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Autore: yonoi    02/05/2019    6 recensioni
Catena dell’Himalaya, tra il regno del Bhutan e il Tibet, a quota 7.570 metri: il Gangkar Punsum, la montagna dei tre Fratelli, è l’ultima vetta al mondo ancora inviolata. Un’improbabile spedizione composta da tre guide alpine, un’archeologa esperta di mummie, due giovani dal passato tormentato e uno studioso di buddhismo tibetano, parte per conquistare la vetta. Eppure il governo del Bhutan ha imposto ufficialmente il divieto di profanare la dimora degli spiriti celesti. C’è di più: a quanto riferiscono gli abitanti del luogo, pare che sia la stessa montagna a rifiutare di essere scalata…
Prima classificata al contest “Lavoratori allo sbaraglio” indetto da Laodamia sul Forum di EFP, a pari merito con "Pene d'amor perduto" di Amor31 e "Sottile come un filo di cotone" di Ayumu7.
Genere: Avventura, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Scalare non serve a conquistare le montagne:
esse restano immobili.
Siamo noi che dopo un’avventura
non siamo più gli stessi”
 
(Royal Robbins)
 

3. L’infanzia del mondo
 

Parete sud del Gangkar Punsum, ore 9:50 del 15 maggio 2018.
 
Rabauer piantò l’ultimo chiodo di ancoraggio. Sostò per controllare un banco di nubi in rapido e preoccupante avvicinamento e di seguito il gruppo che, superato l’intralcio dell’uomo della nicchia, iniziava l’attacco al Fratello Maggiore - la cima più alta e ancora senza nome del Gangkar Punsum - aggrappandosi faticosamente alle corde.
Ai piedi dei Tre Fratelli, quasi 1.500 metri più sotto, l’avamposto denominato campo tre affiorava a intervalli, avvolto dalla foschia e dal nevischio dell’ultima notte. Le cupole delle tende azzurre e arancioni emergevano simili a isolotti tra i flutti. Tutt’intorno, Il ghiacciaio Moroder era una lunga navata panoramica su cui si affacciavano altissimi seracchi. Parevano cascate e getti di fontane immobilizzate nell’atto di ricadere verso il basso.
Ce n’era addirittura uno che ricordava una gigantesca figura in preghiera:
“È il Quarto Fratello, il Buddha che protegge i viandanti,” aveva detto Zampetti tra un colpo di tosse e l’altro.
A quota 6.900 ogni passo costava una fatica immensa e almeno trentacinque inspirazioni al minuto, contro le dodici-sedici sufficienti al livello del mare. I clienti procedevano con le bombole in flusso e Moroder che vigilava come un falco, pronto a cogliere eventuali segnali di sbandamento contro i quali, in realtà, c’era poco da fare: ormai il campo base se l’erano lasciato alle spalle e anche là un pronto soccorso vero e proprio non esisteva. Quello che poteva essere necessario, compresse di cortisone, antipertensivi e analgesici, era già stato distribuito ai clienti.
All’arrivo al campo base, un semplice piazzale con un tendone e le solite file di bandierine, il gufo aveva cavato dallo zaino confezioni di pillole, fiale e persino supposte corredate da foglietti illustrativi in tre lingue: dzongkha, cinese e hindi. “Queste le mette a disposizione una casa convenzionata con la nostra Compagnia. Se l’affare prende piede, avremo anche i bugiardini in inglese,” aveva assicurato di fronte all’espressione perplessa del Kaiser.
“Vorrà dire che ce li faremo tradurre da Zampetti,” aveva commentato a mezza voce Rabauer, che per fortuna aveva sufficiente esperienza per non dover dipendere da un bugiardino in cinese. “Sempre che a riempirsi d’acqua la scatola cranica non sia il nostro consulente linguistico.”
Di seguito, a voce alta, aveva fornito le opportune istruzioni alla truppa:  
“Edema cerebrale. O polmonare, a scelta. Uno degli accidenti che si verificano più spesso a causa della rarefazione dell’aria. A quota cinquemila la concentrazione di ossigeno è esattamente la metà di quella presente al livello del mare. La vetta del Fratello Maggiore si trova oltre i settemila, e mentre tenterete di raggiungerla il vostro circolo inizierà a pompare come un ciclista al Giro d’Italia. I capillari cominceranno a dilatarsi e farete la fine degli annegati: insieme all’ossigeno, imbarcherete acqua. Polmoni e cervello diventeranno come i sacchetti coi pesciolini rossi del luna park.” 
Sguardi preoccupati avevano seguito attentamente il discorso.
Calzini aveva già cominciato a tossire, forse per suggestione.
“Per evitare simili inconvenienti, ci fermeremo qui per quattro settimane.” Il gufo smaniava dentro all’amaca che, insieme a due seggiole da campeggio e a un altare del Buddha, componeva lo scarso arredamento del luogo. Il Kaiser finse di non vederlo: “Durante questo periodo faremo delle escursioni di acclimatamento, per adattare l’organismo in maniera graduale. Tanto per cominciare riposerete, mentre io e Moroder faremo dei sopralluoghi. Io ne so quanto voi di quel che ci attende là sopra. Dovete darci il tempo di studiare la situazione.”
Al campo base, oltre al piccolo altare decorato da coroncine di fiori secchi avevano trovato la fornitura di bombole prevista dal contratto. Le istruzioni per l’uso erano scritte in dzongkha e in un altro alfabeto arricciato che, secondo il parere unanime di Zampetti e Calzini, era nepalese. “Queste ce le fornisce un’altra società interessata al business” aveva detto il gufo, strofinandosi le mani in un modo che al Kaiser aveva ricordato il caimano dell’ufficio spedizioni. “Come vedete, la Compagnia ha pensato proprio a tutto.”
I giorni seguenti, Moroder e Rabauer si spinsero fino alla parete sud, il punto ritenuto più accessibile per la salita. In breve, si decise il programma: una prima escursione portò i clienti fino all’ingresso al ghiacciaio, con rientro al campo base senza particolari incidenti, a parte la tosse sempre più insistente di Calzini che fu doverosamente imbottito di farmaci. Alcuni giorni dopo, seconda escursione di acclimatamento fino al medesimo punto, con pernottamento su una spianata che il Kaiser denominò campo due. Seguì la salita fino all’ultimo avamposto, il campo tre quasi a ridosso della parete sud. Là piantarono le tende e trascorsero l’ultima notte.
La sera precedente il giorno stabilito per l’attacco alla vetta, la montagna dei Tre Fratelli offrì lo spettacolo di un tramonto incendiario: avvolte in oro liquido, le cime risaltavano contro a un cielo di porpora e a una luna che galleggiava vicinissima. Al campo tre, già immerso nella foschia, la neve era azzurra e sembrava di camminare in riva al mare.
“Il tempo è favorevole. Ora o mai più,” aveva detto il Kaiser, cercando di concentrarsi sul lato pratico per non dare a vedere che era impressionato. Stretti vicino a lui, i componenti della piccola spedizione si sentivano come gocce sulla fragile foglia del mondo.
“Orario previsto per la levata, un quarto a mezzanotte. Equipaggiamento completo di bombole e torce, anche queste gentilmente offerte dalla nostra Compagnia.” Rabauer si voltò a guardare il gufo e per la prima volta gli concesse un sorriso. “A mezzanotte in punto cominceremo a salire. Il rientro è previsto a partire dalle due del pomeriggio precise. Vi ricordo che a quell’ora, ovunque vi troverete, fosse anche a un metro dalla vetta, si tornerà indietro. Dubbi, perplessità?” 
Norbu Zampetti si limitò a cavare dallo zaino l’ennesima fila di bandierine: “Queste me le ha consegnate il mio lama. Se arriveremo a piantarle sulla vetta, la nostra impresa andrà a beneficio di tutti gli esseri senzienti.”
Al Kaiser quel gomitolo di rettangoli colorati ricordava una corda di panni stesi, tuttavia non disse nulla.
“Posso portarle, vero, capo?” insistette Zampetti. “Questa non è zavorra.”
Di nuovo, il Kaiser sorrise.
A mezzanotte pareva che l’intera via Lattea si fosse data convegno col suo sciame di corpi celesti per assistere alla partenza. Le stelle più vicine si affacciavano dagli speroni della montagna, le più lontane facevano capolino. Qualcuna, a forza di sporgersi, perdeva l’equilibrio e cadeva tracciando una scia di pulviscolo. Le piccole torce fissate attorno i cappucci cominciarono l’arrampicata in fila indiana.
L’alba li sorprese a picco su un dirupo. In quel dirupo, Norbu Zampetti per un pelo non c’era caduto dentro: la roccia su cui aveva messo il piede subito dopo Patchouli a un tratto s’era stancata d’essere calpestata e aveva deciso di franare verso valle, in cerca di luoghi un po’meno frequentati.
Recuperato a forza di braccia da Moroder mentre si teneva sull’orlo dello strapiombo, Zampetti aveva smarrito di colpo tutto il suo zen e si era sfogato all’indirizzo della robusta figlia dei fiori:
“Maledetta grassona, neppure l’Himalaya riesce a reggerne il peso.”
“È lei che è allucinato e viaggia con la testa per aria”, s’era difesa Patchouli. “A quanto pare, ha perso la sua occasione per vedere gli spiriti da vicino.”
Rabauer, che si trovava a piantar chiodi qualche metro più avanti, era tornato indietro: “Silenzio o vi spedisco tutti giù nel burrone. Compreso lei e la sua videocamera del cazzo,” aveva precisato all’indirizzo del gufo, intento a riprendere diligentemente la scena.
Più tardi, dopo aver superato l’uomo della nicchia, un altro incidente aveva visto protagonista proprio il gufo, che a un tratto s’era piegato disegnando un perfetto angolo retto e aveva sputato una bava schiumosa e sanguinolenta. Era da un po’ che Moroder lo stava tenendo d’occhio: più o meno da quando l’uomo della Compagnia aveva cominciato a ondeggiare come un astronauta in assenza di gravità. Respirava con sempre maggior fame d’aria e più di una volta aveva rischiato di mettere il piede in fallo tirandosi dietro gli altri.
“Hey, lassù, ferma!” L’eco della voce di Moroder era rimbalzata sui torrioni più vicini, causando addirittura il distacco di un crostone per il contraccolpo. Rabauer s’era visto costretto a ridiscendere per la seconda volta.
Aveva cavato dallo zaino le pasticche della Compagnia, che il gufo aveva ingoiato mentre continuava a tossire e a sputare quella fanghiglia sanguinolenta. Dietro alle lenti protettive, gli occhi a momenti gli sfuggivano dalla testa.
“Mi ero dimenticato di mettervi al corrente della seconda regola,” aveva tuonato il Kaiser, rivolgendosi al gruppo che si approssimava alla spicciolata. “Se uno di voi sta male, si rientra tutti al campo tre.”
Moroder aveva misurato con lo sguardo il tratto che mancava ancora alla vetta: “Ormai quasi ci siamo, tornare indietro sarebbe uno spreco di ossigeno. Non abbiamo riserve sufficienti per tentare un’altra scalata, oltre al fatto che se rinunciamo non avrai nulla da raccontare ai tuoi nonnetti dell’Enzian.” Dopo un breve silenzio, si era offerto: “Scendo io a valle con lui.”
“Non dire fesserie.” Il Kaiser aveva accennato al gufo che penzolava appeso alla corda come uno straccio: “Se quello ti va in coma a metà strada, tu che cazzo puoi fare?”
“Un bel niente. Più o meno lo stesso che potete fare tutti voi messi assieme.”
L’uomo della Compagnia tentò di intromettersi, con quel poco di fiato che ancora gli restava e la paura moltiplicata dal malessere: “Io devo occuparmi delle riprese… Se mancano le riprese non avremo nessuna prova. La Compagnia mi brucerà la casa fino alle fondamenta e sto ancora pagando il mutuo.”
“Proprio come immaginavo. Ci penserò io, al ritorno, a far passare l’anima dei guai ai tuoi boss. E un’altra anima la passerà lei adesso, se rifiuta di scendere.” Di fronte al pallore spettrale del gufo, il Kaiser si rabbonì: “Consegni a me la videocamera. Provvederò io alle riprese.”
Moroder lo salutò con una pacca sulle spalle: “In gamba, vecchio, e ricorda: cima Rabauer e ferrata Moroder.”
“Ti ho già intitolato il ghiacciaio.”
“Non mi basta. Lo sai, sono un avido.”
Il Kaiser restò immobile a fissare l’amico mentre aiutava il gufo nella discesa. L’uomo della Compagnia avanzava mettendo i piedi a caso, aggrappandosi alla guida senza quasi riuscire a reggersi sulle gambe. Moroder divenne sempre più piccolo, una macchia in giacca a vento arancione contro la roccia innevata, finché scomparve dietro a una sporgenza.
Erano le 9:50 ora locale. Il Kaiser diede il segnale di riprendere il cammino verso la vetta.
 
******

 
Vetta del Gangkar Punsum, quota 7.570 metri, ora locale 14:10
 
Rabauer fissò l’ultimo chiodo, quindi ridiscese per controllare l’attraversamento di un passaggio particolarmente difficile. Ormai il tempo era scaduto e come da programma avrebbe dovuto comunicare ai clienti che era giunto il momento di fare dietro front. Già a metà del percorso, un orizzonte di nubi bigie e sovraccariche aveva cominciato a levarsi dal fondovalle, praticamente inseguendoli. Portato da un vento che fischiava assordante, quel banco temporalesco saliva senza bisogno di ramponi e piccozza: entro pochi minuti la visibilità si sarebbe ridotta al minimo, eppure mancavano solo pochi metri alla cima. Mai come quella volta il richiamo della vetta si faceva sentire.
Il Kaiser afferrò la mano di Patchouli che malgrado le mole, le rimostranze di Zampetti e gli attacchi di tosse saliva con destrezza, misurando le forze. La aiutò a superare l’ultimo dislivello, dopo di che furono in vetta.
La spilungona era a un passo dal collasso ma non mollava: aveva sentito dire che per i tibetani percorrere lunghe e faticose distanze per raggiungere i luoghi sacri purifica la mente dalle azioni passate, e più il viaggio è difficile più la purificazione è profonda. Per questo continuava a salire a testa bassa senza avvisare nessuno dei suoi malesseri.
Forse per via delle quattro operazioni subite in passato, che evidentemente facevano a pugni con l’altitudine, Calzini aveva l’impressione di vederci sempre meno: tuttavia, dava la colpa alle lenti appannate e a quel cumulo di nubi che li inseguiva, simile a un gigantesco molosso alle calcagna.
La vetta era un trampolino con vista sull’infinito. Non appena fu in cima, Zampetti cavò la sua fila di bandierine e la piantò contemporaneamente allo schianto di un tuono possente, che scosse l’intera vetta come fosse la voce del Fratello Maggiore.
Patchouli scattò una foto al panorama che si apriva dinanzi a loro: guglie e altipiani coperti di neve, anelli di foschia attorno alle cime. All’orizzonte, il cielo era ancora completamente terso.
“Questa è per mia figlia.” Patchouli chinò il capo sulla macchina fotografica. “Sono anni che rifiuta di parlarmi. Chissà se un giorno riuscirò a portarla fin qui. Lei non ci crederà,” continuò, rivolgendosi a Rabauer, “ma questo me lo ha suggerito la montagna mentre salivo. Qforse faremo pace e tornerà a parlarmi. Questo mi ha suggerito la montagna mentre salivo, qualcosa di più importante delle grotte dei lama santi.”
Il Kaiser le posò una mano sulla spalla. Lo splendore del luogo lo soggiogava: “Io invece vorrei che questa vetta restasse incontaminata. Il Fratello Maggiore ci ha permesso di salire senza scaraventarci in fondo a qualche burrone. Direi che dovremmo offrirgli in cambio un bel dono.”
“Che cosa?” ansimò Calzini, strofinandosi forte le lenti.
Questo, ad esempio.” Il Kaiser afferrò la videocamera e la lanciò nello strapiombo che si apriva a capofitto sotto di loro. L’altezza era tale che l’apparecchio cadde senza rumore.
“Scattate pure tutte le foto che volete, piantate le vostre bandiere. Per quel che mi riguarda, questa spedizione non è mai avvenuta. E ora vi ricordo che siamo già in ritardo sulla tabella di marcia, là sotto c’è una bufera in avvicinamento sicché vi consiglio caldamente di cominciare a scendere.”
 
******
 

Parete sud del Gangkar Punsum, quota 6.300, ora locale 16:15
 
In breve, la tormenta fu sopra di loro. Procedevano in fila tenendosi alle corde e cercando di mantenere stabilità contro il vento che li strattonava verso il basso.
A quota seimila, neppure la pioggia era in grado di resistere: in breve s’irrigidì in una sferza di ghiaccio, costringendoli a proseguire sempre più lentamente con le bombole che ormai già segnavano il limite. A un certo punto Rabauer si voltò a controllare: dietro a Zampetti e Patchouli, due sagome che barcollavano tra le raffiche, non vide nessuno. Attese di esser raggiunto dallo studioso, continuando nel frattempo a scandagliare il sentiero nel tentativo di individuare gli altri componenti della cordata. Per vincere il rombo del vento, fu costretto a gridare:
Jumping Frog e la Morgagni, dove sono finiti?”
Zampetti si voltò a scrutare a sua volta in quella bolgia di nevischio e di oscurità. Dietro alla giacca a motivi floreali di Patchouli, in parte già coperta da uno strato a presa rapida di bianco, non c’era nessuno.
“Non lo so, capo!” gridò a sua volta, per contrastare la potenza del vento. “Erano dietro di noi all’inizio della discesa, poi li ho persi di vista. Credevo che ci seguissero.”
In bilico sulla cengia, il Kaiser oltrepassò le due figure imbacuccate: “Voi due, andate avanti! Seguite il percorso delle corde e arriverete giù al campo tre. Zampetti, faccia da guida: non vi fermate per nessuna ragione, mi ha capito bene? Io torno indietro a cercarli.”
Lo studioso e Patchouli si rimisero in marcia, procedendo lentamente a ridosso della parete.   
La nebbia ingoiò il Kaiser, che a sua volta riprese a salire a capo chino.
Molti metri più su, all’altezza della sporgenza che ospitava il corpo dell’uomo della nicchia, Leina Morgagni aveva ceduto allo sfinimento e s’era riparata sotto alla piccola tettoia.
Calzini aveva dato fondo alle sue capacità di persuasione per convincerla a proseguire.
“Vorrà dire che aspetteremo che passi la tormenta” aveva detto, dopo aver constatato che i suoi sforzi non approdavano a nulla. Anche lui in realtà si sentiva stremato e l’idea di un po’ di riposo gli era sembrata oro. Prese posto vicino alla spilungona, con le bombole già prossime all’esaurimento e le dita delle mani che ormai non si muovevano né si sentivano più. Quelle dei piedi dovevano essere da qualche parte negli scarponi, ma da un pezzo non davano segni di vita. Vedeva sempre meno, e si rendeva conto che il fatto non dipendeva dalle lenti annebbiate e neppure dalla tormenta.
“Voglio chiamare mio padre,” aveva detto a un certo punto Leina, cavando dalla tasca un telefono cellulare. “Deve sapere che la sua piccola aquila è riuscita a salire sul Fratello Maggiore.”
A Calzini parve evidente che Leina sragionava: dopo pochi minuti di sosta nella neve, il bordo del suo cappuccio era coperto di ghiaccioli, le gambe erano avvolte da un lenzuolo di gelo e i movimenti ridotti a un tremito scomposto.
“Devo telefonare,” ripeté la ragazza della funeraria, ormai completamente fuori dal mondo. “Prima, però, voglio levarmi di dosso questi stracci, d’un tratto sento un gran caldo.” Cominciò a trafficare con la cerniera della giacca. Calzini ricordava gli avvisi di Rabauer: uno dei più bizzarri effetti dell’ipossia era proprio la tentazione di strapparsi via gli abiti, con l’unico risultato di accelerare la morte per assideramento. Del resto, quella era esattamente la fine che li attendeva se si fossero attardati più del dovuto nel bel mezzo di una tormenta.
“Andiamo, tirati su. Non possiamo restare, gli altri sono già avanti e rischiamo di perderci.” Calzini si mise il braccio di Leina sulle spalle e tentò di rimetterla in piedi. “Appoggiati a me, coraggio”. Più alta di lui di un palmo, la spilungona pesava come se Calzini si fosse tirato sulle spalle l’intera montagna. Ma soprattutto, Leina non voleva saperne. Continuava a digitare sul telefono a caso, poi si mise in ascolto di un’immaginaria telefonata intercontinentale.
“Pronto, papà? Sono Lea.” In quelle condizioni, neppure un satellitare sarebbe riuscito a connettersi alla linea. Calzini era allibito. Tutt’a un tratto capì che Leina stava morendo e che quelle sarebbero state le sue ultime parole. Complice la tormenta che deviava le voci facendole provenire come da un’immensa distanza, decise di stare al gioco e rispose:
“Ti sento, tesoro. Come sta la mia piccola aquila delle vette?”
“Papà, ce l’ho fatta. Abbiamo conquistato l’unica montagna su cui nessuno ha mai messo piede. Adesso torno a casa.”
“Ti aspetto, figlia mia. Faremo una bella festa,” rispose Calzini che a quel punto, ormai, non ci vedeva più. Sentiva grosse gocce di muco, o forse erano lacrime, scendergli sulla faccia e subito congelarsi.
“Ho riparato a tutto, vero, papà?” disse ancora Leina.
“Senza dubbio, figlia mia,” rispose Calzini. La sera prima della scalata, davanti al tramonto incendiario sui Tre Fratelli, si erano confidati cose mai dette prima.
“Per questo sono qui,” aveva detto Leina, “sono spezzata anch’io. Forse tu puoi ripararmi, e io riparerò te. O forse solo la montagna può farlo.”
“La montagna ci mette di fronte a noi stessi,” le aveva fatto eco Calzini, soprappensiero. “Ma allarga anche gli orizzonti e ci rende più forti.”
Mentre quella telefonata surreale faceva il suo corso, Rabauer arrancava a visibilità zero e con le forze agli sgoccioli. Gli sembrava di avere un cubo di cemento attaccato ai ramponi e la stanchezza iniziava a renderlo disattento. Qualsiasi ombra assumeva le sembianze dei due dispersi: gli pareva di vederli raggomitolati su una sporgenza, caduti nella scarpata sotto ai suoi piedi, ma quando si avvicinava trovava solo roccia, pieghe e nidi di ombre.
Si fermò per cercare di raccogliere le idee: la temperatura doveva essere crollata parecchio sotto allo zero, ma lui non avvertiva neanche più i brividi. Più di tutto lo opprimeva un senso di sonnolenza che rendeva difficile tenere gli occhi aperti. Fu a quel punto che smarrì l’equilibrio, mettendo il piede su un ciglio che in realtà non esisteva: cadde senza neppure accorgersene, ruzzolando per un numero imprecisato di metri prima di impattare contro un banco di neve che tirava a campare in fondo a un canalone.
Sul Gangkar Punsum avvolto dalla tempesta era scesa la notte.
 

Campo tre, quota 5.400 circa, ore 21:45
 
Dopo diverse ore, Norbu Zampetti e Patchouli arrivarono a quel che restava del campo tre. Li accolse una visione talmente devastante da farli dubitare che si trattasse dello stesso bivacco che avevano lasciato la notte prima: le tende erano divelte e ovunque si vedevano solo stracci di tela, paletti e brandelli sepolti nella neve. Qua e là, oggetti sparsi: un fornellino da campeggio, le spoglie di un sacco a pelo e un piccolo chorten, che Calzini o Leina si erano intascati molto probabilmente al villaggio di Thangbi.
La bandierina col logo della Compagnia, che il gufo si era ostinato a piantare contro il parere del Kaiser - vogliamo proprio buttare l’esca ai collezionisti di mani mozze? - era svanita nel nulla.
Chi è stato?” Zampetti era sbiancato e si sarebbe messo le mani nei capelli: non poté fare neppure questo, non solo perché era imbacuccato da vari strati di sciarpa, ma anche perché sotto al cappuccio era calvo come una palla da biliardo.
“Chi vuoi che sia stato, lo yeti? È stata la bufera, razza di allucinato.”
Patchouli scrutò il cielo e di seguito il profilo del Gangkar Punsum avvolto da una vivida fosforescenza, segno evidente che in quota la tempesta era ancora in corso.
All’ex campo tre, invece, si limitava a volteggiare qualche fiocco portato fin là, a zonzo, dal vento. Zampetti diede voce al pensiero di entrambi: “Chissà come se la stanno cavando gli altri, lassù.”
“Pensiamo piuttosto a come possiamo cavarcela noi,” tagliò corto Patchouli. “Rabauer sa il fatto suo. Dovremo camminare tutta la notte per arrivare al campo base, ammesso che ci arriviamo.”
 Raccolsero qua e là dei pezzi di tenda per abbozzare un riparo in caso di necessità e si misero in marcia. Scendendo lungo il ghiacciaio e di seguito nella gola tra i contrafforti, procedevano concentrati e a testa bassa. Di tanto in tanto, uno dei due si accertava delle condizioni dell’altro:
“Come va, dottoressa?”
“Mi sta seguendo, Zampetti?”
Dopo un paio d’ore, accorciarono le distanze:
“Tutto sotto controllo, Elena?”
“Naturalmente, Norbu. Tra un po’ dovremmo esserci.”
A un certo punto Patchouli si fermò ricacciando in gola un singhiozzo, annaspò nel tentativo di trattenersi e scoppiò in un pianto dirotto. Arrancando in fretta e furia per starle dietro, Zampetti incappò in un lastrone e fu costretto a battere l’aria per non cadere lungo disteso. Pareva un grosso uccello infagottato e goffo, con le ali imprigionate nelle maniche del giaccone.
A Patchouli sfuggì un sorriso.
“Non perdiamoci d’animo e soprattutto non perdiamo l’equilibrio,” barcollò Zampetti, sorridendo a sua volta. “Ormai manca poco e quando saremo giù chiameremo i soccorsi. Se non ho visto male, al campo base dovrebbe esserci una specie di trasmettitore radio. In qualche modo proveremo a farlo funzionare.”
In quel preciso momento, Moroder scrutava l’orizzonte e scalpitava.
Insieme al gufo che riposava sull’amaca, era sfuggito alla tormenta per un soffio, riuscendo ad arrivare al campo tre poco prima che quel vortice cominciasse a rovesciare tonnellate di neve. Si erano concessi un breve riposo sotto alle tende. Nonostante l’abbassamento di quota il gufo non accennava a migliorare, sicché di lì a poco si erano rimessi in marcia e avevano raggiuto il campo base a notte inoltrata. Dopo aver dato fondo alle scorte di farmaci, l’uomo della Compagnia aveva recuperato un colorito un po’ meno cadaverico e un respiro quasi normale.
Durante la discesa avevano visto la bufera dirigersi in quota e ora la preoccupazione di Moroder cresceva, insieme a una sensazione snervante d’impotenza. Chissà se il Kaiser era riuscito a fare vetta. Soprattutto, chissà se erano riusciti a rientrare tutti quanti e senza difficoltà al campo tre. Moroder ripensava alla faccia spremuta di Calzini sudati e a quella ancora più esangue della spilungona bionda: già in cordata quei due non gli erano piaciuti per nulla e ora si rimproverava di non aver condiviso i suoi dubbi con Rabauer. Malesseri, piedi in fallo, infine quella tempesta che aveva spiegato le vele in direzione dei Tre Fratelli: stropicciandosi le mani, la faccia e mille pensieri, Moroder continuava a fare la spola tra l’amaca del gufo e l’ingresso del tendone, senza avere la minima idea di cosa fare.
Dopo la mezzanotte aveva ceduto al sonno sopra a una delle seggiole da campeggio, vegliato dalla lampada e dal sorriso indecifrabile della statua del Buddha. In alta montagna aveva imparato a dormire come gli animali selvatici, col corpo acciambellato e le orecchie puntate al minimo fruscio.
Quando la porta del tendone si aprì, facendo entrare un mulinello di gelo insieme a Zampetti e a Patchouli, si levò in piedi allarmato.
 

Parete sud del Gangkar Punsum, probabile quota 6.200, ora locale 21:30
 
Di sotto alla sporgenza dell’uomo della nicchia i corpi assiderati erano ormai tre.
Rabauer si trovava sulla buona strada per diventare a sua volta una statua di ghiaccio in fondo a un canalone, venti metri più a valle. La caduta era stata attutita dalla neve e per sua fortuna il Kaiser non aveva battuto contro a qualche sporgenza, o almeno così gli pareva. Non aveva neppure perduto conoscenza, sicché dopo un primo momento di confusione aveva provveduto all’inventario delle proprie parti anatomiche: gambe ancora attaccate e in allineamento corretto, senza pericolose estroflessioni sintomo di frattura al di là di ogni ragionevole dubbio. Braccio sinistro in asse. In corrispondenza del destro, un dolore bruciante ardeva fino alla spalla. 
Rotto, maledizione. Cercò di levarsi in piedi senza riuscirci. Un’altra stilettata tra il collo e la scapola, mentre il fondoschiena pareva inchiodato al terreno. Quando provò a muoversi, dalle parti basse partì una fitta che gli fece girare un’aureola di stelle luccicanti sopra alla testa.
Frattura di bacino. Non potrebbe andar meglio. Si stupì della sua stessa lucidità, che di fatto era panico allo stato più puro. Attese, nella speranza di riprendere fiato e soprattutto di riuscire a inventarsi qualcosa. Di nuovo provò a levarsi e di nuovo il dolore gli piombò addosso implacabile. Ormai era chiaro che non sarebbe riuscito a raggiungere il campo tre neppure strisciando, anche perché aveva perso l’orientamento e non aveva idea di dove si trovava. Era altrettanto chiaro che per i due dispersi non c’era più niente da fare: a meno che non fossero riusciti a ripararsi e di seguito a scendere, non appena la tormenta era diminuita d’intensità.
A conti fatti, l’unico a essere spacciato senza ombra di dubbio era lui.
“La montagna non è per gli esaltati,” gli aveva sempre ripetuto suo padre. “Riuscire a fare vetta non è una prova di forza: più spesso è il risultato di una pianificazione attenta. Tempistica, prudenza, rispetto delle regole. Al cospetto della montagna, saremo sempre troppo piccoli per poter essere considerati degli eroi.”
A conti fatti, il Kaiser si rendeva conto degli errori commessi: sapeva che in alta quota le condizioni meteo sono spesso soggette a improvvisi cambiamenti e nonostante ciò, spinto dal desiderio della cima Rabauer, aveva sottovalutato l’intera situazione come poteva farlo soltanto un principiante. La spedizione aveva iniziato la discesa in ritardo e tutto il resto era andato di conseguenza: bilancio definitivo, due dispersi e un morto quasi accertato.
Il canalone in cui era andato a parare terminava in una fossa di neve soffice. Svettando contro un cielo finalmente limpido e quieto, i Tre Fratelli si levavano dagli occhi gli ultimi stracci di nubi, asciugavano le rocce al vento notturno e parevano osservarlo senza curiosità.       
Fate qualcosa, maledetti, pensò tra sé Rabauer. Cacciate fuori i vostri spiriti, gli alieni e i dischi volanti, ma non lasciatemi crepare qui come un imbecille. Non ci tengo a fare da segnale stradale per tutti gli stronzi che la Compagnia porterà a spasso nei prossimi anni, a suon di milioni di dollari.
A un tratto ebbe l’impressione che il Fratello Maggiore chinasse su di lui la sua ombra e avesse addirittura un volto conosciuto. Bene, sto dando i numeri, pensò, mentre tentava di rintracciare nella memoria quei lineamenti severi, quello sguardo che lo trafiggeva da parte a parte.
Accanto alla prima sagoma ne spuntò subito un’altra e in breve la spianata si animò di presenze. Parevano uscite da dietro ai massi che sporgevano simili a gobbe di yak, o dalla stessa neve che all’improvviso avesse assunto sembianze umane. A proposito di yak, forse la carenza di ossigeno cominciava a provocargli delle strane visioni: proprio davanti a lui avanzava uno di quei possenti animali dalle corna ricurve, il pelo raggrumato in ghiaccioli e sul basto un carico pesante di vettovaglie.
Il fascicolo. I custodi. Il Signore del Drago.
Non fece neppure in tempo a pensare alle mani mozze che si sentì sollevare di peso.
Pochi minuti dopo, scivolava su una rudimentale slitta di tela e canne. Non fece domande, del resto quelle figure uscite dalla neve parlavano una lingua che lui non conosceva e che forse neanche Zampetti sarebbe riuscito a districare con precisione. Preferì abbandonarsi al tepore che emanava dalla quantità di panni che l’uomo dallo sguardo trafiggente gli aveva buttato addosso, mentre intorno a lui altri individui, bhutanesi o cinesi - al Kaiser gli orientali sembravano tutti uguali - erano intenti ad assicurare la slitta a uno degli yak.  
Marcirò in qualche infernale prigione cinese ma almeno sarò vivo, pensò trasognato.
Cercò dentro di sé il terrore di cui aveva parlato il Signore del Drago nell’intervista, ma trovò solo un grande senso di sfinimento. Si affidò al fruscio della slitta che procedeva rapida come su una rotaia, diretta chissà dove.
 

Campo base, ora locale 4:30 del 16 maggio 2018
 
Capo, sei ancora in tempo per ripensarci. Secondo noi, faresti meglio a restare.
Zampetti continuava a gironzolare intorno a Moroder, che dopo aver terminato di stipare lo zaino forzava cinghie e cerniere nel tentativo di chiuderlo. Si era caricato due bombole aggiuntive, coperte e tutte le rimanenze dei farmaci, esclusa una piccola scorta da riservare al gufo. Aveva già indossato la giacca e la torcia e si preparava a partire senza nessun riferimento preciso. Una cosa era certa: se i tre compagni che ancora mancavano all’appello non erano riusciti a rientrare al campo base, doveva essere accaduto qualcosa di grave.
Il fatto che uno dei tre fosse una guida esperta come Rabauer rendeva l’intero quadro ancora più allarmante. Ti troverò, vecchio, pensava tra sé Moroder, a costo di passare al setaccio ogni sasso di quella maledetta montagna.
Zampetti sembrò leggergli nel pensiero:
“Ammesso che tu riesca a trovarli, cosa potrai fare da solo?” insistette.
“Lei continui ad occuparsi di quella baracca,” replicò Moroder asciutto, accennando all’apparecchio per le trasmissioni radio. “So io cosa devo fare.”
“È una follia e lo sai bene. Da più di un’ora è ricominciata la tempesta,” s’intromise Patchouli. Per un lungo istante lasciò che la potenza del vento, che scuoteva il tendone e pareva sul punto di scaraventarlo chissà dove, parlasse per lei. “Se qui è così, lassù sarà un inferno. L’unico risultato che riuscirai a ottenere è che alla fine i dispersi ammonteranno a quattro.”
“Lei, Peace and love, non s’impicci. Piuttosto, mi stia a sentire.” Moroder si aggiustò gli spallacci sulle spalle. Il peso era tale che persino un gigante come lui barcollava. “Domani, ossia al massimo tra due ore, lei e il suo collega scenderete fino a Thangbi e avviserete la polizia, lo stregone, il capo villaggio, insomma qualcuno. A Thangbi pare ci sia una stazione radio. Lo so, sembra impossibile,” insistette di fronte allo stupore dei due clienti. “Abbiamo bisogno di aiuto e anche in fretta. Zampetti, veda se nel frattempo riesce a far funzionare quella reliquia.”
 Lo studioso si rimise subito all’opera, suscitando una tempesta di crepitii dall’apparecchio.
Per il momento, tutto ciò che riuscì a intercettare fu il frastuono del vento.
“Buona fortuna, gente,” sospirò Moroder, sollevando l’anta di plexiglass che fungeva da precario ingresso alla tenda. Una ventata improvvisa rovesciò quasi il gufo dal suo giaciglio sull’amaca.
“Solo un momento, capo.” Zampetti cavò dall’altare del Buddha la corona di fiori secchi e la fissò allo zaino dell’alpinista. “Che la benedizione del Risvegliato ti accompagni durante il viaggio.”
“Grazie, dottor Zampetti.” Moroder gli strinse forte la mano. “Mi raccomando, con quell’arnese.”
Poi si voltò e scomparve nel buio della tormenta.   
 

Molto tempo dopo, tra il campo base e il villaggio di Thangbi
 
Aprì gli occhi con la strana sensazione di aver sognato a lungo, per giorni o addirittura per settimane. Si sentiva indolenzito ma forse era per via dell’amaca, che ammucchiava le ossa come se fossero state gettate alla rinfusa in fondo a un sacco. Cercò di rimettersi in piedi: al solito, era più facile entrare in un’amaca che provare a uscirne, e avere un gesso al braccio rendeva tutto più complicato.
Più che ingessato, il braccio era stato steccato con materiali di fortuna ma con una perizia da primaio di ortopedia: da quando gliel’avevano immobilizzato in quella mezza corteccia di bambù, il dolore era finalmente cessato, la mano aveva cominciato a sgonfiarsi e ad assumere un colore diverso dal paonazzo.
Il pannello di plexiglass si mosse per la spinta di un filo di brezza. Per un lunghissimo istante il Kaiser restò in attesa, pensando che qualcuno - Moroder, per esempio - fosse lì per entrare. Un altro refolo si fece strada insieme a un raggio di sole, ma oltre quel barlume non si vide nessuno.  
L’amaca lo tratteneva nella sua rete sciogliendogli le membra, e solo a fatica riuscì a tirarsi fuori per dare un’occhiata in giro.
Cercò di riprendere le fila del tempo trascorso. Notò che il Buddha era stato sfrattato dal suo altare per fare posto a un rudere di apparecchiatura radio che risaliva minimo a trent’anni prima, quando le spedizioni sul Gangkar Punsum erano ancora felicemente permesse.
Un messaggio lasciato accanto all’apparecchio attirò la sua attenzione: “Per herr Moroder: Zampetti e Cohen partiti per Thangbi come da indicazioni. L’uomo della Compagnia sparito per conto suo. Aiuti in arrivo.”
Un’eco di elicotteri più vicini o lontani sembrò riaffiorare, ma il Kaiser non avrebbe saputo dire se si trattava di ricordi risalenti a molti anni prima, al tempo dell’incidente sulla Marmolada. Le immagini più recenti che riuscì a ritrovare riguardavano un luogo umido e immerso in una tiepida oscurità, un tunnel o più probabilmente una grotta nel ventre della montagna.
Molti volti si erano susseguiti attorno al suo giaciglio di panni grezzi, tessuti con il pelo ruvido degli yak. I suoi ricordi erano un susseguirsi di stranezze: il più assurdo di tutti era l’immagine di un ragazzino intento a fasciargli il braccio e a porre impacchi d’erbe sul gigantesco ematoma che impreziosiva il suo fondoschiena. Forse era una specie di nano, pensò Rabauer, annaspando nel tentativo di dare un senso a quelle visioni frammentarie.
Rievocò quelle mani abili e sapienti, che lo sfioravano appena mentre avvolgevano le bende: non c’era dubbio, si trattava di un ragazzetto che gli parlava nella sua lingua simile a una cantilena, mentre agli altri che di volta in volta spuntavano dall’ombra, tutti uomini adulti, si rivolgeva impartendo degli ordini veri e propri.
E anche questa era un’altra stranezza.
Poi c’era quell’uomo dallo sguardo penetrante, che gli pareva di aver già visto senza sapere dove: gli aveva ricomposto la frattura del braccio con un solo strattone, mentre due di quelle ombre che si materializzavano a tratti lo tenevano fermo e lui, Rabauer, urlava come un pazzo per il dolore. Una volta immobilizzata, la frattura aveva cominciato a saldarsi e ora al Kaiser pareva di riuscire già a muovere il braccio nella valva di bambù. La lesione al bacino era guarita durante un lungo periodo di sogni inquieti. Nel dormiveglia si susseguivano le immagini del Primo Fratello che lo scrutava da sotto al suo cappuccio di neve, della giacca arancio di Moroder che si allontanava col gufo, di Zampetti trasformato in uccello che si posava di ramo in ramo nella foresta, una macchia di colori che vorticava nel buio. Aveva ripreso a camminare sorretto e forse anche sorvegliato dall’uomo del fascicolo. Man mano che la sua mente aveva cominciato a snebbiarsi, era riuscito a ricondurre il volto di quell’uomo alla foto che il gufo gli aveva messo sotto al naso durante il temporalesco viaggio verso Jakar.
Dopo averlo perseguitato per giorni con la sua aria da visionario e le parole dell’intervista, il difensore della montagna era diventato il suo assistente, una via di mezzo tra un personal trainer e un secondino: e questo era davvero il massimo dell’assurdo. Di rado l’uomo incrociava il suo sguardo mentre lo aiutava a mettere un piede davanti all’altro, apparentemente più interessato a farlo deambulare in maniera corretta e a conservare il proprio anonimato.
“Che mi dice del terrore?” aveva provato a domandare Rabauer, appena era riuscito a disporre del fiato sufficiente per poter camminare e parlare al tempo stesso. “È lei il custode dei Tre Fratelli?” Esattamente come appariva nella foto, il tizio era un europeo dal volto spigoloso e dal carattere prevedibilmente taciturno. Parlerà pure qualche lingua che non sia il cinese mandarino, aveva pensato il Kaiser. Riformulò la domanda in un miscuglio di tedesco e italiano, strafalcioni anglosassoni e qualche parola del dialetto sherpa che gli era rimasta appiccicata alla testa durante le sue numerose missioni himalayane.
Il presunto Signore del Drago non aveva risposto, o più precisamente aveva fatto finta di non sentire. Quando Rabauer aveva frugato nello zaino in cerca del dossier, si era limitato a sorridergli da lontano. Nello zaino c’era di tutto fuorché quel maledetto fascicolo. Esasperato, il Kaiser aveva rovesciato l’intero contenuto sparpagliando ogni sorta di zavorra, dai blister del gufo alle mappe, ma il dossier sembrava essersi volatilizzato.
L’avranno preso loro, pensò in preda a un attacco di vigliaccheria pura. L’aveva letto e sfogliato tante di quelle volte che non gli fu difficile ripercorrerlo da capo a fondo, in cerca di contenuti compromettenti. Tutto era compromettente in quelle fotocopie messe insieme dalla Compagnia allo scopo di ricattare un Paese estero. È scritto in italiano, non riusciranno a leggerlo, constatò con sollievo. Però ci sono le foto di quei tizi armati fino ai denti, si ricordò d’un tratto, e quelle si capiscono anche senza vocabolario.
Cercò di figurarsi le possibili conseguenze. Di armi, in realtà, in quel tunnel non gli era sembrato di vederne neanche una: ovviamente i custodi potevano avere un intero arsenale nascosto da qualche parte, ma siccome i giorni passavano e gli uomini ombra parevano più intenzionati a curarlo che a tagliargli le mani, il Kaiser si rilassò e decise di accettare le cose così come capitavano. Om shanti om, avrebbe detto la buonanima di Calzini.
A proposito di Calzini, chissà se i custodi erano riusciti a recuperare anche gli altri dispersi. Forse Leina e Jumping Frog si trovavano in una delle gallerie laterali che, a quanto pareva, formavano una vera e propria città sotterranea nel ventre dei Tre Fratelli.
Durante le sue passeggiate in compagnia del Signore del Drago, il Kaiser aveva cominciato a guardarsi attorno con maggiore attenzione. In effetti, dalla grotta si diramavano altri passaggi: gli ingressi erano celati da arazzi che raffiguravano creature dotate di un numero incredibile di braccia e di gambe. Quelle sì erano armate, e dal numero di arnesi che brandivano e dai cipigli, era chiaro che possedevano un’indole particolarmente suscettibile.
Saranno gli spiriti della montagna, ragionò tra sé il Kaiser, i padroni di casa. Alcune nicchie ospitavano quelle che da lontano parevano antiche statue del Buddha, rivestite di drappi marciti dall’umidità: quando ebbe l’occasione di vederle da vicino, dovette constatare che non si trattava di immagini scolpite, bensì di mummie sedute a gambe incrociate.
Le grotte dei lama santi, pensò allora Rabauer. Euindi, qsistono veramente.
Quando Patchouli gliene aveva parlato, non le aveva dato troppo credito. Quella studiosa con le treccine svolazzanti, che a ogni passo levava zaffate di essenze indiane e tintinnii di braccialetti come se anche lei possedesse decine di braccia, non le era sembrata più credibile di Zampetti, l’esperto di buddhismo, falli dipinti e bussole capaci di intercettare gli spiriti.
Chissà se quei due erano riusciti a scendere a valle tutti interi.
Milioni di domande agitavano un vespaio nella testa del Kaiser. Provò a porne qualcuna ai suoi arcani interlocutori e di nuovo non ottenne nessuna risposta. La sua parlantina fu evidentemente interpretata come sicuro segno di guarigione, fatto sta che di lì a poco i custodi lo caricarono di nuovo sopra alla slitta e lo scodellarono al campo base.
Il tutto doveva essere avvenuto mentre il Kaiser dormiva, perché del tragitto non rammentava proprio niente e l’ultimo ricordo, peraltro traballante, riguardava un infuso d’erbe che gli era stato offerto dal misterioso ragazzino.
La mia gastrite, era stato il suo ultimo pensiero mentre quel liquido incandescente iniziava a perforargli lo stomaco. Dopo di che si era ritrovato sotto al tendone, coricato sull’amaca accanto al Buddha che stavolta e per fortuna era una semplice statua, circondata da bastoncini di incensi.
Aveva completamente smarrito la nozione del tempo.  
Nel tentativo di orientarsi, si alzò a frugare in giro ma non trovò nient’altro che quel biglietto indirizzato a herr Moroder. Lo lesse mille volte, mentre i suoi neuroni frastornati si rimettevano in moto. Quindi Zampetti e Patchouli erano riusciti a raggiungere il campo base e anche il gufo era riuscito a cavarsela, salvo poi scomparire chissà dove.
Moroder, però, non è sceso a Thangbi con gli altri. Dove si trova, adesso?
Il Kaiser recuperò lo zaino e uscì sul piazzale.
Un cielo senza nubi, di un perfetto nitore, lo avvolse nella piena luce del mezzogiorno.
Per un attimo gli parve di rivedere Peter che gli veniva incontro, con la giacca arancione e il naso pelato dal sole, una Red Panda in mano e nell’altra un panino al würstel. Ma di fronte a lui c’era solo la montagna che svettava poderosa sopra al ghiacciaio, con le cime che lo fissavano come tre punti di domanda.
Ritrovò in breve il sentiero tra i contrafforti e cominciò a scendere, inseguito dai suoi pensieri e dalle tante domande senza risposta. Aiuti in arrivo, era scritto nel messaggio. Forse i soccorritori sono riusciti a localizzarlo e adesso Peter si trova in qualche clinica giù a Jakar. Quel rumore di pale che ho sentito mentre mi trovavo nella grotta, non era solo un ricordo.
Eppure il gufo, a suo tempo, l’aveva detto: da queste parti non esiste l’elisoccorso.
La conclusione più logica era quella a cui il Kaiser si rifiutava di credere: Peter è morto sulla montagna, come quegli altri due. Non lo rivedrò più.
Ogni volta, riprendeva daccapo i suoi ragionamenti in cerca di un barlume sottile di speranza, qualche possibilità che prima gli era sfuggita.
Infine, dovette arrendersi.
Abbi cura di lui, mormorò in direzione del Gangkar Punsum, mentre l’ultimo pinnacolo spariva alle sue spalle, inabissandosi tra le rocce nere dei contrafforti. Abbi cura di lui, così come io ho avuto cura di te e della tua volontà di restare inaccessibile.
A Thangbi giunse sfinito. Non se la sentì di alloggiare presso l’hotel convenzionato per via dei troppi ricordi. Bussò alla porta del tempio buddhista e di nuovo, come allora, sul sagrato c’erano i monaci intenti a potare i bambù e i bambini col saio rosso e giallo che giocavano a rincorrersi. I più grandicelli inseguivano ancora il pallone di stracci. Uno di questi si fermò un istante a fissarlo e il Kaiser restò di sasso: quel ragazzino era rapato e minuto esattamente come gli altri, aveva gli stessi occhi di velluto scurissimo, eppure il suo sorriso gli era familiare.
Il piccolo si avvicinò, gli rivolse qualche parola. Il suo tono era grave come quello di un adulto, la lingua una cantilena melodiosa, ma ovviamente il Kaiser non riuscì a comprendere nulla. Di più, ebbe l’impressione che a mormorare fosse il vento docile tra i bambù.
Sotto ai colpi di falcetto dei bonzi, le siepi assumevano quelle forme simboliche che, in un tempo ormai lontanissimo, Norbu Zampetti gli aveva illustrato: il nodo dell’infinito rappresentava l’intreccio indissolubile tra la saggezza e la compassione. Il loto era la purezza originaria, la meta a cui fare ritorno.
“Eccola là, l’infanzia del mondo,” pensò con amarezza il Kaiser.
Sopraggiunse uno degli addetti alla potatura, chiaramente un occidentale dagli zigomi alti e lo sguardo penetrante. Anche quegli occhi Rabauer era certo di averli già visti da qualche altra parte. Mentre tentava di riordinare le idee, confuso tra la stanchezza e i molti eventi che si erano susseguiti di recente, il monaco gli parlò in perfetto inglese:
“Il venerabile Kunley Rimpoche è lieto di vedere che ora stai bene” dichiarò sorridendo. “Questo è il significato delle parole che ti ha rivolto.”
“Il venerabile…?” Il Kaiser trasecolò. “Chi è quel ragazzino?”
“È la diciassettesima reincarnazione del santo lama Kunley, che diffuse in Bhutan la dottrina del Buddha. È noto anche come il Signore del Drago Tonante, colui che domina gli spiriti della montagna sacra e conosce i segreti della guarigione del corpo e dell’anima.”
D’un tratto Rabauer ricordò con precisione dove aveva incontrato il monaco occidentale, quegli occhi capaci di scrutare nelle profondità. La grotta dei custodi. Il piccolo guaritore. Il tizio che mi ha aiutato a rimettermi sulle gambe. Il dossier della Compagnia, il terrore e le mani mozze.
Un colpo di gong attirò l’attenzione dei bonzi, richiamandoli all’interno della pagoda. Gli scolari smisero di saltare dentro ai mucchi di frasche, gli adolescenti raccolsero di buon grado il pallone e tutti insieme si avviarono alla spicciolata.
“È l’ora della meditazione serale. Se cerchi ospitalità, che tu sia il benvenuto.”
“Non posso trattenermi,” mormorò il Kaiser, turbato. Desiderava solo smarrirsi tra le voci e gli incubi della foresta.
“Tra poco sarà notte,” osservò il monaco occidentale, volgendo lo sguardo alla boscaglia che già iniziava ad avvolgere il villaggio di ombre. “Soffrirai il freddo e correrai il rischio di perderti.”
“Credetemi, non ha più alcuna importanza.”
Sulla porta del monastero, si salutarono. Il piccolo Signore del Drago s’inchinò a mani giunte e pronunciò ancora qualche parola. L’altro si premurò di tradurre:
“Il venerabile Kunley Rimpoche, nel quale vive lo spirito del Fratello Maggiore, ti ringrazia per avere risparmiato la montagna e non averla consegnata all’avidità degli uomini.”
“In compenso, la montagna non ha risparmiato me”, replicò il Kaiser, scosso. Non sapeva se provava più rabbia oppure disperazione. Avrebbe voluto bruciare il tempio, il villaggio, la foresta e tutto il Bhutan. “Era meglio se mi lasciavate lassù, insieme ai miei compagni. Neppure io possiedo l’infanzia del mondo. Di qualsiasi cosa si tratti, di certo Peter Moroder, Leina e Jumping Frog la possedevano più di me.”
Senza aggiungere altro, si avviò zoppicando lungo il sentiero, e fu a quel punto che accadde l’inspiegabile.
Il Kaiser avvertì un fruscio di passi alle sue spalle e a un tratto il venerabile ragazzino gli stava di fronte: probabilmente, voleva dirgli ancora qualcosa in quella lingua che suonava come un canto.
“È inutile, non capisco. Qualunque cosa tu voglia dirmi, mi rifiuto di capire.”
Ma il giovane lama si ostinava a tirarlo per il giaccone, finché il Kaiser si arrese, si chinò verso di lui e un abbraccio lo avvolse. In quel momento, la rabbia e il dolore lo abbandonarono di colpo mentre la chiara voce del Signore del Drago risuonava nella sua testa e fino all’ultimo giorno della sua vita Rabauer detto il Kaiser continuò a raccontare quel fatto a tutti i vecchietti dell’Enzian, senza badare al fatto che quelli lo considerassero più rimbambito di loro.
“La montagna assicura ai tuoi compagni, ai due amici che le sono stati affidati, una rinascita fortunata.”
 La voce gli parlava nella sua stessa lingua. Sto sognando, pensò Rabauer mentre si crogiolava in quel tepore che gli ridonava le forze. Sto sognando, quindi tanto vale essere educati e rispondere:
“Gli amici che ho perduto erano tre, non due.”
“Il terzo, quello che ha rischiato per venire in tuo soccorso, ti attende a Jakar. Aspetta che tu vada ad assisterlo, come noi abbiamo fatto con te.”
“Come posso credere a una cosa del genere?” barcollò il Kaiser, che in realtà si sentiva fin troppo sveglio per pensare a un’allucinazione.
“Le nostre vite sono così fragili che neppure il potente spirito del Fratello Maggiore, a volte, riesce a salvarle,” fece eco nella sua testa Kunley Rimpoche.
Quando, di lì a poco, si rimise in cammino, il Kaiser impiegò tutto il tempo a chiedersi se avesse realmente sognato. Riuscì quasi a convincersene, mentre continuava ad avanzare in quella  vegetazione fitta, senza voli di uccelli e senza segni di vita, dove dimoravano gli incubi che tanto avevano inquietato la spedizione durante il viaggio d’andata. Procedeva senza consultare la mappa, desideroso solo di perdersi.
Quando incappò in una tenda montata nel bel mezzo di una radura, non credette ai suoi occhi e pensò si trattasse di un altro miraggio.
“Le nostre, le abbiamo lasciate tutte su al campo tre,” si ritrovò a pensare. “Questa sarà di altra gente, altri idioti che vengono a immischiarsi da queste parti.” Eppure, nei dintorni non c’era un’anima e per di più Rabauer era sicuro che quella tela chiassosa, di un colore arancione che spiccava nel buio come un pugno nell’occhio, appartenesse proprio all’unico imbecille di sua conoscenza che avesse una passione smodata per quel colore. “Chissà quante ce ne sono, uguali identiche alla sua”, rifletté ancora il Kaiser. Non si stupì neppure quando trovò, nei dintorni di quel bivacco apparentemente deserto, due Red Panda al fresco tra le pietre di un torrente.
“Alla tua salute, vecchio,” disse una voce ironica, ben nota, alle sue spalle.
Rabauer era così assetato che mentre scolava le lattine una di seguito all’altra, non vi fece neppure caso. Devo essere già sbronzo, pensò, proprio lui che era capace di scolarsi un’intera stube e poi affrontare i tornanti verso l’Enzian senza sbandare di un millimetro. Confidando nell’impunità dell’ubriachezza, si degnò di rispondere:
“Alla tua, caro collega. Pensare che il freddo non lo hai mai potuto soffrire e adesso invece ti toccherà per sempre. D’altra parte, sei sempre stato un alpinista del cazzo.”
“Parla quello che sulla ferrata Moroder ha messo il piede in fallo.”
A sentire quel nome, il Kaiser si voltò di scatto.
“Peter, amico mio”, mormorò. Intorno a lui c’era soltanto la notte.
Fu a quel punto che quella voce infantile e a un tempo antichissima tornò a risuonare nella sua testa: “Il tuo amico si trova a Jakar, proprio come ti ho detto. Ora è fuori pericolo, ma i suoi pensieri hanno vagato a lungo da queste parti. La foresta li ha accolti ma io ho impedito loro di andare troppo lontano e di perdersi. Colui che era partito per venirti a cercare si è svegliato da poco e ora chiede di te.”
 Di nuovo quell’abbraccio, il tepore di quel fanciullo che irradiava una forza millenaria. Ogni volta che nella sua vecchiaia Rabauer tornò a narrare quel fatto all’Enzian, tra gli sbadigli dei turisti che lo sentivano farneticare per l’ennesima volta, puntualmente tornava a ripetere: “Vi giuro che con me, quella notte, non c’era proprio nessuno.”
Invece si sbagliava, perché proprio in quel momento il Fratello Maggiore, l’unica vetta al mondo ancora inviolata, stringeva a sé quel suo corpaccione da orso attraverso le esili mani di un ragazzino. Il lama Kunley Rimpoche, colui che dominava i sentieri della foresta e proteggeva il Gangkar Punsum, lo ringraziò di nuovo per avere risparmiato la montagna.
“Sei tu che hai salvato me,” disse il Kaiser alla notte, che da ogni parte lo circondava con milioni di stelle.
 “Conserva dentro di te l’infanzia del mondo,” gli disse il Signore del Drago, prima di lasciarlo andare per la sua strada. “Che la benedizione del Buddha e dei Tre Fratelli ti accompagni per sempre.”
In lontananza, entro il recinto dei loro contrafforti, gli altri due Fratelli chinarono appena il capo, ponendo il loro sigillo a quelle parole.
 
  
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