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Autore: Lost In Donbass    02/06/2019    0 recensioni
Un amore della durata di un'estate in Crimea. La promessa di non lasciarsi andare, irrimediabilmente infranta. Sono passati cinque anni da quei giorni e adesso sono diventati due giovani uomini bruciati dalla vita.
Yurij è ancora depresso, è ancora un suicida, sta ancora male.
Denis è perso dentro sè stesso, è troppo giovane e sbandato per ritrovarsi.
Il caso vuole che si incontrino di nuovo, a Londra. Ma l'affetto che Denis ancora prova per Yurij sarà in grado di salvare quell'amore sbocciato anni prima? Oppure sarà arrivato il momento di dirsi addio, e questa volta dirselo per sempre?
[Storia pubblicata come het ma ora aggiornata in versione slash]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO DUE: I STILL THINK ABOUT OUR MEMORIES

I put your picture in a frame that stands at the side of my bed
So whenever I get sad I can stare at your face
And hope and pray that I won’t forget
[Mayday Parade – Angels]
 
Sono depresso. Sono malato. Sono un suicida.
Sono Yurij Seriabkij e la mia vita, da quando  ho memoria, è sempre stata un disastro.
Sono queste le parole che mi vengono in mente mentre, stravaccato sul divano sporco, fumo una sigaretta e bevo un sorso di vodka dalla bottiglia, fissando il soffitto. Fuori piove, ma a Londra piove tutti i giorni e ormai ci ho fatto l’abitudine, completamente diversa dalla mia Barnaul, nella Siberia che mi sono lasciato alle spalle nella speranza di salvarmi da me stesso. Quando, cinque anni fa, ero scappato dalla Russia, avevo ancora un minimo di fiducia nel futuro – avevo pregato, sperato, di poter uscire dal mio inferno personale, avevo creduto ciecamente che trasferendomi in Europa sarei riuscito a cambiare, ma mi sbagliavo, perché ora sono qui, col mio studio fotografico e il mio appartamento lurido, bottiglie vuote in giro, pacchetti di sigarette, antidepressivi e ansiolitici dappertutto e la certezza di essere un uomo morto. Non volevo vivere così, non volevo che la mia depressione avesse la meglio ma l’ha avuta. Ha vinto. È come una guerra, e, come si sa, una guerra puoi vincerla o perderla. Io, ovviamente, la sto perdendo alla grande.
Mi passo una mano tra i capelli che avrebbero urgente bisogno di una lavata e mi baccendo un’altra sigaretta. Ho trentadue anni, niente figli, nessun uomo, amici distrutti quanto me, medicine, macchine fotografiche e i ricordi troppo brucianti dell’estate in Crimea di cinque anni fa.
Già, la Crimea.
E soprattutto, lui, Denis Shostakovich, l’amore della mia vita.
Sbatto la testa sul bracciolo del divano e soffoco un’imprecazione. Perché okay, saranno passati cinque fottutissimi anni ma io non posso fare altro che pensare a lui, in qualunque uomo che ho avuto ho sempre cercato sue tracce, mi perdo ancora a sognare i suoi occhi e il suo sorriso stupendo. Quello che abbiamo avuto durante quell’estate è qualcosa che non può essere rimpiazzato da nulla.
Me lo ricordo come fosse ieri, quel ragazzino di dieci anni meno di me, con i capelli scuri sparati dappertutto, le ciocche bionde come andavano di moda all’epoca, l’acne dilagante sulla schiena e sulla fronte come qualunque diciassettenne, gli occhi luccicanti di gioia, le stelline tatuate sul polso ossuto, il costume blu sempre addosso e la maglietta bucata dei Black Veil Brides. Ricordo tutto di lui, a partire dal suo forte accento ucraino, alla sua voce bellissima quando cantava qualche hit estiva, al suo modo di ridere gettando la testa all’indietro, ai suoi occhioni curiosi da cucciolo che vuole scoprire il mondo. Ma ricordo anche le lacrime a stento trattenute, i musi lunghi, la speranza dipinta in quel sorriso più luminoso del sole, i gemiti durante il sesso, le promesse strette sotto la luna, le risate spezzate e i sorrisi appena accennati. Per quei tre mesi, Denis era stato la mia vita. Lo avevo amato di un amore sincero e a me completamente sconosciuto, lo avevo idolatrato come un angelo sceso a salvarmi dalla mia depressione. I miei amici mi avevano trascinato in vacanza in Crimea per cercare di riprendermi dopo un goffo quanto azzardato tentativo di suicidio, e ricordo quanto fossi partito a malincuore da Barnaul, con un paio di bermuda coi fiori e le infradito rosse. Ma poi, appena sbarcato, mi ero ritrovato in spiaggia a suonare la chitarra, costretto da Ylja e da Kuzma, e lui si era avvicinato, con le guance arrossate e mi aveva detto che suonavo così bene. Avevo fatto Iris, quella dei Goo Goo Dolls solo per lui, quella sera, solo per quegli occhi del colore dell’ambra, solo per quel sorriso allegro.
Abbiamo avuto la storia più bella del mondo, io e Denis, perché in quei tre mesi mi ero convinto di aver trovato l’amore, di potermi salvare, di poter devolvere me stesso per lui. Eppure, anche l’estate era finita, e con lei eravamo finiti noi, erano finiti i baci sul collo, la Vjatka verdolina, il gelato con cui si sporcava il naso, i vari “amore” urlati dalla finestra. Ero tornato a Barnaul, e mi ero ripromesso che mi sarei tenuto in contatto. Poi, più nulla. Dopo quel 15 settembre di cinque anni fa, non seppi mai più niente di Denis. Potrebbe essere morto adesso, che io non lo saprei e questa cosa mi uccide giorno dopo giorno. Vorrei tanto rivederlo. Riabbracciarlo. Chiedergli “come stai”. Parlare di nuovo della Crimea. Risentire il suo odore, che non sarà sicuramente più di ormoni a palla e colonia scadente.
Schiaccio la sigaretta sul pavimento e mi alzo, inserendo nel dvdplayer uno dei vecchi filmini della Crimea. Kuzma, all’epoca, non si staccava mai dalla sua telecamera a mano ed era finita che mi ero fatto regalare tutte le sue registrazioni per risentire addosso l’estate più stupenda di sempre. Aspetto che parta, e quando vedo il familiare tremore della mano e la voce profonda di Kuzma scandire “Crimea, 12 luglio. Ragazzi, dove siete? Un sorriso per la telecamera” sorrido, ripensando a quei tempi andati. Si vede Anastasija in costume da bagno che ride, con i suoi capelli neri e rossi, insieme a Dana e le sue orribili vestaglie arancioni. Si inquadra Ylja che beve vodka dalla bottiglia e ride, con la sua risata alto tenorile che faceva tremare i vetri. Si passa a vedere Asel, che gioca a qualche solitario, le collane apotropaiche sul petto nudo. Poi, ecco me e Denis, abbracciati, che ridiamo di qualche scherzo che non ricorderò mai. Io avevo i capelli più corti, e brutte camicie hawaiane, lui quelle ciocche bionde imbarazzanti e i suoi costumi troppo grandi. Sorrido da solo, quando la registrazione va avanti. A un certo punto prendo io in mano la telecamera per inquadrare anche Kuzma, con i suoi capelli biondissimi e la cicatrice sul collo. E poi le risate, le battutacce, i racconti, gli spintoni. E poi il mare, il gelato, la musica nelle casse. E poi Denis sulle mie spalle che canta a squarciagola quella canzone di Mari Kraimbrery che andava tanto di moda. E poi noi che ce ne andiamo sulla Vjatka scassata. E la voce dolce di Asel, e gli scherzi di Anastasija, e l’affetto di Dana, e le risate di Ylja, e i commenti salaci di Kuzma, e la gioia di Denis. Tutto quello che, almeno per tre mesi, era riuscito a salvarmi dalla depressione più di quanto avessero fatto gli psicofarmaci.
Eppure, anche la Crimea mi aveva abbandonato, lasciandomi di nuovo solo, pronto a scappare lontano da una Russia che mi voleva morto e adesso sono qui, in Inghilterra, a barcamenarmi nel nulla assoluto che caratterizza da sempre la mia vita. Guardati, Yuroch’ka, e dimmi chi sei.
-Un fallito, Yura. Niente altro che un fallito.- mi dico a voce alta, bevendo un sorso di vodka.
A volte vorrei tanto che Denis fosse rimasto. Sia che io fossi rimasto in Ucraina con lui, sia che lui fosse venuto a Barnaul, sia che fossimo fuggiti nottetempo, vorrei che non se ne fosse mai andato. Magari adesso io starei bene. Magari non avrei più tentato il suicidio, magari non vivrei sotto medicinali, magari non farei preoccupare i miei amici. Saremmo già sposati, sicuramente, forse avremmo anche adottato uno o due bambini. Lui canterebbe nei locali il venerdì sera e io lo accompagnerei col piano e la chitarra. Poi faremmo di nuovo l’amore sotto le stelle, e lui verrebbe urlando il mio nome. Andremmo d’estate una settimana in Crimea e poi andremmo a trovare sua madre a Kharkiv. Ogni tanto, forse, passeremmo anche da Barnaul, giusto per vedere se Anastasija e Dana sono ancora vive. Avremmo una Vjatka verdolina come quella storica e ci andremmo in giro ridendo. Rideremmo delle nostre sventure a cena, tra un piatto di borsch e una fetta di carne scottata. Saremmo così tanto felici, io e Denis.
E invece no.
Sono solo.
Solo, abbandonato, lontano dalla Russia e dalla Crimea, con pochi soldi, costretto a suonare senza avere un cantante, appiedato e stanco di vivere questa vita orrenda. Non ne posso più di niente, sono così stufo.
Mi alzo, spegnendo la registrazione. La guardo ogni giorno, e ogni giorno piango un po’ quando risento la sua voce squillante. Spero che sia riuscito a scampare alla guerra civile ucraina. Spero che sia felice, dovunque sia. Spero che abbia un uomo che lo ami quanto lo amerei io. Spero che si ricordi ancora di me. Spero, semplicemente, per quel ragazzo che mi aveva rapito il cuore.
Mi affaccio alla finestra e guardo il triste cielo grigio di Londra. Non amo questa città, questo suo grigiore, questa sua tristezza metafisica, questo suo ricordarmi la maledetta Barnaul. Stavo male là, sto male qua, ma in Crimea ero stato bene, su quelle spiagge dorate, sulle rive del Mar Nero, tra le braccia di Denis.
Forse adesso potrei scendere e andare a vedere cosa si dice al pub, quello dove suono il piano per sentirmi meno solo. Forse ci saranno anche Kuzma, Ylja e Asel con cui dire le solite cose tristi.
Prendo la giacca e bacio la fotografia di me e Denis che ho poggiata in salotto.
Ti troverò un giorno, Denisoch’ka.
Saremo di nuovo insieme, tesoro adorato.
  
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