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Autore: Happy_Pumpkin    15/04/2019    2 recensioni
In un'immaginaria Apocalisse sventata, nella sua ordinaria imprevedibilità Klaus chiede a Diego di intraprendere con lui un viaggio fino a Greensburg, una cittadina sperduta nel cuore del Kansas. Apparentemente per rinsaldare i legami, in realtà Numero Quattro sembra avere uno scopo ben preciso, a modo suo. Un incontro forse fatto di memorie e redenzione, sulle note di Donna Summer e dei Beatles, pantaloni etnici e borse di plastica per andare a scuola.
Genere: Generale, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è per te, Ile. Non posso regalarti Klaus, né disegnartelo nei mille modi in cui vorrei, ma posso scriverci sopra e immaginarlo vivere in queste righe, sperando che possa piacerti e fartelo rievocare. Grazie per tutto quello che sei e che fai per me.



Hello, Goodbye



La macchina percorreva gli ampi terreni asciutti del Kansas lungo la statale 400, evitando punti di snodo troppo frequentati come Kansas City per una breve sosta nella più tranquilla Wichita, fino alla meta finale: Greensburg, una cittadina minuscola e ancora più desolata; non che potesse essere qualcosa di diverso da un centro svuotato, dato che anni prima un tornado l’aveva quasi distrutta del tutto.
Ripensandoci, a Diego Hargreeves veniva quasi da ridere. Una parte di sé reputava ancora assurdo essere finito in un posto simile, tra tutti quelli in un cui Klaus gli poteva proporre di dirigersi per saldare i loro ‘legami fraterni e bladibladibla’ – quelle più o meno erano state le sue parole con cui, prima di sedersi in macchina, Numero Quattro aveva giustificato un viaggio folle on the road tra motel pessimi e cittadine del centro America, con le loro routine talmente consolidate da non essere state sconvolte nemmeno da una Quasi-Apocalisse. Ma allo stesso tempo, il giustiziere della notte si riteneva un idiota per sorprendersi ancora delle scelte bizzare dell’altro, quando invece doveva essere scontato che andassero a finire in un posto tremendo, inospitale e senza una ragione logica dietro per meritare un viaggio di chilometri e chilometri.
Infatti, in realtà Diego aveva un bel po’ di dubbi sulla possibilità che realmente suo fratello fosse interessato a tutta la faccenda del rinsaldare i legami, soprattutto quando, diverse settimane prima, gli si era avvicinato con un paio di occhiali da sole, l’aria circospetta e troppo seria, per chiedergli di trovare una persona usando i suoi contatti speciali. A dire il vero, in principio Numero Due aveva opposto un netto rifiuto, anche se poi alla fin fine aveva comunque ceduto: preso da una sorta di senso di curiosità misto a uno di prudenza, non sapendo che genere di gente Klaus potesse cercare, aveva chiesto un po’ in giro fino a ricevere in busta chiusa la risposta.
Quando aveva provato a sbirciare dopo averla consegnata al fratello con aria molto compassata, di quelle da eroe in borghese che Diego amava assumere in quei casi, Klaus aveva mosso l’indice, ribadendo che doveva prima leggere lui e farsi un’idea. E se Greensburg, paese devastato nel mezzo del nulla, era la sua idea, Diego sperava sinceramente che da lì in avanti Numero Quattro non dovesse averne altre.
Quest’ultimo era seduto coi piedi nudi sul cofano, con grande disappunto dell’altro, addosso un paio di pantaloni larghi in stile etnico e una canotta azzurra che non c’entrava nulla. Mentre andava la compilation di Donna Summer, teneva il gomito sulla portiera dal finestrino aperto e seguiva la corrente con la mano facendo le onde, lo sguardo perso verso l’orizzonte desertico del Kansas. Con l’altra mano ogni tanto tamburellava a tempo sulla coscia, mimando qualche parola con le labbra.
Dopo avergli lanciato un’occhiata, Diego gli fece presente, con quel fare vagamente di fraterna superiorità:
“Guarda che se facciamo un incidente e sei messo in quel modo le ginocchia ti finiscono direttamente in gola.”
Aveva fatto un mezzo sorriso perché, comunque, l’intera faccenda faceva anche piuttosto ridere. E Donna Summer non aiutava.
Klaus sollevò le spalle per poi guardarlo, con il braccio fuori dal finestrino sospeso a mezz’aria. Poi sorrise e annuì, ammettendo: “Guarda che una volta...”
“No – continuando a guardare avanti, Diego si limitò a sollevare un indice – non voglio sapere. L’unica cosa che mi interessa è capire se finalmente mi dirai cosa stiamo andando a fare dopo una settimana di viaggio. E non mi rifilare una delle tue stronzate da fratelli perché so che c’entra qualcosa quella busta con le informazioni su questa tizia” gli disse, anticipando l’altro che stava già mettendosi una mano sul petto per una delle sue enunciazioni cinematografiche piene di dramma.
“Mi sono leccato le ginocchia messo così” riprese a dire Klaus tranquillo, annuendo come se fosse davvero importante.
“Cos... che c’entra?”
“La pelle ha un gusto diverso, sarà che è più ruvida, sai, vissuta. Oh, dai, questa è fantastica, la mia preferita.”
Fece per alzare il volume sulle prime note di Hot Stuff ma Diego lo schiaffeggiò e lui la ritrasse, facendo una smorfia per poi agitarla appena come se bruciasse: “Ehi! Devi fare qualcosa per il controllo della rabbia che ti porti dietro e ti consuma, Diego; un giorno sono io a subirne le conseguenze, quello dopo... chissà!”
“Piantala di dire idiozie, manca un’ora, puoi farcela in un’ora a dirmi chi è Annie Glickman?”
Gli lanciò un’occhiata quando glielo chiese e Klaus richiuse le labbra, scombinandosi un istante di capelli per poi riprendere a guardare fuori dal finestrino e rispondere, stringendo l’altro braccio sotto il gomito, quasi accoccolandosi sul sedile: “Una persona alla quale devo restituire una cosa. Sai, dopo che il compleanno di Kenny è andato a scatafascio e l’Apocalisse ha quasi distrutto la Terra, era giunto il momento che facessi una cosa rimandata da un po’ troppo tempo.”
Diego fu in procinto di chiedergli altro, ma quelle volte in cui Klaus tendeva morbidamente a perdere la sua verve pungente, l’altro capiva che era inutile sbatterci ancora la testa sopra e lasciarlo invece smaltire la malinconia momentanea. Lo vide lanciare un’occhiata dietro di sé, per poi riprendere a fissare l’orizzonte con la testa appoggiata vicina al finestrino; Diego aggiustò lo specchietto retrovisore e immaginò di poter vedere Ben, la sua compagnia silenziosa in quel viaggio un po’ assurdo con una meta ancora più misteriosa.
Si chiese chi fosse quella donna a lui sconosciuta e cosa, nella sua vita borderline, Klaus avesse da restituirle.
Mentre Donna Summer continuava a cantare, Diego pensò che forse non era esattamente impaziente di conoscere la risposta.

***

Klaus tirò fuori una mappa presa in una delle prime stazioni di servizio in cui erano andati una volta intrapreso il viaggio, quindi ormai stropicciata, macchiata da caffé, bevande zuccherate, una caramella spiaccicata e qualcosa che forse erano i resti di un marshmellow, beni di prima necessità per tenersi su quando arrivavano troppo tardi in motel e non c’erano consegne a domicilio nel mezzo del deserto sperduto.
“Qui, gira qui, su, su” lo incoraggiò sbattendo un paio di volte le mani, per poi sporgere la testa oltre il finestrino, assottigliare gli occhi per il vento ed espirare in profondità, consapevole che ormai c’erano.
Diego roteò gli occhi, lasciandogli credere che davvero Klaus potesse avere capacità decisionali o di guida in tutta la faccenda, poi svoltò e si trovò in un viale piuttosto ampio con al fondo una casa dalle pareti bianche, il tetto blu scuro e un porticato su cui c’erano delle sedie dello stesso colore e un tavolino.
Vide che il fratello muoveva la gamba sinistra e forse inconsciamente si mordicchiava l’unghia del pollice.
“Ehi, sicuro sia questo il posto?” gli domandò, abbassando appena la testa come per vedere meglio il luogo attraverso il parabrezza un po’ impolverato.
Klaus strinse i denti, si grattò il pizzetto e finì per far scivolare lentamente le dita fino alla guancia, stropicciandosi così parte del volto: “Uh-uh, sicuro. Così sicuro da farmi quasi paura. Sai quando sei consapevole di aver ragione, ma allo steso tempo temi quel – strinse l’altra mano a pugno, con verve – sì, quel momento fatale in cui ti pentirai di averla avuta?”
Diego lo fissò un istante, poi fece un mezzo sorriso di presa in giro, sollevando entrambe le sopracciglia con aria di ulteriore scherno: “Non mi dire che hai... paura?”
Klaus sgranò gli occhi, per poi portarsi la mano al petto con indignazione: “Io paura? – scosse la testa, scacciando l’immagine con un gesto della mano e una scrollata di spalle – Paura, ah.”
Annuì un paio di volte, mostrando a sua volta un mezzo sorriso scettico, per poi umettarsi le labbra e riprendere ad annuire, guardando fuori dal finestrino: “Sai, a ben pensarci a Greensburg non c’è nulla di davvero interessante, un paio di case, un diner – gesticolò fingendo sorpresa – uh, wow, un benzinaio e... Diego?”
Sussultò, riportando i piedi sul tappetino dell’auto quando, dopo aver sbattuto la portiera, vide Numero Due intento a incamminarsi verso la casa al fondo del viale, avvisandolo: “Se non ti muovi le vado a suonare io.”
Dopo aver aperto e chiuso la bocca una volta, Klaus si girò rapido verso i posti dietro guardando Ben che, a braccia incrociate, lo fissava di rimando; poi si lamentò e fece una smorfia con cui storse la bocca: “Oh, cazzarola, dai, non dirmi che lo sta facendo davvero.”
Ben si sporse in avanti, attese un istante, poi annuì: “Sì, lo sta facendo davvero. Ti conviene andare.”
Klaus sbatté una mano sulla portiera, per poi agitare le braccia come per contenere un’esplosione “Santo santissimo Gesù e famiglia felice, perché?”
Ma quando lo disse aprì la portiera, si capicollò fuori dall’auto facendo cadere la borsa a tracolla di Masha e Orso, la raccolse, fece per chiudere a sua volta la porta, per poi sbottare: “Cazzo, cazzo...”
Recuperò le ciabatte, saltellando mentre avanzava se le mise ai piedi ed esclamò: “Diego! Ehi, ehi – lo raggiunse, prendendogli un braccio con l’atteggiamento di chi doveva sedare un orso – tutta questa storia di Annie, Greensburg, dai, lo ammetto: era un pretesto idiota per viaggiare assieme, vedere posti nuovi, che bisogno c’è adesso di fare tutta la scena dell’uomo macho, yeah, che cammina tutto così” lo scimmiottò, gonfiando i pettorali mentre incurvava la schiena e abbassava il mento. Diego si arrestò, lo afferrò per la canotta e ribadì, esasperato:
“Ora dacci un taglio. Questa – continuando a guardarlo puntò il dito verso l’abitazione – è casa di Annie Glickman, vero? Bene. Sei un uomo, giusto, fratello?”
Klaus gesticolò, portandosi una mano dietro il collo: “Beh, sì più o meno, anche se tecnicamente...”
Ma l’altro non gli permise di concludere, lasciando la presa per poi dargli una pacca sul petto, quasi come per risistemargli la canotta stropicciata: “Ora vai là a testa alta e combatti, l’hai già fatto, no?”
Numero Quattro si umettò un labbro, poi annuì, lentamente ma con maggiore convinzione: “Già fatto. Sì. Un sacco di volte. Ehi, nemmeno ti sto a dire quante.”
Espirò, poi si prese le medagliette di riconoscimento nascoste sotto la canotta e le baciò chiudendo gli occhi, quasi come se le stesse respirando un’ultima volta. Le lasciò andare sulla propria pelle, rimettendole al loro posto, infine fece dopo un paio di saltelli sul posto come un pugile prima di un incontro.
Prese una sigaretta dalla borsa a tracolla, se la mise in bocca e la accese, inspirandone una grande boccata; la tirò via prendendola tra medio e anulare, espirando una nuvola di fumo con Diego che, un po’ impaziente ma silenzioso, con le braccia incrociate attendeva.
Fatti un altro paio di tiri, Klaus spense la sigaretta contro uno dei cartelli ormai vecchi di agenzie immobiliari per case in vendita mai comprate e la buttò nel cestino di fianco. Si dette qualche schiaffo sulle guance, aprendo e chiudendo gli occhi mentre faceva dei versi propiziatori, poi scrollò spalle e braccia e annunciò:
“Sono pronto. Facciamolo. Woah.”
Sbuffò facendo vibrare le labbra e avanzò, seguito da Diego che, dopo aver roteato gli occhi, borbottò: “Era ora.”
Ma quando furono di fronte al porticato, vedendo Klaus irrigidirsi progressivamente, Diego rimase in allerta. Non sapeva che genere di gente potesse aver frequentato suo fratello e, dati i trascorsi, dubitava che fossero persone tranquille. Nel caso si era portato dietro i suoi coltelli: se quella tale Annie avesse provato a fare qualcosa di strano l’avrebbe messa k.o. prima di subito.
Con un cenno, Diego incoraggiò Klaus che l’aveva guardato con un’occhiata espressiva delle sue; dunque Numero Quattro fece un respiro profondo, ebbe tempo di pensare di essere troppo sobrio, e preoccupato, e nostalgico e triste, per poi salire i due scalini del porticato e suonare il campanello.
Si guardò i piedi, infine sentì un rumore di passi; schioccò la lingua, sollevando l’indice: “Sai, credo di aver dimenticato le penne multicolor in macchina, arrivo” fece per fare retrofront ma, senza parlare, con un gesto brusco Diego lo rigirò verso la porta che nel frattempo si aprì.
Numero Due avrebbe potuto aspettarsi ogni genere di persona con il nome di Annie e conosciuta da Klaus, ma fu del tutto impreparato a ciò che vide, al punto che quando si presentò davanti a loro una signora ormai in là con gli anni, con addosso un vestito morbido, i capelli legati e un sorriso un po’ curioso sotto gli occhiali, il giustiziere dell’Umbrella Accademy rimase bloccato con la bocca semiaperta e il braccio che ancora stringeva la canotta di Klaus per farlo girare.
Questi sollevò una mano in gesto di saluto, fece un mezzo sorriso a denti stretti e salutò: “Buongiorno, salve, yay! La signora – fece una breve pausa – Glickman?”
Quest’ultima sollevò un sopracciglio ma accennò una risata: “Prima che mi sposassi sì. Voi chi siete?”
Guardò anche Diego che produsse un’espressione da pesce boccheggiante, mentre Klaus diede un colpo di tosse e gesticolò un istante prima di dire con tono di chi sembrava di sapere quello che stava facendo:
“Felice che me l’abbia chiesto – mosse un dito in avanti come per pregarla di attendere, poi abbassò lo sguardo verso la borsa, scartabellandoci dentro con l’altra mano fino a far spuntare un block notes – sono un ricercatore universitario. Klaus Hargreeves. Un onore immenso e profondissimo conoscerla, signora.”
Nonostante usasse termini esagerati come sempre, sembrò davvero contento di incontrarla. Le tese la mano e quando la signora, un po’ perplessa, gliela strinse sporgendo la propria, lui la tenne anche con l’altra mano, sorridendole persino con affetto.
“Piacere mio signor... Hargreeves. Mi sembra di aver già sentito parlare di lei.”
Per un istante Klaus fece un sorriso più commosso, poi sollevò le spalle, come se fosse abituato a essere riconosciuto: “Probabile. Le mie ricerche di… storia americana sono piuttosto famose in ambiente accademico.”
Diego lo guardò sgranando gli occhi, con l’espressione che stava platealmente esclamando Stai dicendo un mucchio di cazzate. Ma Klaus gli fece un cenno a denti stretti, allargando gli occhi come per esortarlo ad andargli dietro ed evitare di cambiare rotta, per quanto improbabile.
Quindi quando la signora si rivolse verso numero Due, dopo aver esclamato: “Oh, un ricercatore, che cosa curiosa! E lei è?”
Diego non riuscì a far altro che balbettare qualcosa ma con l’aria convinta di chi stesse per dire una frase importante, sbattendo un paio di volte le palpebre, così che Klaus gli batté qualche pacca sulla spalla con fare magnanimo: “Lui è il mio assistente. Diego – scandì il suo nome, quasi come un professore con troppi allievi da ricordare – mi segue per completare la sua tesi; sa, mi piace che i miei studenti possano fare esperienza sul campo, la storia che parla, ci credo un sacco. È così, così importante.”
La signora annuì lentamente, quasi stesse cercando di capire il filo del discorso senza perdersi, guardò entrambi poi confermò, aggiustandosi gli occhiali: “Sì, certo, è un ottimo principio Professor Hargreeves. Sembrate parecchio giovane, dovete avere lavorato sodo e avere grande passione per gli studi che fa.”
Klaus si portò una mano al petto, socchiudendo un istante gli occhi mentre replicava accorato: “Tantissima passione, signora, non ne ha idea. Tantissima. Vivo per questo.”
Annuì un paio di volte con un sorriso saggio e di grande convinzione, anche se aveva pantaloni etnici slargati, delle ciabatte da quattro soldi e una borsa a tracolla in plastica di Masha e Orso. Diego assottigliò gli occhi, guardandolo come aspettandosi che scoppiasse una bomba da un momento all’altro, ma rimase zitto.
La signora invece parve esserne stata colpita, o forse era una grande fan di Masha e Orso, dunque annuì comprensiva e si scostò, domandando:
“Deve fare un’intervista su qualcosa? La avviso che non sono una grande esperta di storia, farei delle figuracce.”
Ma Klaus si umettò un istante le labbra prima di scuotere la testa e tranquillizzarla con quel fare morbido che gli apparteneva, come se parlasse a un bambino o a un cucciolo di cane: “No, no, anche io non avessi studiato tutto quel tempo sarei così profondamente ignorante, immerso nella cieca oscurità del non sapere, stia tranquilla. In realtà – trasse un breve sospiro, poi ammise – la mia ricerca è molto specifica e credo che lei mi possa aiutare: stiamo ricostruendo il periodo degli anni sessanta sul fronte... geopolitico, sociale, le famiglie dell’epoca.”
Disse qualche altra parola a caso ma con quell’atteggiamento esperto di chi vendeva aria fritta, per poi massaggiarsi appena il labbro, mettendo l’altra mano sotto il gomito. La signora gonfiò un istante le guance, come per trovare una risposta all’altezza, poi si limitò a dire annuendo: “Beh, oh, certo, capisco, proverò a esserle d’aiuto. Prego, entrate, vi offro una tazza di caffè e una torta alle mele.”
Klaus espirò brevemente per poi annuire, gli occhi che si illuminarono: “Torta alle mele – con un gesto italiano si baciò le dita congiunte – la mia preferita. Grazie, lei è un angelo sceso in terra, signora.”
Quest’ultima ridacchiò per poi invitarli ad entrare e incamminarsi. Klaus lanciò uno sguardo a Diego, sollevando entrambe le sopracciglia come a dire visto? Fila tutto liscio, e questi inarcò un labbro in una smorfia a metà tra il confuso e l’irritato:
“Un ricercatore universitario?” domandò rapido, quasi un sibilo.
“Professor Hargreeves, prego” lo corresse Numero Quattro con espressione compassata, aggiustandosi il pizzetto con gesti lenti della mano mentre teneva l’altra sul ventre, quasi ci fosse un panciotto immaginario da sfoggiare.
Diego avrebbe voluto dirgli tante cose, ma l’unica che ritenne opportuno fare presente fu uno scettico bisbiglio: “Sei sicuro di sapere quello che stai facendo?”
Klaus sembrò fare un paio di conti, per poi ammettere con una certa tranquillità, guardando un punto indefinito davanti a sé come se stesse scrutando l’orizzonte: “All’incirca. Sono più tipo da... improvvisazione teatrale – poi riprese a fissare l’altro – andiamo, tesista Diego, veloce, su, la vita universitaria è come ottenere la polizza sanitaria qui in America: una strada irta e piena di ostacoli.”
Gli batté una pacca sulla spalla per poi avanzare nel soggiorno, con la signora Glickman che fece capolino dalla cucina con delle tazze e dei piattini imbanditi da fette di torta:
“Prego, accomodatevi.”
Diego vide Klaus diventare all’improvviso silenzioso man mano che avanzava, fino a muoversi quasi lentamente, con gli occhi grandi e la bocca impercettibilmente aperta mentre era intento a guardarsi attorno. Sembrava divorare con curiosità piena quelle pareti, i quadri appesi, i libri, i soprammobili un po’ antichi e le poltrone non proprio recenti che sapevano di casa in piedi da tempo, nonostante le sventure e gli uragani. Lo scorse soffermarsi un istante davanti a un muro con qualche vinile dei Beatles incorniciato, mettendosi le mani nelle tasche larghe.
Si voltò quando la signora appoggiò il vassoio e le sorrise, congiungendo le mani per poi fare un breve inchino: “Lei è troppo gentile. Effettivamente dopo il lungo viaggio di oggi il pancino cominciava a brontolare, yummi.”
Tamburellò poi le dita sulla pancia, come per confermare.

“Prego, si figuri, è un piacere condividere. Sono sempre da sola, avrei rischiato di buttar via la torta.”
Togliendosi le ciabatte, Klaus si sedette a gambe incrociate sul divano, mentre Diego, un po’ irrigidito, si schiarì la gola e si posizionò al suo fianco, evitando di guardarlo come se avesse a che fare con un caso da ricovero. La signora non parve lamentarsi della posizione piuttosto comoda del Professor Hargreeves e tese loro le tazze di caffé freddo, data la giornata calda, infine lo invitò, mettendosi una mano sulla gamba accavallata:
“Allora, mi dica pure come posso esserle utile.”
Sorprendentemente, Klaus guardò un po’ commosso la torta, la tenne in grembo accanto a sé, e dopo un istante osservò: “Le piacciono i Beatles – mosse le mani sventagliandole – UK power.”
La donna spostò gli occhi verso la parete con i dischi e fece una risata, per poi ammettere: “Sì, mi piacciono parecchio. Ma il vero appassionato era mio fratello.”
Klaus sbatté un paio di volte le ciglia folte e con gentilezza rispose, anche se sembrava già esserne a conoscenza: “Ah, davvero? Deve avere un ottimo orecchio suo fratello. Avere avuto” si corresse dopo un istante, abbassando una sola volta gli occhi.
Diego lo guardò, spostò il volto verso la signora e poi, alle spalle di quest’ultima, notò un angolo molto modesto ma vivido con delle foto in bianco e nero, una bandiera a stelle e strisce e una foto più grande di un ragazzo in divisa dal taglio elegante e il sorriso fiero eppure gentile. Gli si bloccò un istante il respiro in gola.
“Sì, mio fratello...”
“Ha combattuto in Vietnam” la anticipò Klaus, concludendo per lei come per venirle incontro in una pausa difficile.
La signora sgranò gli occhi, stupita: “E lei come lo sa?”
“Sono uno studioso ricco di passione, ricorda? La storia è la mia vita.”
La donna lo guardò un istante, presa un po’ in contropiede. Si portò una mano sulla bocca, quasi per raccogliere le idee.
Klaus iniziò a dire, lanciando un’occhiata alle spalle della donna, per poi tornare a guardarla: “La mia vita, yep. E... quindi, per quest’intervista...”
Cercò di trovare le parole, anche se era difficile. Tremendamente difficile. Ogni tanto sentiva i fischi che gli assordavano le orecchie, i mortai e le bombe che gli precipitavano addosso, e il mondo perdeva di colore, diventando di luci improvvise e ombre ancora più scure, spaventoso e terribile, un confronto peggiore di quello coi suoi morti. Parlare di lui, che in quelle luci, esplosioni e oscurità se n’era andato, era ancora più difficile.
“Vorremmo che ci raccontasse di David: conosciamo la sua storia e quella del suo battaglione in Vietnam, alla fine degli anni sessanta, ma stiamo raccogliendo le testimonianze per conoscere gli uomini dietro i soldati. Spesso dimentichiamo che ci sono esseri umani nella guerra.”
Intervenne all’improvviso Diego, per poi guardare Klaus che a sua volta lo fissò, con occhi diversi, occhi di un uomo che aveva visto più di quello che sembrava e che se lo portava dietro, nascondendolo nel petto.
La signora Annie, con la sua gonna lunga, la camicia ordinata e i capelli sistemati in maniera pratica, sorrise all’improvviso, le rughe si distesero in pieghe morbide e gli occhi si illuminarono.
“Capisco. Credo sia un’iniziativa bellissima. David ne sarebbe stato felice.”
“Mi fa piacere saperlo” commentò Klaus in un sussurro, con un sorriso malinconico.
La donna allora si alzò e andò alle proprie spalle, prendendo il ritratto in divisa di David Glickman, il soldato che aveva combattuto nella guerra del Vietnam. E che Klaus, nel ’68, in un folle viaggio indietro nel tempo aveva conosciuto. E amato. Al punto da non essere tornato indietro fino alla fine, fino a quando David in quella guerra aveva perso la vita.
“Questo è David. Era un bel ragazzo, così gentile. E altruista.”
Porse la fotografia. Klaus la sfiorò con le dita, mormorando con voce un po’ rotta: “Già. Bellissimo. Aveva l’aria proprio fiera. E nobile.”
Rimase a guardarlo, senza però prenderla subito, come se avesse avuto paura di rompere qualcosa. Lo fece allora Diego per lui e ammise: “Avrei voluto conoscerlo.”
Lo disse poi guardando il fratello, che gli fece un accenno di sorriso e appoggiò il gomito sulla coscia, tenendosi il mento sul palmo della mano, con le dita che in qualche forma gli sigillavano le labbra compresse contro.
“Vi avrebbe trovato molto simpatici. Anche se era un uomo di grandi responsabilità sapeva divertirsi e far star bene le persone. Oh, ed era un gran ballerino, avrei dovuto imparare di più da lui” accennò a un sorriso. Fece lo stesso anche Klaus, strizzando qualche volta gli occhi un po’ lucidi, ma continuò a guardarla e ad ascoltarla parlare dell’uomo che aveva amato, con la torta ancora in grembo e la foto tra le mani di Diego, il quale con insolita delicatezza accorta la appoggiò sul tavolo.
Così Klaus sentì la sorella di David parlare del fratello maggiore, di quando andavano nei campi del vicino per aiutarlo con la raccolta delle mele e ne prendevano qualcuna in cambio, o quando prima di arruolarsi l’aveva portata fuori a cena per chiederle scusa e pregarla di tenere bene i suoi dischi.
“Sebbene si siano sciolti poco dopo la scomparsa di mio fratello, non ho mancato un solo album dei Beatles – precisò Annie – quando Dave era al fronte, gli ho comprato io i successivi. Li ascoltavo e cercavo di raccontarglieli in parole, nelle lettere che gli spedivo da casa. Solo che le comunicazioni erano così ritardate che nel frattempo l’album era già uscito da un pezzo.
Suppongo di essere stata una tipa ostinata: anche dopo che Dave ha perso la vita ho continuato ad ascoltare i Beatles e, beh, ad abitare qui, nella casa in cui siamo nati. Nemmeno i tornado sono riusciti a spazzarla via o a farmi allontanare da qui.”
Accennò a una risata che si spense piano, la morbidezza del crepitio di legna consumata dal fuoco.
Klaus si stropicciò gli occhi, annuì con le labbra un po’ tremanti, poi sospirò, un sospiro di quelli spezzati perché emotivi.
“Le prendo dell’acqua, caro” offrì dopo un istante la signora, comprensiva e con un sorriso materno.
Si alzò, diretta in cucina.
Klaus si sigillò gli occhi mettendosi i polsi sopra, sollevando le braccia piegate. Rimase così un istante, gettando fuori: “Forza. Sii l’uomo che sei.”
“Ehi, Klaus” gli disse Diego, attento, mettendogli una mano sul ginocchio dopo avergli poggiato il piatto sul tavolino.
Klaus abbassò le proprie mani, scrollandole, per poi far lo stesso con la schiena. Strizzò gli occhi e fece una smorfia che ricordò un sorriso, per poi voltarsi verso il fratello e dire con fare ancora così innamorato:
“Era davvero un grande, eh?”
“Lo era” ammise Numero Due dopo un istante, stringendo di più la mano sul ginocchio dell’altro, il suo modo un po’ schivo ma sentito di sostenerlo.
Gli occhi di entrambi caddero sulla foto in bianco e nero. Klaus trasse un profondo respiro e la prese. La guardò, poi con l’altra mano si portò le dita sulle labbra e infine le appoggiò sul vetro, all’altezza della bocca dell’uomo in divisa:
“Addio, babe. Il tuo posto è qui.”
Il labbro gli tremò e fece un sospiro che sapeva di pianto ma, nonostante gli occhi lucidi, non pianse affatto.
Diego non lo lasciò. Gli prese poi con gentilezza il ritratto e, quando la signora rientrò con una caraffa d’acqua e dei bicchieri, lo appese dov’era collocato, mostrando tutto il rispetto di cui era capace nonostante il carattere brusco.
“Vi aspetto fuori, se vuoi raccogliere le ultime cose” annunciò. La signora lo salutò poi, sedendosi sulla poltrona, guardò con fare gentile Klaus che annuì e, dopo aver sentito la porta d’ingresso chiudersi, strofinò i propri palmi sui pantaloni, rimettendo i piedi a terra.
“Bene. È stato un piacere immenso, grazie per averci parlato di lui.”
Fece per alzarsi quando la donna, con fare gentile, gli prese il polso e lo fermò, chiedendogli:
“Lei non è dell’università, vero?”
Klaus si arrestò. Avrebbe potuto tirare fuori una delle sue improvvisazioni un po’ arrancate e teatrali, ma vide il modo in cui lo guardava Annie, come se avesse già saputo, e allora senza pensarci ancora si mise l’altra mano sul cuore per poi ammettere: “Colpevole. Mi ha scoperto.”
Annie non si scompose, né perse il sorriso. Annuì, infine gli girò il palmo sinistro con fare pacato, leggendo: “Goodbye. Avevo notato i suoi tatuaggi, sono... particolari. Ma non credo sia perché è fan dei Beatles.”
Numero Quattro era consapevole di cosa significava quell’osservazione; ciononostante si guardò l’altro palmo, togliendolo dal proprio petto, poi fissò la signora e le disse, d’istinto:
“Le racconto una storia, per ringraziarla del suo tempo – una breve pausa, nella quale si fissarono e il tempo non scorreva – sono capace di evocare i morti. Ma ho paura di vedere le persone che amo e che ho perso.”
Fece un sorriso più ampio, come per rendere tutto uno scherzo o ridurlo a uno dei suoi racconti stupidi di vita vissuta, anche se in realtà aveva voglia di piangere. La signora gli strinse con affetto la mano sinistra e non sembrò scomporsi. Aveva anche lei gli occhi lucidi:
“Sentivo che era una persona speciale. Ha una sensibilità diversa da quella degli altri e credo... credo che abbia un dono difficile. Non parlavo di David da anni, poi arriva lei e... – rise appena, portandosi un dito sotto l’occhio quasi per togliersi una ciglia – è stato come averlo salutato ieri.”
“Oh, non è un dono il mio, adorabile signora Glickman” la corresse Numero Quattro dopo aver deglutito un istante, con quel tono vibrante di tragica leggerezza che usava per allontanare ogni merito da se stesso, nella propria inerte autodistruzione.
Annie sospirò. Poi gli prese l’altra mano e guardò entrambi i palmi, dicendogli all’improvviso:
Hello, goodbye è una delle mie canzoni preferite dei Beatles. Veda così il suo dono – alzò gli occhi per guardarlo e vide quelli attenti, carichi di emozioni dell’altro inchiodati su di lei – tutti noi diciamo addio a una persona quando la perdiamo. Ma tu, Klaus Hargreeves, puoi ancora farla sentire benvenuta e... accompagnarla, fino alla casa che ha perso e a cui non è più potuta tornare. Una responsabilità e un privilegio, tramutare un addio in un ciao.”
Klaus chiuse gli occhi. Espirò. Poi Annie gli lasciò lentamente le mani e sospirò a sua volta, aggiustandosi gli occhiali.
A quel punto Klaus abbassò lo sguardo sul proprio petto e tirò fuori le medagliette di riconoscimento, tirandole via dal collo. Le strinse un istante, poi fu il suo turno di prendere le mani anziane della donna – mani che un tempo erano morbide e luminose, come lo erano quelle di Dave – e metterle le medagliette in un palmo, richiudendoglielo:
“Queste appartengono a lui.”
La donna abbassò gli occhi, aprì le dita con lentezza e si portò le altre alla bocca, soffocando un mezzo singhiozzo.
“Come...”
Klaus dilatò le narici, le sorrise e sollevò le spalle: “Sa, col mio lavoro giro parecchio tra veterani e centri dedicati alla memoria.”
Finse che fosse una questione ordinaria e con un movimento un po’ impacciato si alzò in piedi, mettendosi alla buona la borsa a tracolla per poi grattarsi la spalla col tatuaggio fatto al fronte.
“Klaus – lo richiamò, alzandosi a sua volta – aspetti.”
Questi si voltò e la donna staccò una delle medagliette, per poi tendergli la collana con l’altra ancora appesa:
“Questa la tenga lei. Ovunque andrà, porterà con sé un ricordo di David. Grazie per averlo riportato qui, facendolo rivivere in questa casa.”
Klaus la guardò, poi guardò la medaglietta. Sbatté una volta le palpebre, infine annuì stordito e prese l’oggetto, socchiudendo gli occhi. D’istinto, la baciò, se la portò un istante al petto e infine la rimise al collo.
“È stato come averci parlato ancora.”
Senza vederlo morto, con un buco nel petto. Ma... vivo, così vivo, mentre raccoglieva le mele in una giornata di sole.
Le strinse la mano con entrambe le proprie, chinandosi fino a mettervi sopra la fronte, infine si rialzò:
“Grazie a lei di tutto, Annie. Dave non sarà mai dimenticato.”
“Lo so. L’ho visto nei tuoi occhi” gli disse, dandogli di nuovo del tu con affetto.
Quando lo accompagnò alla porta, dopo averlo abbracciato lo vide andar via; allora si asciugò i propri, di occhi.
Una volta rientrata, accese il giradischi e mise su l’album dei Beatles Magical Mistery Tour, sedendosi sulla poltrona mentre canticchiava con le palpebre socchiuse le canzoni conosciute a memoria.
Fuori, poco distante dal porticato, con le braccia incrociate Diego osservò Klaus scendere le scale. Lo vide stiracchiarsi la schiena e mettersi poi le mani sui fianchi, tirando un profondo respiro.
“Le hai dato quello che dovevi?” domandò Numero Due, portandosi al suo fianco.
“Diciamo che abbiamo fatto un bello scambio” replicò l’altro, per poi salire in macchina, guardare Ben che gli sorrideva, e sistemarsi sul sedile con una gamba accavallata.
Diego lo scrutò, accendendo il motore:
“Sicuro di star bene?”
Klaus si mise entrambe le mani sul petto, trasse un profondo respiro e spalancò lentamente le braccia, espirando: “Mai stato meglio. Dovremmo fare viaggi fraterni più spesso, sento che il nostro legame è già cementato, solido come roccia.”
Non molto convinto Diego inarcò un sopracciglio, poi però lo vide sorridere di quella contentezza interiore che Klaus manifestava inconsciamente, e si tranquillizzò, replicando in una scrollata di spalle:
“Mah, se lo dici tu. Dove dobbiamo andare adesso, Professore?”
“Che domande: a casa dolce casa. Anche se ci sono un mucchio di macerie e i sotterranei fanno, uuuuuh – gesticolò con le mani muovendo le dita – un po’ impressione, però è meglio di niente, no?”
“Casa. Se proprio vuoi chiamarla così” borbottò Diego, ma fece inversione e cominciò ad avviarsi.
Dopo un istante Klaus accese lo stereo e propose:
“Ho un’idea per il prossimo pezzo da ascoltare. Scommetto che riesco a farti frizzare il cervello, come tanti piccoli, teneri fiorellini che sbocciano” allargò le falangi di entrambe le mani con aria di mistero e amore cosmico, nonché l’espressione di chi ci era passato e con grande magnanimità voleva condividere l’esperienza.
“Non Donna Summer di nuovo – fece presente Diego, serissimo – dopo una settimana con tutte le hit a ciclo continuo, il pensiero di ascoltarla ancora mi è diventato come Luther quando crede di sapere quello che sta facendo: ridicolo e indigesto.”
“Diego, la tua amarezza e senso di rancore possono diventare di grande ispirazione, dico davvero” replicò Klaus fingendosi commosso, portandosi una mano al petto.
Poi agitò le dita, come per prepararsi a suonare uno strumento invisibile, e mise un cd con una scritta a pennarello varie, viaggio on the road mix recuperato da una custodia nella borsa a tracolla. Caro, vecchio, cd: consapevole dell’antichità della macchina di Diego, Numero Quattro non si sarebbe mai sognato di portare con sé una chiavetta usb.
“Hai fatto davvero una compilation per i viaggi in macchina?” domandò l’altro, con un certo sorpreso divertimento.
“Oh, questo è niente, ho musica per qualsiasi occasione: quando faccio il bagno, quando mi depilo, quando vado in giro sui pullman, quando, sai – fece un sorriso d’intesa, con gli occhi più grandi – agito la mia... bottiglia di champagne e poi, yay, la stappo. Pop” disse, aprendo una mano come per dare più enfasi al concetto.
Diego fece una smorfia di disgustata compassione poi continuò a guidare, consapevole che sarebbe stata una lunga settimana.
Nel frattempo, cominciando già a muovere il torace con un senso del ritmo immaginario, Klaus cercò la canzone e fece play; socchiuse gli occhi e mosse anche le braccia. La macchina aveva ripreso a immettersi nella 400 mentre nell’abitacolo aperto verso il deserto risuonavano le note di Hello, Goodbye.

I don’t know why you say goodbye, I say hello.


Sproloqui di una zucca

What if e missing moment nel quale l'Umbrella Academy ha evitato l'Apocalisse scatenato da Vanya.
Greensburg è davvero stata decimata da un tornado nel 2007.
Link alla canzone che mi ha ispirato tutto questo, canzone tra l'altro uscita nel '67, anno prima di quello in cui Klaus ha incontrato David al fronte: https://www.youtube.com/watch?v=rblYSKz_VnI




   
 
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