Perché tu possa ascoltarmi
QUANDO AVEVA INIZIATO AD ODIARLA
Demian era scappato con la coda tra le gambe e i
vestiti gettati addosso
alla rinfusa, con la fretta dell’imbarazzo, la maglietta al
contrario e il
giubbino contro la pelle, perché quella felpa non aveva
avuto il coraggio di richiederla.
L’aveva lasciata con lei, in quel letto che non gli
apparteneva, che era di
Simone.
Era scappato con quel libro in mano, il nevischio
scendeva, aveva inumidito
le pagine, si erano arricciate un poco.
Era andato da Nicolas e dagli altri, non voleva
tornare a casa.
Non voleva vedere maman, non voleva sentirla
urlargli contro, perché lo
faceva sempre ormai, urlava per tutto, incattivita, arrabbiata.
Preoccupata.
«Dove sei stato? Dove passi tutto il tuo
tempo?»
E poi, ancora, frustrata «Non puoi
comportarti così! Hai solo quattordici
anni, Dami! Sono tua madre, devi rispondermi!»
Demian, a quelle domande, di rispondere non ne era
proprio capace.
Il senso di colpa lo rendeva spavaldo e
aggressivo, le ringhiava
contro, la feriva, e non voleva. Non voleva perché non stava
bene, non voleva perché
Sarah era troppo piccola e quelle cattiverie non riusciva a
sopportarle, si
rintanava nella loro stanza, sul suo letto, aggrappata al suo orsetto
di
peluche come se quest’ultimo avesse potuto salvarla.
Nicolas gli aveva dato una copia delle chiavi del
suo appartamento, un
buco ai piedi di una palazzina, un covo dove tutti si riunivano.
C’era Davide, frustrato come non mai
perché le Juve aveva pareggiato
contro il Parma, una partita mediocre.
«Del Piero quasi mi ci aveva illuso, ma
dopo il suo gol non hanno più
concluso un cazzo. Se Crespo si fosse fatto i cazzi suoi! Ma figurati
se non ci
inculavano proprio sul finale. Al novantaduesimo, ti rendi conto? Che
partita di
merda»
Finiva sempre così, quando giocava la
Juve, e Dave beveva di brutto,
per festeggiare o per non pensare al fallimento, a seconda del caso.
Demian aveva fatto lo stesso, si era ubriacato.
Davide, ridendo, gli aveva mostrato una pastiglia.
«L’Lsd non l’hai mai
provata, vero?»
E lui aveva scosso la testa, provato da una
sbronza pesante e da un
dolore al petto tanto forte da tradursi in fitte profonde come
pugnalate tra le
costole.
«C’è sempre una
prima volta, moccioso»
Quella era stata la sua prima volta, ma non
l’ultima.
La mattina presto, ancora invasato dal bad trip
allucinante che aveva
avuto e dal troppo alcol in corpo, era strisciato fuori casa, aveva
vagato nel
buio.
Alla fine, era tornato davanti alla palazzina di
Elena. Voleva suonare
il campanello, parlarle, non voleva scappare. Aveva paura che se avesse
mollato
in quel momento, sarebbe crollato tutto il castello di carte che erano
loro,
che era lui per lei.
Nell’alba, una figura dolorosamente nota
uscì dal portoncino.
Un ragazzo, alto, un bravo ragazzo con le spalle
larghe e un sorriso
tiepido nascosto all’angolo della bocca, sempre in procinto
di nascere.
Simone
Simone era tornato. Elena aveva detto che sarebbe
successo, ma non pensava
subito.
Non voleva credere che fosse davvero tornata con
Simone dopo aver fatto
l’amore con lui.
Aveva aspettato che fosse sparito, poi aveva
suonato.
Elena lo aveva visto nello schermo del citofono,
lo aveva fatto
entrare.
Come non fosse successo nulla, e invece Simone era
stato lì.
Simone aveva dormito con lei.
Simone l’aveva scopata, sorrideva, era
felice.
Simone nemmeno immaginava che lui esistesse.
Elena aprì scompigliata e sorridente,
gli occhi stropicciati, ma non di
sonno. Era stanca e appagata, portava addosso un odore, quell’odore,
di
sudore e sesso, di sperma e umori, un aroma avvolgente come una guaina
calda e
umida.
Demian sentì che qualcosa si spezzava.
Che la odiava.
Che quel sorriso avrebbe voluto distruggerlo,
vederlo sgretolarsi lentamente
sotto le sue mani. Perché non meritava di sorridere
così beatamente, non
meritava niente.
Non meritava lui, e non meritava nemmeno Simone.
L’aveva afferrata con una cattiveria che
non gli apparteneva, che
nasceva con lei, che non conosceva prima di conoscerla, e
l’aveva spinta dentro
l’appartamento, schiumante di collera, la mano serrata
attorno a quel polso
fragile, sottile.
«Demian?» l’aveva
chiamato, confusa.
E poi aveva urlato, sempre più
spaventata «Demian!» mentre la
trascinava, nuda contro la sua volontà nella sua camera da
letto. Le lenzuola
erano sparse, stropicciate, intrise del sudore di una notte trascorsa a
fare l’amore.
E Demian l’aveva gettata su quel letto e
si era sentito forte,
incredibilmente forte.
Elena lo trattava come un bambino, ma era
più forte di lei, non era un
bambino, non aveva il diritto di prendersi il suo cuore e stritolarlo
nella morsa
meschina di quelle mani egoiste e capricciose.
Ed anche se stavolta era Ellie a guardarlo con gli
occhi immensi di
paura, resi bellissimi dalla struggente dolcezza che li ammorbidiva in
un’espressione
languida e spaventata, Demian non si sentì meglio, si
sentì solo più furioso,
oltraggiato.
L’aveva spinta, l’aveva
costretta a voltarsi, con una mano le bloccava
i polsi, con l’altra aveva agguantato i suoi capelli morbidi
e setosi e aveva
premuto quel viso tanto bello, tanto amato, contro il materasso,
perché non
voleva sentirla, non voleva vederla.
Non voleva sapere quale fosse la sua espressione
mentre piangeva e
provava a dimenarsi disperatamente, mentre la ignorava e la prendeva
con una
cattiveria, un disprezzo che lo distruggevano.
Era stato tutto caotico e veloce,
l’orgasmo fulminante.
Ad un tratto, Elena aveva smesso di opporsi,
l’aveva assecondato, le
unghie che affondavano nel materasso insieme ai gemiti soffocati, e
Demian si
era sentito in pace, aveva pensato che non era vero niente, che aveva
frainteso
tutto.
Quando però si era staccato da lei,
aveva riconosciuto i segni rossi
delle sue dita sui fianchi della ragazza, la gravità di
quello che aveva fatto
gli era caduta addosso. Frastornato, si era seduto sul bordo del letto,
le
aveva dato la schiena.
L’ascoltò piangere.
«Perché lo hai
fatto?» piangeva come una miserabile, rannicchiata con
il lenzuolo che la copriva solo in parte e nemmeno più la
dignità di
mascherarsi.
Il fiato gli era mancato, tutto era precipitato
giù, nello stomaco, come
un vuoto d’aria, si era ripiegato su se stesso con il volto
affondato nelle
mani, le dita affrancate ai capelli.
«Per un attimo mi sono illuso che
così saresti stata mia»
E tu,
tu perché me lo hai permesso?
Perché
non mi hai fermato?
Non era vero che era più forte, Elena
lo aveva lasciato fare, forse
aveva sperato che si fermasse da solo e lui non ci era riuscito.
«Non piangere, Dami» si era
avvicinata a lui, lo aveva abbracciato e
quel corpo caldo e fragile aveva aderito alla sua schiena.
«Ti odio» lo aveva mormorato,
era arrabbiato e disperato, ma non era
comunque vero: non riusciva ad odiarla.
«Perdonami, Dami, scusami»
Lo aveva trascinato con sé, anche lei
piangeva, sommessamente, si era
aggrappata al suo corpo inerte, Demian sentiva di non potersi muovere
più, che
tutto era sbagliato e senza senso.
Lei non lo amava.
Non gli avrebbe permesso di fare quello che aveva
fatto, se l’avesse
amato. Si era fatta ferire perché si sentiva in colpa, non
le era importato
come sarebbe stato lui, dopo.
Ellie si era addormentata sul suo petto, le guance
umide di pianto.
Demian era scivolato via dal suo corpo, piano, per
non svegliarla. Aveva
preso il suo libro, quella poesia di Neruda che era Elena, era sempre
stata lei,
per la delicatezza, la dolcezza che riusciva a ispirargli. La
strappò piano, la
carta era delicata, si stracciava come il suo cuore, con una
facilità così
disarmante che quasi avrebbe potuto riderne.
Se ne era andato da quella casa, ma la poesia,
quella l’aveva lasciata
sul cuscino, accanto a Ellie.
In quel foglio restava tutto ciò che
aveva provato di buono per lei.
Tutto ciò che aveva desiderato da lei.
Perché
tu possa ascoltarmi
Quanto
era stato sciocco, a
crederci.