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Autore: Enchalott    27/04/2019    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La volontà del mare
 
Anthos si accosciò sulla riva sabbiosa, specchiandosi nella distesa immota della laguna: il suo colore d’acciaio lucido rifletteva quello del cielo plumbeo e minaccioso, che da giorni ormai accoglieva il risveglio della costa settentrionale del Pelopi.
Al largo, i cavalloni crestati di bianco si rincorrevano senza sosta, scoraggiando i mercanti che attendevano fiduciosi il momento opportuno per continuare i loro lucrosi affari. Forse solo i pirati più esperti osavano ingaggiare partita con l’oceano, spingendo a oltranza i galeoni tra i flutti imbizzarriti.
Il salmastro, levato nell’atmosfera dalla portanza dall’aria, oltrepassava la sottile striscia di rena che separava il bacino stagnante dal mare aperto, creando una sorta di nebbiolina evanescente composta di microscopici cristalli.
Era l’odore inconfondibile del mare, misto a quello delle alghe e della vita che si celava tra le onde. Un profumo antico come il creato, che racchiudeva anche qualcosa di insidioso e sublime.
Il principe si sfilò i guanti e immerse le mani fino ai polsi nell’acqua torbida e gelida, socchiudendo gli occhi dorati in una concentrazione che pareva abituale sul suo viso imbronciato. Le sue dita affondarono nella sabbia e nel limo soffice e vischioso, sollevando uno sbuffo terroso. Una luce verde si levò dal fondale, che iniziò a ribollire e a contorcersi come un’enorme creatura preistorica, pericolosamente risvegliata da un lungo sonno. L’oceano si ribellò alla magia, schiumando e soffiando e si aprì a ventaglio, allontanandosi da quel contatto indesiderato.
Era ciò che Anthos attendeva: non si fece sovrastare e continuò ad emanare un’energia poderosa, che divenne luce e si innalzò in verticale, imbrigliando il vento e costringendolo a spirare come lui ordinava. Le correnti atmosferiche insorsero a quell’intimazione oltraggiosa, ma l’incanto proveniente dal giovane mortale inginocchiato al suolo era terrificante e impositivo, era qualcosa di straordinariamente atavico, di ancestrale… e non lasciava scampo alcuno.
I soffi di brezza moderata divennero bufera e ulularono, fischiando, la loro risentita protesta, ma non ci fu nulla da fare: l’arrogante tenacia del reggente del Nord prevalse e tutti gli aliti celesti dovettero piegarsi al suo volere, convogliando nella sola direzione che lui aveva indicato con la mente. Obbedirono, scemando con un unico orientamento che tirava violentemente dal mare verso terra.
Un lamento spettrale attraversò l’etere e gelò il sangue a chi lo udì.
Tutte le bandiere allacciate sui pennoni delle imbarcazioni all’ancora nel vicino porto si distesero dalla stessa parte in una sinfonia di fantasiosi contrassegni marinari. Le funi annodate alle gallocce stridettero, facendo schioccare le stoffe multicolori dei vessilli, gli anelli di rinforzo tintinnarono come cimbali, le sartie delle navi più grandi chiocciarono, oscillando alle folate.
Le nubi si dissolsero, snudando un cielo turchese e freddo che annunciava parimenti il bel tempo e l’impossibilità di salpare.
Anthos sorrise soddisfatto e si rialzò, liberando la laguna dal suo tocco prepotente.
Sganciò il pugnale dalla cintola di seta azzurra che gli cingeva la vita e lo cavò dal fodero d’argento: la lama sottile scintillò malignamente al sole, ma fu solo un lampo che lui ignorò. Se la passò di taglio sul palmo della mano sinistra, producendosi una ferita in diagonale, da cui iniziò a stillare il sangue.
Il principe tese il braccio sul pelo dell’acqua e lasciò che alcune gocce rosse vi cadessero dentro; poi serrò le dita e il flusso si arrestò, come se sulla sua pelle non ci fosse mai stata alcuna lesione. Quando le schiuse, la mano era nuovamente sana.
“Per il tuo disturbo, Mana” mormorò ironico, rinfoderando la preziosa arma.
Voltò la schiena al Pelopi, scostandosi i capelli biondi dal collo e aggiustandosi il pesante mantello blu sulle spalle. Il lungo cappuccio bordato di pelliccia color ruggine rimase inerte lungo il dorso, segno che il reggente non aveva alcun timore di farsi eventualmente riconoscere da qualche malcapitato. Che non avrebbe potuto poi raccontarlo in giro, ovviamente.
Poco distante, il suo stallone candido lo attendeva, frustando l’aria con la folta coda e strappando con le labbra callose i radi ciuffi di vegetazione sapida della riva.
Una vibrazione lieve ma distinguibile mise entrambi sul chi vive.
Il cavallo nitrì in modo ostile, intimando a qualunque cosa fosse giunta lì di stare indietro.
Il giovane si arrestò, privo di ogni esitazione producendo un sogghigno beffardo.
“Manawydan, di grazia…!” precisò una voce autorevole e intimamente irritata al suo indirizzo “Oltre a oltraggiarmi con una pratica proibita, osi anche appellarmi con un nomignolo privo di rispetto! Voltati e guardami, mortale!”
Anthos si rabbuiò per un istante, furioso, serrando i pugni, ma quando si girò a fronteggiare l’interlocutore la sua espressione era esclusivamente di pura noia.
“Come siamo diventati suscettibili” ribatté caustico “Scorgere offese ovunque è sintomo di età avanzata, non lo sapevi?”
“Faresti meglio a tacere, Anthos di Iomhar!” tuonò il dio del mare “Fai lo spiritoso quando è l’esistenza di uno come te ad essere un insulto a per l’intero creato!”
“Puoi sempre lamentarti con chi ti sta sopra…” ringhiò il giovane in risposta.
In quell’affermazione, il suo sguardo era affilato come la lama che aveva adoperato.
Manawydan grugnì e si staccò dallo scoglio striato di verde cui si era appoggiato, avanzando maestosamente sul bagnasciuga, con l’acqua che gli scorreva sulla pelle bronzea del petto, nudo e possente, ornato solo dal triplice giro di una collana di piccole pietre marine multicolori.
I suoi capelli, alla luce acuta del giorno, viravano tra il bianco e l’azzurrino: erano tenuti corti sulla nuca, mentre ai lati del viso dondolavano due ciocche intrecciate in modo elaborato, che scendevano a sfiorargli le spalle. I suoi occhi grigioverdi erano un caleidoscopio mutevole di sfumature e ricordavano l’attraente volubilità del mare in burrasca.
“L’ho già fatto a suo tempo” rispose secco, incrociando le braccia muscolose “E a quanto vedo non è servito!”
Ai suoi avambracci, due splendidi bracciali di metallo ritorto e opalescente scintillarono ripetutamente come preziosi cristalli, mentre abbandonava l’acqua salata del suo imperituro dominio, trascinando dietro a sé una sorta di chitone celeste, fissato alla vita da una catena aurea impreziosita da conchiglie.
“Che cosa intendi dire?” saettò il reggente, quasi perdendo l’aplomb.
La divinità alzò le spalle, come se si trattasse per lui di una fastidiosa inezia.
“Non intendo nulla che ora ti riguardi, giovane uomo. Non ti è concesso penetrare la volontà di chi è immortale, neppure se possiedi la magia più potente che sia mai esistita da quando abbiamo creato l’universo”.
Anthos ridacchiò divertito, sollevando gli occhi d’oro fuso innanzi a sé.
“Ma non farmi ridere! Se la mia fosse semplice magia, non saresti uscito dagli abissi armato di tutto punto solo per venire a farmi la paternale! Evidentemente anche tu hai paura di me!” affermò, indicando la lucida sciabola di corallo nero frastagliato, legata al fianco sinistro del dio.
“Pensala come vuoi, ragazzo, e non pretendere una parola in più, perché non ne ascolterai altre!” disse Manawydan “Ma non osare rivolgerti a me in questo modo! E neppure mettere in dubbio il mio valore o te ne pentirai per certo! Mi sono scomodato perché sono arcistufo delle tue trame e quello che hai fatto prima mi riguarda da vicino! Perché hai imbrigliato i venti? Avanti, parla!”
“Ragazzo…” ripeté Anthos con un sogghigno “Perché no? In fondo è la verità. Non sono altro che un uomo, venuto al mondo per avere una vendetta che mi spetta di diritto. Spiegami una cosa, Mana, tu ci credi nella Profezia? Perché per me è solo un cumulo di sciocchezze, che ciascuno interpreta come più gli conviene…Ho usato i tuoi amati venti perché mi servono per percorrere la mia strada e lo farò senza costrizione alcuna e, soprattutto, senza il tuo permesso”.
La divinità fremette di rabbia.
“Non ho bisogno di crederci, razza di arrogante! Io so per certo che così sarà!”
Il principe scoppiò a ridere.
“Ah sì? E chi te l’ha confermato? Amathira? Dicono che non si sia più vista in giro da qualche millennio, dopo aver maledetto il suo disgraziato amante…”
“Stai attento a come parli, sovrano del Nord!” lo redarguì aspramente il sovrano marino “Stai solo dimostrando che la tua lingua è sporca esattamente come il sangue che mi hai offensivamente offerto poco fa! Non sfidare la sorte!”.
“Sei libero di sostenere le tue convinzioni o di continuare a minacciarmi senza esito” continuò invece il giovane “Ma non mi hai risposto. E questa per me è già una risposta”.
Manawydan sbuffò poderosamente e si accomodò su un macigno incrostato di alghe brune, affiorante dalla sabbia umida della riva. Accavallò mascolinamente le gambe, facendo tintinnare l’ornamento di lische e corde che portava alla caviglia destra.
“Irkalla” rispose, quasi canzonatorio.
Anthos sgranò gli occhi suo malgrado e impallidì. Il suo sbigottimento, tuttavia, durò solo un momento e fu immediatamente sostituito dalla consueta posa altezzosa.
“Cosa?” disse con un guizzo nelle iridi d’ambra “Questa poi è la più bella che io…”
“Non hai capito!” lo interruppe il dio oceanico “Sono certo che la Profezia compirà il suo corso perché il Distruttore è tornato, così come essa aveva annunciato. Pertanto, perché dovrebbe essere mendace su tutto il resto?”
“La tua logica non farebbe una grinza” replicò il reggente divertito “Se non fosse per il fatto che la Profezia presenta in sé una falla”.
“Che?! Sei un bugiardo!”
“Affatto” commentò il principe serafico “E sarà attraverso essa che io passerò. Nessuno potrà impedirmelo. Nemmeno tu”.
Manawydan saltò giù dal sedile roccioso e si erse in tutta la sua statura, avanzando verso lo sfacciato interlocutore. I suoi occhi divennero d’un blu oltremare profondo, intimidatori e inquietanti. La mano destra poggiò sull’elsa dell’arma scura, che iniziò ad emanare una vorticante luminosità d’inchiostro.
Anthos lo fissò imperturbabile preparandosi ad affrontarlo. Sguainò la spada e un chiarore verde abbagliante si diffuse intorno al suo corpo.
“Non vorrai davvero usare quell’aggeggio ridicolo…” saettò il dio.
“E’ un problema mio. Fatti avanti”.
L’immortale sfoderò a sua volta la sciabola terrificante: era la stessa di cui parlavano tutti i racconti dei marinai e gli antichi miti, l’unica punizione che i pirati temevano seriamente, quella con cui aveva conquistato il suo trono fatto d’acqua salata, quella con cui scatenava a suo piacimento la furia inarrestabile dei flutti.
 
Sopra di loro, nel cielo sereno, un lampo violento esplose, più giallo del sole stesso.
I due contendenti si lanciarono l’uno verso l’altro, incrociando le armi, che presero a stridere mandando scintille aranciate per la violenza degli urti.
“Sei fuori forma!” esclamò Anthos, evitando un fendente diretto alla sua spalla.
“E tu sei fuori di testa!” ribatté prontamente l’avversario, incalzandolo.
Il duello continuò, senza che nessuno venisse ridotto in stato d’inferiorità, sempre più brutale, sempre più somigliate a un’irrinunciabile questione d’onore.
La divinità riuscì a sovrastare il rivale, che parò all’ultimo l’attacco, portato a velocità sovrumana, con un’agile mossa difensiva. Ma la lama non resse all’impatto e gli si spezzò con uno schianto, piantandosi in verticale nella rena qualche metro più in là.
Il principe scagliò a terra con ira l’inutile moncherino scheggiato e piantò uno sguardo di fuoco in faccia al possente antagonista.
“Allora, ti arrendi?” sghignazzò questi, per nulla impressionato dalla tacita minaccia.
Per tutta risposta, Anthos si concentrò senza emettere alcun suono. Una profonda ruga verticale gli si delineò sulla fronte, mentre gli occhi, tra le ciglia socchiuse, presero a brillare come gemme.
L’energia virò di tono ed assunse una sfumatura dorata che si concentrò tra le sue dita contratte, mentre i capelli incominciarono a vorticargli intorno al viso, illuminato da quella forza misteriosa e straordinaria che gli proveniva da dentro.
“Se la metti così…” abbaiò Manawydan, emettendo un bagliore altrettanto intenso, che convogliò sul corallo nero, ancora stretto saldamente in pugno.
Il Medaglione con le Tre Pietre iniziò a vibrare, eruttando a sua volta una magia terrificante, e si sollevò dal petto del principe, come se avesse una volontà propria.
Il signore del Pelopi abbassò le braccia, studiando attentamente il fenomeno con uno sguardo torvo e incuriosito, riparandosi dal vigoroso fulgore con una mano.
Poi, rinfoderò la sciabola con un mesto sospiro.
“Va bene, basta così” sentenziò duro.
Anthos lo guardò interdetto, senza richiamare il proprio potere. Poi, per qualche recondito motivo rinunciò a scatenarlo contro l’avversario e lo annullò.
“Non è da te desistere, Mana” commentò brusco.
“Infatti. Prendila come una proroga della tua sfortunata esistenza”.
“Piantala! Io esigo sapere…”
“Tu non puoi esigere nulla, Anthos di Iomhar!” ruggì il dio “Puoi solo stare al tuo posto e invocare il perdono per le tue azioni nefande! Tuttavia…” aggiunse placandosi “… ti concedo di adoperare i venti, quale che sia il tuo fine. Questa è la mia volontà”.
Il principe fece per rispondere, ma la divinità lo bloccò con un cenno.
“Non è un favore quello che ti faccio, anzi. I tuoi progetti ti condurranno alla fine peggiore che tu possa profetizzare: dunque non sarò io a fermarti, se essa è ciò che brami. Percorri la via che ritieni di avere individuato, ragazzo. La tua morte sarà un bene per tutti, pertanto non sarò io, adesso, a privarti della vita”.
“Se la mia dipartita è quella che vedo nei sogni, non provo timore alcuno. Ho solo lo sfrenato desiderio di oppormi ad essa e ci riuscirò, sappilo”.
Manawydan annuì pensosamente e si chinò, raccogliendo le due parti della spada infranta del rivale. Passò le dita sulla lama sottile, che si saldò all’istante, come se non avesse mai subito danni.
Il giovane aggrottò la fronte, stupito dall’atto cortese.
La divinità gli porse l’arma con due mani, osservandolo con ferma disapprovazione.
“Quel monile…” ringhiò, indicando quasi con disgusto l’amuleto sacro del Nord “E’ bizzarro. Sapevo della sua esistenza, ma non pensavo che… bah, tanto è inutile parlare con te!”
Si diresse a passi lenti verso l’acqua da cui era emerso, con le mani intrecciate dietro la schiena, senza lasciare orme sulla sabbia tiepida.
“Mana!” lo richiamò Anthos, folgorato dalla sua ultima considerazione “La veggente di Odhran mi ha detto che il Medaglione non funziona come dovrebbe! Ho sempre pensato che stesse mentendo…Che cosa intendevi dire prima?”
Manawydan si arrestò, con il mare che già gli lambiva gli addominali sbalzati come quelli di una statua e un’espressione indecifrabile.
“Chiedilo alla tua indovina. Non ti ha propinato il falso”.
Il principe raggelò, per la prima volta in preda ad un’effettiva preoccupazione, ma la sua voce suonò comunque piatta e algida.
“Dolente, non lo posso più fare”.
Il signore dell’oceano scosse la testa, come rassegnato.
“Ci sono dei limiti che neppure un dio può varcare, Anthos di Iomhar” rispose “Perciò non ti risponderò, a meno che tu non decida di rinunciare ai tuoi odiosi piani. Questa è la mia volontà”.
Sì inoltrò tra le onde e sparì nella schiuma vorticante.
“Un dio forse no” sussurrò il reggente del Nord tra i denti, fissando l’oceano immenso dinnanzi a lui “Ma io lo farò. Lo giuro”.
 
 
Quella mattina la neve scendeva adagio sulla città di Jarlath. Stranamente, il vento gelido che la sferzava quasi ogni giorno dell’anno si era fatto più lieve, come se avesse perso improvvisamente la sua orgogliosa vitalità. Le nubi si erano accalcate, ruzzolando l’una sull’altra nel cielo incolore della capitale ed erano incredibilmente lattee, orlate di ombreggiature plumbee leggere come fumo.
Màrsali terminò di spazzolarsi i lunghi capelli color miele, che le scendevano ondulati fino ai fianchi; iniziò ad intrecciarli con cura, come non faceva da tempo, difronte al piccolo specchio che Kesthar le aveva procurato, esaminando la propria immagine riflessa. Gli occhi azzurri erano lucidi per l’agitazione, ma sul viso non c’era più traccia della sofferenza lancinante che aveva patito: qualcosa di essa era però rimasto nell’espressione del volto, che aveva perso la spensieratezza adolescenziale e aveva guadagnato una consapevolezza più profonda di sé e del proprio ruolo.
Erano stati il dolore e l’amore a indicarle la strada. La perdita di Odhran e quella di Siavon l’avevano fatta crescere frettolosamente, seppur ingiustamente; invece, l’affetto disinteressato del guardiano delle carceri l’aveva salvata e addirittura rinvigorita, tanto da renderla risoluta nell’essere ciò che era.
Diciassette anni ed era l’unica veggente rimasta, un segreto da non rivelare a nessun costo. Diciassette anni e, quel pomeriggio, sarebbe diventata la moglie di un uomo per non farsi scoprire.
Anche se la proposta del suo amico d’infanzia era stata avanzata per tutela nei suoi riguardi e lei l’aveva accettata, comprendendone il nobile fine, tuttavia si sentiva in ansia come se fosse stata una vera futura sposa e desiderava essere decorosa almeno in quell’occasione, per onorarlo e ringraziarlo come meritava.
Un sorriso timido le illuminò il viso, punteggiato di rade lentiggini: non era mai stata vanitosa, ma le dispiaceva presentarsi alla modesta cerimonia vestita di stracci e priva di qualsiasi ornamento, anche se a Kesthar non sarebbe certo importato.
Era molto più rilevante evitare qualsiasi tipo di sospetto sul suo status. Màrsali avrebbe dovuto fare la parte della schiava da letto, costretta alle nozze per vanto e per sfregio; avrebbe dovuto mostrarsi recalcitrante e intimorita, umiliata e terrorizzata e, soprattutto, non avrebbe dovuto emanare felicità alcuna.
Si sorprese per la constatazione: il matrimonio era una finta, ma c’era comunque nel suo cuore una sensazione di gioia mai provata prima, come se realmente il custode della prigione le avesse dichiarato un amore sincero e lei lo avesse ricambiato con pari intensità. Si disse che l’emozione era dovuta all’insolita situazione, al fatto che l’amico si era schierato senza esitare dalla sua parte e le aveva promesso un aiuto insperato e incondizionato.
Una cosa sola era certa e reale nei pensieri della ragazza: in ogni caso, non sarebbe più stata sola, avrebbe avuto una famiglia reale… poco le importava se il suo futuro marito le aveva giurato che non avrebbe neppure dormito con lei o se la loro unione sarebbe rimasta effettiva solo sulla carta. Non era mai stato un sigillo a tenere incatenate due persone. Erano l’affetto e il rispetto reciproco a creare un saldo legame e quelli tra loro non mancavano affatto.
Un modesto bussare alla porta la distolse dalla confusione di quei ragionamenti.
Màrsali si avvicinò all’uscio massiccio, stringendosi lo scialle logoro sulle spalle, impensierita dalla visita inconsueta. Non poteva essere Kesthar, lui entrava senza annunciarsi e poi le aveva detto che l’avrebbe aspettata sul luogo della cerimonia, come da tradizione. Forse aveva mandato qualcuno a prelevarla. Il cuore iniziò a batterle furiosamente nel petto.
“Chi è?” domandò con apprensione.
“Ide!” rispose una voce femminile decisa “Sono una delle cuoche del palazzo!”
“Ma io non…” balbettò la veggente, indecisa sul da farsi.
“Tesoro, aprimi o Haffgan mi torcerà il collo con le sue mani! Certa che lo farà!”
Udendo il tono accorato e convincente dell’affermazione, la ragazza armeggiò con il pesante chiavistello di ferro e socchiuse il battente.
“Oh, era ora!” brontolò la donna, entrando come un panzer nella stanza e richiudendo il portone con un magistrale colpo dell’abbondante fondoschiena “Mi manda il tuo futuro compagno di vita, che il cielo ti aiuti, povera bambina…” aggiunse, appoggiando con un tonfo un grosso involto sul tavolo di legno e sfilandosi il pesante mantello di lana grigia.
Màrsali osservò a bocca aperta l’irruente signora, strizzata in un corsetto di pelle marrone che conteneva a malapena le sue forme straripanti. Indossava una lunga gonna color crema e un grembiulone bianco incrostato di farina; le maniche della camicia rosa erano rivoltate fino ai gomiti e mostravano due braccia da impastatrice seriale che avrebbero fatto invidia a un pugile.
“Beh?” sbuffò Ide, squadrandola con gli occhi grigi “Il demone ti ha cavato la lingua?”
“N-no… no…” farfugliò la ragazza, riprendendosi dalla sorpresa “Scusatemi, il piacere è mio, io sono…”
“Màrsali, lo so!” la interruppe la cuoca, infilandosi sotto la candida cuffia merlettata una ciocca di capelli rosso fuoco, sfuggita al suo controllo “Cara, sei una bellezza! Me l’avevano detto quei pettegoli dei soldati di turno in questo schifo di posto, ma dal vivo sei un vero spettacolo! Ora capisco perché quell’animale di Haffgan ti costringa a sposarlo! E io che credevo che fosse insensibile come i geloni sulle dita di un morto assiderato! Vuole dei figli meno brutti di lui, il porco! Bravo, bravo…”
La veggente spalancò gli occhi stupefatta, senza riuscire a trovare una risposta in grado di arrestare il fiume in piena che aveva davanti.
“Quindi!” asserì lei, puntellando le mani sui fianchi “Vediamo che cosa posso fare per darti una sistemata! Persino quel gorilla infernale ci tiene a fare bella figura, oggi… non che sia una cerimonia in grande stile, ma qualcuno interverrà di certo, anche solo per curiosare. A proposito, io sono la tua testimone!”
“Grazie…” fece la ragazza, che non sapeva come raccapezzarsi.
“Ma di che, ragazza mia? Almeno una faccia amica in un giorno così tetro! Animo, animo! Innanzitutto, ho portato questo, dovrebbe andarti bene così a occhio…” congetturò, sciogliendo l’involto voluminoso.
Un lungo vestito bianco fece capolino dalla custodia ingiallita: era molto semplice, ma altrettanto delizioso e suggestivo nel chiarore che pareva emanare dalla stoffa delicata e morbida.
Màrsali deglutì, commossa al pensiero che Kesthar avesse chiesto all’energica donna di procurarle un abito degno dell’occasione.
“Su su!” la incitò questa, ignara delle sue emozioni “Non è proprio ora di piangere… dopotutto Haffgan ti è già saltato addosso e sai già com’è nudo. Il peggio è ormai passato, basta non contraddirlo troppo e il gioco è fatto! Non ritenerti troppo sfortunata, piccina, in fondo sei viva e il tuo futuro marito è temuto da tutti quaggiù”.
La veggente annuì, asciugandosi le lacrime con la mano.
“Questo era mio, sai?” continuò Ide, porgendole il vestito nuziale “Anni fa ero carina come te ed ero anche più magra! Purtroppo, gli anni passano per tutti! Dai, provalo… poi penseremo al resto!”
Màrsali iniziò a cambiarsi, indossando con attenzione l’abito candido. Come aveva supposto la cuoca, su di lei era perfetto. Esaminò i minuscoli fiori ricamati sulle lunghe maniche a punta e il breve strascico che si allungava dall’orlo posteriore. Il colletto alto era soffice, ornato di lineari decori in pizzo. Mentre si guardava, ancora frastornata, sentì che la donna stringeva vigorosamente i nastri che chiudevano il retro del corpetto.
“Eh, questi lacci ho dovuto sostituirli, invece…” si lagnò lei “E’ uso che lo sposo li tagli col coltello la prima notte di nozze e mio marito non è stato da meno!”
“Coltello?” domandò la ragazza sorpresa.
“Oh, non dirmi che non ne sai niente! Ah, ma che sciocca… tu eri una veggente, certo che nessuno ti ha mai parlato di cerimonie, povera cara! Beh, qui a Jarlath le spose portano un pugnale agganciato ad una lunga collana, il giorno delle nozze. Questo perché, anticamente, qualche fanciulla era costretta a sposarsi per interessi di famiglia e così le venivano offerte varie possibilità con quell’arma penzolante sul seno. Uccidersi, uccidere il novello sposo oppure passargli il coltello e farsi spogliare. Chiaramente adesso è solo una tradizione, nessuna pensa di fare la pelle al proprio uomo… io infatti non ho avuto dubbi su quello che mi sono scelta!” sghignazzò.
Màrsali ascoltò il racconto e si intristì, pensando a quanta sofferenza intrideva le mura arcaiche della sua città.
“Ma tu non avrai il pugnale, non preoccuparti” affermò Ide, notando la sua improvvisa e nuova afflizione “Haffgan ti ha già dato la tua prima notte, quindi non avrebbe senso. E poi dubito che riusciresti a ucciderlo”.
“Già” sospirò lei.
“Oh… e non pensare di suicidarti, eh! Vedrai che ti ci abituerai!”
Lei annuì con un lieve sorriso, pensando che la cuoca fosse davvero una brava persona. Le dispiaceva dover recitare la parte stabilita anche con lei. Ma era necessario. Era imperativo che nessuno potesse riferire eventuali dubbi al reggente. Il pensiero le procurò i brividi.
Lo sguardo della donna cadde sui due bracciali sbalzati che Màrsali portava ai polsi.
“Mmmh, forse quelli è meglio toglierli…” borbottò con un certo riguardo “Non sono opportuni durante un matrimonio e poi quel balordo ti ha ormai tolto la visione”.
La ragazza trasalì. I due monili erano in effetti uno dei simboli della sua facoltà divinatoria. Era molto affezionata ad essi: erano stati un regalo di Siavon, il giorno in cui aveva dimostrato di essere in grado di interpretare il futuro. Tuttavia, Ide aveva ragione. E poi avrebbero destato dei sospetti indesiderati.
“E’ così” rispose, slacciando i due ornamenti e appoggiandoli sui vestiti ripiegati.
“Ma guardati!” strillò la cuoca, in preda all’euforia, terminando di appuntarle tra i capelli alcune spille di cristallo blu.
Màrsali si fece forza affinché la commozione non prendesse il sopravvento e mandasse tutto all’aria. Si contemplò allo specchio e stentò a riconoscersi. Arrossì, immaginando che Kesthar l’avrebbe vista così agghindata e trattenne il respiro, sperando di non attirare troppo l’attenzione nell’uscire da lì. Era la prima volta che lasciava la stanza da quando era stata imprigionata.
Non ebbe altro tempo per meditare, poiché Ide la prese sotto braccio, trascinandola verso l’uscita.
“E’ ora di andare, tesoro!” trillò “Ti ci accompagno io là, vedrai che nessuno oserà darti fastidio! E se dovessi sentire qualche commento sboccato, ci penserò io a difenderti!”
La veggente non ebbe alcun dubbio sulla veridicità della promessa. Indossò il mantello sopra il vestito, calandosi il cappuccio sui capelli biondi e seguì la compagna fuori dalla sicurezza dell’alloggio del demone delle carceri.
   
 
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