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Autore: nattini1    22/04/2019    8 recensioni
Anna Coleman è stata una donna straordinaria, che ha fondato a Parigi lo Studio per le maschere-ritratto: creava maschere personalizzate per i soldati sfigurati durante il primo conflitto mondiale. La mia storia è ispirata al suo straordinario lavoro.
Scritta per l'Easter Advent Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/?ref=bookmarks]
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Disclaimer: i personaggi riconoscibili non mi appartengono e questo scritto non è a scopo di lucro.
 

Parigi, 1917

 

L’orologio sulla parete rintoccò due volte. Benjamin Bonnet gettò un’occhiata a quell’ammasso di legno e ingranaggi, sua unica compagnia, che continuava imperterrito a ticchettare. Si chiese se non si fosse rotto perché le lancette sembravano non spostarsi mai; ma forse era lui che aveva imparato a misurare la sua vita solo con la sofferenza e non con i minuti. Attraversò per l’ennesima volta la sala da pranzo a grandi passi. Ormai l’aveva percorsa da un capo all’altro così tante volte che si stupiva di non aver scavato un solco nelle piastrelle di marmo. Si sentiva un animale in gabbia, un animale che si era volutamente rinchiuso tra quattro mura. Quelle avrebbe anche potuto superarle, sarebbe bastato mettere la mano sulla maniglia, abbassarla e spingere la porta; nessuno lo avrebbe trattenuto. Ma, anche e sopratutto una volta fuori, la sua giovinezza ricca di promesse non avrebbe potuto fuggire da quel corpo che non riconosceva più come proprio.

Notò appena un rettangolo più scuro sulla parete, dove fino a poco tempo prima era stato appeso lo specchio che era appartenuto a sua nonna. Era stato fatto togliere subito dopo il suo ritorno dal fronte. Aveva fatto il suo dovere, aveva combattuto il nemico, aveva anche ucciso delle persone, ma non per questo non tollerava più di vedere il proprio riflesso. Non era stata la sua anima a pagare il prezzo del sangue versato, bensì il suo volto. Era tornato, sì, ma non tutto intero: aveva lasciato sul campo di battaglia la maggior parte del suo naso e il labbro superiore e ora quello che era stato il sorriso di un giovane era diventato un buco nero aperto su un perpetuo urlo silenzioso.

Forse avrebbe dovuto cercare di scappare dalla sua prigione; sarebbe stato facile, avrebbe potuto essere rapido e indolore. L’idea era allettante, aveva già sofferto fin troppo. Aveva sofferto mentre strisciava sanguinante nel fango della trincea, aveva sofferto mentre era stato lasciato per ore da solo in un letto nell’ospedale da campo, aveva sofferto dopo le operazioni a cui lo avevano sottoposto, la cui unica utilità era stata quella di salvare un corpo in cui non sapeva se valesse la pena vivere.

L’orologio scandì le due strappandolo a questi pensieri. Un suo commilitone gli aveva parlato di una persona che poteva aiutarlo; era rimasto sul vago, ma gli aveva preso un appuntamento per quel giorno per le due e mezza. Benjamin dubitava che qualche dottore avrebbe potuto fare qualcosa per lui, ciononostante cominciò a prepararsi. Si vestì, prese le foto di quando era sano che l’amico gli aveva chiesto di portare, e si avvolse la testa nelle bende; preferiva gli sguardi di pietà della gente che sorrideva con un filo di speranza, piuttosto che le espressione di orrore malcelato di chi vedeva come realmente era ridotto.

Tenendo la testa bassa e camminando il più in fretta possibile, raggiunse l’indirizzo che gli era stato dato. Fu fatto entrare in una casa signorile da una cameriera che lo accolse con un sorriso e non mostrò alcun turbamento davanti alle sue bende. Fu introdotto in una stanza piena di luce. Benjamin si guardò intorno stupito: quell’ambiente non aveva nulla del bianco asettico degli studi medici a cui era abituato, non era pieno di armadietti squadrati, ma di sinuosi vasi pieni di fiori colorati. Stava per richiamare la cameriera, pensando che lo avesse condotto nella stanza sbagliata, quando la porta si aprì ed entrò una donna sui quarant’anni, che sembrava emanare forza e allegria. Aveva i capelli scuri, ripartiti con una perfetta scriminatura sul lato destro del capo e acconciati in morbide onde.

“Lei è il medico?” chiese stupito Benjamin, che aveva sentito parlare di alcune donne che svolgevano quella professione. In effetti la cosa non gli sarebbe dispiaciuta: i dottori maschi che aveva visto correre avanti e indietro tra le interminabili file di letti pieni di dolore sembravano non avere mai abbastanza tempo per soffermarsi sulla sofferenza altrui, mentre le infermiere si affaccendavano sempre come angeli che ricordavano sovente le mamme, le sorelle o le fidanzate.

La donna sorrise: “Non sono un medico, sono un’artista, mi chiamo Anna Coleman. Non ho doti in campo medico, non posso guarire le sue ferite, ma posso fare per lei un volto nuovo. Mi sto specializzando nel creare protesi facciali. Farò un calco in gesso del suo viso, e poi realizzerò sulla base di quello una maschera con una sottile lastra di rame zincato. Poi, una volta terminata questa fase, la dipingerò in modo che sembri il più naturale possibile. Se lo desidererà, potremmo anche aggiungere dei baffi, li faccio con capelli veri”.

Inizialmente fu difficile per Benjamin srotolare le bende davanti alla donna, piuttosto avrebbe preferito mostrarsi nudo, ma l’ambiente accogliente e i modi gentili di lei lo misero a suo agio. La seconda volta che tornò, la maschera era stata già preparata. Anna gliela fece indossare, fissandola con dei lacci dietro le orecchie; poi prese pennello e tavolozza e, canticchiando, cominciò a mescolare i colori.

Ci volle più di quanto avrebbe immaginato per dipingere, ma alla fine, per la prima volta in molti mesi, Benjamin osò guardarsi allo specchio. E vide se stesso! Dopo il primo impatto, riconobbe i sottili segni che evidenziavano il confine tra la pelle e il metallo, ma l’illusione era davvero buona. Quello, anche se non era il vecchio sé, che, ne era consapevole, non sarebbe mai tornato, era un volto che avrebbe potuto mostrare al mondo. Spostò lo sguardo sul volto di Anna che sbirciava nello specchio da dietro alle sue spalle.

Sorrideva speranzosa; una parte di lei si rammaricava perché, anche con tutto il suo impegno, non avrebbe mai potuto infondere in quella maschera il mutare della vita, ma ogni sua preoccupazione per l’espressività era svanita lasciando il posto alla gioia quando aveva visto una lacrima scendere dall’angolo dell’occhio del soldato.

Benjamin restò affascinato dalla luce negli occhi della donna: una volta un prete gli aveva raccontato che Dio aveva creato il mondo con amore e che aveva guardato a ogni cosa da lui fatta con amore; probabilmente era quel tipo si sguardo. Benjamin prese la mano dell’amore che aveva plasmato una piccola opera d’arte solo per lui e la strinse tra le sue.

Più tardi, mentre Anna salutava il soldato dalla soglia della sua casa, l’orologio nell’ingresso suonò, ma lei non ci fece caso perché, qualunque ora fosse, sapeva di aver usato bene il tempo a sua disposizione.

 

Nota: Ciao a tutti! Questa è la prima storia originale che posto, di solito scrivo fanfiction solo per il fandom di Supernatural. Spero che vi sia piaciuta e, se avete un momento, ogni commento è gradito!

   
 
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