Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Lady Mnemosyne    13/05/2019    2 recensioni
– E va bene – si arrese – Monica mi ha lasciata […] Dice di aver trovato il suo vero amore e che io non la faccio sentire come la fa sentire lui. –
Così tu cerchi di raccogliere i pezzi e rimetterli insieme, ma forse non è il caso di riprovarci di nuovo, forse è meglio lasciar perdere, è più sicuro. Ma mentre tu cerchi di chiudere tutto in un forziere ventimila leghe sotto i mari, una dolce sirena, che ti incanta con quella stessa musica che tu ti vanti di saper cantare così bene, ti si fa vicina e ti distrae, è sul punto di farti cambiare idea…
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

1. Cadillac Life


Si svegliò di soprassalto, strappata a forza dalle tiepide braccia di Morfeo da un fracasso di vetro che va in frantumi, di modo tale che si ritrovò seduta senza neanche accorgersene. Indirizzò intorno gli occhi innaturalmente mobili, finché non chinò la testa e distinse al suo fianco i cocci di quella che poco prima era una bottiglia.
“Oh” pensò apatica, ancora troppo assonnata per provare una qualsivoglia sfumatura di emozione “Devo essermi addormentata con la bottiglia in mano, di nuovo…”
Distolse lo sguardo e si stropicciò gli occhi, nella vana speranza di dissipare l’annebbiamento post-sbronza. Poteva sentire il rombare sordo delle auto e, in lontananza, i fischi dei treni che salutavano la stazione: la città era già sveglia.
Guardò stancamente il grande orologio appeso alla parete, proprio di fronte a lei: “Giusto il tempo di farmi una doccia e uscire” constatò. Così buttò giù di peso le gambe dal divano, evitando accuratamente i vetri, e con un possente sforzo di volontà si tirò in piedi, stiracchiandosi leggermente.
Gustò goccia a goccia il caffè prima di uscire, affacciata ad una delle grandi vetrate a guardare il cielo schiarirsi piano piano, arrancare dal nero violaceo della notte deturpata dalle luci della città al grigio-bianco del giorno. Appoggiata la tazzina sul primo piano orizzontale che le si presentò davanti, afferrò le chiavi e uscì.
Camminava con il suo passo strano, veloce ma a grandi falcate (a dispetto della statura non così elevata), le mani spinte in fondo alle tasche e la mente libera, perché quella strada l’aveva percorsa talmente tante volte che le gambe non avevano bisogno di una guida. Appoggiava pigramente lo sguardo qui e là, beata di non aver alcun pensiero che le passasse per la testa: sull’insegna spenta di un albergo, sulle placche dorate dei citofoni in una vetrina, su una foglia che rotolava a scatti sul marciapiede di fronte a lei. Si godeva quei primi beati minuti di veglia, quando ancora non hai parlato con nessuno, non hai avuto un contatto diretto con un’altra persona (escluso forse il riflesso che ha restituito lo specchio), quindi, per quanto ne sai, potrebbe tranquillamente essere ancora tutto un sogno e questo basta come pretesto per tutelare per qualche altro minuto la mente dalle mille preoccupazioni e problemi della veglia. Ascoltava ripetersi nella sua mente la canzone con cui quella mattina si era svegliata, accompagnandola ogni tanto con un leggero fischiettio, che a tratti faceva voltare con aria perplessa qualche passante estremamente di fretta avvolto nel proprio elegante cappotto. Lei neppure se ne accorgeva, racchiusa nella sua effimera bolla di spensieratezza, e procedeva imperturbabile.
Salì saltellando i gradini del grande scalone dell’Accademia e accarezzò di uno sguardo ammirato le statue che campeggiavano in cima ai corrimani, poi svicolò in uno dei corridoi e sparì in una porta. Si trattava di una di quelle aule con i banchi a spalti e i gradini troppo alti per riuscire a salirli senza sembrare un tacchino e scenderli senza far rimbombare ogni cosa. Da uno dei banchi centrali una ragazza si sbracciava per farsi notare; quando lei la riconobbe, dopo aver rallentato il passo per guardarsi intorno, si avviò nella sua direzione scalando i gradini. Una volta raggiuntala, si abbandonò stancamente nel posto al suo fianco: – Buongiorno – disse senza troppa convinzione.
– Beh, non si direbbe poi tanto – udì rispondere dalla voce squillante di Anita.
–Shh, non parlare – ribatté lei con la testa reclinata indietro e gli occhi chiusi, corrugando appena le sopracciglia.
– Ti sei ubriacata di nuovo, non è vero? – insistette.
– Se dico di sì mi picchi? – domandò con voce strascicata.
Una cannonata le colpì il braccio all’improvviso.
– Ehi! Non ho mica detto di sì! – protestò prendendosi il braccio con la sinistra.
– Perché secondo te ho bisogno che tu mi risponda per accorgermene?! –
I suoi occhi castano scuro venati di ambra la fissavano con aria ancora più arrabbiata ed eloquente del suo tono di voce. La guardò per qualche secondo poi tornò a chiudere gli occhi.
– Non ignorarmi così, per la miseria! Sono preoccupata davvero. – tornò alla carica.
Sollevò di nuovo la testa e si voltò: i suoi occhi avevano perso la furia di prima e la fissavano tremuli di apprensione, mentre i lunghi capelli color ebano le incorniciavano il viso in morbide onde. Sospirò, distogliendo lo sguardo:
– Non guardarmi con quella faccia: sto bene. – disse con il tono più convincente che aveva, ma non funzionò, perché ora Anita la fissava attraverso due fessure dardeggianti.
– Bugiarda – sputò come un serpente velenoso; Lei alzò gli occhi al cielo – e il problema – continuò – è che non lo vuoi ammettere e tanto meno ti vuoi fare aiutare. –
– Sai meglio di me che non potresti affatto aiutarmi. – ribatté Lei seccamente
– Magari invece sì. – tacque qualche secondo, in attesa.
– Senti – disse tornando a guardarla – ce la faccio, sto bene. Quando mi andrà di parlarne, ne parleremo, d’accordo? –
Anita la fissava con un’espressione a metà tra il broncio e il dispiacere, osservando preoccupata le occhiaie violette che si facevano sempre più grandi sul suo viso pallido e gli occhi spenti della loro solita fiamma. Poi si voltò con uno scatto:
– Ti stai consumando – disse seria – e prima o poi, se non stai attenta, resterà soltanto uno stoppino bruciacchiato. –
Lei ridacchiò: – Oh suvvia! Non ho intenzione di ridurmi a tanto. –
La bolla di ignara beatitudine scoppiò con un’impercettibile schiocco e dopo pochi secondi l’arrivo del professore fornì un’ulteriore conferma del fatto che la giornata era iniziata davvero. Così Lei si ricompose un minimo sulla sedia, se non altro per rispetto del docente: “Si ricomincia”, sospirò. mentre gli incubi si riaffollavano sul suo cuore.

Una volta terminate le lezioni e ricevute le ribadite minacce di Anita a proposito del suo comportamento, si lasciò confondere nella massa caotica di studenti che riempiva i corridoi, come se, mischiata lì in mezzo, ci fosse la speranza che qualcuno si portasse via i suoi problemi impigliati nella cerniera dello zaino o la possibilità di vederne di più gravi, così da riuscire a guardare i propri un po’ più serenamente. A questo pensiero un sorriso amaro le solcò il viso: sarà possibile che l’unico modo per trovare un po’ di pace è guardare chi sta peggio? Poi noi saremmo esseri umani!
Si avviò per le vie della città, tra comitive di amici in chiacchiere e coppiette abbracciate, scansando le persone né più né meno come ostacoli di uno slalom. Si guardava in giro per osservare le espressioni nei volti dei passanti, continuamente delusa nel ripetersi monotono della stessa vacua apatia.
“Chissà se anche io ho questo aspetto” le capitò di domandarsi. Poteva vantare davvero pochi reperti di valore quando giunse a destinazione, al garage dove il gruppo in cui cantava si riuniva per provare. Già si sentivano degli accenni di musica provenire da dietro la saracinesca. Venne ad aprirle Federico, rigorosamente in maniche corte: – Ciao! – La accolse sorridente.
– Ciao Fede! – ricambiò, a sua volta sorridendo dell’allegria riflessa dell’amico.
Il garage era delle dimensioni ideali per loro e, dal momento che a nessuno serviva come rimessa auto, avevano potuto sistemarlo a loro piacimento. Poster dei cantanti preferiti coprivano la orribile vernice verde pallido dei muri, rendendo quasi sopportabili gli stralci di colore che ancora si intravedevano qui e là. Lungo una delle pareti avevano sistemato un divano e una vecchia poltrona e, dall’altro lato, una scaffalatura in ferro zeppa degli oggetti più vari, da spartiti, cuffie e CD a bottiglie di birra e buste di patatine fritte.
– Ciao ragazzi! – salutò lei entrando, rivolta agli altri due membri del gruppo.
– Sempre in orario, eh? – la punzecchiò subito Davide, già con la chitarra al collo.
– Una star si fa sempre attendere. – fu la risposta.
– Eeeh! viva la modestia!– insistette ridendo.
– Ancora non hai capito che ha sempre la risposta pronta? – si aggiunse Enrico, che stava accordando il basso.
– È che spera sempre di averla vinta, illuso! – rispose lei al suo posto, mentre sistemava la giacca di pelle sull’appendiabiti di fianco alla porta. Enrico sorrise.
Verrà un giorno in cui non riuscirai a ribattere: le risposte ti finiranno prima o poi! – continuò Davide.
– Aspetta e spera mio caro. – concluse con aria di sfida.
– Bene – si intromise Federico con fare deciso – ora che avete avuto la vostra schermaglia di rito, non è che possiamo provare? –
Ristabilito un minimo di serietà, tutti presero il proprio posto velocemente.
– Da cosa partiamo? – chiese lei mentre sistemava l’asta del microfono.
– La prossima serata è quella su Graziani, quindi partirei da lì. – rispose.
– La scaletta chi ce l’ha? – chiese Davide.
Federico si alzò dalla batteria per recuperare un foglio dallo scaffale.
– Bene, allora cominciamo. – disse lei.
Fu come immergersi in un lago di acqua limpidissima e fresca: non appena iniziò a cantare, dimenticò ogni cosa su di sé e sulla propria storia, esisteva solo la sua voce. Riusciva a percepire la musica in ogni fibra del corpo, come se avesse preso il posto del sangue nelle vene e circolasse liberamente in lei, dandole forza e nutrimento. Avvolta nell’armonia melodiosa dei suoi compagni, viveva ogni nota come se tutte le canzoni la riguardassero da vicino, il che rendeva le sue esecuzioni estremamente coinvolgenti.
Andarono avanti a provare un per un paio d’ore, fermandosi dopo ogni brano per confrontarsi sulla riuscita più o meno efficace e su eventuali possibilità alternative. Quando alla musica degli strumenti cominciò ad unirsi il concertare di protesta degli stomaci, pensarono bene di sospendere il tutto.
– Beh, mi sembra siamo andati bene, no? – disse Davide sfilandosi la chitarra. Tutti confermarono convinti.
– Quindi ci vediamo direttamente là venerdì sera o proviamo anche domani? – chiese Federico.
– Per me possiamo tranquillamente trovarci direttamente venerdì – rispose lei dal divano, su cui si era lasciata cadere a prova finita.
– Anche per me, tanto è andato tutto bene – si accodò Enrico.
– Bene, allora io andrei, prima di diventare cannibale – disse Davide infilandosi il cappotto – Vai verso il centro? – chiese poi a Enrico.
– Sì, vuoi un passaggio? – rispose mentre chiudeva la custodia del basso.
– Se non ti dispiace, mi farebbe comodo. –
– Che fai, prendi in giro? La star ha bisogno di un passaggio? – chiese con evidente ironia.
– No grazie, tra poco arriva la mia limousine. – rispose lei con sguardo di superiorità.
– Te l’ho detto che ha sempre la risposta pronta! – esclamò Enrico di fronte ad un incredulo Davide dandogli una pacca sul braccio, dopo di che uscirono salutando.
Lei si rialzò stiracchiandosi e fece per avviarsi all’attaccapanni e prendere la giacca.
– Dove credi di andare? – la bloccò la voce perentoria di Federico alle sue spalle.
– A casa?– rispose lei perplessa voltandosi e incrociando uno sguardo preoccupantemente indagatore – No, vero? –
– No, infatti. – confermò deciso mentre arrotolava i cavi degli amplificatori senza smettere di fissarla.
– Come non detto – disse alzando le mani – Con quali accuse mi trattenete, vostro onore? –
Un’ombra di sorriso sfiorò appena il volto del ragazzo, ancora serissimo:
– Da quant’è che non fai un pasto decente?–
Lei esplose in una squillante risata: – Sai che non devi chiedermi queste cose! –
– Immaginavo – disse riponendo gli ultimi strumenti nello scaffale – Vieni dai, ho comprato una fiorentina che è la fine del mondo. –
– Se la metti così, volo! – lo seguì afferrando la giacca.
Federico era sempre stato un appassionato di cucina, già da prima che i cuochi invadessero la televisione con ogni sorta di programma possibile. Così, indossato il suo grembiule con tanto di scritta Le chef c'est moi, si mise subito all’opera, mentre Lei lo guardava con un misto di curiosità e ammirazione: l’agilità e la disinvoltura con cui si muoveva restavano un mistero per lei. Lo osservava così attentamente che lui chiese: – Ma davvero ti piace guardarmi cucinare? –
– È che mi fa strano che possa appassionare tanto. –
– Beh – rispose lui da dentro un armadio, mentre recuperava la piastra per la carne – il mondo è bello perché è vario, no? –
– Sì sì, sono la prima a dirlo. Comunque io e la cucina siamo due linee parallele destinate a non incontrarsi – concluse incrociando le braccia.
– Su questo non c’è dubbio! – rise.
– Grazie della sincerità! – disse dandogli una gomitata.
– Gli amici hanno l’obbligo morale di essere sinceri, se no che amici sarebbero? Apparecchia la tavola, va’, che qui ci vuole un attimo. –
Anche in quella circostanza Federico non si smentì e preparò una fiorentina strepitosa, che accompagnarono con una bella bottiglia di vino rosso e qualche sana risata, come era loro abitudine.
– Era vergognosamente magnifica, stasera ti sei superato – sentenziò Lei a fine cena.
– Sì, ma non sono ancora soddisfatto del tutto – rispose il cuoco sorseggiando il vino.
– Vabbé, non sei mica Dio! – esclamò versandosi da bere.
– Non venirmi a dire che tu con i tuoi quadri sei meno maniaca! – ribatté lui.
Touchet – si arrese. Prese a far roteare il vino nel bicchiere, fino a lambirne pericolosamente l’orlo, e il momento temuto e presagito per tutto il tempo arrivò inaspettato come un fulmine a ciel sereno.
– Cosa c’è che non va? – La sua voce suonò estremamente morbida, quasi timida, come se già chiedesse scusa per ciò che stava chiedendo di dire. Vide passare negli occhi spenti della ragazza un lampo di dolore.
– È così evidente? – si limitò a chiedere dopo un breve silenzio, continuando a roteare il bicchiere.
– Da quant’è che ci conosciamo? – la incalzò. Lei sospirò: – E io che mi illudevo di riuscire a nasconderlo! – Sollevò il bicchiere e lo svuotò d’un fiato.
– Forse sarai riuscita a imbrogliare gli altri, ma con me non puoi farcela – riprese con il tono dolce di poco prima. Lei prese a giocherellare con il bicchiere vuoto, senza alzare gli occhi, rigirandolo tra le lunghe dita.
– Ti va di parlarne? – provò a insistere, piegando un po’ la testa di lato per incrociare il suo sguardo, che lei non gli concesse.
– Perché, accetteresti un no? –
Federico rimase un attimo interdetto e risollevò la testa, poi rispose: – Veramente no, ma non posso neanche costringerti. –
Per qualche momento il silenzio fu riempito solo dal leggero ticchettio dell’orologio appeso di fianco alla finestra, finché Lei non prese un gran respiro: – E va bene – si arrese – Monica mi ha lasciata – sospirò alzando finalmente il viso.
Federico sgranò gli occhi e le sue labbra si schiusero incredule: – Come Monica ti ha lasciata?! – ripeté meccanicamente, incapace di elaborare la cosa. Lei annuì con un sorriso amaro: – E non sembra neanche le sia stato tanto difficile. –
Il ragazzo sbatteva gli occhi cercando di trovare il filo logico della cosa, completamente spiazzato: – Ma non ha senso! – esclamò indignato; lei rise.
– E perché ti ha lasciata?! –
– Se te lo dico non ci credi – rispose di nuovo a occhi bassi, mentre riempiva il bicchiere.
– Veramente mi sembra già incredibile così – considerò esasperato – cosa può esserci di peggio?! –
Bevve qualche sorso di vino, poi rispose: – Dice di aver trovato il suo vero amore e che io non la faccio sentire come la fa sentire lui. –
Federico tornò a sgranare gli occhi: – Lui?! – quasi gridò. – … Sono senza parole – esclamò scuotendo la testa. Lei sorrise: – Non sei l’unico. –
Non poté fare altro che guardarla, guardare i suoi occhi colmi di amarezza finché non li abbassò di nuovo e tornò a passarsi il bicchiere vuoto tra le mani. Cercava disperatamente qualcosa da dire, da fare, anche solo da pensare, nello stallo completo in cui si era inceppato il suo cervello, che si rifiutava di rispondere alle sue richieste. Così disse la prima cosa che riuscì a mettere insieme:
– Sono mortificato, mi dispiace. – Lei scosse la testa: – Non perdere tempo a dispiacerti, tu cosa c’entri?–
– Mi dispiace comunque – ripeté ostinato.
Continuava a guardarla, aspettando che lei risollevasse gli occhi, che dicesse qualcosa, ma sembrava persa nei propri pensieri o esserne stata completamente privata. Solo dopo parecchio tempo alzò appena la testa e, davanti al volto sinceramente addolorato e preoccupato dell’amico, piegò le labbra in uno smorto sorriso, poi riabbassò lo sguardo e disse: – Avrei dovuto capirlo, ma ho preferito non vedere e far finta di nulla. – alzò le spalle. Federico allungò il braccio sul tavolo e le strinse la mano, Lei ricambiò debolmente la stretta.
Avrebbe voluto dire qualcos’altro, come “non è colpa tua, tu hai fatto del tuo meglio”, “è lei che non ha saputo apprezzarti” o “meriti di più”, ma si rese conto che nessuna di queste frasi l’avrebbe fatta sentire meglio, anzi, conoscendola si sarebbe solo irritata.
– Vorrei solo fare qualcosa per farti sentire meglio – disse continuando a tenerle la mano e questa volta fu lei a stringergliela: – Non puoi – rispose sorridendo – ma la fiorentina è già un buon aiuto. –
Riuscì a strappare un sorriso al ragazzo, che si alzò dalla sedia e le scompigliò i già arruffatissimi capelli ricci.
Passarono il resto della serata seduti sul divano di vimini del balcone, in compagnia delle poche stelle che la città con la sua luce risparmiava e di un’altra bottiglia di vino. Alle battute si alternavano i silenzi, ricamati dal rumore delle auto e dal vocio dei passanti, cui poi seguivano lunghi e concitati discorsi e perfino qualche risata.
– Sarà meglio che me ne vada e ti lasci dormire un po’ – considerò Lei ad un certo punto in un lampo di consapevolezza, alzandosi dal divano.
– Di’ la verità: te ne vai solo perché è finito il vino – ribatté Federico sollevando a fatica le membra intorpidite. Lei rise: – Non ti si può nascondere niente! –
Rientrarono in casa ridacchiando, un po’ per il vino e un po’ per le battute, poi Federico la accompagnò alla porta.
– Grazie di tutto – disse Lei già con la mano sulla maniglia.
– Ma figurati! Ci siamo fatti compagnia a vicenda. –
Le appoggiò una mano sulla spalla: – Se hai bisogno, per qualunque cosa, anche una scemenza, io ci sono – disse guardandola dritto negli occhi. Gli strinse il braccio, ricambiando lo sguardo: – Grazie. –
Allora Federico se la tirò vicino e la abbracciò, era così piccola tra le sue braccia. Lei si lasciò stringere e per un attimo si abbandonò completamente, fece cadere tutte le difese e i muri e lasciò che qualcun altro si prendesse cura di lei.
– Grazie – sussurrò quando si separarono.
– Sono qui apposta – rispose lui con un sorriso, uno dei suoi, che illuminavano sempre tutto con una semplicità disarmante.
La guardò trotterellare in silenzio giù per le scale finché non sparì, poi richiuse piano la porta e, finalmente solo, liberò il dispiacere e lo sconforto in un triste sospiro.
La sua mente era completamente vuota mentre camminava per la città deserta con il pilota automatico inserito, cercando di tenersi stretta quel sottile velo di tepore in cui Federico l’aveva avvolta. Così procedeva rannicchiata in se stessa e a testa bassa, senza vedere nulla intorno a sé. Giunta a casa, lanciò la giacca sull’attaccapanni e, passandogli davanti, salutò il pianoforte con una leggera carezza. Notò di avervi lasciata appoggiata la tazzina del caffè, che venne subito ricongiunta al resto delle stoviglie in attesa di lavaggio che occupava il lavello. Attraversò la stanza in direzione del bagno, posando uno sguardo svogliato sui vetri della bottiglia (di cui si sarebbe occupata domani), dopo di che si lasciò cadere sul letto. Con le mani dietro la testa fissava il soffitto e pensava a Federico, al tempo appena trascorso insieme: era riuscito a farla sentire bene, a sottrarla per un attimo a tutte le sue preoccupazioni e alla tristezza, che da giorni le assediava il cuore. Un tenue ma sincero sorriso le illuminò il viso nel buio.
“Grazie” fu il suo ultimo pensiero prima di cadere nell’abbraccio accogliente di Morfeo.




 
I wanna run away from every damn thing and just run…
Gasoline get me to a place I love and I promise that I’ll never look back
I wanna trade my Chevy for a Cadillac life and drive on and on,
crank that motor to a hundred and ten and then wave goodbye, I’m gone
I’m gone












N.d.a. Grazie a tutti i coraggiosi che non si sono fermati alla terza riga ma sono giunti fino a quaggiù :* Voglio solo spiegare che ogni capitolo e il racconto stesso portano il titolo di una canzone di LP, cui appartengono le righe che troverete alla fine (caso mai sarete così folli da continuare a leggere) ogni volta; questo perché, se sono giunta alle riflessioni che mi hanno poi portata a scrivere questo racconto lungo, è solo grazie a lei e alle sue canzoni, che quindi sono parte integrante della storia (e così colgo l’occasione per farle un po’ di pubblicità…). Io sono di parte perché la adoro, ma se avete tempo ascoltate qualcuna di queste anche voi, non ve ne pentirete :)
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Lady Mnemosyne