Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: sophie97    26/04/2019    1 recensioni
“Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (Il danno, 1992)
14 Novembre, Colonia, un giorno grigio come tanti.
Una storia che comincia come una storia qualsiasi, con un istante di vita. Rapporti incrinati, il riemergere di un passato che fa paura, una serie di piccoli, fatali errori compiuti uno dopo l’altro, fino alla rovina. Fino a quando non si smette di vivere, per iniziare a sopravvivere.
Storia che nulla ha a che fare con la mia serie ancora in corso; storia triste e drammatica, ne sono consapevole. Ma mi piacerebbe ugualmente condividerla con voi.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andrea Schafer, Ben Jager, Nuovo personaggio, Semir Gerkan, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dal capitolo precedente:

"«Hai mai pensato che c’è un motivo se non sei morto, Semir? Lo hai mai pensato?» gridò a sua volta Ben, protendendosi in avanti.
«Perché evidentemente la mia condanna è quella di sopravvivere e lui lo aveva capito fin dall’inizio. Lui ha sempre avuto ragione.» replicò il turco, senza distogliere lo sguardo.
«Lui? Forza, pronuncialo il suo nome, Semir. Pronuncia quel nome, dannazione! È morto, è finita ormai, lui non c’è e non ci sarà mai più.».
«Quel vigliacco diceva di essere condannato a sopravvivere tanto quanto me, ma poi si è suicidato. Dimmi perché lui si è potuto arrogare questo diritto. Dimmi perché lui è morto e io invece devo essere ancora qui!».
«Perché lui non aveva altre ragioni per vivere.» esclamò Ben, accorgendosi solo in quel momento di quanto i loro toni si fossero accesi. Sicuramente, dall’altra stanza, Andrea aveva potuto udire tutta la conversazione.
«Lui non aveva altre ragioni per vivere.» ribadì l’ispettore, abbassando la voce «Tu le hai, Semir. Devi vivere per Lily.»."

Sopravviviamo

UN MESE DOPO – GIORNO 90. 

Sopravviviamo.
La voce era tagliente ma calda allo stesso tempo, il suo tono incuteva terrore. Era una costante.
Poi una casa, la sua casa. Le grida. La voce di Andrea, fredda e distante.
Io non ti amo più.
Un pezzo di carta. Una ricerca, la ricerca di storia per Aida.
Tu l’hai delusa.
E poi un turbinio di immagini orribili e confuse, ancora e ancora.
Vedrai la tua vita crollare.
Andrea, ancora la voce di Andrea.
Sappi, Semir, che se dovesse succederci qualcosa... qualunque cosa... sarà solo colpa tua.
Litigi, urla.
Non è certo un mio problema se tu ti distrai mentre guidi... E nemmeno se abbiamo due agenti davanti alla porta è un mio problema. Di certo non ne avremmo bisogno, se tu non ci fossi
.
Separiamoci. Separiamoci...
Margaret e Ben. Il comando, l’ufficio. I mobili grigi sembrano aver preso improvvisamente a volargli intorno, roteando su se stessi fino a farlo impazzire.
Lui non ti vuole morto, Semir, lui vuole che tu viva. Vuole che tu viva e che veda crollare tutto attorno a te.
Movimento, ancora, grida, il pianto di Lily. La voce flebile e spaesata di Aida.
Perché l’altro ieri sera te ne sei andato e hai sbattuto la porta? E perché hai detto alla mamma “separiamoci”?
Poi l’edificio. Quegli occhi grigi, quello sguardo profondo e malvagio, quella risata terrificante.
Credo che alla tua famiglia accadrà qualcosa di molto simile a quello che è successo alla mia... che cosa ne pensi?
Basta... quella risata...
Io so tutto. Conosco ogni argomento delle vostre discussioni. So quanto poco sei stato in casa in questi mesi, so quanto poco hai fatto per la tua famiglia nelle ultime settimane, so quanto voi due insieme non siate più felici. So che tua moglie non ti ama più.
Il pianto femminile in sottofondo a quella voce maledetta.
Io posso averle messe in pericolo... ma tu le hai uccise. Tu. E adesso tua moglie e le tue figlie moriranno per colpa tua. Perché in fondo io e te siamo uguali, Gerkhan. Entrambi resistiamo. Resistiamo e vediamo morire le persone a noi più care, e forse per noi è così che deve essere. Ma ricordalo Gerkhan, questo ricordalo sempre: tu sarai la causa della atroce morte a cui sta per andare incontro la tua famiglia, tu sarai causa delle tue stesse sofferenze. E dovrai convivere con questa consapevolezza. E sarà insopportabile.
Lacrime.
Dimmi che Ben ci troverà!
Lui...
Io le amavo e tu le hai ammazzate! Le mie bambine sono morte per colpa tua, maledetto bastardo assassino!

Soffocamento.
Tu soffrirai. Mi pregherai. Desidererai morire. Ma non morirai... perché io e te sopravviviamo, Gerkhan, è questo il nostro Inferno.
Quella risata, quella risata non vuole saperne di smettere. Quella voce continua a prendersi gioco di lui.
Non mi serve che muoiano disidratate.
Basta, basta, basta. Confusione, dolore, ancora una confusione alienante.
Se sono un folle è perché tu mi hai reso tale.
Fino a dove vuoi arrivare, Keller?
Tu fino a dove pensi che io possa arrivare? Quanto credi di poter sopportare? Io arriverò fino alla fine.
Scegliere? No, no, no...
Abbi il coraggio di dire che sacrificheresti il tuo migliore amico. Che preferiresti la sua morte a quella di tua moglie.
Caos, rumori. Il pianto della bambina, le grida di Andrea.
Quel che è fatto è fatto. È colpa tua, è solo colpa tua.
Sarà peggio il dopo. Ora fa male, ma sarà peggio la vita.

Rumore assordante, la terra, le pareti, l’edificio che trema. Polvere.
Qui c’è il corpo di una bambina...
Buio, poi il bianco asettico dei corridoi. E confusione, di nuovo. Poi un silenzio assordante.
Andrea è in coma da tredici giorni.
Ben... Ben parla, piano, a bassa voce. Ma i rumori attorno a lui sono troppo forti. Tutto sembra girare.
Lily è rimasta... lei è rimasta schiacciata dalle pietre... Non ce l’ha fatta, lei è morta prima che i soccorsi potessero fare qualsiasi cosa...
Prigionia.
Non potrai più camminare.
Quella risata, ancora, sempre. Gli occhi rimangono sigillati. Le palpebre non hanno intenzione di sollevarsi, non ancora.
Hai mai pensato che c’è un motivo se non sei morto, Semir?

Sopravviviamo. Noi sopravviviamo.

Semir aprì finalmente gli occhi, gridando, provando a inspirare aria rimanendo sdraiato nel letto.
Aveva freddo, la fronte imperlata di sudore e il cuore che gli batteva nel petto a un ritmo spaventoso.
Con il fiatone, si guardò attorno, tentando di calmarsi.
Al suo fianco, Andrea dormiva tranquilla, non si era svegliata sentendolo gridare.
Semir si trattenne dalla tentazione di accendere la luce e svegliarla e affondò meglio la testa sul cuscino, fissando il soffitto, con l’intenzione di riprendere fiato e lasciare che il suo battito cardiaco tornasse regolare.
Ancora ansimando, chiuse gli occhi per un momento, ma immediatamente l’immagine del lettino vuoto e spoglio di Lily si impadronì della sua mente e per scacciarla l’ex ispettore fu costretto a sollevare nuovamente le palpebre.
In preda al panico, tese una mano oltre la sponda del letto, ma con ansia crescente si accorse che la sua sedia a rotelle non c’era. Doveva averla spostata Andrea la sera prima e ora si trovava troppo lontana dal letto. Non l’avrebbe raggiunta da solo.
All’improvviso gli parve di trovarsi dentro a una fornace. Aveva caldo, troppo caldo.
I suoi battiti accelerarono nuovamente.
Individuò il profilo immobile della sedia nell’oscurità, ma era troppo lontana. Non l’avrebbe mai raggiunta.
Chiuse gli occhi e questa volta fu l’immagine di lui a tornare a tormentarlo.
Li riaprì, ansimando, in cerca d’aria.
Aveva nausea, gli girava la testa.
Tremava.
Allungò ancora una volta la mano oltre la sponda del letto, verso la sedia che non avrebbe mai raggiunto.
Ebbe netta la sensazione che da un momento all’altro tutto sarebbe finito, che lui stesso avrebbe semplicemente cessato di esistere.
La tachicardia era sempre più forte, gli sembrava di soffocare...

Andrea accese l’abatjour sul suo comodino, mettendosi seduta sul letto e guardando il marito disteso con aria preoccupata.
«Semir, che cosa succede? Non ti senti bene?».
Semir la guardò.
Gradualmente, i suoi battiti cardiaci cominciarono a regolarizzarsi.
Il respiro decelerò, lentamente.
«No... no, sto bene... è stato solo un incubo.».
La donna alzò un sopracciglio, tornando distesa ma lasciando la luce accesa «Solo un incubo? Semir, hai avuto un altro attacco d’ansia, non è così?».
Lui sospirò, distogliendo lo sguardo.
«Ho solo avuto un incubo e... e poi avevo bisogno d’aria, tutto qua. E la sedia era lontana.».
«L’ho spostata io per passare ieri sera, scusami.» mormorò Andrea, continuando a guardare il marito con preoccupazione «Semir, sospendere i colloqui con lo psicoterapeuta è stato un errore enorme, lo sai. Quattro sedute non servono a niente, devi riprendere a parlare con lui.».
Semir non rispose.
Non voleva tornare in quello studio, non voleva vedere nessuno. Lo psicologo lo obbligava ogni volta a rivangare il passato e lui non voleva. Non voleva ogni volta ritrovarsi dentro a quell’edificio, sotto a quella colonna, in quella stanza di ospedale. Voleva dimenticare, solo fare finta che nessuno di quei fatti fosse mai accaduto.
L’orologio affisso alla parete della camera segnava le tre e quarantacinque del mattino.
«Che cosa hai sognato questa volta?» domandò la donna, rimanendo distesa su un fianco a guardarlo.
«Ho sognato... lui... e poi quell’edificio, te, Lily, tutto quanto. Ogni volta che chiudo gli occhi io... io...».
«Anche io la sogno spesso.» concluse Andrea al suo posto, accennando a un sorriso.
Semir girò il viso di lato, trovandosi faccia a faccia con la moglie.
La guardò negli occhi, poi discese con lo sguardo fino alla cicatrice della sternotomia che si intravvedeva da sopra la scollatura della camicia da notte che indossava.
Allungò una mano e tracciò la linea della cicatrice con un dito.
«Come fai a dormire, Andrea?».
Lei si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. Aveva gli occhi lucidi.
«Non lo so. Ma penso a lei in ogni momento. In ogni istante. Prima di addormentarmi e non appena mi sveglio. Penso a lei continuamente.» rispose, in un sussurro.
Semir annuì, tornando a guardarla negli occhi, ma non proferì parola.
Fu Andrea a continuare «Dai, ora spengo la luce e dormiamo... buonanotte.» disse, lasciandogli un bacio a fior di labbra all’improvviso.
Poi spense la luce.
Dormirono entrambi fino al suono della sveglia.


«Forza, mamma! Dai, presto, o facciamo tardi a scuola!» gridò Aida con quanto fiato aveva in gola, per richiamare Andrea che, ancora al piano di sopra, si stava vestendo il più in fretta possibile.
«Sono pronta, tesoro.» fece la donna, scendendo le scale in fretta e afferrando al volo lo zaino della figlia appoggiato vicino alla porta, per porgerglielo.
«Dai, oggi la maestra spiega scienze.» disse ancora la bambina, saltellando impaziente.
«Sì, eccomi, eccomi.» ripeté Andrea, cercando nella borsa le chiavi della macchina, pronta a uscire.
«Aida, la merenda.» fece Semir, sbucando dalla cucina sulla sua sedia a rotelle e porgendo alla figlia un pacchettino fasciato con la carta di alluminio «La stavi dimenticando.».
«Grazie papi.» esclamò Aida, con un sorriso, afferrando la merenda e dando in cambio al padre un sonoro bacio sulla guancia.
«Ciao!» aggiunse poi, mentre in fretta usciva con Andrea  e si avviava di corsa alla macchina.
«Ciao cucciolo.» mormorò Semir, mentre fermo sulla soglia le guardava allontanarsi, con un sospiro.

Aida sarebbe rimasta a scuola fino alle quattro quel giorno.
Tornata a casa, Andrea aveva cominciato a sbrigare alcuni lavori, in silenzio.
Ormai in quella casa c’era silenzio, troppo silenzio. A parte quando a cena Aida parlava a ruota libera raccontando che cosa avesse fatto a scuola o quando Ben li andava a trovare, durante il resto delle giornate il silenzio regnava sovrano su ogni cosa.
Aida non aveva mai perso la sua innocente allegria, ma sempre più spesso chiedeva di andare a fare i compiti da un’amica piuttosto che da un’altra e Andrea aveva capito perfettamente che anche questa fosse manifestazione di un disagio, ma non sapeva come prendere in mano la situazione.
Sia lei che la bambina andavano settimanalmente dallo psicoterapeuta che il dottor Schneider aveva indicato loro.
Aida non ne capiva appieno l’utilità, ma continuava a ripetere che parlare con quel signore le faceva piacere. I suo accento inglese la faceva ridere, diceva, e poi le piaceva poter parlare di sua sorella ogni tanto, perché in casa non se ne parlava mai.
Quanto ad Andrea, anche a lei parlare con quell’uomo, ormai piuttosto anziano ma molto capace, faceva bene. La aiutava a vivere, nonostante tutto. Ad andare avanti e a concentrarsi sulla figlia più grande, anche se il pensiero di Lily nella sua mente era sempre presente.
Ma Semir non ne aveva voluto sapere. Era andato dallo psicologo qualche volta, all’inizio, ma poi aveva deciso che non vi avrebbe più messo piede e da quel momento era stato irremovibile.
È proprio quando stiamo troppo in silenzio che abbiamo più cose da dire.
Così diceva sempre lo psicoterapeuta, ma Semir non ci credeva. Non gli aveva mai creduto.
Svuotando la cesta dei panni da lavare, Andrea sospirò, pensando a quanto per lei, invece, quell’anziano signore fosse stato più un angelo custode che un semplice strizzacervelli.
Il suono del campanello la riscosse dai suo pensieri e la donna corse ad aprire.
Trovando Ben sulla soglia della porta, sorrise.
In quel lungo periodo grigio che sembrava senza fine, quel ragazzo era capace di portare sempre almeno un po’ di colore. Passava spesso a trovarli, anche per pochi minuti, quando non era in servizio. Non li aveva mai lasciati soli.
«Aida mi ha detto ieri al telefono di aver cucinato dei biscotti e io le ho promesso che sarei venuto ad assaggiarli. Ho finito il turno, così...» esordì il giovane ispettore, con un sorriso allegro.
«La tua principessa non c’è.» rispose la padrona di casa, spostandosi per far entrare Ben «Esce alle quattro oggi, ma i biscotti te li faccio assaggiare comunque, entra.».
Ben respirò a pieni polmoni il profumo di pulito che lo aveva accolto entrando nell’ingresso e si diresse, seguendo Andrea, verso la cucina.
«Semir dov’è?».
«Fuori, in giardino.» rispose la donna, senza guardarlo, preparando la caffettiera.
Il minuto di silenzio che ne seguì fu più che eloquente.
«Come va?» domandò il poliziotto, a bruciapelo.
«Sempre peggio, Ben... la notte non dorme, fa incubi in continuazione, spesso ha dei veri e propri attacchi di panico. E durante il giorno non fa praticamente niente, ogni tanto aiuta Aida con i compiti o sta in giardino, solo, al freddo...».
Il ragazzo annuì. Ormai il sorriso gli era completamente scomparso dalle labbra.
«Ben, tu non devi passare sempre... Hai il lavoro, hai Margaret, non hai bisogno anche dei nostri problemi.» mormorò Andrea, andando verso la porta a vetri, dalla quale poteva scorgere il marito in giardino, sulla sua sedia a rotelle, che dava loro le spalle.
Ben la raggiunse accanto alla finestra «Lo sai che vengo volentieri. Voi siete anche la mia famiglia.».
Lei accennò a un sorriso. Poi, sempre guardando fuori dalla finestra, posò una mano sul vetro, osservando la figura immobile di Semir in giardino.
«Questa volta non penso davvero che ce la farà.» sillabò poi, in un sussurro.
«Non dire così, Andrea, non è vero...».
«Sono passati quasi tre mesi e la situazione non migliora, non migliora per niente. Se penso che prima che questa storia cominciasse io ero lì lì per lasciarlo...».
«E adesso?» domandò Ben, a un tratto.
La donna rimase un attimo in silenzio, fissando sempre il giardino.
«Non lo lascerei mai, guardalo...».
«Non credo lui voglia che tu rimanga con lui per pena.».
Questa volta Andrea distolse lo sguardo dal marito oltre i vetri per portarlo negli occhi del suo interlocutore «Non rimango con lui per pena, Ben. Rimango con lui perché è mio marito e io ho bisogno di lui almeno tanto quanto lui ha bisogno di me.».
L’ispettore sospirò, piano.
«Sai... tre mesi fa, quando Semir mi ha raccontato che tu gli avevi detto di non amarlo più... lui era distrutto. Era già distrutto allora, quando Keller ancora non era entrato per la seconda volta nella vostra vita. Perché lui non ha mai smesso di amarti, e credo che nemmeno tu lo abbia fatto, Andrea. Credo... io crederò per sempre che la vostra fosse solo una crisi temporanea, perché io non riesco a immaginare te senza di lui né lui senza di te. Davvero. Voi siete la famiglia per eccellenza... tornate a esserlo.».
«Non è facile.» mormorò la donna, distogliendo lo sguardo.
Poi abbassò la maniglia e uscì in giardino, lasciando Ben sulla soglia a guardare.

«Non hai freddo, Semir?» domandò Andrea, raggiungendo il marito, che stava immobile stretto nelle spalle.
Lui si limitò a scuotere il capo.
«C’è Ben, è venuto a salutarci... Dai, vieni dentro.» aggiunse, sfiorandogli una spalla.
«Che cosa è venuto a fare?».
«È venuto per te, Semir, per noi. Come sempre.».
«Dovrei sentirmi responsabile anche per questo? Per la sua perdita di tempo?» sbottò il turco, guardandola finalmente negli occhi.
«Ehi... calmati, non ho detto questo...».
«Io non ci riesco a sentirmi in colpa anche per questo, Andrea, hai capito? Non ce la faccio.» continuò lui, alzando la voce.
«Non ti devi sentire in colpa proprio per niente, non...».
«Ah no? Certo. Ora la colpa non è più mia. È solo perché mi trovo su una sedia a rotelle? Eh?».
Andrea non rispose, rimase a guardare il marito negli occhi, come pietrificata.
Sentì gli occhi cominciare a bruciare e un nodo stringerle la gola.
«Non lo capite proprio che io non ce la faccio a vivere così?» proseguì Semir, urlando contro la moglie.
«Semir, io...».
«Tu... sei stata proprio tu la prima a dirmi che se fosse successo qualcosa sarebbe stata solo colpa mia. Non te lo ricordi ora?».
«Semir, smettila...» mormorò la donna, sentendo le lacrime salirle agli occhi e il freddo gelido di febbraio penetrarle nelle ossa.
Ma lui non aveva alcuna intenzione di smetterla. Le parole uscivano dalla sua bocca senza che nemmeno se ne rendesse conto. Non ce la faceva più, non ce la faceva semplicemente più.
«Ti ricordi quello che mi hai gridato? Che sarebbe stata solo colpa mia? Che se io non ci fossi stato non avreste mai avuto problemi? Te lo ricordi, maledizione?».
«Semir... Smettila...».
«Lo sai come mi hai fatto sentire? Te ne rendi conto? Lo sai che cosa sto passando io?».
«Smettila, Semir, devi smetterla!» gridò Andrea a un tratto, smettendo di trattenere le lacrime «Ma che cosa credi? Che io non stia passando quello che stai passando tu? Credi che io non abbia sensi di colpa? Ho perso anche io una figlia, lo capisci?».
«Mi hai detto che sarebbe stata colpa mia.».
«Perché ero arrabbiata, Semir!» ribatté la donna, alzando sempre più la voce a sovrastare quella del marito «Ero arrabbiata, basta, togliti queste parole dalla testa! Non è stata colpa tua. E io sto male tanto quanto te, ma come fai a non accorgertene? Come fai a non rendertene conto? Era mia figlia, Semir, ed è morta. Lily è morta.» sottolineò, con le lacrime che le rigavano il viso «Però mi faccio forza perché penso ad Aida e se mi alzo ogni giorno dal letto è per lei. Ma io e te stiamo passando lo stesso Inferno... perché non lo capisci?».
Semir non ebbe il tempo per ribattere.
Ben, che dalla porta a vetri aveva assistito a tutta la discussione e aveva visto i due coniugi urlare e poi Andrea scoppiare in lacrime, era appena accorso in giardino.
Lanciò un’occhiata all’ex collega, quindi cinse con un braccio le spalle della donna e la invitò a rientrare in casa.
La vide oltrepassare la soglia e sedersi su una sedia in cucina, ancora singhiozzando, lasciandosi alle spalle la porta a vetri semi chiusa.
Poi tornò da Semir, si sedette accanto a lui in giardino.
Non ancora ripresosi dalla discussione, l’amico fissava il vuoto con la mascella serrata e i pugni chiusi.
«Socio, ha ragione Andrea, devi calmarti. E non potete litigare, lei sta male quanto te, sai che è la verità.».
«Tu non capisci.».
A questa risposta, Ben si sporse in avanti per cercare lo sguardo sfuggente dell’ex collega. Fissò i propri occhi ai suoi, senza lasciargli alcuna via di fuga.
«Semir, forse hai ragione, anzi sicuramente: io non capisco. Non capisco nemmeno lontanamente che cosa voi stiate passando, ma di una cosa sono sicuro: questa situazione la state vivendo insieme. Perché entrambi siete a pezzi, non solo tu. È così.».
Il turco scosse il capo, senza nemmeno provare a distogliere lo sguardo «No, Ben. Lei non si deve sentire in colpa per quello che è successo. Lei può camminare. Lei non ha dovuto scegliere... io ho dovuto scegliere tra te e lei, io ho dovuto vedere mentre le sparavano, io sono rimasto sveglio sotto alle macerie, io sono su una sedia a rotelle. E io mi devo sentire in colpa se nostra figlia è morta, solo io.» quasi gridò, tutto d’un fiato, con una voce che tradiva solo disperazione.
«Piantala di dire che ti senti in colpa, Semir, è stato Keller a farvi questo, non tu.».
«Lui è diventato un folle perché io l’ho reso tale. Me lo ha detto lui stesso e aveva ragione.».
«Pronuncialo quel dannato nome, Semir.».
«Keller ha fatto tutto questo solo per colpa mia!» gridò l’altro, senza nemmeno rendersene conto.
Era la prima volta che lo pronunciava. Era la prima volta che Frederich Keller cessava di essere lui e assumeva il proprio nome.
Ben accennò un sorriso e solo allora Semir comprese di averlo detto. Finalmente.
Rimasero entrambi in silenzio per un istante lunghissimo.
«Keller ha fatto tutto questo, ma non lo ha fatto per colpa tua.» riprese poi il più giovane, con un tono di voce decisamente più calmo «Devi capirlo, socio.».
«Ben io... io non riesco a respirare...» fece Semir, cessando di urlare e parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina e... non respiro. Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al letto vedo la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla, invitandolo a continuare. Avrebbe così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non riesco a vedere quel letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e nella voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace. L’ultima cosa che Keller mi ha detto è stata mi dispiace...»

 

N.d.A.

Passano i mesi, ma rimangono i vuoti e rimane anche la disperazione che questi vuoti si portano dietro.

Siamo arrivati alla fine, il prossimo capitolo sarà quello conclusivo. È stata una storia infinitamente lunga, per me non è stata facile da scrivere ma sono contenta di averla conclusa e condivisa qui. Mi sembra incredibile che sia passato quasi un anno e mezzo da quando ho pubblicato il prologo (prologo che tra l’altro ritroverete nel prossimo capitolo), eppure...

Grazie a chi mi ha seguito fino a qua, grazie davvero di cuore, per me vuol dire tanto.
A presto, un bacio,

Sophie

  
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