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Autore: lady igraine    16/04/2019    1 recensioni
Elena ha ventun anni, è bella, spaventata dal futuro e tremendamente insicura della sua vita e delle sue scelte. Al secondo anno di infermieristica, costretta all'ennesimo tirocinio sofferto per compiacere la propria famiglia, pensa di gettare tutto al vento ma ha troppa paura di prendere una decisione.
Demian è un ragazzino, ha tredici anni, è terribilmente ostile ed ha una situazione famigliare disastrata alle spalle.
In apparenza nulla li lega, eppure il destino intreccia le loro strade indissolubilmente, perché a volte le risposte più ovvie sono nelle persone più improbabili.
***
"Quante verità costellavano il suo mondo, e lei neanche poteva immaginarle. C’era troppa complessità lì, dentro quel corpo pallido e diafano, dietro a quegli occhi freddi. Lei non poteva afferrarla del tutto, non poteva capirlo e aveva deciso di non farlo.
Non aveva bisogno di capirlo per preoccuparsi per lui."
"Elena era come una poesia di Neruda, indefinita e irreale. C’era una delicatezza in lei che filtrava attraverso le parole e gli penetrava nella pelle, diventava parte di lui, di un desiderio che non trovava sfogo e si comprimeva nel petto sempre più a fondo, una spina dolorosa che non riusciva a togliere."
Spin-off della storia "A' Demian"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Perché tu possa ascoltarmi

 

QUANDO AVEVA INIZIATO AD ODIARLA

 

Demian era scappato con la coda tra le gambe e i vestiti gettati addosso alla rinfusa, con la fretta dell’imbarazzo, la maglietta al contrario e il giubbino contro la pelle, perché quella felpa non aveva avuto il coraggio di richiederla. L’aveva lasciata con lei, in quel letto che non gli apparteneva, che era di Simone.

Era scappato con quel libro in mano, il nevischio scendeva, aveva inumidito le pagine, si erano arricciate un poco.

Era andato da Nicolas e dagli altri, non voleva tornare a casa.

Non voleva vedere maman, non voleva sentirla urlargli contro, perché lo faceva sempre ormai, urlava per tutto, incattivita, arrabbiata. Preoccupata.

«Dove sei stato? Dove passi tutto il tuo tempo?»

E poi, ancora, frustrata «Non puoi comportarti così! Hai solo quattordici anni, Dami! Sono tua madre, devi rispondermi!»

Demian, a quelle domande, di rispondere non ne era proprio capace.

Il senso di colpa lo rendeva spavaldo e aggressivo, le ringhiava contro, la feriva, e non voleva. Non voleva perché non stava bene, non voleva perché Sarah era troppo piccola e quelle cattiverie non riusciva a sopportarle, si rintanava nella loro stanza, sul suo letto, aggrappata al suo orsetto di peluche come se quest’ultimo avesse potuto salvarla.

Nicolas gli aveva dato una copia delle chiavi del suo appartamento, un buco ai piedi di una palazzina, un covo dove tutti si riunivano.

C’era Davide, frustrato come non mai perché le Juve aveva pareggiato contro il Parma, una partita mediocre.

«Del Piero quasi mi ci aveva illuso, ma dopo il suo gol non hanno più concluso un cazzo. Se Crespo si fosse fatto i cazzi suoi! Ma figurati se non ci inculavano proprio sul finale. Al novantaduesimo, ti rendi conto? Che partita di merda»

Finiva sempre così, quando giocava la Juve, e Dave beveva di brutto, per festeggiare o per non pensare al fallimento, a seconda del caso.

Demian aveva fatto lo stesso, si era ubriacato.

Davide, ridendo, gli aveva mostrato una pastiglia.

«L’Lsd non l’hai mai provata, vero?»

E lui aveva scosso la testa, provato da una sbronza pesante e da un dolore al petto tanto forte da tradursi in fitte profonde come pugnalate tra le costole.

«C’è sempre una prima volta, moccioso»

Quella era stata la sua prima volta, ma non l’ultima.

La mattina presto, ancora invasato dal bad trip allucinante che aveva avuto e dal troppo alcol in corpo, era strisciato fuori casa, aveva vagato nel buio.

Alla fine, era tornato davanti alla palazzina di Elena. Voleva suonare il campanello, parlarle, non voleva scappare. Aveva paura che se avesse mollato in quel momento, sarebbe crollato tutto il castello di carte che erano loro, che era lui per lei.

Nell’alba, una figura dolorosamente nota uscì dal portoncino.

Un ragazzo, alto, un bravo ragazzo con le spalle larghe e un sorriso tiepido nascosto all’angolo della bocca, sempre in procinto di nascere.

 

Simone

 

Simone era tornato. Elena aveva detto che sarebbe successo, ma non pensava subito.

Non voleva credere che fosse davvero tornata con Simone dopo aver fatto l’amore con lui.

Aveva aspettato che fosse sparito, poi aveva suonato.

Elena lo aveva visto nello schermo del citofono, lo aveva fatto entrare.

Come non fosse successo nulla, e invece Simone era stato lì.

Simone aveva dormito con lei.

Simone l’aveva scopata, sorrideva, era felice.

Simone nemmeno immaginava che lui esistesse.

Elena aprì scompigliata e sorridente, gli occhi stropicciati, ma non di sonno. Era stanca e appagata, portava addosso un odore, quell’odore, di sudore e sesso, di sperma e umori, un aroma avvolgente come una guaina calda e umida.

Demian sentì che qualcosa si spezzava.

Che la odiava.

Che quel sorriso avrebbe voluto distruggerlo, vederlo sgretolarsi lentamente sotto le sue mani. Perché non meritava di sorridere così beatamente, non meritava niente.

Non meritava lui, e non meritava nemmeno Simone.

L’aveva afferrata con una cattiveria che non gli apparteneva, che nasceva con lei, che non conosceva prima di conoscerla, e l’aveva spinta dentro l’appartamento, schiumante di collera, la mano serrata attorno a quel polso fragile, sottile.

«Demian?» l’aveva chiamato, confusa.

E poi aveva urlato, sempre più spaventata «Demian!» mentre la trascinava, nuda contro la sua volontà nella sua camera da letto. Le lenzuola erano sparse, stropicciate, intrise del sudore di una notte trascorsa a fare l’amore.

E Demian l’aveva gettata su quel letto e si era sentito forte, incredibilmente forte.

Elena lo trattava come un bambino, ma era più forte di lei, non era un bambino, non aveva il diritto di prendersi il suo cuore e stritolarlo nella morsa meschina di quelle mani egoiste e capricciose.

Ed anche se stavolta era Ellie a guardarlo con gli occhi immensi di paura, resi bellissimi dalla struggente dolcezza che li ammorbidiva in un’espressione languida e spaventata, Demian non si sentì meglio, si sentì solo più furioso, oltraggiato.

L’aveva spinta, l’aveva costretta a voltarsi, con una mano le bloccava i polsi, con l’altra aveva agguantato i suoi capelli morbidi e setosi e aveva premuto quel viso tanto bello, tanto amato, contro il materasso, perché non voleva sentirla, non voleva vederla.

Non voleva sapere quale fosse la sua espressione mentre piangeva e provava a dimenarsi disperatamente, mentre la ignorava e la prendeva con una cattiveria, un disprezzo che lo distruggevano.

Era stato tutto caotico e veloce, l’orgasmo fulminante.

Ad un tratto, Elena aveva smesso di opporsi, l’aveva assecondato, le unghie che affondavano nel materasso insieme ai gemiti soffocati, e Demian si era sentito in pace, aveva pensato che non era vero niente, che aveva frainteso tutto.

Quando però si era staccato da lei, aveva riconosciuto i segni rossi delle sue dita sui fianchi della ragazza, la gravità di quello che aveva fatto gli era caduta addosso. Frastornato, si era seduto sul bordo del letto, le aveva dato la schiena.

L’ascoltò piangere.

«Perché lo hai fatto?» piangeva come una miserabile, rannicchiata con il lenzuolo che la copriva solo in parte e nemmeno più la dignità di mascherarsi.

Il fiato gli era mancato, tutto era precipitato giù, nello stomaco, come un vuoto d’aria, si era ripiegato su se stesso con il volto affondato nelle mani, le dita affrancate ai capelli.

«Per un attimo mi sono illuso che così saresti stata mia»

 

E tu, tu perché me lo hai permesso?

Perché non mi hai fermato?

 

Non era vero che era più forte, Elena lo aveva lasciato fare, forse aveva sperato che si fermasse da solo e lui non ci era riuscito.

«Non piangere, Dami» si era avvicinata a lui, lo aveva abbracciato e quel corpo caldo e fragile aveva aderito alla sua schiena.

«Ti odio» lo aveva mormorato, era arrabbiato e disperato, ma non era comunque vero: non riusciva ad odiarla.

«Perdonami, Dami, scusami»

Lo aveva trascinato con sé, anche lei piangeva, sommessamente, si era aggrappata al suo corpo inerte, Demian sentiva di non potersi muovere più, che tutto era sbagliato e senza senso.

Lei non lo amava.

Non gli avrebbe permesso di fare quello che aveva fatto, se l’avesse amato. Si era fatta ferire perché si sentiva in colpa, non le era importato come sarebbe stato lui, dopo.

Ellie si era addormentata sul suo petto, le guance umide di pianto.

Demian era scivolato via dal suo corpo, piano, per non svegliarla. Aveva preso il suo libro, quella poesia di Neruda che era Elena, era sempre stata lei, per la delicatezza, la dolcezza che riusciva a ispirargli. La strappò piano, la carta era delicata, si stracciava come il suo cuore, con una facilità così disarmante che quasi avrebbe potuto riderne.

Se ne era andato da quella casa, ma la poesia, quella l’aveva lasciata sul cuscino, accanto a Ellie.

In quel foglio restava tutto ciò che aveva provato di buono per lei.

Tutto ciò che aveva desiderato da lei.

 

Perché tu possa ascoltarmi

 Quanto era stato sciocco, a crederci.

 

  
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