Quasi cent’anni prima
In
piedi sul bordo del laghetto
celato nelle profondità del bosco, Agnese getta alcune
foglie nell’acqua
quieta. Non pesano niente e non vanno lontane e la bambina è
insoddisfatta.
Vorrebbero che volassero un po’ più in
là, verso il centro di quel curioso
specchio d’acqua, piccolo e profondissimo.
In
verità Agnese non lo sa, se
quel lago è davvero profondo, ma immagina che sia proprio
così: la mamma le ha
sempre detto di stare attenta a non cadere nel Böcc
dal Seerp, perché, se
lo facesse, annegherebbe.
Nascosto
tra i bassi rami di
nocciolo alla cui ombra l’ha adagiato, Mario piagnucola e si
agita.
Contrariata, Agnese si volta verso il cuginetto ancora in fasce e,
portandosi
un dito alle labbra, gli fa segno di tacere. Il bambino non capisce,
naturalmente, è ancora troppo piccolo. È per
questo che zia Elvina glielo
affida, di tanto in tanto: per avere un po’ di requie da quel
bimbetto
esigente, l’ultimo di una serie di cinque, che, con le sue
costanti richieste
di attenzioni, prosciuga le energie della donna.
Ad
Agnese non piace, Mario: lei
ha appena sei anni e fino a qualche tempo prima era abituata ad essere
lei la
piccola della famiglia. Per questo non bada a lui, ma lo lascia tra
l’erba
bassa, alla mercé di formiche e zanzare. A volte ha la
tentazione di prenderlo
tra le mani, alzarlo in alto sopra alla testa e buttarlo
nell’acqua scura, lì
nel bel mezzo del Böcc dal Seerp. E
chissà che il
serpente non se lo mangi.
Non
può farlo, naturalmente.
Anche perché sa benissimo che non c’è
nessun serpente, là dentro: sospetta anzi
che a lei non piacerebbe affatto
se,
svegliandosi, si ritrovasse quel piccoletto sul fondo del suo lago.
Meglio
non rischiare: non si sa
mai, con quella. È
sempre buona, con
lei, ma è meglio non rischiare di fare qualcosa che potrebbe
non piacerle. Non si sa mai.
Accovacciandosi
sulla riva
fangosa, Agnese immerge le mani nell’acqua e raschia il fondo
con le dita
grassocce. Una miriade di girini schizzano via, inoltrandosi nelle
profondità
del lago e allontanandosi rapidamente dalle manine della bambina.
«Non voglio
prendervi» dice lei, la voce come una cantilena.
«Voglio solo darle da
mangiare.»
Agnese
prende una manciata di
fango e la impasta con un po’ di foglie. Pensa che, forse, il
peso della terra
farà volare meglio le foglie, portandole là dove lei potrà prenderle. Con uno
sguardo speranzoso negli occhi verdi,
la bambina scaglia davanti a sé il proiettile brunastro che
ha appena
confezionato: il fango schizza verso il centro del laghetto, le foglie
cadono mestamente
a pochi centimetri dai suoi piedi. Non ha funzionato.
Agnese
aggrotta la fronte,
frustrata. Poveretta, non avrà fame? L’erba le
piace tanto, ama in maniera
particolare le spesse foglie di acetosa e quelle di borragine, morbide
e
larghe. Sospetta che le piacciano anche le ortiche –
soprattutto le cime tenere
– ma, quelle, Agnese non gliele porta quasi mai. Pungono.
La
bambina sta valutando se
entrare un poco nell’acqua – poco
poco,
nemmeno fino alle ginocchia – quando, dal sentiero poco
distante, uno
scalpiccio sommesso l’avverte dell’arrivo di
qualcuno. Lo sguardo vigile,
Agnese spinge i capelli chiari via dagli occhi e si volta per
accogliere gli
intrusi.
«Ohi, nini!»
l’apostrofa il ‘Tilio che, come suo solito, apre la
fila dei suoi compari. «Attenta a non caderci dentro, che poi
il serpente ti
mangia!»
Agnese
gli rivolge una smorfia –
nelle sue intenzioni un sorriso – e si pulisce le mani sugli
stinchi lasciati
scoperti dal vestitino estivo. «Non ci cado dentro»
mugugna, guardandolo di
sottecchi, quasi a sfidarlo. Non lo sa, il vecchio somaro, che lei
è molto più
agile di lui?
«E
dove l’hai lasciato, il
Mario?» chiede allora il Zepp, quello che quando parla si fa
fatica a capire
quello che dice, perché la sua voce raspa e trema come se
fosse sempre senza
fiato.
Prima
che Agnese possa spiegare,
il ‘Tilio vede il bambino. «Ma guardala,
‘sta stria!
L’ha lasciato in mezzo al prato.» Guardandola con i
suoi
occhi da uomo adulto, il ‘Tilio si rivolge a lei:
«Ma la tua zia lo sa, che è
così che curi tuo cugino?»
«Ma
no», si difende la piccola,
«non lo lascio mica sempre lì: l’ho
appena appoggiato. Poi me lo riprendo. Però
avevo caldo, volevo mettere un po’ le mani
nell’acqua.»
«Cosa
ci sei venuta a fare, qui?»
chiede ancora il ‘Tilio che, adesso che Agnese ci pensa bene,
dev’essere un
mezzo parente della mamma. «C’è anche la
fontana, sei hai caldo e vuoi
rinfrescarti. Non c’è mica bisogno di fare tutta
‘sta strada per venire fino a
qui, che è anche pericoloso.»
Agnese
si stringe nelle spalle e
pensa che non sono proprio per niente affari del ‘Tilio,
quello che fa lei.
Prima che lei possa replicare, però, il Mengo,
ch’è guercio e che secondo la
mamma è anche un po’ un porco, ridacchia.
«Lo so io, che cosa ci è venuta a
fare, qui.» La piccola lo guarda, solo blandamente allarmata.
Tanto non ci
crederebbe nessuno, se anche dicesse che lei
è lì sotto, sul fondo del lago. Be’, a
parte forse la Zingara, naturalmente. «È
venuta a cercare la bricolla del
Fino
di Róss»
dice infatti il Mengo, e lei scuote la testa: quella
è una storia a cui non ha nessuna intenzione di credere.
I
tre uomini ridono, come se la
battuta fosse estremamente divertente: il Fino
di Róss
era un mitico
contrabbandiere che, nel folklore locale, era scomparso nel nulla in
una notte
d’inverno, seppellendo però da qualche parte la
sua bricolla, un sacco pieno zeppo
di oro e franchi svizzeri che aveva
portato di nascosto in Italia. Si narrava che avesse stretto un patto
con il
Diavolo, chiedendogli di aiutarlo a sfuggire dai burlandòt
e
di conservare intatto il suo tesoro: il Maligno l’aveva
accontentato, ma,
com’era suo costume, aveva voluto in cambio l’anima
del Fino di Róss,
condannando il contrabbandiere a un’eternità
passata a guardia del suo tesoro
perduto.
Quella
è la storia che si
racconta ai bambini: il nonno di Agnese le ha detto che il povero Fino
era
scivolato su una lastra di ghiaccio e si era sfracellato sulle rocce a
picco
sul fiume, rompendosi l’osso del collo per portare in Italia
un po’ di
sigarette. Agnese ci crede, al nonno, e la battuta del Mengo le sembra
stupida.
Voleva forse prenderla in giro?
«No,
volevo cercare qualche
spugnola» dice allora, indovinando perché i tre
uomini sono lì, a zonzo per i
boschi. Sono troppo vecchi per andare a lavorare; sono troppo vecchi
anche per
andare in guerra, come il papà di Agnese, che è
in Russia da tanti, tanti mesi.
Anche il Zepp c’era stato, in Russia, ancora prima che Agnese
nascesse. Però
non doveva essergli andata tanto bene, perché è
tornato indietro che parlava in
un modo strano e ogni tanto guarda la gente con la faccia di uno che
non è mica
tanto a posto.
«E
le hai trovate?» le chiede il
‘Tilio, con la faccia di uno che non ci crede.
Agnese
fa le spallucce. «No, non
ne ho trovate. Tra un momentino torno a casa.» Ha fretta di
rimanere da sola:
sa che finché quei tre saranno lì con lei, lei
non si farà vedere, e la bimba non ha nessuna
intenzione di tornare a casa
senza averla almeno salutata.
«Vieni
con noi, ti accompagniamo»
le propone il ‘Tilio. «Ti facciamo vedere dove
cercarle e ti aiutiamo anche a
riportare a casa il Mario.»
«No,
grazie» scandisce Agnese,
con l’affettata educazione che le ha insegnato la maestra a
scuola.
Confusamente, la bambina avverte che il ‘Tilio ha paura che
si metta nei guai,
rimanendo da sola, e la cosa la irrita: è abbastanza grande
per badare a un
bambino di nemmeno un anno, ma non è abbastanza grande per
starsene in piedi
sulle rive di un laghetto?
I
tre uomini la guardano ancora
per qualche istante, poi scuotono la testa e si allontanano
borbottando.
Sicuramente si stanno lamentando di quanto sia sfacciata e
disobbediente, ma ad
Agnese non interessa. Sorridendo, li guarda sparire dietro la curva del
sentiero, inghiottiti dalle foglie dei castani e dei frassini.
Nella
sua culla fatta di rami di
nocciolo, Mario sgambetta e sbadiglia, ma, per una volta, non piange.
Forse
anche lui è contento di non essere più in
compagnia di quei tre sconosciuti.
«Finalmente»
sorride Agnese,
chinandosi per cogliere un fiore di trifoglio.
Finalmente, risponde l’acqua
del lago, in un gorgoglio di
bollicine.
Finalmente.