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Autore: fumoemiele    12/05/2019    23 recensioni
Paolo aveva usato mezzi drastici per impedirle di mangiare troppo. Aveva messo un lucchetto al frigorifero quando aveva visto che in preda ai rimorsi della fame la sua amata prendeva a svuotarlo.
Genere: Angst, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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La collezione dei fiori secchi
 
 
 

                   


Chi era Rosa?
Era una ragazza come tante e un giorno s’innamorò.
Quando la possibilità che un uomo l’amasse le si presentò davanti, nonostante i suoi difetti fisici e i chili di troppo, non riuscì a evitare di restare accecata da quella speranza che era rimasta per anni a marcire, dentro di lei. La speranza che qualcuno un giorno la guardasse con amore e affetto, le accarezzasse i capelli dopo un coito strozzato e le sussurrasse che lei andava bene anche circondata da quella coperta di grasso ingombrante.
Per un po’ fu così e Paolo l’amava nonostante tutto.
Ciò che è bello, tuttavia, è sempre destinato a inclinarsi fino al terreno e spezzarsi come un fiore che appassisce, lento.

Era una giornata estiva come tante altre, quella in cui iniziò tutto.
Rosa si era seduta a tavola, aveva sollevato la forchetta e si era portata l’ammasso di spaghetti alle labbra.
“Basta. Non può andare avanti così”, disse Paolo, che non sentì alcun rimorso nell’accompagnare la posata alla bocca e parlare a guance piene.  “Devi cominciare una dieta”.
E sebbene Rosa non volesse rinunciare al cioccolato e alle alette di pollo fritte, decise che per Paolo l’avrebbe fatto, avrebbe accettato di dimagrire.

Fu un percorso difficile e tortuoso ma Rosa non ci impiegò troppo tempo a togliere via i chili in eccesso. Alcuni mesi dopo non era più un’obesità pericolosa, quella che la tormentava, e il suo corpo davanti allo specchio iniziava a sembrarle affascinante e non un qualcosa da coprire e occultare sotto abiti troppo grandi e informi.
Stava meglio, Rosa, e ringraziava ogni giorno Paolo per averla aiutata in quel percorso che, da sola, non sarebbe mai riuscita a portare a termine.

Paolo aveva usato mezzi drastici per impedirle di mangiare troppo. Aveva messo un lucchetto al frigorifero quando aveva visto che in preda ai rimorsi della fame la sua amata prendeva a svuotarlo, a nutrirsi.
Aveva preso a insultarla. “Guardati allo specchio, cazzo. Fai schifo, non lo vedi?”.
Aveva preso a minacciarla. “Posso sempre trovarmi una donna magra e lasciarti, non credi?”.
Aveva preso a renderle la vita un inferno e Rosa, per non perderlo, scontava le sue pene e ogni lacrima era un cucchiaino di zucchero eliminato dal caffè.

Aveva tentato di ribellarsi, Rosa; ma era andata male.
Aveva cercato di farci l’amore, ma Paolo aveva detto che gli faceva schifo tutto quel grasso.
Si era dimostrato un mostro, o forse lo era diventato e basta. Rosa non sapeva quando fosse iniziato quell’incubo, né conosceva una data di fine. Sperava solo che arrivasse presto il momento in cui non avrebbe più sentito quel senso di fame sullo stomaco.

Aveva provato vero terrore solo quando Paolo l’aveva punita per aver mangiato, di nascosto, e aveva messo due chili sulla bilancia. Erano solo avanzi freddi lasciati nella pentola, perché sprecarli quando stava morendo di fame?
L’aveva frustata fino a farle sanguinare la pelle, l’aveva insultata e umiliata.
L’aveva minacciata. “La prossima volta ti taglierò un braccio, per farti tornare al peso giusto”, l’aveva detto solo dopo averle inciso il ventre, tagliato via del grasso con un coltello da cucina, e poi l’aveva ricucita in modo informe e senza anestesia. L’aveva trasformata in un mostro mentre la pelle gocciolava e sporcava il materasso da cui, il rosso, non sarebbe mai più andato via.

Le dosi sul piatto di Rosa erano diminuite, nel tempo, così come si erano dimezzati i pasti e da cinque si era passati a uno solo. Quell’unica porzione di cibo era ciò che la faceva andare avanti, la speranza continua che il momento in cui la bilancia sarebbe arrivata a quaranta un giorno sarebbe arrivato e allora avrebbe potuto masticare di nuovo del cioccolato.

Finché, un anno di sofferenze dopo, quel numero era stato raggiunto e Rosa aveva sorriso e, felice, era andata a chiamare Paolo per mostrargli di aver finalmente superato il passato e il grasso; aveva esclamato di aver per sempre abbandonato tutto quel lardo che le provocava ribrezzo e schifo al sol pensiero.
Sulle pareti della camera da letto erano esposte in sequenza le foto dei suoi progressi, ma troneggiavano per la maggior parte i ricordi di ciò che era al principio, un ammasso informe e che odiava, che sentiva il bisogno di cancellare, come una macchia d’inchiostro sbiadita su un foglio.
Era distrutta dentro, Rosa, ma quella mattina si sentì felice.
Paolo non sembrò essere dello stesso umore e annotò distratto l’ennesimo risultato raggiunto, sul foglio che teneva sempre d’occhio e sul quale scarabocchiava progressi e torture.
“Ora posso regalarmi una pizza?”, chiese dunque Rosa.
“No”, sbottò Paolo e lasciò la camera, la casa; abbandonò il frigorifero e il suo lucchetto.

Rosa aveva spiegato a Paolo che adesso il suo peso andava bene e lui non aveva voluto sentire nient’altro.
“Ma che cazzo dici?”, aveva risposto, “la strada è lunga, ancora. Molto lunga”.
Per lui la morte aveva un fascino oscuro ed enigmatico, la bellezza dei fiori secchi era imparagonabile a tutto il resto. Cercava in Rosa nient'altro che un deperimento estremo, una tortura lenta. Cercava l'agonia nel suo sguardo. 

Rosa aveva pianto e aveva sperato che i liquidi persi con le lacrime le cacciassero via gli eccessi che non sentiva più, ma che evidentemente c’erano, perché se Paolo lo diceva allora doveva ascoltarlo, sottomettersi e affidarsi a lui e al suo amore, alle sue premure. Paolo lo faceva per lei, non per se stesso. Voleva aiutarla. Ma si sa, uscire dal baratro non è mai facile, salire dal dirupo in cui si è scivolati è impossibile.
Si guardò allo specchio e le parve di essere normale, apprezzabile, nonostante la pelle rimasta in eccesso sulle braccia, sulla pancia. Pensò di piacersi, di non essersi mai vista tanto bella anche se ormai era troppo tempo che non usciva di casa e si lasciava accorciare i capelli ricci, se li lasciava tingere con un colore vivace.

Passarono ventiquattro ore e Paolo non tornò. Passarono ventiquattro ore e Rosa impazzì per la fame. Sentiva le budella accartocciarsi, aggrovigliarsi, annodarsi e formare una matassa che nulla sarebbe riuscito a sciogliere.
Rosa era stufa e capì di dover disubbidire.
Si fiondò in cucina e fissò il lucchetto in maniera insistente, tanto che a un certo punto le allucinazioni dovute alla fame iniziarono a farle sembrare che si stesse sciogliendo il metallo. Quando provò ad aprirlo, tuttavia, la realtà tornò lucida e dolorosa più che mai e vaffanculo, fottuto frigo; pensò e scese in cantina. Lì c’era l’ascia che Paolo usava per tagliare la legna e accendere il fuoco. Lì c’era la chiave per aprire quel cazzo di freezer. Era così affamata che sarebbe stata capace di divorare anche della carne cruda. Era così affamata che se solo non avesse avuto tutta pelle floscia accompagnata da ossa si sarebbe mangiata da sola pur di mettere qualcosa nello stomaco.
Ci tentò pure, Rosa; si morse forte sul braccio e cercò di staccarsi via la carne, ma non ottenne nulla se non un segno arrossato e dolorante. Come cazzo fanno i cannibali? Sono resistenti e duri, i corpi umani; pensò mentre risaliva i gradini e le tremavano le gambe. Strinse l’ascia fra le mani, le venne quasi voglia di tagliarsi via un arto e divorarlo, ma si trattenne. Poteva aprire quel fottuto frigo e mandarsi nello stomaco qualcosa di diverso dall’acqua, da tutta quella dannata acqua che beveva per mandar via il senso di fame attanagliato all’addome.

Rosa si sentì lucida solo per un attimo. Distrusse il frigo e guardò al suo interno, piatta. Non ce n’era molto da mangiare, così si calò giù mezzo litro di latte direttamente dalla bottiglia, poi afferrò delle cosce di pollo avanzate e fredde e le divorò sputacchiandone le ossa. Mangiò anche se all’inizio le sembrava di esagerare e non voleva farlo, il suo stomaco non poteva reggere tanto cibo perché si era raggrinzito tutto.
Abbandonò il contenitore sul pavimento e le sembrò di stare un po’ meglio.
Si sentì quasi libera, Rosa, e decise che se aveva violato quella regola allora poteva asfaltarne anche qualcun’altra. Venne distratta, tuttavia, da una lettera sul tavolo di legno. La sollevò con le dita unticce e scarne, posò lo sguardo su quelle parole e fu difficile metterle a fuoco.
AIUTO
Erano solo cinque lettere, ma le misero addosso un’ansia aberrante.
Tremò, Rosa, e un’altra cosa che fece fu scivolare nello studio di Paolo, rovistare con i documenti sparsi sulla sua scrivania. Cercò il resoconto dei suoi progressi, la sua cartella clinica – perché era così che lui la chiamava, quella.
Erano tanti fogli, tanti numeri, tante date e calorie assunte quasi nulle, cifre insignificanti, basse e inutili.
Lo sguardo le cadde sul numero e sulle parole affiancate al suo nome.
Rosa – terzo fiore.
Sbatté le palpebre più volte, confusa, poi prese a rovistare fra i cassetti. Trovò altre cartelle identiche e le abbandonò sulla scrivania. Prese a sfogliarle. Prese a vedere le calorie che scendevano. Constatò che erano due.
Margherita – secondo fiore.
Viola – primo fiore.

Confrontò le date, vide che quelle cartelle erano in ordine, che si distanziavano di uno o due anni l’una dall’altra. Non riuscì a fare grandi calcoli, era scossa, ma sfogliandole velocemente capì che erano piuttosto simili alla sua maledetta cartella.
Capì che era solo una delle tante stupide sprofondate in un incubo troppo reale, la letale tela di un ragno.
Aveva esaurito le lacrime, Rosa, e quella situazione non le stava creando tristezza e bisogno di piangere. Era più un deleterio terrore, una paura fottuta e un cambiamento drastico della figura che Paolo era stato, per lei, in quel dannato anno.
Rovistò anche nei cassetti, sebbene non le servissero altre conferme. Aveva capito tutto, o almeno ne fu convinta, fino a quando non trovò le polaroid. Le stesse che erano appese ovunque, in quella schifosa stanza che puzzava di marcio e disturbi alimentari, di corpi decomposti. Su ognuna di esse c’era scritto il nome di una delle ragazze, dei fiori secchi e appassiti, ma le sembrò che tutto prendesse una brutta piega quando capì che in tutte quelle foto c’era lei, lei soltanto.
E quindi chi era, Paolo?
Rosa non lo sapeva, e allora lasciò cadere le polaroid, l’ennesimo indizio trovato e inutile. Si guardò intorno senza vedere niente, la mente occupata a ronzare all’infinito.

Viola, delirando, si era convinta di essere dimagrita.
Margherita si era sdoppiata e si era convinta di aver perso peso fino a quasi morire con le ossa di fuori, senza più muscoli e pelle.
Rosa era stata l’ultima personalità occupata a convincersi di essere sulla strada giusta. Era stata l’ultima e aveva funzionato, aveva perso peso sul serio.
Si era torturata da sola per tutto quel tempo, toccando porzioni di cibo microscopiche fino ad avere lo stomaco raggrinzito, rimpicciolito quasi quanto una stupida e venosa noce.
E Paolo, a conti fatti, non era nient’altro che la malattia. Il riflesso di ciò che la divorava dall’interno, l’ennesima personalità occupata a tentare di farla appassire come un fiore secco. Un disturbo vestito da carnefice.

Chi era Viola?
Da piccola collezionava fiori secchi.


 

Mi mancava questa sezione, non riesco proprio a starci troppo lontana. lol
Lo so, non è molto horror, non è tendente allo splatter come al solito. Questa storia è venuta su piuttosto diversa da come la immaginavo. 
Questa volta ci ho impiegato un bel po' per scrivere questo racconto, mi ha preso parecchio tempo e nemmeno ora mi sento pienamente soddisfatta del risultato. Non saprei giudicarlo, quindi, lascio a voi la parola e vi ringrazio per essere arrivati fino a qui. :)
 

 

   
 
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