Dal capitolo precedente:
"«Hai
mai pensato che c’è un motivo se non sei morto,
Semir? Lo hai mai
pensato?» gridò a sua volta Ben, protendendosi in
avanti.
«Perché evidentemente la mia condanna è
quella di sopravvivere e lui lo aveva capito fin dall’inizio.
Lui ha sempre avuto ragione.» replicò il
turco, senza distogliere lo sguardo.
«Lui? Forza, pronuncialo il suo nome, Semir. Pronuncia quel
nome, dannazione! È
morto, è finita ormai, lui non c’è e
non ci sarà mai più.».
«Quel vigliacco diceva di essere condannato a sopravvivere
tanto quanto me, ma
poi si è suicidato. Dimmi perché lui
si è potuto arrogare questo diritto. Dimmi perché
lui è morto e io invece devo essere ancora qui!».
«Perché lui non aveva altre ragioni per
vivere.» esclamò Ben, accorgendosi solo
in quel momento di quanto i loro toni si fossero accesi. Sicuramente,
dall’altra stanza, Andrea aveva potuto udire tutta la
conversazione.
«Lui non aveva altre ragioni per vivere.»
ribadì l’ispettore, abbassando la
voce «Tu le hai, Semir. Devi vivere per Lily.»."
Sopravviviamo
UN MESE DOPO – GIORNO 90.
Sopravviviamo.
La voce era tagliente ma calda allo stesso tempo, il suo tono incuteva
terrore.
Era una costante.
Poi una casa, la sua casa. Le grida. La voce di Andrea, fredda e
distante.
Io non ti amo più.
Un pezzo di carta. Una ricerca, la ricerca di storia per Aida.
Tu l’hai delusa.
E poi un turbinio di immagini orribili e confuse, ancora e ancora.
Vedrai la tua vita crollare.
Andrea, ancora la voce di Andrea.
Sappi, Semir, che se dovesse succederci
qualcosa... qualunque cosa... sarà solo colpa tua.
Litigi, urla.
Non è certo un mio problema se tu ti distrai mentre guidi...
E nemmeno se
abbiamo due agenti davanti alla porta è un mio problema. Di
certo non ne
avremmo bisogno, se tu non ci fossi.
Separiamoci. Separiamoci...
Margaret e Ben. Il comando, l’ufficio. I mobili grigi
sembrano aver preso improvvisamente
a volargli intorno, roteando su se stessi fino a farlo impazzire.
Lui non ti vuole morto, Semir, lui vuole
che tu viva. Vuole che tu viva e che veda crollare tutto attorno a te.
Movimento, ancora, grida, il pianto di Lily. La voce flebile
e spaesata di
Aida.
Perché l’altro ieri sera
te ne sei andato
e hai sbattuto la porta? E perché hai detto alla mamma
“separiamoci”?
Poi l’edificio. Quegli occhi grigi, quello sguardo
profondo e malvagio,
quella risata terrificante.
Credo che alla tua famiglia accadrà
qualcosa di molto simile a quello che è successo alla mia...
che cosa ne pensi?
Basta... quella risata...
Io so tutto. Conosco ogni argomento delle
vostre discussioni. So quanto poco sei stato in casa in questi mesi, so
quanto
poco hai fatto per la tua famiglia nelle ultime settimane, so quanto
voi due
insieme non siate più felici. So che tua moglie non ti ama
più.
Il pianto femminile in sottofondo a quella voce maledetta.
Io posso averle messe in pericolo... ma
tu le hai uccise. Tu. E adesso tua moglie e le tue figlie moriranno per
colpa
tua. Perché in fondo io e te siamo uguali, Gerkhan. Entrambi
resistiamo.
Resistiamo e vediamo morire le persone a noi più care, e
forse per noi è così
che deve essere. Ma ricordalo Gerkhan, questo ricordalo sempre: tu
sarai la
causa della atroce morte a cui sta per andare incontro la tua famiglia,
tu
sarai causa delle tue stesse sofferenze. E dovrai convivere con questa
consapevolezza.
E sarà insopportabile.
Lacrime.
Dimmi che Ben ci troverà!
Lui...
Io le amavo e tu le hai ammazzate! Le mie bambine sono morte per colpa
tua,
maledetto bastardo assassino!
Soffocamento.
Tu soffrirai. Mi pregherai. Desidererai
morire. Ma non morirai... perché io e te sopravviviamo,
Gerkhan, è questo il
nostro Inferno.
Quella risata, quella risata non vuole saperne di smettere.
Quella voce
continua a prendersi gioco di lui.
Non mi serve che muoiano disidratate.
Basta, basta, basta. Confusione, dolore, ancora una
confusione alienante.
Se sono un folle è
perché tu mi hai reso
tale.
Fino a dove vuoi arrivare, Keller?
Tu fino a dove pensi che io possa
arrivare? Quanto credi di poter sopportare? Io arriverò fino
alla fine.
Scegliere? No, no, no...
Abbi il coraggio di dire che
sacrificheresti il tuo migliore amico. Che preferiresti la sua morte a
quella
di tua moglie.
Caos, rumori. Il pianto della bambina, le grida di Andrea.
Quel che è fatto è
fatto. È colpa tua, è solo
colpa tua.
Sarà peggio il dopo. Ora fa male, ma sarà peggio
la vita.
Rumore assordante, la terra, le pareti, l’edificio che trema.
Polvere.
Qui c’è il corpo di una
bambina...
Buio, poi il bianco asettico dei corridoi. E confusione, di nuovo. Poi
un
silenzio assordante.
Andrea è in coma da tredici giorni.
Ben... Ben parla, piano, a bassa voce. Ma i rumori attorno a
lui sono
troppo forti. Tutto sembra girare.
Lily è rimasta... lei è
rimasta
schiacciata dalle pietre... Non ce l’ha fatta, lei
è morta prima che i soccorsi
potessero fare qualsiasi cosa...
Prigionia.
Non potrai più camminare.
Quella risata, ancora, sempre. Gli occhi rimangono sigillati.
Le palpebre
non hanno intenzione di sollevarsi, non ancora.
Hai mai pensato che c’è un motivo se non sei
morto, Semir?
Sopravviviamo. Noi sopravviviamo.
Semir
aprì finalmente gli occhi,
gridando, provando a inspirare aria rimanendo sdraiato nel letto.
Aveva freddo, la fronte imperlata di sudore e il cuore che gli batteva
nel
petto a un ritmo spaventoso.
Con il fiatone, si guardò attorno, tentando di calmarsi.
Al suo fianco, Andrea dormiva tranquilla, non si era svegliata
sentendolo
gridare.
Semir si trattenne dalla tentazione di accendere la luce e svegliarla e
affondò
meglio la testa sul cuscino, fissando il soffitto, con
l’intenzione di
riprendere fiato e lasciare che il suo battito cardiaco tornasse
regolare.
Ancora ansimando, chiuse gli occhi per un momento, ma immediatamente
l’immagine
del lettino vuoto e spoglio di Lily si impadronì della sua
mente e per
scacciarla l’ex ispettore fu costretto a sollevare nuovamente
le palpebre.
In preda al panico, tese una mano oltre la sponda del letto, ma con
ansia
crescente si accorse che la sua sedia a rotelle non c’era.
Doveva averla
spostata Andrea la sera prima e ora si trovava troppo lontana dal
letto. Non
l’avrebbe raggiunta da solo.
All’improvviso gli parve di trovarsi dentro a una fornace.
Aveva caldo, troppo
caldo.
I suoi battiti accelerarono nuovamente.
Individuò il profilo immobile della sedia
nell’oscurità, ma era troppo lontana.
Non l’avrebbe mai raggiunta.
Chiuse gli occhi e questa volta fu l’immagine di lui a tornare a tormentarlo.
Li riaprì, ansimando, in cerca d’aria.
Aveva nausea, gli girava la testa.
Tremava.
Allungò ancora una volta la mano oltre la sponda del letto,
verso la sedia che
non avrebbe mai raggiunto.
Ebbe netta la sensazione che da un momento all’altro tutto
sarebbe finito, che
lui stesso avrebbe semplicemente cessato di esistere.
La tachicardia era sempre più forte, gli sembrava di
soffocare...
Andrea
accese l’abatjour sul suo
comodino, mettendosi seduta sul letto e guardando il marito disteso con
aria
preoccupata.
«Semir, che cosa succede? Non ti senti bene?».
Semir la guardò.
Gradualmente, i suoi battiti cardiaci cominciarono a regolarizzarsi.
Il respiro decelerò, lentamente.
«No... no, sto bene... è stato solo un
incubo.».
La donna alzò un sopracciglio, tornando distesa ma lasciando
la luce accesa
«Solo un incubo? Semir, hai avuto un altro attacco
d’ansia, non è così?».
Lui sospirò, distogliendo lo sguardo.
«Ho solo avuto un incubo e... e poi avevo bisogno
d’aria, tutto qua. E la sedia
era lontana.».
«L’ho spostata io per passare ieri sera,
scusami.» mormorò Andrea, continuando
a guardare il marito con preoccupazione «Semir, sospendere i
colloqui con lo
psicoterapeuta è stato un errore enorme, lo sai. Quattro
sedute non servono a
niente, devi riprendere a parlare con lui.».
Semir non rispose.
Non voleva tornare in quello studio, non voleva vedere nessuno. Lo
psicologo lo
obbligava ogni volta a rivangare il passato e lui non voleva. Non
voleva ogni
volta ritrovarsi dentro a quell’edificio, sotto a quella
colonna, in quella stanza
di ospedale. Voleva dimenticare, solo fare finta che nessuno di quei
fatti
fosse mai accaduto.
L’orologio affisso alla parete della camera segnava le tre e
quarantacinque del
mattino.
«Che cosa hai sognato questa volta?»
domandò la donna, rimanendo distesa su un
fianco a guardarlo.
«Ho sognato... lui... e poi quell’edificio, te,
Lily, tutto quanto. Ogni volta
che chiudo gli occhi io... io...».
«Anche io la sogno spesso.» concluse Andrea al suo
posto, accennando a un
sorriso.
Semir girò il viso di lato, trovandosi faccia a faccia con
la moglie.
La guardò negli occhi, poi discese con lo sguardo fino alla
cicatrice della
sternotomia che si intravvedeva da sopra la scollatura della camicia da
notte
che indossava.
Allungò una mano e tracciò la linea della
cicatrice con un dito.
«Come fai a dormire, Andrea?».
Lei si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. Aveva gli occhi lucidi.
«Non lo so. Ma penso a lei in ogni momento. In ogni istante.
Prima di
addormentarmi e non appena mi sveglio. Penso a lei
continuamente.» rispose, in
un sussurro.
Semir annuì, tornando a guardarla negli occhi, ma non
proferì parola.
Fu Andrea a continuare «Dai, ora spengo la luce e dormiamo...
buonanotte.»
disse, lasciandogli un bacio a fior di labbra all’improvviso.
Poi spense la luce.
Dormirono entrambi fino al suono della sveglia.
«Forza,
mamma! Dai, presto, o
facciamo tardi a scuola!» gridò Aida con quanto
fiato aveva in gola, per
richiamare Andrea che, ancora al piano di sopra, si stava vestendo il
più in
fretta possibile.
«Sono pronta, tesoro.» fece la donna, scendendo le
scale in fretta e afferrando
al volo lo zaino della figlia appoggiato vicino alla porta, per
porgerglielo.
«Dai, oggi la maestra spiega scienze.» disse ancora
la bambina, saltellando
impaziente.
«Sì, eccomi, eccomi.» ripeté
Andrea, cercando nella borsa le chiavi della
macchina, pronta a uscire.
«Aida, la merenda.» fece Semir, sbucando dalla
cucina sulla sua sedia a rotelle
e porgendo alla figlia un pacchettino fasciato con la carta di
alluminio «La
stavi dimenticando.».
«Grazie papi.» esclamò Aida, con un
sorriso, afferrando la merenda e dando in
cambio al padre un sonoro bacio sulla guancia.
«Ciao!» aggiunse poi, mentre in fretta usciva con
Andrea e si avviava
di corsa alla macchina.
«Ciao cucciolo.» mormorò Semir, mentre
fermo sulla soglia le guardava
allontanarsi, con un sospiro.
Aida
sarebbe rimasta a scuola
fino alle quattro quel giorno.
Tornata a casa, Andrea aveva cominciato a sbrigare alcuni lavori, in
silenzio.
Ormai in quella casa c’era silenzio, troppo silenzio. A parte
quando a cena
Aida parlava a ruota libera raccontando che cosa avesse fatto a scuola
o quando
Ben li andava a trovare, durante il resto delle giornate il silenzio
regnava
sovrano su ogni cosa.
Aida non aveva mai perso la sua innocente allegria, ma sempre
più spesso
chiedeva di andare a fare i compiti da un’amica piuttosto che
da un’altra e
Andrea aveva capito perfettamente che anche questa fosse manifestazione
di un
disagio, ma non sapeva come prendere in mano la situazione.
Sia lei che la bambina andavano settimanalmente dallo psicoterapeuta
che il
dottor Schneider aveva indicato loro.
Aida non ne capiva appieno l’utilità, ma
continuava a ripetere che parlare con
quel signore le faceva piacere. I suo accento inglese la faceva ridere,
diceva,
e poi le piaceva poter parlare di sua sorella ogni tanto,
perché in casa non se
ne parlava mai.
Quanto ad Andrea, anche a lei parlare con quell’uomo, ormai
piuttosto anziano
ma molto capace, faceva bene. La aiutava a vivere, nonostante tutto. Ad
andare
avanti e a concentrarsi sulla figlia più grande, anche se il
pensiero di Lily
nella sua mente era sempre presente.
Ma Semir non ne aveva voluto sapere. Era andato dallo psicologo qualche
volta,
all’inizio, ma poi aveva deciso che non vi avrebbe
più messo piede e da quel
momento era stato irremovibile.
È proprio quando stiamo troppo in
silenzio che abbiamo più cose da dire.
Così diceva sempre lo psicoterapeuta, ma Semir non ci
credeva. Non gli aveva
mai creduto.
Svuotando la cesta dei panni da lavare, Andrea sospirò,
pensando a quanto per
lei, invece, quell’anziano signore fosse stato più
un angelo custode che un
semplice strizzacervelli.
Il suono del campanello la riscosse dai suo pensieri e la donna corse
ad
aprire.
Trovando Ben sulla soglia della porta, sorrise.
In quel lungo periodo grigio che sembrava senza fine, quel ragazzo era
capace
di portare sempre almeno un po’ di colore. Passava spesso a
trovarli, anche per
pochi minuti, quando non era in servizio. Non li aveva mai lasciati
soli.
«Aida mi ha detto ieri al telefono di aver cucinato dei
biscotti e io le ho
promesso che sarei venuto ad assaggiarli. Ho finito il turno,
così...» esordì
il giovane ispettore, con un sorriso allegro.
«La tua principessa non c’è.»
rispose la padrona di casa, spostandosi per far
entrare Ben «Esce alle quattro oggi, ma i biscotti te li
faccio assaggiare
comunque, entra.».
Ben respirò a pieni polmoni il profumo di pulito che lo
aveva accolto entrando
nell’ingresso e si diresse, seguendo Andrea, verso la cucina.
«Semir dov’è?».
«Fuori, in giardino.» rispose la donna, senza
guardarlo, preparando la
caffettiera.
Il minuto di silenzio che ne seguì fu più che
eloquente.
«Come va?» domandò il poliziotto, a
bruciapelo.
«Sempre peggio, Ben... la notte non dorme, fa incubi in
continuazione, spesso
ha dei veri e propri attacchi di panico. E durante il giorno non fa
praticamente niente, ogni tanto aiuta Aida con i compiti o sta in
giardino,
solo, al freddo...».
Il ragazzo annuì. Ormai il sorriso gli era completamente
scomparso dalle
labbra.
«Ben, tu non devi passare sempre... Hai il lavoro, hai
Margaret, non hai
bisogno anche dei nostri problemi.» mormorò
Andrea, andando verso la porta a
vetri, dalla quale poteva scorgere il marito in giardino, sulla sua
sedia a
rotelle, che dava loro le spalle.
Ben la raggiunse accanto alla finestra «Lo sai che vengo
volentieri. Voi siete
anche la mia famiglia.».
Lei accennò a un sorriso. Poi, sempre guardando fuori dalla
finestra, posò una
mano sul vetro, osservando la figura immobile di Semir in giardino.
«Questa volta non penso davvero che ce la
farà.» sillabò poi, in un sussurro.
«Non dire così, Andrea, non è
vero...».
«Sono passati quasi tre mesi e la situazione non migliora,
non migliora per
niente. Se penso che prima che questa storia cominciasse io ero
lì lì per
lasciarlo...».
«E adesso?» domandò Ben, a un tratto.
La donna rimase un attimo in silenzio, fissando sempre il giardino.
«Non lo lascerei mai, guardalo...».
«Non credo lui voglia che tu rimanga con lui per
pena.».
Questa volta Andrea distolse lo sguardo dal marito oltre i vetri per
portarlo
negli occhi del suo interlocutore «Non rimango con lui per
pena, Ben. Rimango
con lui perché è mio marito e io ho bisogno di
lui almeno tanto quanto lui ha
bisogno di me.».
L’ispettore sospirò, piano.
«Sai... tre mesi fa, quando Semir mi ha raccontato che tu gli
avevi detto di
non amarlo più... lui era distrutto. Era già
distrutto allora, quando Keller
ancora non era entrato per la seconda volta nella vostra vita.
Perché lui non
ha mai smesso di amarti, e credo che nemmeno tu lo abbia fatto, Andrea.
Credo... io crederò per sempre che la vostra fosse solo una
crisi temporanea,
perché io non riesco a immaginare te senza di lui
né lui senza di te. Davvero.
Voi siete la famiglia per
eccellenza... tornate a esserlo.».
«Non è facile.» mormorò la
donna, distogliendo lo sguardo.
Poi abbassò la maniglia e uscì in giardino,
lasciando Ben sulla soglia a
guardare.
«Non
hai freddo, Semir?» domandò
Andrea, raggiungendo il marito, che stava immobile stretto nelle spalle.
Lui si limitò a scuotere il capo.
«C’è Ben, è venuto a
salutarci... Dai, vieni dentro.» aggiunse, sfiorandogli
una spalla.
«Che cosa è venuto a fare?».
«È venuto per te, Semir, per noi. Come
sempre.».
«Dovrei sentirmi responsabile anche per questo? Per la sua
perdita di tempo?»
sbottò il turco, guardandola finalmente negli occhi.
«Ehi... calmati, non ho detto questo...».
«Io non ci riesco a sentirmi in colpa anche per questo,
Andrea, hai capito? Non
ce la faccio.» continuò lui, alzando la voce.
«Non ti devi sentire in colpa proprio per niente,
non...».
«Ah no? Certo. Ora la colpa non è più
mia. È solo perché mi trovo su una sedia
a rotelle? Eh?».
Andrea non rispose, rimase a guardare il marito negli occhi, come
pietrificata.
Sentì gli occhi cominciare a bruciare e un nodo stringerle
la gola.
«Non lo capite proprio che io non ce la faccio a vivere
così?» proseguì Semir,
urlando contro la moglie.
«Semir, io...».
«Tu... sei stata proprio tu la prima a dirmi che se fosse
successo qualcosa
sarebbe stata solo colpa mia. Non te lo ricordi ora?».
«Semir, smettila...» mormorò la donna,
sentendo le lacrime salirle agli occhi e
il freddo gelido di febbraio penetrarle nelle ossa.
Ma lui non aveva alcuna intenzione di smetterla. Le parole uscivano
dalla sua
bocca senza che nemmeno se ne rendesse conto. Non ce la faceva
più, non ce la
faceva semplicemente più.
«Ti ricordi quello che mi hai gridato? Che sarebbe stata solo
colpa mia? Che se
io non ci fossi stato non avreste mai avuto problemi? Te lo ricordi,
maledizione?».
«Semir... Smettila...».
«Lo sai come mi hai fatto sentire? Te ne rendi conto? Lo sai
che cosa sto
passando io?».
«Smettila, Semir, devi smetterla!» gridò
Andrea a un tratto, smettendo di
trattenere le lacrime «Ma che cosa credi? Che io non stia
passando quello che stai
passando tu? Credi che io non abbia sensi di colpa? Ho perso anche io
una
figlia, lo capisci?».
«Mi hai detto che sarebbe stata colpa mia.».
«Perché ero arrabbiata, Semir!»
ribatté la donna, alzando sempre più la voce a
sovrastare quella del marito «Ero arrabbiata, basta, togliti
queste parole
dalla testa! Non è stata colpa tua. E io sto male tanto
quanto te, ma come fai
a non accorgertene? Come fai a non rendertene conto? Era mia figlia,
Semir, ed
è morta. Lily è morta.»
sottolineò, con le lacrime che le rigavano il viso
«Però mi faccio forza perché penso ad
Aida e se mi alzo ogni giorno dal letto è
per lei. Ma io e te stiamo passando lo stesso Inferno...
perché non lo capisci?».
Semir non ebbe il tempo per ribattere.
Ben, che dalla porta a vetri aveva assistito a tutta la discussione e
aveva
visto i due coniugi urlare e poi Andrea scoppiare in lacrime, era
appena
accorso in giardino.
Lanciò un’occhiata all’ex collega,
quindi cinse con un braccio le spalle della
donna e la invitò a rientrare in casa.
La vide oltrepassare la soglia e sedersi su una sedia in cucina, ancora
singhiozzando, lasciandosi alle spalle la porta a vetri semi chiusa.
Poi tornò da Semir, si sedette accanto a lui in giardino.
Non ancora ripresosi dalla discussione, l’amico fissava il
vuoto con la
mascella serrata e i pugni chiusi.
«Socio, ha ragione Andrea, devi calmarti. E non potete
litigare, lei sta male
quanto te, sai che è la verità.».
«Tu non capisci.».
A questa risposta, Ben si sporse in avanti per cercare lo sguardo
sfuggente dell’ex
collega. Fissò i propri occhi ai suoi, senza lasciargli
alcuna via di fuga.
«Semir, forse hai ragione, anzi sicuramente: io non capisco.
Non capisco
nemmeno lontanamente che cosa voi stiate passando, ma di una cosa sono
sicuro:
questa situazione la state vivendo insieme. Perché entrambi
siete a pezzi, non
solo tu. È così.».
Il turco scosse il capo, senza nemmeno provare a distogliere lo sguardo
«No,
Ben. Lei non si deve sentire in colpa per quello che è
successo. Lei può
camminare. Lei non ha dovuto scegliere... io
ho dovuto scegliere tra te e lei, io
ho dovuto vedere mentre le sparavano, io
sono rimasto sveglio sotto alle macerie, io
sono su una sedia a rotelle. E io
mi
devo sentire in colpa se nostra figlia è morta, solo
io.» quasi gridò, tutto
d’un fiato, con una voce che tradiva solo disperazione.
«Piantala di dire che ti senti in colpa, Semir, è
stato Keller a farvi questo,
non tu.».
«Lui è
diventato un folle perché io
l’ho reso tale. Me lo ha detto lui
stesso
e aveva ragione.».
«Pronuncialo quel dannato nome, Semir.».
«Keller ha fatto tutto questo solo per colpa mia!»
gridò l’altro, senza nemmeno
rendersene conto.
Era la prima volta che lo pronunciava. Era la prima volta che Frederich
Keller
cessava di essere lui e assumeva il
proprio nome.
Ben accennò un sorriso e solo allora Semir comprese di
averlo detto.
Finalmente.
Rimasero entrambi in silenzio per un istante lunghissimo.
«Keller ha fatto tutto questo, ma non lo ha fatto per colpa
tua.» riprese poi
il più giovane, con un tono di voce decisamente
più calmo «Devi capirlo,
socio.».
«Ben io... io non riesco a respirare...» fece
Semir, cessando di urlare e
parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina
e... non respiro.
Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al
letto vedo
la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla,
invitandolo a continuare. Avrebbe
così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non
riesco a vedere quel
letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e
nella
voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace.
L’ultima cosa che
Keller mi ha detto è stata mi
dispiace...»
N.d.A.
Passano i mesi, ma rimangono i vuoti e rimane anche
la disperazione che
questi vuoti si portano dietro.
Siamo arrivati alla fine, il prossimo capitolo
sarà quello conclusivo. È
stata una storia infinitamente lunga, per me non è stata
facile da scrivere ma
sono contenta di averla conclusa e condivisa qui. Mi sembra incredibile
che sia
passato quasi un anno e mezzo da quando ho pubblicato il prologo
(prologo che
tra l’altro ritroverete nel prossimo capitolo), eppure...
Grazie a
chi mi ha seguito fino a qua, grazie davvero di cuore, per me
vuol dire tanto.
A presto, un bacio,
Sophie