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Autore: Kat Logan    14/03/2019    3 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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“All the voices in my head
Are pushing me right to the edge
If this is real love
Beatin' like a thousand drums love
Burnin' like the hottest sun love
You're the only one I want
I want, I want real love
Hit me like a hurricane love
Feel you runnin' through my veins love
You're the only one I want”
 
Real Love - Florrie
 
 
 


«Tu credi negli angeli?».
Quel ricordo che portava con sé la voce di Hotaru le balenò nella mente come un lampo. Era accaduto tutto in un frangente di secondo, troppo poco perché il cervello potesse elaborare correttamente le informazioni di ciò che realmente era accaduto.
Forse la speranza di Michiru si era arresa come la fiammella di una candela spenta da un alito di vento.
Lei non era riuscita a leggere i pensieri della bestia e tantomeno era riuscita a trovare l’umano che si nascondeva sotto quella maschera di ragazzino.
Lui aveva messo il dito sul grilletto e lei aveva chiuso gli occhi.
Il suono di uno sparo e giù. Sul pavimento freddo, pesante come un macigno.
«Tu credi negli angeli, mammina?». La voce di Hotaru sparì così com’era comparsa e Michiru sgranò gli occhi azzurri. Respirò rumorosamente come fosse appena riemersa senza più fiato dall’affondare in un gelido abisso.
Non era stato un proiettile a colpirla, erano due paia di braccia ad averla trascinata giù. Ad aver fatto sì che stesse ancora lì a respirare.
«Cosa…?» sbatté le palpebre, toccò quelle mani ancora ancorate alla sua vita fino a che la stretta non la liberò. Un angelo custode?
Haruka; erano di Haruka le ali invisibili che non avevano permesso alla morte di portarsela nel suo gelido regno.
«Hai detto che non hai debiti con nessuno…» pronunciò la bionda massaggiandosi con una mano il capo e un’espressione di dolore misto a compiacimento stampata in viso.
«Cosa? Parli a vanvera. Cosa ci fai qui? Oh mio Dio, Haruka stai bene?». Le parole di Michiru erano frenetiche, stava cercando di ricomporre quel puzzle confuso.
«Ti credevo meno pesante Barbie Malibu…» la schernì l’altra per poi tirarsi su e allungare la mano per aiutarla ad alzarsi. «Sto bene e pure tu. È tutto finito».
Quante volte aveva ripetuto la frase “è tutto finito” negli ultimi minuti per infondere coraggio a qualcun altro? Lo era davvero questa volta?.
Uno squadrone di agenti si riversò nell’edificio, prestando soccorso alle persone ancora intrappolate all’interno e per riportare la situazione alla normalità.
Michiru strinse le dita tra quelle di Haruka come si fa con una cima che ti viene gettata in acqua per non annegare e solo dopo esser tornata di nuovo su due gambe si guardò attorno.
Adam, inerme, era a terra. Una squadra di soccorritori si occupò di Kate che non appena sistemata su una lettiga riuscì ad alzare il pollice e a sorriderle quando incrociò il suo sguardo azzurro incredulo.
Haruka non aveva sparato. Tanto meno lo aveva fatto Michiru che si era arresa al suo destino. Il colpo in canna era partito dal cecchino sul tetto di fronte.
«Ora non fare la finta tonta. La testa l’ho battuta più io che te, quindi non puoi giocarti la carta dell’amnesia».
Michiru schiuse le labbra, avrebbe voluto dirle che non riusciva a seguirla ma non emise un solo fiato.
«Come ringraziamento per averti salvato la vita e come scusa per esserti comportata da boss senza scrupoli voglio un appuntamento. Hai detto che paghi i tuoi debiti, no?». La incalzò Haruka come se la tensione per la situazione non l’avesse nemmeno sfiorata.
 
Mamoru e Setsuna arrivarono al piano. Il capo delle operazioni abbandonò per un momento la sua corazza, portandosi una mano al petto e ringraziando Dio nel vedere entrambi i membri della sua squadra illesi.
«Quell’idiota. Mi mancava proprio un’altra testa calda» sentenziò con la coscienza più leggera. Non aveva dato il permesso di sparare sapendo che Michiru si trovava sulla traiettoria del proiettile, ma il tiratore, forse per non sprecare quell’occasione d’oro, aveva fatto di testa sua.
Mentre Setsuna vaneggiava sul far cadere la testa del soldato indisciplinato, tra le forze dell’ordine, la scientifica e i soccorsi, Seya riuscì a raggiungere il resto del gruppo senza più fiato in corpo.
Ignorò l’irritante presenza di Haruka sulla scena e corse ad abbracciare la moglie come fosse un gesto non compiuto da secoli.
«Sei tutta intera» disse con voce rotta dal sollievo. «Stai bene. Sei salva…».
Michiru gli portò una mano sulla schiena come a confortarlo e puntò il mento sulla sua spalla. Era troppo scossa per combattere, eppure stretta in quell’abbraccio guardava altrove, oltre la schiena del ragazzo sino al cuore di quel singolare angelo biondo che chiedeva pietà per non assistere ulteriormente a quello spettacolo.
E seppure silenziosa, una risposta ad Haruka arrivò con l’azzurro delle iridi dell’altra puntato in sua direzione.
In un gesto impercettibile, ingabbiata come un uccellino tra le braccia del giovane marito, Michiru accennò un cenno del capo. Un debito va sempre saldato, soprattutto se immenso come una vita salvata.
 
 
§§§
 
 
Minako era in elegante ritardo e Yaten, stufo di aspettare.
Batté la suola delle converse sul terreno, con le braccia conserte, sbuffando una volta ancora nel controllare l’orario sul proprio display del cellulare.
«Ma dove cavolo si è cacciata?». Lui non era mai stato uno impaziente, tutt’altro. Aveva passato l’infanzia ad attendere che i suoi genitori si accorgessero dei suoi traguardi, aveva aspettato pazientemente il rientro dalla finestra del fratello maggiore tutte le notti e non aveva perso la speranza che arrivasse l’occasione giusta per far conoscere la propria musica. Ma Yaten, in quel momento non ne poteva più. Segretamente scalpitava come un bambino la mattina di Natale per scartare i regali sotto all’albero.
Si era fatto prendere dall’atmosfera del pomeriggio precedente e aveva deciso di portare Minako nel suo posto. Non uno qualunque, ma il suo. Quello che lo aveva rallegrato quando si era sentito sperduto e solo al mondo dopo aver navigato a lungo sulla sua Blue lagoon.
Lui, per la prima volta voleva portarci qualcuno. E lei non era ancora lì.
Si sentì risentito e allargò le narici quasi fosse un toro per il disappunto.
«Ok. Lo hai voluto tu. Non ti ci porto» mormorò offeso come se stesse realmente parlando a Minako. Forse stava facendo le prove per quando lei si sarebbe presentata e lui si sarebbe rifiutato di mantenere quella promessa.
Poteva far finta di nulla. Poteva tirarsi indietro. In fin dei conti non era mica sceso nei particolari col suo invito.
«Oh andiamo…». Un ripensamento. Un altro sbuffo.
«Stupido idiota, ma chi te lo fa fare di cacciarti in questa situazione?». Cominciava a sentirsi un pazzo. Parlava da solo. Nemmeno in barca, al largo, in solitudine lo aveva mai fatto. Lui era fatto d’acciaio. Non aveva proferito una sola parola per tutto il tempo. Si era concesso giusto un fischiettio per comporre meglio alla tastiera ma nulla di più. Aveva preferito ascoltare la marea e dimenticare ciò che era stato, ciò che si era lasciato indietro.
 
“Mandami la posizione”. Mandò quel messaggio senza ulteriori indugi e quasi gli venne un colpo quando Minako rispose inviando il proprio indirizzo di casa.
«Fantastico. Fai pure il cavaliere. Senza cavallo. Senza una macchina. A piedi». Furono le ultime parole per sé stesso prima d’incamminarsi.
 
 
Pomeriggio inoltrato. I raggi di sole bagnavano l’intera stanza di una luce gialla intensa.
Minako a braccia aperte, buttata sul letto fissava il soffitto. La chiamata a suo padre non era stata una delle migliori e lei non sapeva più se dire la verità ne era valsa la pena. Costava così tanto la libertà? Ne convenne che se ci avevano fatto delle rivoluzioni per averla evidentemente sì. C’è sempre uno scotto da pagare.
Prese un cuscino se lo piantò in faccia e soffocò contro il guanciale tutta la frustrazione.
«Ok. Non pensiamoci più. Il danno è fatto Mina. Papà si calmerà. Non l’ha presa bene ma in fin dei conti sono sempre la sua unica bambina».
Sospirò pesantemente e lo sguardo le cadde sulla chitarra poggiata al muro. Doveva portarla con sé?  Doveva considerarlo un appuntamento quello o soltanto un posto diverso per comporre musica? Yaten era stato vago, più telegrafico del solito con quel suo «voglio portarti in un posto».
Cosa stava a significare esattamente quella frase? Più ci pensava e più la testa minacciava di scoppiarle. Perciò mise da parte le incertezze e si tirò su piena del suo solito entusiasmo.
«Abbiamo la nostra canzone» disse sorridendo allo specchio per poi sistemarsi il trucco leggero che si era applicata. «Ed è bella. Ma che dico…bellissima!».
Artemis si stiracchiò sul tappeto e per un momento parve rinunciare a sonnecchiare per guardarla tutta presa dal suo monologo.
«Devo muovermi» ponderò la ragazza lanciando un’occhiata al proprio orologio da polso. Era tardi, inesorabilmente tardi. Ma Yaten sarebbe passato a prenderla.
«Oddio passa a prendermiiii!!» si lasciò andare ad una serie di urletti d’eccitazione per quella situazione che faceva tanto commedia rosa e ringraziò che Rei non fosse in casa o sarebbe riuscita a guastarle la festa.
Minako si buttò letteralmente dentro all’armadio spalancandone le ante. Doveva trovare qualcosa di adatto, ma se non aveva idea di dove lui l’avrebbe portata come poteva capire quale fosse il vestito giusto? «Uomini» sospirò come se non vi fosse speranza. «Ma che problemi mi sto facendo?» si voltò verso il felino, che attento si era messo seduto. «Mi faccio tante paranoie e nemmeno mi guarda!». Artemis non proferì miagolio, ma per tutta risposta iniziò il suo impellente bidet giornaliero sino a che il campanello non le fece cadere di mano l’abito che aveva arpionato.
«È qui. È già qui» respirò come fosse in travaglio e cercò di darsi una sistemata veloce ai capelli per poi correre ad aprire.
Il cuore le batteva forte nel petto e quando lo vide spuntare oltre il portone del palazzo il battito non fece che accelerare.
Si appoggiò alla porta così non avrebbe fatto brutte figure per l’emozione e non avrebbe inciampato.
«Ciao!» sorrise radiosa, quasi non lo vedesse da tempo.
«Sei in ritardo» lui esordì con quella frase, con la fronte leggermente aggrottata per il disappunto.
«Lo so, scusa. Scusaaa». Lei cercò di fargli andare via quell’espressione scura che aveva in viso e lo trascinò dentro casa per un polso. «Solo non sapevo decidermi».
«Di che parli? Non sapevi se volevi uscire?». Gli occhi verdi del ragazzo vennero attraversati da un lampo.
«Ma no, sciocchino!». Minako rimase colpita. Yaten aveva forse pensato che lei non volesse vederlo? Se solo avesse saputo che se lo sognava ogni notte per la voglia di stare in sua compagnia gli sarebbero passate le paturnie di colpo.
«Non sapevo se dovevo portare la chitarra».
«Non occorre».
«E non sapevo dove volevi andare».
«Perché non te l’ho detto».
«Eh lo so che non me l’hai detto. Ma io come mi devo vestire?».
Le donne facevano tutte quelle domande?
Yaten parve confuso ed evidentemente lei glielo lesse in viso, così si affrettò a raffazzonare una spiegazione. «Se si va in barca devo portare qualcosa per il vento…se andiamo a fare un’attività sportiva mi metto comoda o…».
«Mina…».
Minako schiuse le labbra per la sorpresa. Aveva usato per la prima volta un nomignolo per rivolgersi a lei. E i soprannomi escono fuori dalle bocche di chi è in confidenza. Quindi lei non era solo una qualunque con cui fare musica di cui a malapena ricordava il nome. Non sapeva cosa fosse di preciso, ma di sicuro non corrispondeva a “nessuno”.
«Vai benissimo così».
Sei bellissima così. Gli stava sfuggendo di bocca, ma Yaten, abituato a ponderare ogni singola parola si fermò in tempo prima di dar voce ai suoi pensieri.
«Dai, ora usciamo».
 
 
§§§
 
 
 
Minako e Yaten attraversarono l’arco riportante la targa blu e bianca del Santa Monica Yacht Harbor.
Passeggiavano l’uno accanto all’altra.
Lui con le mani in tasca, con passo cadenzato quasi poggiasse i piedi al suolo al ritmo di una musica solo nella sua testa.  Lei, con una mano timidamente appigliata alla bretella dello zainetto per non cedere alla tentazione di cercare la sua mano.
Attraversarono la rampa che conduceva al di sopra del litorale, all’inizio del molo vero e proprio.
Minako, ben attenta a non farsi cogliere in flagrante con la coda dell’occhio spiava il profilo di Yaten, scorgendone uno sguardo sempre più sereno via via che procedevano per quella passeggiata.
«Lo sai che negli anni quaranta questo era un attracco per le imbarcazioni a livello internazionale. Charlie Chaplin fu il primo personaggio famoso che acquistò uno spazio per la sua barca qui». Il ragazzo spezzò il loro silenzio così, con un aneddoto tra lo storico e il gossip.
«Non sapevo che Charlie Chaplin navigasse». Minako sapeva benissimo essere un commento stupido il suo, ma in materia era tutt’altro che ferrata.
«A quanto pare…».
 
L’odore del mare impregnava ogni cosa e il canto dei gabbiani era la colonna sonora a quello scenario pronto a bagnarsi dei colori del tramonto.
Yaten parve notare il cambiamento del cielo e abbandonò la lezione di storia per puntare un dito dritto dinnanzi a lui.
«Sbrighiamoci».
Minako strizzò gli occhi per inseguire la linea invisibile da percorrere oltre alla fila brulicante di ristorantini e bar che le correva sulla sinistra.
«Il luna park?!» lo domandò piena di entusiasmo e Yaten rispose con un cenno di assenso del capo.
«Lo sai che non ci sono mai stata da quando sono arrivata in California?».
«E allora te l’ho detto. Sbrighiamoci! Chi arriva ultimo paga lo zucchero filato!». Quasi non finì di illustrarle le condizioni di quella sfida che cominciò a correre in direzione delle luci colorate del Pacific Park.
Minako si buttò al suo inseguimento con il cigolio delle assi impregnate di salsedine sotto alle suole e una miriade di odori differenti, provenienti dalle cucine dei locali, a solleticarle le narici.
Non correva così da quando era una bambina e determinata a non perdere la sfida che l’era stata lanciata quasi non si accorse che il ragazzo rallentò il passo per farsi superare.
«HO VINTO!» gridò la biondina con il fiato spezzato e le braccia tese verso il cielo una volta arrivata all’entrata della loro destinazione.
«Lo vedo». Yaten lo disse sorridendo e lei si sentì sciogliere all’istante.
«Credo di doverti uno zucchero filato dunque, ma prima…» sembrò dover pensare alle sue parole, anche se in realtà lui aveva le idee chiarissime sul loro programma. «Ti offrirò un giro sulla ruota».
Minako, con le gote rosse e la frangetta spettinata dalla corsa, schiuse le labbra tentando di fermarlo dall’allungare la banconota al giostraio.
«No, Yaten. No!».
Lui prese i biglietti che l’uomo gli allungò con un gran sorriso e la guardò interdetto.
«Guarda che posso ancora permettermeli anche se al momento il mio guadagno è solo quello delle mance quando suono».
«No, non è questo…è che…». Minako del sentirsi in paradiso si ritrovò a sprofondare negli abissi dell’imbarazzo. «Soffro di vertigini».
«Mh». Yaten fece una smorfia stranita e lei credette di averlo deluso in qualche modo, fino a che slacciò la bandana che portava al collo e gliela sistemò sugli occhi.
«Ti aiuto io» sentenziò, deciso a non arrendersi.
«C-che?!».
«A superare le tue paure. Ti aiuto io».
Minako si rese conto di essere arrossita mentre le sue dita stringevano il nodo di stoffa dietro alla sua nuca. E per un momento ammise a se stessa di essere felice di ritrovarsi bendata così da non dover cercare di guardare altrove per l’imbarazzo del suo avvampare.
«Mano» ordinò lui. Lei aprì il palmo cercando di afferrare qualcosa d’invisibile e quando sentì le sue dita intrecciarsi a quelle di Yaten il cuore le prese a battere all’impazzata.
Ho un infarto.
«Gradino…saliamo» le indicò lui per poi aiutarla a trovare il sedile all’interno della piccola cabina.
Una leggera vibrazione e un lento movimento indicò l’inizio della salita verso l’alto.
«Siamo in orario perfetto» commentò Yaten tra sé e sé guardando verso l’orizzonte.
«In orario per cosa?» chiese con voce flebile lei.
«Ora te lo mostro. Aspetta ancora un attimo».
Si tenevano ancora la mano e Minako strinse la presa un po’ di più.
«Guarda che ti sembrerà di essere ferma. Non fa paura, sul serio» la rassicurò lui. «Te l’ho solo messa per la salita. Penso sia la parte peggiore».
«E se cadiamo di sotto?».
«Che apocalittica che sei. Non cadiamo».
«È mai successo però?».
«Non che io sappia».
«Ma le probabilità che accada quante sono?».
Minako presa dal panico straparlava senza riuscire più a dare un freno alla lingua e Yaten doveva fermarla in qualche modo o sarebbe uscito di testa.
Maledetto lui che l’aveva portata fuori e maledetta lei, che anche quando perdeva la testa sapeva essere così dannatamente bella.
Se Yaten fino a quel momento era riuscito a tenere fuori il mondo, a tenersi lontano da tutto e tutti, se possedeva una sorta d’interruttore capace di mantenere alto quel muro che aveva pazientemente costruito, senza forse nemmeno rendersene conto, lo spense nell’attimo in cui lasciò la mano di Minako annullando però tra loro ogni distanza. Le dita aggrovigliate tra i suoi lunghi fili d’oro e le labbra premute contro le sue zittendola all’istante.
Lei, sebbene non potesse certo guardare di sotto, avvertì un senso di vertigine. E subito dopo uno stormo di falene intrappolate nello stomaco intente a sbattere così forte le ali dell’emozione da riuscire a cancellare ogni paura o tormento che le attanagliasse la mente.
Non esisteva più alcuna cabina, ruota panoramica o paura. Per quanto la riguardava persino l’intera California era stata cancellata in una frazione di secondo dalla faccia della terra con quel bacio.
Sta succedendo sul serio?
Se nelle favole il principe azzurro baciava la principessa per svegliarla da un lungo e profondo sonno a Minako doveva essere accaduto il contrario. Forse non era mai nemmeno uscita di casa, forse si era addormentata e stava sognando sul suo divano di casa. E prima di potersi porre un ulteriore forse la magia s’interruppe. Le labbra di Yaten non rubavano più il fiato dalle sue così come la sua mano non poggiava più dietro al suo capo e Minako si sentì tremendamente disorientata. Sentiva le guance accaldate, il cuore galopparle nel petto come un puledro impazzito e le farfalle migrare altrove.
Lei non riuscì a proferire parola fece solo scivolare la bandana del ragazzo dagli occhi sino al sotto mento e dopo una strizzata di palpebre riuscì a capire perché lui l’aveva portata lì.
Le luci del tramonto bagnavano l’intera città. Miliardi di luci brillavano snodandosi come un maestoso cobra lungo la baia.
«A quest’ora è questo il mio posto preferito» svelò Yaten poggiando la punta del naso al vetro del finestrino.
«Non so perché ma a quest’ora, con questa luce, tutto sembra possibile».
Minako non poteva che essere d’accordo con lui. Persino i sogni nell’ora del tramonto diventavano realtà.
 
 
§§§
 
 
Mamoru accese la luce sul pianerottolo per poi discendere le quattro rampe di scale che lo separavano dalla strada. Abitava in una palazzina di mattoni, un edificio anonimo e senz’anima visto dall’esterno. Una posizione comoda al cuore della città, ad un passo da ogni sorta di comodità.
A lui piaceva tutt’alto. Amava gli spazzi aperti e stare a contatto con la natura. Avrebbe desiderato quanto meno un terrazzo e invece si era adattato ad accontentarsi di un piccolo balcone reggente un vasetto di basilico. Lui che se non prendeva sonno stava chino alla luce di un abatjour a leggersi le riviste per creare orticelli da balcone e progettava minuscoli giardini da città, si ritrovava ora a vivere in quello che era ben lontano da suoi desideri.
C’era stato un tempo diverso per lui. Una sorta di favola. Aveva incontrato presto la ragazza che sarebbe poi diventata sua moglie, la fantomatica anima gemella. Si erano sposati e la loro prima casa era stato un ranch in Arizona. Lei amava i cavalli, la vita di campagna e le attività all’aria aperta. Aveva adibito un’ala della loro casa a bed & breakfast così da sentirsi meno sola quando il lavoro portava lui lontano da casa.
Erano passati una manciata d’anni da quella vita e Mamoru la ricordava con la malinconia di un uomo ormai prossimo alla fine dei suoi giorni. Sembrava tutto tremendamente lontano, ovattato.
Dopo una giornata come quella che aveva vissuto, andare a spazzolare il cavallo o occuparsi delle stalle sarebbe stato terapeutico.
E lei sempre al suo fianco, con i lunghi capelli biondi e il cappello da cowboy in testa.
 
Attraversò la strada, con l’andatura un po’ ricurva e con gli occhi sull’asfalto nero come il loro ultimo periodo assieme. La malattia di Serenity li aveva costretti ad un trasloco. Nessuno poteva più occuparsi di ricevere ospiti e la vita da ranch era troppo stancante per lei. Non si erano arresi però. Lei aveva deciso di vivere il tutto come una nuova avventura. Si erano trasferiti a San Diego dove i weekend buoni facevano una passeggiata sulla spiaggia o si sedevano l’uno accanto a l’altro sulla sabbia per parlare di dove li avrebbe portati l’indomani; sino a che l’ultimo viaggio, per lei, aveva avuto come capolinea un appartamento poco lontano dall’ospedale con vista mare. Aveva detto di volersi addormentare guardando l’oceano se non poteva cavalcare in mezzo a distese verdi smeraldo e lui l’aveva accontentata ancora una volta. Lo aveva fatto sino all’ultimo giorno. Senza di lei aveva rinchiuso tutto quello che amava in un ricordo lontano, una scatola dimenticata in uno scantinato e si era trincerato in un buco cittadino lontano da tutto quel che era stato e aveva amato. Era stato più facile così, anche se più che andare avanti sembrava essersi fermato in quel buco nero.
 
Bastò svoltare in un altro isolato, attraversare ad un altro semaforo per arrivare a destinazione.
All’angolo della via qualcuno fece stridere i freni della propria bicicletta. Bunny lo aveva riconosciuto. Aveva fermato d’imperio il suo potente mezzo color confetto piantonando le suole delle scarpe all’asfalto.
«Accipicchiolina!» squittì scendendo dalla bici per poi parcheggiarla col cavalletto. «È proprio destino incontrarsi in una città così grande».
Si era ripromessa di aspettare prima di cominciare ad indagare sul conto del suo principe azzurro. Lei gli aveva lasciato un biglietto in fin dei conti e stava a lui chiamarla per primo per un appuntamento. Certo, se non si fosse sbrigato a farlo dopo ventiquattro ore, lei avrebbe colto l’occasione per riparare a quella disdicevole mancanza nei suoi confronti e allora avrebbe attivato tutte le app possibili di rintracciamento del gps e sfoggiato così le sue doti di stalker. Perché come amava dire lei “Se è destino accadrà, ma un aiutino male non fa”.
«Dunque…» tuffò le mani nella borsetta sistemata nel cestino alla ricerca di uno specchietto e del gloss colorato. Sistemò i capelli, si mise a posto il trucco e si scattò un selfie da postare sul suo profilo instagram.
«Tutto a posto. Michi-sama sarebbe fiera di me» gongolò soddisfatta del proprio aspetto.
Mise su l’aria di chi si trova puramente per caso nel posto in cui dove avverrà un incontro voluto dal destino e si affrettò a raggiungere la gelateria nella quale era entrato il giovane.
Galeotto fu il gradino che lei non notò perché troppo presa da quella sua commedia.
Usagi sentendo la terra sotto i piedi venirle meno, lanciò un gridolino di terrore arpionandosi alla prima cosa in rotta di collisione con lei.
Come un meteorite che superata l’atmosfera terrestre arriva contro il suolo provocò in quella rovinosa caduta qualche danno collaterale. Mamoru, il suo paracadute umano, si ritrovò con due coni gelato spiattellati sulla maglietta fresca di bucato.
«Ti sei fatta male?» come da galateo s’informò prima dello stato della ragazza prima che al suo aspetto ora irrimediabilmente trasandato.
«Oh che pasticcio. Ohi ohi» commentò lei mortificata per poi sentirsi andare a fuoco.
«Oh ma sei tu!» esclamò poi il moro riconoscendola mentre l’aiutava a rimettersi in posizione eretta.
«Già che coincidenza!».
«Vieni spesso da queste parti ad inciampare contro gli altri?» domandò lui ridacchiando sommessamente.
Bunny gonfiò le guance portando i pugni ai fianchi per poi formare due triangoli a lato delle proprie anche. Voleva forse attaccare briga?
«E tu vai spesso in giro conciato così?!».
Mamoru si guardò la maglietta lurida; da nera intonsa pareva essere divenuta una tela di Pollock.
Subito si affrettò a prendere una manciata di salviette per tentare di pulire alla bene e meglio quel danno colorato e zuccherino che colava incessantemente dal petto sino a minacciare i pantaloni, ma s’impietrì nel momento in cui quell’incontro lo prese ancora una volta contro piede.
Usagi, senza preoccuparsi di essere inopportuna allungò la mano verso l’indumento pieno di gelato per poi raccogliere un grumo rosa acceso con la punta del dito e portarselo alle labbra piene.
«Non ti facevo un tipo da fragola» commentò. «E quello invece cosa sarà mai?».
«Cocco e nocciola» la fermò lui pulendosi energicamente.
«Preferisco offrirtene uno piuttosto che farti mangiare dalla mia maglietta!».
«Io avrei preferito invece che tu mi avessi richiamata. Sono sicura di averti lasciato anche il mio numero di telefono oltre al resto sul biglietto».
Colpito e affondato. «Mea culpa» rispose un po’ imbarazzato.
«Non volevi farlo o sei stato molto impegnato a salvare il mondo?» indagò lei sospettosa.
Perché non l’ho richiamata? Si prese un istante per riflettere e non ci volle oltre per trovare le giuste risposte.
Da quando era rimasto vedovo era diventato insicuro, inoltre non aveva più riflettuto sulla possibilità di avere un’altra relazione. Se poi ci voleva un’ulteriore giustificazione, la sparatoria sicuramente non lo aveva aiutato nel voler tentare d’incontrare un altro essere umano o ad impegnarsi per fare colpo su qualcuno.
Mamoru sorrise intimidito e Bunny era già con i suoi pollici sulla tastiera digitale del cellulare a compiere una ricerca sul web sui significati delle diverse espressioni facciali ad un appuntamento galante.
«In effetti è stata una giornata impegnativa».
Usagi interruppe la sua affannosa ricerca. E’ ovvio, è così perfetto…sarà stato impegnato a salvare le vite di mezza città. Che stupida, non poteva certo invitarmi fuori. Credo dovrò abituarmi a frequentare un tipo come Superman, o Spiderman o…«In questo caso credo dovrò perdonarti» sentenziò ponendo fine a quel suo ciarlare interiore.
«Ma dimmi un po’…» lo incalzò nuovamente una volta che la curiosità prese il sopravvento. «Sei così goloso da volerti mangiare due gelati? Perché credevo non ci fosse nessuno goloso quanto me a questo mondo!».
Mamoru boccheggiò appena. «No, è che…» come lo avrebbe spiegato? Non erano nemmeno al loro primo appuntamento. E un attimo prima di ritrovarsi a dover rispondere a quella scomoda domanda, una chiamata lo salvo in corner.
Un numero lampeggiava insistentemente sul display del cellulare.
«Ehm, scusa devo…rispondere!».
Usagi ridacchiò facendogli un cenno di saluto. «Io beh, devo andare!».
«Ma non eri venuta per il gelato?».
«Oh, ehm…si è fatto tardi. Però, insomma…chiamami. Sì se ti va. O se non devi salvare il mondo».
Mamoru questa volta rise di gusto, ricambiando quel cenno frettoloso per poi vederla attraversare di corsa la strada e raggiungere la bicicletta.
Trascinò il dito sulla cornetta verde per portarsi il dispositivo all’orecchio.
«Chiba» disse solo.
«Dio, sei noioso anche a rispondere al cellulare». Non dovette nemmeno pensare a chi appartenesse la voce, perché solo una persona avrebbe esordito così ad una chiamata.
«Haruka?» domandò interdetto.
«Non hai salvato il mio numero. Potrei essere offesa. Che razza di collega…».
Mamoru si grattò il capo sempre più interdetto. Dove aveva preso il suo numero? E perché lo stava chiamando?
«Non devo partecipare ad una rissa, vero?».
«Bruce. Non ti avrei certo chiamato per fare a botte. So badare a me stessa».
«Ti va quindi di venire al punto?».
«Sei ad un appuntamento per caso?».
«No».
«Ecco, appunto. Noioso».
Avrebbe dovuto dirle di Usagi? In fin dei conti era una sua amica se gliel’aveva presentata. Ma loro erano amici? Poteva farle certe confidenze? In ogni caso sarebbe tornato a casa con una presa in giro, quella era una certezza assoluta.
«Comunque…» cominciò lei. «Cos’è la storia dello psicologo? Mica è la prima volta che vedo uno che spara o roba del genere».
«Haruka, non ti sto seguendo».
«Sì ho notato. Devi avere altra roba per la testa. E mi auguro siano un paio di belle gambe e tett-».
«VIENI AL PUNTO? Sono vecchio e stanco. Vorrei andarmene a letto!» sbottò per farla sbottonare.
Dall’altra parte un breve silenzio. Se avesse potuto sondare l’espressione dell’artificiere le avrebbe senz’altro letto in viso la tipica faccia di chi ha la certezza assoluta di aver capito ogni cosa del suo interlocutore.
«Guarda che poi il ciclo passa. E’ questione di giorni, ti ci abituerai…».
«Ok io metto giù» l’avvertì lui.
Ma Haruka non lo permise. «Mi stai dicendo che non ne sai niente. Maledetta Meiō».
Lei stava borbottando ad alta voce e lui s’incamminò verso casa scordandosi del gelato.
«Quindi tu non ci devi andare dallo strizzacervelli. Mi da della pazza, forse?».
Si faceva così ad essere amico di una donna? La si faceva parlare a vanvera fino a che non riattaccava o si poteva intervenire? Lui di Serenity si era subito innamorato, non era mai stato suo amico prima di diventare suo marito.
«Che poi chi è?! Ma perché tu no?».
«Ti stai forse lagnando perché il capo ti ha dato da fare i compiti e a me no?».
«Quanto mi stai antipatico, Cristo…». Solo a lei era permesso fare battute, nessuno avrebbe potuto eguagliarla.
«È sempre un piacere parlare con te».
Haruka buttò giù il telefono e Mamoru tornò al suo appartamento e dal suo piccolo grande segreto.











Note dell'autrice:

Eccomi qui carissime Loganiane! Innanzi tutto mi scuso per eventuali errori/ripetizioni poiché siccome il tempo è pochissimo non ho ricorretto il capitolo. Spero sia leggibile e che vi piaccia. So benissimo di aver lasciato indietro Makoto e Nevius ma riprenderemo anche la loro storia. Ho voltuo dare un pochino più spazio a Minako e Yaten e a questa nuova strana coppia formata da Usagi e Mamoru visto che lo scorso capitolo era un super concentrato di Haruka/Michiru. Per poter accorciare il tempo di pubblicazione ho quindi dovuto fare la scelta di selezionare soltanto determinati personaggi per il capitolo, non preoccupatevi comunque che ci sarà un tempo per tutto e tutti. 
Alla prossima!
   
 
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