga sorsata.
 
 
§§§ 

 
«Io giuro che quello lo gonfio di botte». Haruka incrociò le braccia al petto con lo sguardo puntato contro la vetrata del bar presente nell’ospedale dove ancora l’amico alloggiava. Si era adagiata mollemente su una delle sedie giallo limone in plastica come a voler sprofondare su un comodo divano, ma continuava a scivolare sempre più sotto al tavolino color argento sistemato dinnanzi al loro.
«Gli cambio i connotati a costo di finire in galera» continuò senza riuscire a placare quell’ondata di violenza che l’aveva pervasa.
Dan, dal canto suo, molestava con una forchettina il muffin ai mirtilli sopra al piattino in ceramica bianca.
«Ti porterò le arance…» rispose distratto.
«Con la scusa di essere zoppo non ti farai più vedere. Altro che arance…».
«Non ho mica una gamba di legno, mi vuole solo ancora un po’ di tempo» contestò piccato.
«Ma che assicurazione sanitaria hai? Ti copre ancora? Ci hai piantato le tende qui».
«Come sei petulante…».
«Lo mangi o no quel coso? La pianti di bucherellarlo?». Haruka sembrava essere sull’orlo di una crisi di nervi e Dan si chiese se l’avrebbero mai santificato per sciropparsi tutto quell’isterismo.
«Te lo dico io, questi sono decongelati. Altro che mirtillo fresco del Saskatchewan».
Lei fece una smorfia come a dire che l’amico era un caso perso e probabilmente lui stava pensando lo stesso della bionda anche se mostrando più tatto.
«Insomma, Kansas cosa ci devo fare io? Quello è un cane a cui sta venendo toccato il suo osso. Ringhierà sempre più forte fino a morderti se continuerai a stuzzicarlo in questo modo».
«Hollywood paragonata a un osso di cane…» brontolò sommessamente. Sembrava non andarle a genio nessuna della parole che l’altro stava spendendo.
«Non era buona come metafora?» lui sembrò preoccupato come uno scrittore a cui contestano una licenza poetica, ma Haruka mise fine a quei suoi tomenti insensati con una scrollata di spalle.
«Sai che ti dico? Chissenefrega» concluse buttando giù l’ultimo goccio di caffè amaro nella tazzina come fosse un cicchetto alcolico.
Lui la guardò con fare pensoso. La conosceva ormai da troppo tempo e quel suo mollare lì il discorso, come se non avesse più alcuna importanza, sapeva benissimo essere una difesa e null’altro. Haruka voleva far credere di essere talmente forgiata da potersi far scivolare addosso qualsiasi cosa. Ma mentiva. E lo faceva male, perché un amish non dovrebbe essere in grado di dire il falso, sarebbe peccato. Haruka non era certo credente, ma l’essere cresciuta con gente che diceva la verità non l’aveva resa una buona bugiarda con chi la conosceva a fondo.
Avrebbe potuto fregare la conquista di turno, uno sconosciuto ma non certo lui.
«Ascolta…» lui s’incurvò verso di lei quasi dovesse svelarle un segreto. «Io credo una cosa» sentenziò con fare fraterno.
«Penso che la cosa ti rughi così tanto perché provi un sincero interesse per lei».
«Oh andiamo Dan!» esclamò Haruka con fare tanto teatrale da far sobbalzare le due suore a un tavolinetto di distanza.
«Era solo una stupida sfida. Volevo il numero di telefono per far vedere a voi omaccioni che sono superiore e stuzzicarla un pochetto. Lo sai che la cosa mi diverte».
«Guarda che faccio ancora fatica a camminare ma il cervello ti assicuro che è a posto. Dalla da bere a qualcun altro. Se fosse una delle tue sfide o una delle tante ragazze da collezionare non saresti facendo tutto questo casino. Saresti passata oltre e basta. Invece fai rissa con un tizio sposato, rientri in un edificio dove un pazzo omicida spara a destra e a manca e usi me, il tuo amico, come psicoterapeuta per questo cuore amish di pietra che comincia a battere. È così dura da ammettere?!».
Quelle parole ebbero l’effetto di un cazzotto su di lei. Un pugno tanto ben assestato da atterrarla e farla rimanere senza la sua solita risposta pronta. Perché aveva tremendamente ragione e a lei non piaceva affatto avere torto o dover difendere delle ragioni evidentemente inesistenti.
«Ohi, pronto. C’è nessuno?» il ragazzo le schioccò le dita sotto al naso come a risvegliarla da uno stato di trans.
«Kansas, se ti piace gioca la partita fino in fondo. Gli attributi li hai no?!».
Provo realmente interesse per Michiru? Haruka si perse a tentar di comprendere i suoi sentimenti. Non si era mai concessa un po’ di tempo per analizzare ciò che realmente provava. Aveva sempre e solo avuto la brutta abitudine di seguire la pancia senza soffermarsi sulle cose.
Lei schioccò la lingua. Quello era il suo modo di dargli ragione, senza ammettere però apertamente che si era presa una vera e propria sbandata.
«Fatti abilitare e rubagli la moglie. Cosa ci vuole…» la istigò ancora una volta lui.
«Ecco a cosa servono gli amici» sentenziò lei. Dan la guardò perplesso, rinunciando a mangiare definitivamente il dolcetto di fattura scadente.
«A darti cattivi consigli».
 
 
§§§
 
 
Haruka se lo sentiva nello stomaco. Quella sensazione si era fatta strada da un momento all’altro, tanto irruente da non riuscire più a farla stare seduta.
Aveva salutato l’amico sull’onda di quella carica che lui le aveva infuso e senza perdere altro tempo, salita sul pickup, aveva premuto col piede l’acceleratore per tornare più in fretta possibile da dove era venuta.
Le ruote divoravano l’asfalto rovente, mentre al di sotto della scogliera l’oceano ruggiva e come lui anche Michiru sembrava voler far sentire la sua voce.
 
Lei non era solita perdere la pazienza. Aveva sempre avuto un carattere mite dosato dalla disciplina ferrea del padre e dalle buone maniere impartite da sua madre. Se era stata una figura sottomessa e poco presente non si era certo risparmiata però nel farla crescere “come si conveniva”.
Tuttavia a Seya bastò una sola occhiata per comprendere il disappunto che animava la moglie.
Michiru, forse per la prima volta,  aveva liquidato Setsuna con un saluto gelido per poi richiudere, senza troppi complimenti, la porta dello studio alle sue spalle.
Era turbata. Lui lo aveva capito quando era venuto meno quel suo solito modo elegante di camminare e le braccia si erano serrate con le mani a toccare i suoi gomiti come volesse trincerarsi dietro le sue ossa.
Era un chiaro atteggiamento di difensiva e non ti serve difenderti se non hai intenzione di attaccare. E quando le ciglia perfettamente in ordine e ben curate s’inarcarono, furono l’annunciazione silenziosa che il turbamento era divenuto rabbia. Michiru, silenziosa, lo trafisse con l’azzurro dei suoi occhi. Era il suo modo di intimidirlo, anche se con lui era tutto vano. Poiché essere alla stregua di un libro aperto per l’altro giocava a suo svantaggio. Lui conosceva ogni suo punto debole e vi avrebbe fatto leva se fosse stato necessario. Era una partita persa in partenza, ma a Michiru avevano insegnato a combattere sino alla fine.
Quasi sgraziata, come un toro in procinto di attaccare il matador nell’arena, animata da quel sentimento che la incendiava, lo caricò fino a puntargli il dito medio al petto.
Ma lui anziché preoccuparsene riuscì solo a pensare a quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui erano stati così vicini; tanto da sentire l’uno il fiato dell’altro solleticare il proprio collo.
«Si può sapere cos’hai fatto?» domandò minacciosa.
Lui attese il resto. Voleva sapere cosa le stava passando per la testa e la risposta non tardò ad arrivare.
«Cos’hai detto ad Haruka?».
Seya non aveva mai avuto paura della moglie e non avrebbe certo cominciato in quel momento. Lei era sempre stata da proteggere non aveva mai rappresentato un pericolo o un’insidia.
«Esiste una cosa che si chiama segreto professionale, Michi». Provò a sedarla con quella blanda scusa e lei non abboccò.
«Oooh andiamo». Abbassò l’indice senza indietreggiare, continuando a fissarlo come un soldato fa per avere la confessione di un prigioniero di guerra. «Non fare il furbo con me Seya».
Il moro espirò profondamente per poi sedersi. «Non faccio il furbo. Sai benissimo che esiste il segreto professionale, quella cosa tra medico e paziente». Insistette lui.
«Devo chiederlo a lei?».
«Sono preoccupato per te» disse con voce pacata, quasi stesse riflettendo tra sé e sé. «Michiru credo sia troppo tutto questo».
«A cosa diavolo ti riferisci?». Il suo tono si fece leggermente stridulo. Lui se ne stava seduto a incrociare le gambe e a stringere i palmi in un pugno in una posizione che ricordava la statua di qualche filosofo greco.
«Sei tornata troppo in fretta al lavoro. Troppo stress e tensioni. Temo ci voglia una nuova terapia. Non ti rendi conto che sei ancora instabile? Non c’è niente di male a prendersi il proprio tempo».
Michiru non credeva alle sue orecchie. Stava forse cercando di farla passare per una pazza fuori di testa?. Dovette mordersi la lingua. Tentò di mantenere il decoro che l’aveva sempre contraddistinta, ma non aveva alcuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa.
«Hai firmato quelle carte?».
«No».
«Devo quindi chiamare un avvocato e costringerti?».
Passò alle minacce.
Lui si alzò, le poggiò le mani alle spalle e prese a parlarle sottovoce come dovesse ipnotizzarla.
«Tu sei sconvolta. Devi solamente respirare, calmarti e far fare tutto a me». Forse voleva realmente rassicurarla o forse era diventato talmente meschino da volerle inculcare quello che più gli faceva comodo.
Una volta lei gli avrebbe creduto senza battere ciglio. Un tempo era stato realmente il suo salvatore, il principe azzurro, l’uomo perfetto e perché mai ora gli sembrava tanto subdolo?
«Seya» lei si scrollò la presa dell’altro di dosso. «Sul serio. Voglio che firmi quelle carte e che te ne vada di casa. Oggi stesso» ribatté con voce ferma.
Michiru non aveva idea di dove fosse andata a pescare tutto quel coraggio. Se nella vita affrontava criminali e pazzi omicidi, non aveva mai pensato di rivoltarsi contro una delle persone più importanti della propria vita. Stava distruggendo un matrimonio e, per la prima volta, si rese conto che suo padre non aveva sbagliato di una virgola sul conto di Seya.
«Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Vuoi davvero distruggere la nostra famiglia Michiru? E a Hotaru cosa dirai?».
«Non tirare in mezzo Hotaru. Sa a malapena chi è suo padre».
Lui perse le staffe. Se era stato sempre il cavalier prodigo, gentile e premuroso, quello che aveva fatto un passo avanti per salvare il loro matrimonio, ora, messo alle strette, aveva deciso di lasciare venir fuori il lato peggiore di sé.
«Stai facendo tutto questo casino per quell’idiota biondo? Michiru è una donna. Un’indisciplinata, squilibrata, cosa credi di guadagnarci? Sai benissimo che da sola con Hotaru non ce la farai mai e sei così disperata da attaccarti a quell’idiota? Ti fa sentire al sicuro? Durerà per l’estate e poi cambierai idea tu, ammesso non si stanchi lei per prima».
Michiru deglutì rumorosamente, sentendo all’improvviso la stanza restringersi.
«Firma quei dannati documenti e vattene» era un sussurro il suo, ma determinato.
Lui mosse un altro passo in sua direzione facendola indietreggiare sino contro la scrivania.
«Ora smettila di dire sciocchezze. Tu hai bisogno di me, ne hai sempre avuto uno stramaledetto bisogno e lo sai benissimo».
 
«Cosa credi di fare?» la voce di suo padre le tuonò in testa. Michiru serrò le palpebre come in preda a un incubo.
L’aveva intrappolata tra il suo corpo e il muro, battendo sul palmo sinistro la cinghia in pelle. «Vuoi scappare con quel ragazzetto? Non durerete due giorni. Tu hai bisogno di me. Non puoi farcela da sola».
 
«Torna in te».
Michiru dovette soffocare un singhiozzo. Per la prima volta ebbe paura della persona di cui più si era fidata.
«Allontanati, Seya» ribatté quasi allo stremo.
 
«Sei sordo? Hai sentito che ha detto?».
Haruka era sulla soglia e come suo solito non aveva avuto bisogno di chiedere il permesso per entrare.
«Cosa sei tornata a fare?» tuonò Seya girando le spalle a Michiru.
Haruka non resistette. Mise in mostra la fila di denti bianchi perfettamente allineati in un sorriso beffardo.
«Sono venuta a riscuotere un pegno». Si riferiva all’appuntamento che Michiru le aveva concesso. «Vero, Michiru?».
Lei rispose con un cenno del capo scivolando fuori da quello che era diventato uno spazio angusto.
«Non puoi entrare così».
«È qui che sbagli psicosatana» rispose lei a tono. «Qui sono di casa e faccio quello che mi pare. Nella scala gerarchica non sei un bel nessuno qui dentro».
«Voi due…l’abilitazione ve la scordate» un disperato tentativo d’incutere timore.
«Lo vedremo. Pronta, Michiru?».
«Ma certo» sentì il cuore più leggero e si avviò verso la bionda. Si voltò solo prima di andarsene e guardò Seya come si guarda per l’ultima volta casa. «Non scherzo. Voglio la tua stupida firma».
 
 
§§§
 
 
 
Fu il garrire incessante dei gabbiani a svegliarlo nel primo pomeriggio.
Yaten non aveva chiuso occhio sino alle prime luci dell’alba troppo preso per tutta notte a darsi dell’idiota incosciente. Cosa gli era saltato in mente di baciare Minako la sera precedente?
«Che casino» brontolò in uno sbadiglio, senza trovare la forza per alzarsi dalla cuccetta.
Quello che rendeva quella situazione un casino era il fatto che Yaten fosse terrorizzato all’idea di sentirsi felice. Per anni ci aveva provato, aveva tentato di essere all’altezza per sentirsi gratificato e amato dai suoi genitori quanto il fratello maggiore. Dopo di che aveva compreso che non sarebbe mai riuscito nell’impresa e aveva abbandonato. Decidendo di barricarsi dietro a quella freddezza tessuta pazientemente nel suo viaggio solitario nel bel mezzo dell’Oceano per non sentire più niente. Né la nostalgia di casa, né la paura di fallire nuovamente. Essere felice con qualcuno voleva dire mostrare ogni più piccola crepa della sua anima e soffrire nuovamente. Lui non aveva tempo di stare male o cincischiare, doveva rincorrere il suo sogno, doveva dimostrare a sé stesso di valere qualcosa.
Niente distrazioni.
Ma le labbra calde di Minako parevano essere ancora lì, incollate alle sue e il solo pensiero gli mozzò il respiro.
«Yaten» una voce seguì una serie di passi sul ponte della sua Blue lagoon.
«Merda!» si tirò su di scatto ancora vestito solamente dei boxer e vagò alla disperata ricerca di qualcosa da mettersi addosso.
«Yaten, ci sei?».
Era Minako. Era uscita dai suoi pensieri per materializzarsi lì e mettere a dura prova ancora una volta il suo autocontrollo.
Il ragazzo afferrò la prima maglietta appallottolata che aveva a portata di mano incespicando nello spazio angusto.
«A-arrivo!» gridò di rimando per poi infilarsi i pantaloni della sera prima.
Ebbe solo il tempo di strofinarsi gli occhi col dorso della mano che
Minako aveva già sceso le scale per poi apparire sottocoperta.
«Oh, eccoti. Come ti senti?» domandò lei sinceramente preoccupata.
Lui dovette pensare un momento al motivo di quella domanda ma dopo un paio di secondi l’illuminazione arrivò. Dopo il bacio al tramonto, Yaten, non sapendo più come comportarsi l’aveva piantata in asso con la scusa di sentirsi male. Mettendo così fine alla loro gita.
 
Che femminuccia. Il cervello non tardò a demolire un altro po’ la sua autostima, ma Yaten non aveva tempo di auto flagellarsi emotivamente perché lei era lì. Con i capelli dorati sciolti, un grazioso vestito a fiori ed era in pena per lui che stava facendo lo stronzo.
«Cavoliii» senza aspettare risposta Minako avanzò verso di lui con uno scatto veloce per afferrare una delle sue ciocche argentee. «Yaten ma sono lunghissimi! Non li avevo mai visti slegati. Hai sempre la coda o il concio stile samurai…».
Lui, impietrito, non seppe come reagire. Si scostò con un passo indietro, allontanandosi per ripristinare una “distanza di sicurezza” tra loro.
«Mi sono ripreso…» disse vagamente. «Dev’essere stato qualcosa che ho mangiato prima di uscire ieri».
«Mh, capisco» lei sorrise debolmente. Imbarazzata perché il suo fantasticare ad occhi aperti, raccontando l’accaduto a Rei la notte precedente, si stava rivelando una delusione. Probabilmente si era pentito e comunque lei non gli interessava come possibile fidanzata.
«Tieni» gli allungò una bustina in carta. «Dentro c’è un antiacido e un frullato che mi hanno assicurato fa miracoli per lo stomaco. Non sapevo se ti sentissi ancora male o meno».
«Ti ho fatta preoccupare così tanto?». Era una domanda stupida la sua, ne era conscio ma era rimasto senza parole. L’unica persona che si era preoccupata per lui era stata Michiru. Sua madre lo aveva tenuto in salute, ma di certo non aveva mai mostrato particolare apprensione nei suoi confronti.
Minako abbassò lo sguardo. «E’ naturale. Ci tengo a te».
Lui, intenzionato a non cedere e ad annegare tutti quei sentimenti che scalpitavano per venire a galla, comprese nel momento in cui allacciò le braccia dietro all’ esile schiena di Minako, di star combattendo essere reduce una battaglia persa in partenza.
La strinse a sé, socchiudendo gli occhi e inspirando il suo profumo zuccherino.
Sarebbe così pericoloso lasciarsi andare?
«Grazie».
Minako era in balia di quel tum tum galoppante quanto una carica di fanteria che virava dal petto verso le orecchie.
Non poteva crederci. Stava succedendo davvero? Sapeva bene di non dover illudersi, ma quanto meno lui le stava dimostrando di considerarla qualcuno e non una perfetta sconosciuta.
Forse voleva mantenere un rapporto professionale per il loro debutto e allora si era tirato indietro. D’altro canto è sempre stato chiaro come il sole che amore e musica creano sempre delle problematiche.
«Ti senti pronta per domani sera?» chiese lui distaccatosi nuovamente.
Minako avvertì subito una sensazione di freddo al dissolversi del loro contatto, tanto da ritrovarsi a rabbrividire.
«Non credo sarai sorpreso se ti dico che sono agitata».
«E’ una bella canzone. Penso tu possa stare tranquilla».
«Ma io non sono mai stata su un palco» ribatté lei.
«Non riempiremo uno stadio» minimizzò lui come era solito fare.
La bionda sbuffò. La cosa non la rincuorava in ogni caso.
«E se non andasse bene? Insomma, distruggerei il tuo sogno».
«Faresti a pezzi anche il tuo».
Come faceva a stare così calmo? Impossibile non gli importasse più. Se aveva capito una cosa di Yaten era proprio che la musica nella sua vita veniva prima di qualunque cosa.
Avrebbe voluto la metà del suo coraggio e della sua sicurezza. Sicuramente l’indomani avrebbe cavalcato quel palco con maggior tranquillità e sprezzante di ciò che sarebbe stato.
«Oh diavolo» commentò lui interrompendo il turbinio che si faceva stradanella ragazza. «Fa davvero schifo questa roba!».
La bocca di Minako formò una piccola “o” di sorpresa. Yaten stava tossendo tentando di non sputare la bevanda che lei le aveva procurato per il mal di stomaco.
«Volevi avvelenarmi, Mina?!».
«Io…NO!».
«Ma cosa ci hanno messo dentro?!».
«Era un centrifugato fresco ma…».
«E’ sbobba! Sarebbero capaci di venderti cacca per oro» la schernì bonario lui.
«Yaten, io volevo essere gentile!»
Lui rise spensieratamente. E Minako fu certa lo avessero buttato giù dal paradiso perché quello che aveva davanti, anche se burbero e glaciale non poteva essere altro che un angelo.
Il ragazzo l’abbandonò per correre su per le scale continuando a prenderla in giro per la pessima scelta fatta e lei non indugiò oltre per rincorrerlo e mollargli un ceffone qualora se lo fosse meritato.
 
«Bugiardo, guarda quanto te ne sei ciucciato con quella cannuccia. Fammelo sentire, non ti credo!». Lo incalzò lei, baciata dal sole, nel tentativo di strappargli di mano il bicchierone da passeggio.
Yaten si sporse contro la battagliola, alzando più in alto possibile il frullato divertito da tutto quel saltare della ragazza.
«Dai su fammi sentire!».
«Prenditelo ranocchietta!».
«Quanto sei antipatico, non ci arrivo, non…».
«ASPETTA MINA, ASP-». Non ebbe il tempo di finire la frase per la posizione fattasi improvvisamente instabile.
Minako ci aveva messo troppa spinta nell’ultimo tentativo di recuperare l’oggetto della disputa finendo così per sbilanciare ancora di più la loro posizione già precaria in partenza.
Il ragazzo mollò il bicchiere nel sentire il vuoto dietro di lui e Minako, presa in contropiede si attaccò alla sua maglietta col solo risultato di far cadere entrambi nell’acqua del porto.
Quando il corpo di Yaten si schiantò contro la superficie dell’acqua il peso della ragazza, ancora avvinghiata a lui, venne meno.
Per una frazione di secondo nella sua testa si affacciarono i ricordi dei tuffi dalla scogliera nel mare blu delle Hawaii, ma un attimo dopo ci fu solo il pensiero di lei.
I capelli di Minako come tentacoli di medusa ondeggiavano al rallentatore tra le bolle, le braccia tese verso l’alto e il suo sguardo. Aveva qualcosa di diverso. Aprì la bocca nel tentativo di dir qualcosa e poi uno scatto convulso. Fu in quel momento Yaten si rese conto che lei non sapeva nuotare.
 
 
§§§
 
 
Da bambina suo padre l’aveva scritta ad un corso di nuoto, ma Minako non ne voleva sapere.
L’insegnante aveva provato più volte ad incoraggiarla per buttarsi, diceva l’avrebbe presa, ma lei preferiva di gran lunga starsene seduta a bordo vasca limitandosi a creare disegni fantasiosi con i soli piedi a mollo.
Le piaceva andare in spiaggia, al lago e perdersi a guardare le grandi distese d’acqua, ma per lei era sempre stata una cosa bella da godersi a debita a distanza. Un po’ come Yaten. Forse sarebbe stato meglio ammirarlo solamente da lontano senza rischiare di avvicinarsi troppo. Limitarsi a sognare la loro storia come uno di qui grandi amori impossibili descritti nei romanzi. Sarebbe stato meno pericoloso. Ma lei, di annegare in un mare di rimpianti non ne aveva alcuna intenzione.
 
Ancora un po’ di ossigeno in corpo.
Agitò le mani nel tentativo di raggiungere la mano di Yaten e lui l’afferrò. Una presa salda che la trascinò nuovamente in superficie.
Minako spalancò le labbra respirando a pieni polmoni, continuando a scalciare l’acqua come a volersela allontanare di dosso.
«Come ti è venuto in mente?!». Lo sguardò di Yaten era duro. Sembrava essersi arrabbiato di colpo e la sua espressione dapprima splendente come il cielo estivo si era rabbuiata come il passaggio di una tempesta.
«Ma che ti passa per la testa? Non mi hai mai detto di non saper nuotare. E ti ho portata in barca!».
Minako era gelata. Con il vestito leggero appiccicato addosso e stretta a lui come l’unica ancora di salvezza al mondo sentì il battito galoppante nel cuore dell’altro.
Non era arrabbiato. Yaten era solamente preoccupato in modo spaventoso. Lo era per lei.
«Mi dispiace» cos’altro avrebbe potuto dire?
«Andiamo» soffiò lui risoluto, trascinandola verso la banchina.
«Metti le mani qui» la istruì lui per poi darsi una spinta e riuscire a risalire all’asciutto. L’aiutò ancora una volta a venir fuori dall’acqua e solo allora Yaten parve concedersi di respirare nuovamente.
«Stai bene?».
Minako accennò un sì del capo tremante.
«Quanto cavolo è fredda» disse battendo i denti.
«È pur sempre l’oceano…». Si sentì in dovere di puntualizzare quell’ovvietà per poi farle cenno di avviarsi verso la barca.
«Da dopo il nostro debutto imparerai a nuotare» sembrava un ordine il suo. «Non posso essere sempre lì pronto a salvarti».
Minako bloccò la sua marcia fissandogli le spalle. Il freddo sembrava svanito e al suo posto solo un’ondata di rabbia a pervaderla per quell’insensata sgridata. «Se sono tanto una palla al piede per te, trovati un’altra con cui suonare!» sputò fuori senza remore.
«Non la voglio un’altra con cui suonare». Yaten si girò, tornando indietro per raggiungerla. Uno stormo di gabbiani galleggiava placido sulle increspature cristalline. «Probabilmente io non sono il massimo della chiarezza Aino». Depose le armi e ancora una lunga crepa invase quel muro messo su un mattone alla volta. «Ma quello che sto cercando di dirti è che non voglio tu corra alcun pericolo. Perché questo mi fa stare male».
Le mani di Yaten scorsero sulla stoffa impregnata d’acqua che copriva le spalle di lei. Perché resistere ancora una volta? La sua boccaccia aveva appena detto troppo. Tanto valeva sigillare quella confessione con un altro bacio, no?
E questa volta fu Minako ad anticiparlo. Col cuore in gola e il petto gonfio di gioia per quella rivelazione, si alzò in punta di piedi per scontrare le proprie labbra con le sue. Per rendergli un po’ di fiato e dimenticare il paesaggio da cartolina che li circondava. A lei non importava più niente. Né lo scrosciare insistente del mare, né la telefonata minatoria di suo padre, né il freddo, né tantomeno la competizione. C’erano solo loro e quei respiri intrecciati che divenivano uno soltanto.
Un bacio e ancora un altro. Una catena silenziosa di promesse appena sussurrate.
«Ora andiamo» soffiò lui con la fronte poggiata alla sua e gli occhi che parevano immersi nelle stelle tanto erano lucidi. «Ti presto qualcosa di asciutto» la prese per mano, lasciando orme bagnate su tutto il ponte della Blue lagoon.
 
«Tornato da una gita romantica, fratellino?».
Seya, come un incubo pronto a mandare in frantumi quello che per Yaten era stato un preludio di placida felicità si stagliava di fronte a lui.
 
«Mina, scendi di sotto e prendi quello che vuoi» le disse piano come a rivelarle un segreto. Lei ubbidì, discendendo le scale con la sensazione di ritrovarsi nel bel mezzo di un cliché da pellicola cinematografica. Il momento in cui il passato di uno dei due protagonisti si affaccia per mandare all’aria la felicità appena assaporata.




Note dell'autrice:

Chi è giunto fino a qui spero abbia preso coscienze del fatto che questa è la storia infinita. Forse mi perdo troppo a sviscerare le vicende di tutti, ma ormai ho preso questo "andazzo" quindi...abituatevi se volete procedere, ahahah.
Ho "diviso" in due il capitolo perché troppo lungo. Nella prossima parte non temete, ci sarà anche la nostra amica Usagi e procederemo innanzi con tutto sto popò di roba. Per ulteriori aggiornamenti c'è sempre la mia pagina fb. Spero il capitolo vi sia piaciuto anche se io l'ho trovato noioso allo sfinimento e sono stata tentata di cancellaro da cima a fondo!
   
 
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