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Autore: Kat Logan    30/05/2019    3 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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I’m going under and this time I fear there’s no one to save me
This all or nothing really got a way of driving me crazy
I need somebody to heal
Somebody to know
Somebody to have
Somebody to hold


 
Someone You Loved – Lewis Capaldi
 
 
 
 
«Vuoi che te lo racconti nuovamente Michi?».
Usagi si agitò sul divano, rimirando i calzettoni da notte a stelline rosa che indossava. Stavano lì sopra da così tanto che avevano perso la cognizione del tempo e i cuscini si erano sagomati con le forme dei loro corpi.
Una volta riaccompagnata a casa da Haruka, Michiru, aveva aspettato Seya. Il quale sembrava essersi dissolto nel nulla. Poi era rientrata Usagi per riaccompagnare Hotaru dal loro pomeriggio al parco. Aveva un entusiasmo tale addosso e un sorriso più grande della faccia che Michiru non riuscì a far finta di nulla, finendo così per invitarla a rimanere nonostante l’umore sotto alle scarpe.
La cena era consistita in pizze troppo condite e vasetti di gelato ai gusti più disparati che in quel momento troneggiavano sul tappeto e il tavolino dinnanzi al divano incriminato.
Sembrava esplosa una bomba lì dentro, sintomo inequivocabile che qualcosa non andasse perché in un altro momento, Michiru, a veder ridotto in quel modo il suo salotto avrebbe ceduto a una vera e propria crisi di nervi.
 
Usagi aveva allietato la serata con il racconto del suo incontro con Mamoru, arricchendolo così tanto di particolari e fronzoli fantasiosi da allungare talmente tanto la storia da stancare persino Hotaru che, alle nove in punto, decise di sua spontanea volontà e senza alcun capriccio, di andarsi a lavare i denti ed infilarsi nel suo lettino.
 
L’ennesimo film drammatico veniva riprodotto sullo schermo LCD del televisore. Nemmeno quell’ultimo cucchiaino di gelato al cioccolato l’aveva aiutata a sciogliere quel nodo in gola che sembrava essersi cementificato lì, all’altezza della trachea.
«Ti rendi conto? Ho praticamente l’appuntamento in tasca. E pensavo…» il blaterale di Usagi era una cantilena ovattata. Ed ecco il punto del filmato in cui Ewan McGregor stringeva tra le braccia una Nicole Kidman ormai in fin di vita.
«Scrivi…racconta la nostra storia, promettilo, così io sarò sempre con te».
Michiru crollò con un rumoroso singhiozzo e il cucchiaino incastrato tra le labbra.
Usagi, presa alla sprovvista da una scena tanto anomala, sgranò gli occhi e fissò il contenitore vuoto del gelato.
«Vado a vedere se ce n’è dell’altro in freezer. Calma. Non piangere però!» si fece prendere dal panico per quella situazione surreale.
«Era l’ultimo!» mugolò Michiru con le lacrime che avevano preso a rigarle il bel viso.
«Ne vado a comprare? Il market aperto 24 ore su 24 non è tanto lontano» disse scattando sull’attenti la bionda. Se c’era una dota che Usagi riteneva di avere senza alcun dubbio era certamente quella di problem solving.
«Noooo». Michiru tentò di asciugarsi il viso con la manica del pigiama, fermandola con un gesto della mano simile a quello dei vigili che dirigono il traffico. «Ingrasseremooo» vaneggiò con la voce rotta al pianto e i singhiozzi.
Era un’ardua scelta quella per Usagi. Come doveva comportarsi? E Michiru si era commossa per la fine del gelato o il film? Forse era per il suo racconto su Mamoru? Bridget Jones come avrebbe reagito? Perché quella era una scena similare al film in tutto e per tutto.
In quel momento apparve con passo titubante, nella penombra del salotto, Hotaru.  Vestita di tutto punto e con lo zainetto sulle spalle.
«Amore, cosa ci fai alzata e vestita così?» domandò la madre tentando di darsi un contegno per poi abbassare il volume del film ormai arrivato ai titoli di coda.
«Mammina perché guardi quel film se ti fa piangere? E comunque…» aveva gli occhi di entrambe puntati addosso. «È ora di andare a scuola» chiarì a quelle che dovevano essere le due adulte responsabili presenti nella stanza.
«Ma…com’è possibile?» domandò confusa Michiru alla ricerca di un orologio, quasi non si trovasse in casa sua.
«Per dindirindina Michi!». Usagi fissò da prima la batteria quasi scarica del cellulare e poi l’orario sul display del suo dispositivo. «Abbiamo passato la notte alzate ad ingozzarci».
Fu solo un breve istante quello in cui parve preoccupata per il lasso di tempo trascorso perché poi il fuoco dell’entusiasmo le fece stringere i pugni verso il cielo con un salto euforico. «UN PIGIAMA PARTY DA PAURA!».
 
Hotaru dondolò sul posto. Mai un giorno sua madre si era dimenticata di prepararle la colazione o di darle un bacio sulla fronte per svegliarla. La situazione era stramba persino per lei.
«Posso prendere lo scuolabus…» tentò.
Michiru scattò in piedi, quella piccola creatura sembrava aver più sale in zucca e coscienziosità di tutte e due le maggiorenni presenti nella stanza.
«Certo che no tesoro. Ora la mamma ti porta» disse tirando su il naso per poi asciugarsi il viso alla bene e meglio. Usagi, per rendersi utile, le lanciò le chiavi della macchina.
«Su, andiamo. Non voglio tu faccia tardi».
«Uhm, Michi?».
«Bunny, riusciresti a dare una sistemata qui? Io l’accompagno e torno subito».
«Si, Michi. Certo, ma…».
Michiru la guardò senza capire perché l’altra la stesse trattenendo ancora.
«Stai uscendo con le pantofole e i pantaloni del pigiama».
La più grande abbassò lo sguardo sui due unicorni che bianchi che le ricoprivano i piedi.
«Sono belle pantofole però» suggerì innocentemente Hotaru.
«Sì, vanno anche di moda…» le diede manforte la bionda.
«Al diavolo. Sono fantastica!» esultò poco convinta Michiru per poi salire in auto.
 
Per la prima volta trovò liberatorio non essere del tutto in sé. Un po’ di leggerezza e disordine non avrebbe nuociuto a nessuno.
 
§§§
 
 
Rei bussò una volta ancora alla porta di Haruka. Solo dopo quell’incessante toc toc  fattosi sempre più alto e simile al rullo di un fastidioso tamburo la bionda si degnò di aprirle.
«Alla buon ora!» sbottò Rei sulla soglia fissando l’altra con i capelli arruffati dal sonno e la bocca spalancata in un tutt’altro che un elegante sbadiglio.
«Buongiorno anche a te» masticò Haruka, venendo malamente scostata dall’uscio per l’irruento entrate dell’amica in casa sua.
Caffè. Aveva assolutamente bisogno di una tazza enorme e bollente di caffè nero, o parlare sarebbe stato inutile.
«Sono le nove Haruka. Dì un po’, ti sei sballata ieri?» indagò con aria di rimprovero l’amica per poi dirigersi, come fosse casa sua, all’isola in cucina dove si trovava la macchinetta del caffè. Conosceva troppo bene l’altra e sapeva che senza quel magico liquido nero sarebbe stato come parlare ad un muro.
«Non è da te saltare il nostro appuntamento per la corsa. Cosa diavolo sta succedendo?». La incalzò ancora una volta per poi consegnarle la brodaglia color pece.
Haruka, per tutta risposta, sbatté le palpebre due volte. Aveva la vista ancora leggermente appannata.
Allungò letargicamente una mano verso il caffè americano per poi poggiarsi al piano in marmo e lucente. Quella cucina era come nuova, mai usata – tranne per la macchinetta – essendo totalmente disinteressata per all’arte culinaria. Se non fosse stato per i take away e gli aperitivi sarebbe certamente morta di fame nel giro di poco.
Rei attese che l’amica prendesse la sua prima lunga sorsata. Batté nervosamente due dita sull’isola per poi riprendere il suo discorso.
«Mina non è rientrata sta notte». Ora pareva una madre preoccupata.
Haruka scrollò le spalle col naso tuffato dentro la tazza.
«Taylor Swift avrà avuto una notte bollente» le lanciò un sorrisetto per poi spalancare le labbra e mugolare un “scotta scotta”, per poi buttarsi con la faccia sotto al lavandino alla ricerca di acqua per ristorare la lingua dalla botta di calore improvviso.
«Elegante come sempre» commentò la mora, controllando ancora una volta gli sms.
«Che vorresti dire?».
«Pensavo che frequentando certe persone fossi migliorata».
«tsk» uno schiocco di lingua. Lei non stava frequentando un bel nessuno. La situazione era fin troppo complicata da spiegare anche all’amica, perciò Haruka, com’era solita fare, preferì starsene sulle sue e dirottare la conversazione sull’altro argomento principe di quell’incursione in casa sua.
«Scherzi a parte non preoccuparti per Minako. Sa badare a sé stessa». Lo diceva lei, che ogni giorno vedeva le cose peggiori.
Rei, forse per quello le credette. «Sarà sicuramente col suo principe azzurro».
«Il capellone?».
La mora accennò un cenno del capo.
«Sta sera debuttano, sarà un fascio di nervi».
«Stai proponendo di andare?».
«Sto dicendo che andremo e la supporteremo».
Haruka mandò giù l’ultima boccata di caffè.
«Ok, basta dirlo».
 
 
§§§
 
 
Minako non aveva idea di quanto fosse durata la conversazione tra Yaten e il fratello.
Lei, ancora fra le nuvole per i baci del ragazzo, gli aveva ubbidito senza obbiettare ed era scesa sotto coperta. Ne aveva approfittato per farsi una doccia, asciugare alla bene e meglio l'intimo con il phon e poi si era ritrovata con le mani tra i panni di Yaten. Il profumo del ragazzo su quei vestiti era ovunque. Poteva chiudere gli occhi e sentirlo lì, accanto a lei, come la stringesse.
Con fare quasi circospetto, mordendosi il labbro inferiore e il cuore galoppante di emozione, Minako indossò una maglietta appartenente a lui. Ecco, ora poteva sentirlo addosso. E inebriata da quella sensazione vagò per la stanzetta. Scalza. Passando le dita sui tasti bianchi e neri del suo strumento, sfiorando i fogli pieni di annotazioni e melodie. Quello era decisamente il mondo di Yaten, ogni singola cosa lì dentro era un tassello di lui e lei si sentì privilegiata a poter spiare quel mondo.
Di sottofondo solo il lento scrosciare dell'acqua contro il molo. Era quella ninna nanna che lo cullava ogni notte? Un parlottare via via sempre più alto e acceso la strappò a quel pensiero. Dovevano star litigando. Minako ebbe l'istinto di salire e intervenire in qualche modo, ma se aveva capito una cosa di lui era che non era certo uno sprovveduto. Perciò temporeggiò ancora un po’ restando lì, in quell'angolo di quiete.
Sedette sulla cuccetta cominciando a canticchiare qualcosa. E prima che potesse dimenticare il tempo che stava battendo col piede e la melodia che timida le usciva dalle labbra agguantò un pezzo di carta per farsi un appunto. L'ispirazione era arrivata così, dal nulla. Un po' come aveva fatto lui nella sua vita tra gli schizzi delle onde e la tempesta di quel giorno.
Minako riempì di note un foglio e poi un altro ancora, sino a che non perse la cognizione del tempo cadendo nel sonno su quelle coperte e il suo profumo.
 
 
§§§
 
 
 
Seya non aveva concluso niente in fin dei conti.
Era andato dal fratello il giorno precedente, ma anziché aprirsi gli aveva scaricato addosso tutta la sua frustrazione, peggiorando quel rapporto già logoro da anni. Forse era quello il suo problema. Il non saper comunicare. Per lavoro era un ascoltatore, un rassicuratore, eppure tutto quel calarsi nella parole altrui non sembrava averlo aiutato nell’intento di aprirsi agli altri. Ne fu prova evidente il suo dissotterrare vecchi cadaveri che non facevano altro che minare la sicurezza di Yaten, anziché scusarsi con lui per i torti passati e la scarsa attenzione fraterna riservatogli. Avrebbe potuto ammettere la superficialità del padre nelle ricerche dopo la sua scomparsa e raccontargli di come le cose con Michiru stessero andando a rotoli, invece che vomitargli addosso ancora una volta colpe che sarebbero ormai dovute essere annegate nelle profondità del passato.
Di sicuro si era sfogato. Nel modo sbagliato e con la persona sbagliata, ma lo aveva fatto.
Al tramonto se n’era andato, o meglio era stato cacciato a male parole da Yaten e aveva passato la notte in un motel poco lontano dalla spiaggia.
Con gli stessi abiti del giorno precedente e la sua tipica camminata spedita e sicura, si era diretto al dipartimento per dare le dimissioni.
Bussò alla porta dell’ufficio del capo delle operazioni, ignorando gli sguardi di chi si aggirava per i corridoi, senza però ricevere risposta alcuna.
 
«Non è in ufficio» fu una voce alle sue spalle che conosceva sin troppo bene ad avvertirlo.
«È andata da Harris. Uhm, Dan».
Chi diavolo è Harris? Aggrottò le sopracciglia in cerca di una risposta sempre con lo sguardo verso volto la porta.
«Se ti stai chiedendo chi è, si tratta dell’artificiere che ha contribuito a salvare nostra figlia».
Michiru lo conosceva bene. Si trincerava dietro al silenzio quando doveva trovare in fretta una risposta nei meandri della memoria.
Seya non controbatté in alcun modo. Non era interessato ad approfondire la conversazione. Era stufo degli artificieri Californiani, o forse lo era della categoria in generale. Teste vuote colme di testosterone che giocavano a fare gli eroi con le bombe.
«Vorrà dire le parlerò più tardi».
«Dove sei stato questa notte?». Michiru non riuscì a frenare la lingua e la sua voce tremò leggermente.
«Se non sbaglio mi hai detto di non tornare a casa». Una stilettata gelida.
Michiru, colpita in pieno, faticò a ribattere.
Aveva ragione lui.
«Ero arrabbiata» cercò di giustificarsi.
Lui si voltò. La mascella tirata e un’espressione severa in volto.
«Non ho voglia di parlarne qui».
Avevano già dato fin troppo spettacolo e lei non aveva certo bisogno di altra cattiva pubblicità visti i recenti e turbolenti avvenimenti.
Lei lo seguì in silenzio nello studio, chiudendosi la porta alle spalle. Provò un certo disagio a stare in quella stanza, ma dovevano confrontarsi una volta per tutte senza interruzioni e possibilmente in modo civile.
Seya aprì di poco le imposte. Affondò le mani in tasca alla ricerca dell’accendino e di una sigaretta.
«Che cosa vuoi esattamente, Michiru?» domandò accendendo la cartina contenente il tabacco che scintillò con un leggero sfrigolio.
«Parlare».
«E arriveremo ad una conclusione questa volta?».
«Lo scopo sarebbe quello».
Lui fece uscire un filo di nebbiolina dalle labbra. Sapeva quanto lei odiasse l’odore della nicotina e aveva smesso di fumare in sua presenza solo per accontentarla.
«Te lo ripeto…» la voce roca da quella cattiva abitudine. «Cosa vuoi esattamente? Perché fino a che non risponderai sinceramente a questa domanda temo saremo fermi allo stesso punto».
Michiru mantenne la lucidità. Le pizzicavano gli occhi e quell’odore acre non faceva altro che farle tornare alla mente suo padre. Forse l’unico uomo che aveva odiato davvero.
Che cosa voglio? Se lo domandò sinceramente, cercando qualsiasi risposta che corrispondesse alla più pura verità. Rimanere incatenati in un limbo sarebbe stata un’inutile tortura per entrambi.
Erano stati una cosa sola per lungo tempo. Questo Michiru mai lo avrebbe rinnegato o dimenticato, ma quella simbiosi era terminata ormai da tempo.
Dalla nascita di Hotaru il loro perfetto equilibrio si era irrimediabilmente spezzato, poiché quel piccolo angelo non era stato un dono del cielo voluto da entrambi.
Michiru indagò nel profondo, scaravoltando senza pietà ogni singolo desiderio alla ricerca della più pura e semplice verità.  Fu con una certa dose d’incredulità che si ritrovò a capire di non sapere in realtà nulla di ciò che voleva realmente. Era come aver camminato per anni senza sosta e rendersi di colpo conto di aver smarrito la strada. Di non aver la più pallida idea di cosa si fosse rincorso per tutto il tempo. Forse aveva solo voluto costruire quello che non aveva mai avuto; un’ideale di famiglia perfetta e felice. Ed era stato solo un misero fallimento.
Ma Michiru non si sarebbe lasciata piegare da quella rovinosa caduta. Se il passato le aveva donato un insegnamento prezioso era stata la capacità di rialzarsi e lo avrebbe fatto. Era una tela bianca, ora. Pronta da imbrattare con i colori che la vita le avrebbe offerto.
«Sin da bambini siamo stati in simbiosi, una cosa unica. Forse, però, ci siamo sposati troppo giovani Seya. O forse siamo sempre destinati ad essere solo due binari paralleli che han finito per non incrociarsi più».
Lui sospirò pesantemente e lei continuò come un fiume in piena.
«Non lo so…» gli occhi poggiati su di lui e le mani dietro la schiena che si torturavano a ridosso della porta chiusa alle spalle. «Penso davvero che chiudere sia la cosa migliore. Non posso permettere che Hotaru ci vada ancora di mezzo. Non è questo che volevo».
«Già, nemmeno io» Seya la interruppe con un’ultima boccata di fumo.
Spense la sigaretta e compì un passo verso di lei.
«Anche io non volevo questo» precisò. «Credevo saremmo stati per sempre noi due». Fermo sulla sua posizione. Era stato quello l’inizio del problema. Non aveva mai ceduto di un centimetro per una terza persona nel loro rapporto, che si trattasse del frutto del loro amore o meno.
«Così non è stato».
«Lo hai deciso tu».
«Certo che l’ho deciso io. Era nel mio diritto, non credi?!». Michiru si accese come un petardo. L’istinto di protezione che solo una madre cova nel profondo era forte più di ogni cosa al mondo. Non le importava tenere un basso profilo se era di sua figlia che si parlava.
«Anche io avevo voce in capitolo. Ma tu non hai voluto sentire ragioni!» ringhiò quasi di rimando.
«Hai già sottolineato più volte il tuo dissenso per questo».
Seya si avvicinò ancora un po’ portando i palmi negli incavi dei gomiti di lei.
A Michiru parve altissimo. Più di quanto non lo fosse mai stato.
«Ora le cose potrebbero essere diverse».
«Non lo sono però. Sono così. E Seya…» lei si allontanò. «Io la mia decisione non la cambierei per nulla al mondo».
«Anche se significa distruggerci». Erano così distanti nelle idee che non avrebbero mai più trovato un territorio neutrale dove ricostruire il loro amore. Era finita. Lo si poteva avvertire nei loro toni di voce e negli sguardi.
Per Michiru non poteva più esistere un mondo senza Hotaru. E chi non poteva accettare quel suo bisogno primordiale di essere la madre di quella bambina, allora poteva sparire con le proprie idee altrove.
Allo stesso tempo, Seya, per la prima volta fece i conti con sé stesso e anche se non lo avrebbe ammesso mai davanti a lei comprese di non essersi impegnato abbastanza per rimediare ai danni che il loro rapporto aveva subito.
«Sembra proprio il nostro capolinea» disse amaramente.
Michiru riuscì solo a fare un cenno di assenso col capo. Non le andava più di discutere, non ne aveva la forza.
«Ti farò avere le carte che ti servono. Ma Michi…».
«Sì?».
«Promettimi di stare attenta».
«Lo farò».
 
 
§§§
 
 
Usagi, dopo aver diligentemente rassettato il caos della nottata nel salotto di Michiru, la vide parcheggiare per circa cinque minuti alla bene e meglio nel vialetto per poi sgattaiolare nella propria stanza a darsi una sistemata. Ci aveva messo circa un quarto d’ora, un tempo fin troppo ragionevole per una persona che teneva in maniera quasi maniacale al proprio aspetto e curava i look di alcune persone del mondo dello spettacolo.
Michiru le aveva farfugliato qualcosa sull’andare a prendere Hotaru all’uscita da scuola, lasciandole poi il suo compenso settimanale sul mobile accanto alla porta. Dopo di che era sfrecciata al dipartimento abbandonandola nel silenzio di quella casa vuota.  Ed erano proprio quei momenti di pace assoluta che la bionda partoriva le idee più bizzarre.
Usagi si stiracchiò, si tolse la tenuta che l’aveva tenuta comoda nella nottata appena trascorsa a casa dell’amica e spalancò l’armadio di Michiru.
«Bene, bene» sentenziò in mutande e calzettoni dinnanzi al guardaroba sistemato in maniera impeccabile per gradazione di colori.
«Che cosa indosserebbe la fidanzata perfetta?». Michiru non se ne avrebbe avuto a male. Era una persona altruista e quando Usagi necessitava di qualcosa non si era mai tirata indietro dal prestarglielo, nonostante vestissero stili distanti anni luce l’una dall’altra.
«Magari una camicetta…» tentennò, come una gazza ladra in preda al luccichio di una miriade di gioielli.
«Però pure comoda devo essere» ponderò, spostandosi verso la parte di guardaroba più sportivo.
«Ma a Mamoru che tipo di donna piacerà?».
Se solo avesse dato retta ad ogni singolo dubbio che le si affacciava alla mente non si sarebbe mossa di lì per giorni. Ma Bunny da un momento all’altro spegneva il cervello e agiva come le dicevano cuore e fantasia.
 
Così, con l’outfit degno della palestra più in delle star di Hollywood, inforcò la propria bicicletta pedalando verso il luogo di lavoro dell’amica.
 
 
§§§
 
 
Dan si stava assicurando di aver preso tutti i suoi effetti personali per svignarsela dall’ospedale col proprio borsone. Era intento a guardare sotto al lettino in metallo di non aver dimenticato niente che quando quella voce lo prese alla sprovvista per poco non batté la testa rischiando un ulteriore ed immediato ricovero.
«Come te la stai cavando Harris?».
Setsuna, con le braccia abbronzate dal sole californiano e gli occhiali da sole sistemati come un fermacapelli sul capo, lo fissò dalla soglia della stanza.
«C-capo Meiō». Harris boccheggiò più che sorpreso da quell’improvvisata.
«Proprio così. Vedo che la memoria non ne ha risentito».
Dan tirò un sorriso imbarazzato. Come doveva comportarsi con il proprio superiore in quel frangente? Una come Haruka se ne sarebbe infischiata dei gradi e della condotta da tenere al di fuori del lavoro, d’altro canto persino sul campo era indisciplinata, ma Haruka era semplicemente Haruka. Un’amish trapiantata in una città caotica e che, probabilmente, non si sarebbe mai adattata fin in fondo a quella che sarebbe stata una vita normale e delle dinamiche che comportava.
«Immagino avresti preferito che venisse quella testa calda di Ten’ō…» disse Setsuna passandosi fra i capelli una mano perfettamente smaltata.
Aveva cambiato colore per le sue unghie. Lui lo notava sempre. Una volta alla settimana, il capo delle operazioni aveva un colore differente addosso. Ora, al posto del borgogna, un ocra brillante le abbelliva la carnagione ambrata.
«Ho pensato fosse carino ridarti il benvenuto in squadra e riaccompagnarti sul campo di battaglia, sempre che tu sia realmente pronto. Ma forse ho peccato di presunzione».
Dan si rese conto di essersi imbambolato come un ebete così impiegò una ventina di secondi prima d’intervenire in quel discorso che fino a quel momento era stato a senso unico.
«Mi fa piacere» chiuse con la zip il proprio borsone per poi caricarselo sulla spalla destra. «È un gesto apprezzatissimo e di Ten’ō ne ho sempre una dose molto alta, perciò non rischio di sentirne la mancanza!».
Setsuna sembrò illuminarsi. Lui l’aveva adulata e lei si ritrovò a sorridere sinceramente per la frase.
«Sono contenta che tu stia bene. Davvero». Avrebbe dovuto forse dovuto partorire una frase più incisiva, una sorta di incoraggiamento ma l’idea di uno di quei sermoni che i capo uffici dispensavano ai propri dipendenti non le andava affatto. Era semplicemente lei. Non il capo delle operazioni, non la donna in carriera che si faceva strada senza paura in un mondo pieno di uomini, era semplicemente Setsuna.  
E anche se Dan non poteva saperlo, forse era proprio quel suo essere semplicemente lei, al di fuori della divisa, del suo ruolo di tutti i giorni, a far sì che la vedesse sotto una nuova luce.
«Vogliamo andare? Ho parcheggiato vicino all’uscita. Non sapevo se ti stancassi ancora molto in fretta o…».
«Non corro ancora a pieno ritmo, ma sono operativo» disse Dan gonfiando un po’ il petto fiero dei suoi risultati.
«Un vero eroe» sentenziò lei col sorriso sulle labbra, camminando al suo fianco sino all’ascensore.
«Però Harris…» si schiarì la voce, pigiando il tasto del loro piano per prenotare la loro corsa fino al piano terra. «Ti sarei grata se non facessi cose avventate. Capisco che nel vostro mestiere sia tutto un rischio. Sei stato fenomenale, per non dire eroico, ma…forse non dovrei dirlo come capo delle operazioni, ma mi sento in dovere di farlo come essere umano, un po’ meno eroismo e un po’ più di autoconservazione, ok? Non voglio rischiare di perdere nessuno di voi».
Dan ignorò il campanello dell’ascensore e l’aprirsi delle porte automatiche dinnanzi a loro.
«Capo Meiō…». Haruka l’avrebbe ammazzato di sicuro. Cosa diavolo gli saltava in testa? «Sarebbe avventato o inopportuno, se le chiedessi di…» fece una pausa. Si maledì mentalmente e si morse la lingua. Doveva mantenere quella sicurezza che l’aveva pervaso. Niente battutine o arrampicamenti sugli specchi. «…uscire? Sta sera». Rapido e conciso.
Setsuna entrò nella cabina. Strinse al ventre la propria borsa e lo guardò con fare serio.
«Questo. È davvero avventato e inopportuno, soldato». Premette il pulsante per il piano terra e Dan entrò con fare da cane bastonato.
Le porte si chiusero.
Setsuna guardò il panello luminoso sulle loro teste e incurvò le labbra in un sorriso.
«Tuttavia…». Dan la guardò e lei tuffò le iridi scure in quegli occhi buoni e onesti. «Sono felice di accettare il tuo invito».
Rinvigorito da quelle parole si drizzò con le spalle e si ritrovò di nuovo a testa alta e con lo sguardo fiero. «Non fare troppa pubblicità con i tuoi amici. Intesi?».
«Intesi, Capo Meiō».
 
 
§§§
 
 
La zazzera corvina e folta di Mamoru era reclinata su un volume di dimensioni piuttosto consistenti riguardante la guerra chimica, mentre un Haruka, visibilmente irrequieta, era appoggiata alla scrivania di qualche agente di cui non conosceva l’identità intenta nel divorarsi una mela rossa.
I centralini parevano impazziti ma nessuna emergenza sembrava dover richiedere il loro intervento e Haruka non sopportava l’idea di starsene chiusa lì dentro con le mani in mano. Diede l’ultimo morso alla sua merenda per poi lanciare il tuorlo del frutto, come una professionista della pallacanestro, nel cestino dei rifiuti presente a qualche metro da lei nella stanza. Nello stesso momento, Ray girava su se stesso, spaparanzato su una sedia da ufficio che emetteva un fastidioso cigolio e minacciava di soccombere da un momento all’altro sotto la sua stazza massiccia.
Haruka tamburello le dita sul tavolo, controllò l’orario sul display del cellulare, visualizzò i messaggi in arrivo, emise un finto colpo di tosse, cominciò a battere un piede e poi l’altro sul pavimento, si schiarì la voce e poi si stufò di dover attirare con ogni sotterfugio possibile l’attenzione dei presenti.
«Bruce» chiamò all’attenzione Mamoru che gli rispose con un disinteressato “mh?” e gli occhi piantati sulla carta inchiostrata.
«Hey Batman dico a te».
«Lo so» sospirò lui, per poi girare la pagina.
«Cosa leggi?».
«Armi e guerre chimiche».
«Sei un fanatico o roba del genere?».
Mamoru sospirò pesantemente, comprendendo di dover togliere l’attenzione dal trattato perché non sarebbe comunque stato in grado di capirci niente se lei avesse continuato a tormentarlo.
«Suona male dire che sono un fanatico. Diciamo che è un ripasso. Sono un esperto in armi chimiche ricordi? Te lo aveva detto Setsuna il giorno che ci siamo presentati».
«Non avevo prestato attenzione alla cosa» ammise Haruka. «Ero arrabbiata con te».
Lui tentò di riprendere la lettura, ma la voce della bionde lo interruppe prontamente a metà della prima frase.
«Ora cosa farai?».
«In che senso?».
«Dimettono Dan oggi».
«Il mio contratto qui è fino a Dicembre al momento. Se dovessero cambiare le cose farò quel che mi dicono di fare e cambierò i miei piani».
Haruka asserì in modo silenzioso per poi tornare a fissare porta.
I gemelli litigavano oltre la soglia piegati sotto al peso delle attrezzature da pulire e controllare appartenenti alla squadra della SWAT.
«Senti…».
Il ragazzo a quel punto chiuse sconsolato il libro. Ci avrebbe dato un’occhiata più tardi o magari a casa quella stessa sera.
Haruka stava per confessargli che non le creava più alcun problema averlo in squadra e che le dispiaceva essersi comportata da stronza. Ma qualcosa, o meglio qualcuno le impedì di continuare.
Era la voce squillante di Bunny che alla portineria stava intrattenendo l’agente che le aveva chiesto di indentificarsi.
 
«Allora glielo rispiego. Sono Usadi Tsukino, ma tutti mi chiamano Bunny. Ho organizzato lo stand dei baci alla festa sulla spiaggia. Se lo ricorda? E’ stato favoloso. Per forza che se lo ricorda! Comunque qui ci lavora la mia amica. Anzi due. Si perché anche Haruka ormai la posso considerare un’amica anche se lei si arrabbierebbe di sicuro se lo sapesse. Ma non sono qui nemmeno per lei io devo vedere Mamo-».
 
Dalla sua postazione Haruka non riusciva a carpire l’intero discorso di Usagi.
«Siete poi usciti?» chiese a bassa voce al collega.
«Non ho avuto tempo di badare alla mia vita amorosa».
«Balle!».
«Non è una balla, insomma lo vedi, siamo sempre qui a…»
«A NON FARE UN BEL NIENTE!» disse enfatica, alzando il tono di voce e le braccia al cielo. «Tu tentenni, mio caro Bruce. Hai solo bisogno di una spintarella. Ci penso io».
«No, Haruka. Che fai. Haru-». Non aveva fatto in tempo a fermarla che lei gli aveva già voltato le spalle e si era fiondata in portineria alla velocità della luce.
«Caro Jackie vuoi far passare questa donzella o no?». Haruka poggiò vigorosamente le mani sulle spalle del poveretto che aveva cercato di fare il suo lavoro sino a quel momento.
«Non mi chiamo Jackie sono Jackson…».
«HARUKA!» urlettò Bunny facendole un cenno di saluto con entrambe le mani.
«Biondina! Vieni. Non ti far fermare da questo bell’imbusto qui».
«Le serve il pass. Quello dei visitatori» provò a dire il giovane.
«Ma quale pass. Vediamo di risparmiare un po’ di carta. È la fidanzata di Chiba».
Le guance di Bunny si dipinsero di tutte le sfumature di rosso possibili e immaginabili. Le batteva il cuore all’impazzata.
«Beh, non ancora, insomma…».
«Ti avevo promesso un appuntamento e ho mantenuto la promessa no? Mi sento un po’ cupido…vieni. Vieni, è di là quel birbante».
Bunny si lasciò trascinare. Salutò con un sorriso i gemelli che smisero di litigare incuriositi dalla situazione anomala e cercò di apparire nuovamente sicura di sé per apparire al meglio agli occhi del suo futuro principe azzurro.
«Sei felice Haruka? Perché sei loquace oggi. Non ti ho mai sentita così parlantina. Si dice così no?».
La più grande non rispose, le diede solo una spintarella obbligandola così a varcare la soglia.
Mamoru era di nuovo con il naso sul libro, ma sapeva benissimo che questa volta non stava leggendo sul serio, quel codardo se la stava facendo sotto e avrebbe fatto il finto tonto quando lei si sarebbe presentata lì.
«Ehm, uhm, Mamoru? Ciao, ti disturbo?».
Haruka si domandò dove fosse finita tutta la vitalità di Usagi che all’improvviso pareva esser diventata un cumulo di timidezza.
Il ragazzo alzò il capo dal tomo, tentò un’espressione stupita ma fallì miseramente. La salutò con un cenno della mano e un sorriso.
 
«Ciao, Bunny. Mi pareva di aver sentito la tua voce…cosa ti porta qui?» la incalzò col suo modo delicato, quasi avesse paura di poterla rompere con le parole. Senza rendersi conto che forse tra i due era lui quello più fragile, quello che portava più cicatrici.
Lei parve rinvigorita dalla sua voce, tanto che quasi corse alla scrivania poggiò con vigore i palmi al piano cosparso di carte e carpette.
«Volevo il tuo permesso per una cosa» cominciò. «Hotaru e Chibiusa hanno legato subito. Lei si diverte con me, ma credo che le farebbe meglio frequentare una circacoetanea. Perciò, col tuo permesso, dopo aver preso da scuola Hotaru, mi piacerebbe poter andare a prendere anche Chibiusa e magari portarle al parco come ieri. Ammesso non ci sia Ami con lei o che…».
«Chi è Chibiusa?». Haruka era talmente confusa da aver esposto il suo dubbio amletico a pieni polmoni.
«La figlia di Mamoru» le rispose candidamente l’altra.
Haruka agguantò una sedia per lo schienale, la trascinò facendola stridere sul pavimento sino a loro due e vi sedette sopra al contrario con le braccia conserte contro il poggia schiena.
«Bruce sul serio? Non me lo avevi mai detto. Questa testabionda sa più cose di me. Dovresti rimediare. Noi siamo amici no? Vengo colta alla sprovvista così».
«Beh, non abbiamo avuto molto modo di parlare dell’argomento…».
«Non essere gelosa, sciocchina!» Usagi le schioccò un occhiolino per poi tornare a riporre tutta la sua attenzione sul moro.
«Non ci conosciamo molto, ma Michiru mi sembra una donna in gamba e una brava madre. Se lei ti ha dato fiducia per occuparsi di sua figlia, beh, credo allora che anche Chibiusa starà bene…».
Mamoru aveva lasciato la bambina soltanto ad Ami. Non era da lui cedere ad una sconosciuta il ricordo di Serenity più prezioso che possedeva. Era l’ultimo frammento di lei rimasto sulla terra, l’unico barlume della sua breve ed intesa vita che ancora poteva custodire.
Lui però aveva visto lo sguardo di Michiru e la tenacia che possedeva nei confronti della figlia. Poteva dunque fidarsi se una madre amorevole e protettiva come lei affidava il suo piccolo tesoro ad Usagi.
«Evviva!».
«Però, ti avverto. Chibiusa non ha un carattere facile con gli sconosciuti».
«Non sarà un problema! Diventerò la sua preferita. Puoi giurarci!».
Haruka schioccò la lingua, mentre Mamoru non poté trattenersi dal fare una risatina. Se lei fosse riuscita nell’impresa non si sarebbe davvero più potuto tirare indietro da un appuntamento. Una promessa è una promessa.
 
 
§§§
 
 
Un altro tramonto dipingeva il cielo di Malibù, ma quello non era solo un altro scivolone del sole sotto alla linea sottile dell’orizzonte. Poteva essere l’inizio di qualcosa di molto più grande.
Minako inspirò ed espirò a fondo. Fece il pieno di quell’aria intrisa di salsedine come dovesse stare in apnea per ore e quella fosse l’ultima boccata disponibile.
Aveva passato la giornata a provare con Yaten e nelle orecchie le risuonava insistente il ritornello di quella canzone. Eppure, paradossalmente, sentiva la testa vuota come in preda a qualche misteriosa amnesia.
«Tieni» la voce di Yaten spezzò il fischio della tensione che le parve di udire nell’aria. Lui, con la sua giacchetta di pelle e i jeans strappati, le stava porgendo un bicchierino di plastica con un liquido pallido dentro.
Era sempre una visione. Un tuffo al cuore ogni volta che se lo ritrovava davanti.
Minako tenne saldo il controllo per poi guardarlo interrogativa.
«Bevi» ordinò lui senza troppi giri di parole o particolare cortesia.
Quando si era svegliata lo aveva trovato accanto a lei e le aveva borbottato che il caffelatte si sarebbe raffreddato se non si fosse data una mossa. Si era domandata dove lui avesse dormito se lei aveva occupato il suo letto, ma non si era azzardata a chiedere. Yaten, dal canto suo, sembrava essersi resettato. Non avevano parlato di ciò che era successo prima dell’arrivo di Seya, né delle parole che le aveva sbattuto in faccia con la furia di un uragano una volta usciti dall’acqua. Si erano soltanto dedicati alla musica e al loro sogno. Eppure, lei riusciva sempre a scorgere un gesto gentile nei suoi confronti. Una premura, una carezza invisibile e silenziosa che le riservava per poi ritirarsi di nuovo sotto la sua coltre gelida.
Minako ubbidì. Portò alle labbra il bicchierino per poi rischiare di sputare tutto quanto addosso al compagno.
«MA CHE CAVOLO! Mi avveleni?!».
«Quante storie…».
«È orribile!».
«È acqua e limone. Hai la faccia di una che sta per vomitare» sentenziò lui.
«Ah, ti ringrazio…».
«Insomma, quella ti libera se proprio devi vomitare. Se no passa e basta» disse pacato.
«Sono solo nervosa». Ribadì la ragazza. Aveva le mani che le sudavano e sentiva le ginocchia tremare. Il cuore martellava come un invasato nel suo petto ma Minako non riusciva più a comprendere se fosse per l’ansia dello spettacolo o per colpa sua.
«Non ce n’è motivo. Hai superato l’ostacolo più grande».
Il neon del Moon bar emise uno sfarfallio argentato.
Quella sera c’era il pienone. D’altronde i Free Talent erano piuttosto amati dalle persone del luogo e avevano una corposa lista di partecipanti visto che potevano esibirsi dilettanti e non, con una semplice iscrizione.
Dopo un altro respiro profondo da parte di Minako, i due entrarono nel bar.
La luce era soffusa e una quindicina di tavolini tondi era ricoperta da una tovaglia bordò troneggiata da un’elegante lampada.
«Secondo te saranno già qui?».
«Chi?».
«Gli strambi della casa discografica».
«Per ora non li vedo» sentenziò guardandosi attorno.
Yaten era impassibile e se solo le avesse stretto la mano forse avrebbe contagiato anche lei con quella tranquillità che pareva contraddistinguerlo.
«C’è però qualcun altro che conosci» le disse toccandole una spalla.
Minako seguì la scia invisibile che il suo indice aveva disegnato nell’aria. Al tavolino più a destra del palco, in penombra, stavano prendendo posto Rei e Haruka.
La bionda non se lo fece ripetere due volte e trascinò Yaten dalle due amiche.
«Hey, Taylor Swift! ». Haruka accompagnò il saluto con un cenno della mano. «Badboy…».
«Yaten. Haruka, si chiama Yaten…» le ricordò Minako portandosi una mano alla fronte per quel caso perso che era la spilungona bionda.
«DOVE CAVOLO SEI STATA?!» Rei l’abbracciò come se non la vedesse da anni. Poi strinse un po’ di più le braccia attorno alle sue spalla.
«Mi stroz-zi» commentò Minako sentendosi stritolare in quella morsa.
L’amica le sibilò all’orecchio. «Certo che ti strozzo. Mi hai fatto prendere un colpo. Avvisa quando decidi di non tornare e fare le notti brave fuori di casa».
«Mi sono solo addormentata!».
«Ma come sei conciata?».
Minako si guardò. Si era dimenticata di aver ancora addosso la roba che Yaten le aveva prestato dopo il tuffo non programmato.
«Oh cacchio…mi sono dimenticata anche di passare da casa e…».
 
«E la tua amica mi ha chiamata in soccorso!» una voce sopraggiunse alle sue spalle. La ragazza e Yaten si voltarono in sincrono e nel loro campo visivo comparì Michiru con due paia di grucce e un beauty case voluminoso arpionato dall’altra mano.
La bocca larga di Usagi le aveva detto che Michiru vestiva le star di Hollywood nel tempo libero. E Haruka, temeraria, vista la situazione, le aveva chiesto un favore per supportare nell’unico modo che poteva l’amica.
«Andiamo nel dietro le quinte?» le chiese con un sorriso gentile Michiru.
Haruka mimò un grazie col labiale sopprimendo ogni sogno ad occhi aperti che bussò alla sua testa nell’istante in cui la vide.
 
Michiru e Minako si avviarono, mentre Yaten tentò di congedarsi prima di venire fermato dalla mano di Rei che lo trattenne per la spalla.
«Non voglio entrare nei vostri affari».
Il ragazzo si sentì gelare. Prima per il contatto fisico che evitava sempre, poi per le parole che sembravano preannunciare uno di quei discorsetti che somigliano tanto alle minacce dei padri che riservano agli spasimanti delle proprie figlie.
«E non ti conosco bene. Solo una cosa…». Yaten si scostò e la trapassò con lo sguardo. Lei sembrò ripensarci per un istante, non era abituata ai suoi modi di fare e si domandò cosa potesse trovarci in lui una persona così solare e alla mano come l’amica.
«Trattala bene».
«O ti facciamo passare dei guai» sorrise sorniona Haruka.
«Bene!». Rai unì le mani in preghiera con un sorriso smagliante. «Intanto vado a prendere da bere. Il primo giro lo offro io! Volete qualcosa?».
«Stordiscimi ti prego» rispose Haruka.
Yaten pensò fossero due psicopatiche. Certo che Mina ha gusti strani in fatto di amicizia. Ma per quanto strambe non poté fare a meno che apprezzarle. Loro si erano preoccupate sinceramente per una persona alla quale tenevano. E per quanto lui non si esprimesse aveva di certo compreso di quale gemma preziosa fosse Minako. Lui ci avrebbe provato. Avrebbe fatto del suo meglio per non ferirla, anche se non aveva idea di come si facesse. Da dove si cominciasse con quello che erano, con quello che non avevano definito. Loro gli avevano parlato come fosse il suo ragazzo o una cosa del genere, ma lui tremava al solo pensiero poiché Yaten, che appariva forte e sicuro come una fiera dallo sguardo e le parole taglienti, non era sicuro di sapere come ci si connettesse ad un altro essere umano. Esisteva un modo giusto per legarsi al dito mignolo anima e cuore di qualcuno? A lui nessuno lo aveva insegnato.
«ACCIDENTI!».
Yaten e Haruka si guardarono come fossero l’uno il riflesso dell’altro. Avevano gridato insieme la stessa cosa.
«Fai il pappagallo?» domandò Yaten con la fretta che gli aveva appena afferrato le caviglie.
«No. E’ che…quelli sono il mio capo e il mio migliore amico!».
 
Setsuna, il corpo fasciato da un tubino nero e una collanina brillante al collo era entrata sorridente al braccetto di Dan. Anche lui sembrava divertito. Aveva l’espressione che Haruka gli aveva visto in volto solo quando raccontava i suoi aneddoti spassosi al team degli artificieri. Quella che metteva su quando era sicuro di sé, tra amici.
Lui le scostò uno sgabello e la fece accomodare al bancone.
Haruka rimase imbambolata fino a che non sentì la voce di Yaten cupa e bassa come un incubo.
«Devo andare».
«Dove?!». La bionda parve farsi prendere dal panico. Che diavolo di situazione è questa?!
«Il più lontano possibile da lui».
 
Seya aveva appena varcato l’ingresso del locale.





Note dell'autrice:

Il prossimo capitolo comincerà proprio da qui. E onestamente...NON VEDO L'ORA di scriverlo! Mi dispiace per il pessimo tempismo, ma non ho avuto un singolo momento per scrivere perciò ci ho messo una vita. Spero di fare più velocemente con il prossimo.
La coppia improbabile Seya/Dan è spuntata fuori così a caso. Però mi piacciono cavolo. E 'mo che si fa?! Nel prossimo capitolo spero di far dare una mossa a tutti quanti. Questa zuppa si è allungata forse troppo. Si vede non mi piace correre, vero?
Spero ad ogni modo sia di vostro gradimento!
   
 
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