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Autore: Roscoe24    03/06/2019    9 recensioni
"Magnus si chiese se il fatto che nel giro di nemmeno un’ora, quella fosse la seconda volta che rimanevano incantati a fissarsi, potesse avere un significato. Forse poteva sperare. Ma in cosa?"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Magnus si stava sfilando gli scaldamuscoli, quando sentì il suo cellulare vibrare come un ossesso sul parquet della sua sala da ballo, ormai vuota. L’ultima lezione del pomeriggio, danza classica con un gruppo di adolescenti, era terminata e lui altro non desiderava che andare a casa di sua madre, recuperare Erin e tornare a casa propria per farsi una doccia lunghissima.
Il suo telefono non la vedeva così.
Raphael non la vedeva così.
“Pronto?”
Hermano, avrei bisogno di quel favore, ricordi?”
Magnus, seduto sul parquet, le gambe incrociate e gli scaldamuscoli abbassati alle caviglie, rispose: “Mi ricordo. E trovo curioso come io diventi un fratello, quando hai bisogno di me.”
“È un discorso serio, Magnus.” Raphael quasi sibilò.
“Dimmi solo se devo preoccuparmi.” Gli disse quindi, massaggiandosi una tempia per cercare di non lasciarsi andare a pensieri che finivano necessariamente con qualcuno all’ospedale. Quando Raphael assumeva quel tono così serio – più serio del suo solito – nel cervello di Magnus, inevitabilmente, scattava il meccanismo della preoccupazione.
“No, non proprio. Niente codice rosso, se è questo che intendi. Ma vorrei venissi al DuMort. Puoi?”
Magnus si alzò dal parquet e cominciò a dirigersi verso il suo ufficio, dove si sarebbe cambiato. “Venti minuti sono lì.”


Furono più di venti minuti, ma non dipese da Magnus. Aveva trovato traffico e per questo impiegò una buona mezz’ora ad arrivare al DuMort. Trovò parcheggio piuttosto vicino all’Hotel e lo reputò un aiuto divino, dal momento che il parcheggio dell’Hotel era solamente riservato ai clienti e, di conseguenza, ogni volta che Magnus passava a trovare Raphael in macchina, doveva girare per eoni prima di trovare parcheggio.
Sceso dall’auto, si diresse verso l’entrata dell’edificio. Raphael era alla reception e sembrava impaziente. Quando alzò lo sguardo e lo vide, Magnus ebbe l’impressione che l’amico dovette trattenersi dal corrergli in contro. E quello non lo aiutava certo ad evitare di preoccuparsi. Il viso di Raphael era teso in un modo diverso dal solito e Magnus di conseguenza trovava difficile non lasciarsi andare a delle preoccupazioni.
“Raph, che c’è?”
“Devo parlarti.”
Magnus si appoggiò al bancone della reception. “Ti ascolto.”
Raphael si guardò intorno, sebbene non ci fosse nessuno con loro e la hall fosse silenziosa. I clienti erano ancora nelle loro camere, dal momento che era lontana l’ora in cui veniva servita la cena.
“Si tratta di Rosa.”
Magnus avvertì la bocca dello stomaco stringersi. “Raphael, ti prego, smetti di essere così criptico perché mi sto decisamente preoccupando.”
Raphael rimase in silenzio, quasi trovasse difficoltoso far uscire le parole di bocca, come se gli si bloccassero in gola ogni volta che provava a formularle. Ma poi sospirò e le parole uscirono da sole. “Vorrei mi aiutassi a fare il discorso a mia sorella.”
Magnus rimase spiazzato un attimo da quella richiesta, non essendo pienamente sicuro di aver capito. “Il discorso?”
“Il discorso, Magnus!”
“Intendi quello delle api e dei fiori?”
Raphael lo guardò con una serietà mortale. “Proprio quello.”
Magnus sentì la preoccupazione sciamare via dal suo corpo e tirò un sospiro di sollievo. “E io che mi stavo immaginando chissà cosa!” Esclamò, più sereno. “Ma devo dirtelo, hermano, penso che a diciannove anni sia tardi per fare il discorsetto. O per supporre sia vergine. Avresti dovuto farglielo già a quattordici, se non altro perché fosse pienamente consapevole.”
“Speravo in mia madre, ecco perché non gliel’ho fatto prima. Ma sai com’è Lupe, è troppo credente. Solo l’idea del sesso prima del matrimonio la metterebbe troppo a disagio.” Raphael si passò una mano sul viso, sospirando. “E so che probabilmente Rosa non è più vergine, non sono così ingenuo! Ma il fatto che prima d’ora io non le abbia parlato, non vuol dire che non possa farlo adesso.”
Magnus si sporse leggermente sopra al piano della reception per riuscire a dare una pacca sulla spalla dell’amico. Raphael si prendeva cura di sua madre e di sua sorella da quando suo padre, diciannove anni prima, era rimasto vittima di un incidente stradale mentre tornava dal lavoro. Un pirata della strada, avevano detto. Il tizio era ubriaco e guidava a tutta velocità, non aveva visto il semaforo rosso ed era finito contro il padre di Raphael. Era stata una tragedia: Raphael aveva solo tredici anni e Guadalupe era incinta della piccola Rosa. Dopo quel terribile evento, Raphael si era preso cura di sua madre durante tutto il periodo della gravidanza e, dopo la nascita della sua sorellina, l’aiutava ad occuparsi di lei.
Era sempre stato presente. Si era sempre preso più responsabilità di quante veramente gliene spettassero e aveva quasi sempre fatto le cose da solo, occupandosi degli altri, piuttosto che lasciare che gli altri si occupassero di lui.  Se chiedeva aiuto, quindi, era perché non sapeva da dove cominciare.
“Parleremo a Rosa insieme.” Lo rassicurò, quindi. “Posso sapere perché, però, all’improvviso hai tutta questa urgenza?”
Raphael scosse la testa, rassegnato. “Perché tra te e mia sorella, ultimamente, sembrate particolarmente propensi a perdere la testa per un Lightwood!”
Magnus lo guardò sorpreso e non riuscì a trattenere un sorriso intenerito, scegliendo di ignorare volutamente la frecciatina nemmeno troppo velata che gli aveva appena lanciato l’amico. “Vuoi dire che Max e Rosa si sentono?”
Raphael annuì. “Rosa non fa altro che parlare di lui da due settimane. È quasi snervante. Sembra che non esista altro, se non Max.”
Magnus rise sotto ai baffi. “Non è che sei geloso, fratellone? La tua sorellina è cresciuta, è diventata una bellissima ragazza e attira inevitabilmente l’attenzione.”
Raphael strinse la mascella. “Se attirasse l’attenzione delle persone che a lei non interessano, le suddette persone si ritroverebbero gambizzate. Ma Max sembra le piaccia e, per quanto parli decisamente troppo, non dispiace nemmeno a me.”
Era sempre stato così, da quando Rosa era nata: Raphael faceva di tutto per renderla felice. Probabilmente per non farle sentire troppo l’assenza del padre. Se Rosa era felice, forse, non aveva tempo per concentrarsi sulla tristezza che provocava la morte prematura di un padre che non aveva avuto occasione di conoscere.
“So quanto ti costa ammetterlo, Raph. Tu, che sei avvezzo alla misantropia da una vita intera, ormai!” Scherzò Magnus, dandogli un’altra pacca sulla spalla, giocosa, questa volta. Raphael mosse le spalle come se avesse voluto scrollarselo di dosso.  
Magnus era certo che stesse per rispondergli in modo pungente, ma l’entrata di Rosa dall’ingresso impedì qualsiasi risposta.
La ragazza si diresse verso di loro con uno zaino in spalla. Indossava un paio di jeans verde militare, abbinati ad una maglietta magenta dalle maniche lunghe con uno scollo a U. Portava una collanina d’oro con una piccola R come ciondolo. Era un regalo per la sua quinceañera. Guadalupe voleva regalarle un ciondolo che dicesse Rosa, ma la ragazza aveva preferito solo una R perché poteva rappresentare sia il suo nome, sia quello di suo fratello.
Una volta raggiunti i due, si scostò un riccio ribelle dal viso e appoggiò a terra lo zaino. “Fare la pendolare mi uccide, Raph.” Poi si voltò verso Magnus, sorridendo. “Ciao, Magnus!” Lo abbracciò e l’uomo ricambiò, stringendola a sé.
“Come stai?”
“Bene, ero a lezione. Economia e management!” Disse fiera di sé. “Così potrò dare una mano a Raph dopo la laurea!”
“Almeno porterai un po’ d’allegria in questo posto!”
Rosa ridacchiò, mentre Raphael lo guardò male. Uno sguardo così tagliente che fu davvero un miracolo se Magnus non si ritrovò in due pezzi. 
Intenti com’erano a fissarsi – Raphael a guardarlo male, Magnus a fargli una linguaccia – non si resero conto che l’attenzione della ragazza fu attirata dal suo cellulare. Solo quando comparve un sorriso sul suo viso, Raphael capì. Vedeva quell’espressione da due settimane, ormai, e l’aveva denominata sorriso da Lightwood.
“Rosa, dobbiamo parlare.”
La ragazza alzò lo sguardo dal cellulare, un po’ preoccupata. “È successo qualcosa? La mamma estas bien?”
Raphael annuì con convinzione. “Todo bien, no te preocupes. Voglio parlarti di un’altra cosa.”
“Allora dime.”
Raphael lanciò uno sguardo a Magnus, come se avesse voluto assicurarsi che fosse ancora lì e fosse stato in grado di intervenire nel caso in cui lui perdesse il filo. Raphael non era tipo da discorsi lunghi ne tanto meno  espliciti. Di conseguenza si sentiva più sicuro ad avere vicino Magnus che, al contrario, era un maestro nell’arte oratoria, soprattutto se si trattava di discorsi lunghi. Senza contare, tra l’altro, che la sua conoscenza in materia non era esattamente esauriente dal punto di vista pratico. Raphael aveva fatto outing come asessuale da anni, ormai. Sua madre era l’unica a non saperlo, se non altro perché non sapeva come avrebbe reagito. Non era stato facile per lui, capirlo. All’inizio pensava che la sua mancanza di interesse nel sesso fosse dovuta al fatto di essere cresciuto con una donna estremamente religiosa. Pensava che dipendesse da quel concetto di astensione sessuale legato alla castità, a quel principio secondo cui il sesso viene solo dopo il matrimonio. Ma poi, quando a diciotto anni aveva avuto un rapporto completo con la sua ragazza dell’epoca, si era tolto ogni dubbio. Non dipendeva dall’educazione che aveva ricevuto o dalla sua religione. Dipendeva solo da lui. A Raphael il sesso non interessava. Aveva impiegato qualche anno ad imparare ad autodefinirsi asessuale. E mentirebbe se affermasse che parte del suo processo di accettazione verso il vero se stesso non dipendesse anche da Magnus, il quale gli aveva sempre apertamente parlato della sua bisessualità.
«Sono così, Raphael, non posso farci niente. I ragazzi a volte mi prendono in giro, ma io non li ascolto più ormai. Ho impiegato troppo tempo a capire chi sono per lasciare che degli estranei mi portino via ciò che mi rende autenticamente me stesso. Non c’è niente di male a mostrarsi per quello che si è.»
Raphael si era trovato spesso a pensare a quella frase. Ci rimuginava sopra di continuo, fino a quando non gli era entrata nel cervello e l’aveva fatta propria. Raphael era quello che era. Per questo, l’aveva detto a Magnus e a Rosa. Non a Guadalupe, però. Non era sicuro che lei avrebbe capito. Era sicuro che per parlare con sua madre gli servisse più tempo e, adesso, a trentadue anni ancora non aveva trovato le parole giuste. Rosa gli diceva sempre che non c’era fretta, che le avrebbe parlato quando avesse ritenuto lui che fosse il momento opportuno.
Rosa e Magnus l’avevano sempre capito in un modo speciale. E anche se con Magnus Raphael non era propriamente espansivo, era certo del loro legame.
Anche per questo aveva voluto il suo aiuto. Lui conosceva Rosa da quando era piccola e, soprattutto, aveva avuto più esperienze di lui in campo sessuale, dal momento che le relazioni di Raphael erano state tutte su un piano esclusivamente sentimentale.
“Dobbiamo parlare di Max.”
Rosa alzò gli occhi al cielo. “Vogliamo davvero cadere nel cliché del fratello maggiore iperprotettivo, Raph?”
“No. Voglio solo essere sicuro che tu prenda… sai… le dovute precauzioni.”
Rosa arrossì repentinamente e sgranò gli occhi. “È di questo che ti tratta?”
Raphael annuì. “Lui sembra ti piaccia, pajarito, e vorrei che tu fossi pienamente consapevole di…”
Hermano.” Lo interruppe Rosa, appoggiando una mano sopra quella del fratello. “Sono già consapevole. In realtà…” Fece una pausa e lanciò un’occhiata a Magnus. “Ho fatto le domande a tua madre, qualche anno fa.”
Magnus sbatté le palpebre. “A mia madre?”
“Sì… spero non ti dispiaccia,” Si voltò verso il fratello. “E spero non dispiaccia nemmeno a te, Raph. Madelaine non voleva scavalcare la mamma, quindi all’inizio mi ha detto che dovevo parlare con lei di qualsiasi curiosità avessi riguardante il sesso. Ma sapevo che Lupe non mi avrebbe risposto. Era troppo presto, per lei, ma non per me. Vedevo le mie amiche che cominciavano a porsi domande e a ricevere risposte. Volevo delle risposte anche io, così… mi sono rivolta a Madelaine. Mi fido di lei ed è stata veramente dolce.” Rosa guardò Raphael da sotto le ciglia. “Sei arrabbiato?”
L’uomo negò con il capo. “No, pajarito, non sono arrabbiato. Hai fatto bene a rivolgerti a Madelaine. A differenza di suo figlio, è una donna saggia.”
Magnus, a quell’affermazione, reagì lasciando un pizzicotto sull’avambraccio di Raphael, che lo trafisse con lo sguardo.
“Se reputi Magnus poco saggio, perché l’hai chiamato per darti man forte?”
Raphael guardò la sorella con stupore. “Come fai a saperlo?”
“Io ti conosco mejor de lo que piensas, hermano. E comunque non devi preoccuparti, io e Max ci stiamo ancora conoscendo.”
“D’accordo.” Annuì Raphael. “Ora puoi tornare a fissare lo schermo del cellulare e sorridere come un’ebete ogni volta che ti scrive. Dios, ora che ci penso tu e lui avete la stessa identica espressione quando ricevete un messaggio da un Lightwood!”
Rosa e Magnus si guardarono, un tantino offesi dalle parole dell’uomo, ma incapaci di negare.
“Che vuoi farci, Raphi? È così difficile non rimanere affascinati dalla loro bellezza!” Esclamò Magnus e Rosa scoppiò a ridere.
Raphael decise di arrendersi, ma di esprimere tutto il suo disappunto con un’eloquente e convinta alzata d’occhi.
“Devo andare, miei adorati Santiago.” Esordì Magnus, guardando l’ora sul cellulare. “La mia prole mi aspetta. È stato un piacere passare del tempo con voi e… Raphael, caro, sei stato eccezionale anche senza il mio aiuto.” Si voltò verso Rosa e l’abbracciò. “Ciao, mi querida.”
Rosa sorrise e ricambiò la stretta. “Ciao, hermano, e grazie. Soprattutto per sopportare Raphael.”
“Io posso sentirti, lo sai, sì?” domandò il diretto interessato, incrociando le braccia al petto.
Rosa gli mandò un bacio volante. “Lo so, per questo lo dico.”
Magnus rise e li salutò un’ultima volta, prima di uscire dall’hotel. Non avevano legami di sangue, lui e i Santiago, ma facevano parte della sua famiglia. E il fatto che Rosa lo reputasse un fratello gli faceva davvero un immenso piacere.


*


“Quattro.”
“Due.”
“Sei.”
“Che fai, anzi che diminuire aumenti? Sai come funziona una trattativa, Jace?”
“Certo che lo so: io insisto finché tu non ti arrendi.”
Alec, con il cellulare tenuto in equilibrio tra la spalla e l’orecchio, alzò gli occhi al cielo, mentre finiva di raccogliere le sue cose dalla scrivania del suo ambulatorio, sistemandole nel suo zaino. Isabelle ancora lo prendeva in giro per la sua scelta, definendolo l’unico medico che usava uno zaino anzi che una ventiquattrore per portarsi il lavoro a casa, ma lui quegli aggeggi li odiava. Trovava quelle valigette estremamente scomode e decisamente poco pratiche.
“Non funziona così.” Si alzò dalla sua seggiola girevole e si diresse verso l’attaccapanni. Si tolse il camice e lo adagiò sopra ad esso, mentre recuperava la sua giacca di pelle. “Funziona che tu dici un’assurdità, tipo farci sei drink a testa, e io che ti riporto in carreggiata.” Si sistemò lo zaino in spalla.
Jace, dall’altro capo del telefono, emise uno sbuffo. “Sei noioso, Alec. La tradizione vuole che questa sera sia quella in cui ci divertiamo. Come possiamo farlo se tu, uccisore di gioie, imponi solo due drink?”
“La tradizione è iniziata quando avevamo vent’anni, Jace. È tutto un tantino diverso, adesso.”
“Già, perché lo sanno tutti che alla soglia del trenta in pratica si ha un piede nella fossa.” Sarcasmo grondò dalla voce di Jace. “Dai, smettila di fare l’ottantenne e accetta.”
Alec, mentre si dirigeva verso l’ascensore dopo aver chiuso a chiave il suo ambulatorio, si massaggiò le palpebre. Jace aveva ragione. Avevano quella tradizione da quando erano più giovani, boxavano per un mese intero e poi sceglievano una sera del mese successivo per riscuotere il pagamento: il vincitore lasciava che il perdente pagasse da bere. Alec aveva molti ricordi legati a quelle serate, la maggior parte piacevoli, se si escludono le volte in cui la situazione era sfuggita di mano e si erano ubriacati, quindi pensò che forse suo fratello aveva ragione: era la loro serata, si dovevano divertire.
“D’accordo.” Acconsentì, quindi. “Ma i drink saranno tre.”
“Va bene, ci sto. Ci vediamo stasera!”
“A stasera!”
Alec terminò la chiamata ed entrò in ascensore. Pigiò il pulsante del piano terra e rimase in attesa. I suoi occhi erano fissi sulla lucetta che evidenziava ogni numero a mano a mano che l’ascensore scendeva di piano, quando sentì vibrare il cellulare nella tasca dei pantaloni.
Lo estrasse e sorrise inevitabilmente, quando lesse il nome del mittente del messaggio appena ricevuto.

> From: Magnus, 18.43
Com’è andata la giornata, dottore?

> To: Magnus, 18.43
Bene, se escludiamo che un bambino mi ha vomitato addosso.

> From: Magnus, 18.43
Sembra una cosa orribile, tesoro.

> To: Magnus, 18.43
Avevo il camice, quindi i danni sono stati contenuti. Non è la prima volta che mi capita, comunque. 
La tua giornata, invece?


Le porte dell’ascensore si aprirono e Alec, quindi, uscì, immettendosi nel pronto soccorso. Vide Catarina al suo solito posto, così la salutò – lei, immersa nel lavoro, ricambiò con un sorriso. Nonostante tutto, Catarina era sempre solare.
Una volta in strada, Alec tornò a prestare attenzione al suo cellulare, mentre si incamminava verso la fermata della metro.

> From: Magnus, 18.45
Niente vomito per me, se è quello che ti preoccupa. Ho avuto una lezione particolarmente intensa però. Sapevi che le adolescenti sono restie ad ascoltare?

Alec sorrise, mentre leggeva quel messaggio. Concentrato com’era sul suo telefono, tuttavia, non si accorse del lampione piazzato in mezzo alla strada e andò a finirci contro, urtandolo con una spalla.
“Ahi,” si lamentò, prima di decidere che forse era meglio smettere di tenere gli occhi incollati al cellulare. Compose il numero di Magnus e rimase in attesa.
“Tesoro.” Rispose al secondo squillo.
“Ehi, ti ho chiamato perché… sono finito contro un lampione,” confessò Alec, vergognandosi anche un po’, “E non volevo ripetere l’esperienza.”
Magnus ridacchiò. “Stai bene?”
“Sì, sto bene.”
“Non vorrei mai che i miei messaggi ti causassero danni fisici, tesoro. Rovinare il tuo corpo sarebbe come scarabocchiare un Monet con un pennarello indelebile.”
Alec sentì chiaramente le guance accaldarsi, mentre il suo cuore faceva una capriola. “È un modo per dirmi che non ti dispiace ti abbia chiamato?”
“Puoi chiamarmi tutte le volte che vuoi.”
Alec si mordicchiò il labbro inferiore con gli incisivi. Era una sua impressione o la voce di Magnus sembrava fatta di velluto?
Deglutì, cercando di non immaginarsi il sorriso di Magnus, che era sicuro era accompagnato a quelle parole. O qualsiasi dettaglio di Magnus in generale. Non voleva distrarsi troppo e rischiare di finire di nuovo contro qualcosa.
“Non ti hanno ascoltato, quindi?” domandò, riprendendo il discorso che stavano facendo prima che Alec urtasse un lampione come un vero re degli imbranati, e scese le scale che l’avrebbero portato alla sua fermata.
“No, sono dannatamente testarde!”
Alec ridacchiò. “Non è un cliché della fase adolescenziale? Ribellarsi a qualsiasi figura con un po’ di autorità?”
“Potresti avere ragione.” Magnus fece una pausa. “E se dovesse toccare anche ad Erin? Se si ribellasse e cominciasse ad odiarmi?”
Alec era fermo al suo binario, in attesa del suo treno. “Non succederà, Magnus. Tua figlia ti adora e in più…” Ritrasse la labbra all’interno della bocca, quasi stesse trovando il coraggio di finire quella frase.
“In più…?” Lo spronò quindi Magnus.
“In più è impossibile odiarti. Sei…” meraviglioso, pensò ma non ebbe il coraggio di dirlo, “…Un bravo papà.”
Si sentì improvvisamente un codardo. E avvertì anche quei suoi buoni propositi, che gli erano balenati alla mente durante la festa di Halloween, andare in fumo. Aveva pensato di fare dei piccoli passi, qualcosa che assomigliasse anche lontanamente ad una prima mossa, e invece con quella frase aveva fatto circa dieci passi indietro. Avrebbe potuto dirgli la verità. Dire che lo riteneva meraviglioso, che chiunque lo apprezzava perché era impossibile non farlo.
Ma no, Alec aveva dovuto fare il solito Alec e avere paura dei suoi sentimenti. Iniziava a detestare questa parte di sé, questo suo continuo farsi condizionare da ciò che era successo. Aveva già appurato che Magnus non era William, allora perché non riusciva a lasciarsi andare? Perché il dolore che aveva provato era stato troppo forte. E un anno può essere tanto tempo, in determinate circostanze, ma un battito di ciglia in altre. E questo era il caso di Alec. Era passato solo un anno dalla sua ferita, da quel senso di tradimento e abbandono. Stava meglio, certo, ma non era ancora riuscito a digerire che quattro anni della sua vita erano stati tutta un’enorme bugia al fianco di qualcuno che si era preso gioco di lui e dei suoi sentimenti.
“Apprezzo molto che tu lo dica e mi rincuora sentire certe cose.”
“È solo la verità. Non ti direi mai qualcosa che non penso.”
Questo era vero. Alec poteva avere difficoltà a dire certe cose, ma qualsiasi parola avesse lasciato la sua bocca sarebbe sempre stata verità. Sapeva come ci si sentiva, quando si veniva ricoperti di bugie e lui non aveva intenzione di infliggere quel dolore ad un altro essere umano.
“Vedi che ho ragione? Sei uno zuccherino, sotto ogni punto di vista.”
Alec non riuscì a trattenere un sorriso. Il suo treno arrivò e, quando si fermò, aspetto che le altre persone scendessero prima di salire. Scelse di rimanere in piedi, dal momento che erano solo tre fermate per arrivare alla sua.
“Dove sei?” gli domandò Magnus, sentendo vari rumori dall’altro capo del telefono.
“In metro. Sto tornando a casa.”
“Ti aspetta una serata tranquilla?”
“In realtà non lo so. Mi vedo con Jace, più tardi, e con lui si sa come si inizia ma non come si finisce.”
Magnus ridacchiò. “Clary e Maia mi hanno parlato della vostra tradizione, dopo gli incontri. Chi ha vinto, questo mese?”
“Io, il che renderà il prossimo mese un inferno perché, ovviamente, vorrà essere Jace il vincitore.”
“Digli di non mirare al viso, tesoro, o dovrà vedersela con me.”
Alec rise. “Glielo dirò.”
“Bene, sono più tranquillo, adesso.” Magnus fece una pausa e Alec si chiese perché. Tuttavia, quando Magnus pronunciò le parole successive, Alec dedusse che quella pausa gli era servita per guardare l’ora: “Devi scusarmi, Alexander, ma devo andare. Erin deve fare il bagnetto.”
“Non scusarti. Anzi, salutamela.”
“Sicuramente. Buona serata, tesoro.”
“Grazie. Ci sentiamo domani.” Alec lo disse di getto e fu felice di sentire che quella richiesta venne volentieri accolta da Magnus.
“Certamente.”
Alec sorrise. “Ciao.”
“Ciao.”
Alec impiegò qualche secondo a chiudere la chiamata, così come Magnus. Quei saluti rimasero sospesi per un po’, quasi come se entrambi avessero voluto lasciare all’altro qualche istante nel caso avesse voluto dire qualcosa, o per far durare qualche secondo di più quella chiamata, quasi non volessero accertarne la fine. Tuttavia, però, la fermata di Alec lo costrinse a riattaccare definitivamente.
Scese dal treno e si diresse verso casa con il sorriso sulle labbra. Era l’effetto Magnus, ovviamente, a farlo sentire in quel modo.


*


Quando aveva detto che con Jace sapeva quando, e soprattutto come, si iniziava, ma non sapeva quando, e come, finiva, Alec non aveva mentito.
Il piano iniziale prevedeva di vedersi all’Hunter’s Moon, farsi qualche drink in tranquillità e tornare a casa.
Alec non aveva mai sottovalutato la questione come quella sera. Jace, infatti, era determinato a rispettare la scommessa, ma dal momento che toccava a lui pagare, era convinto che gli spettasse anche il diritto di dettare le regole. Regole che prevedevano per la maggior parte il caos più totale.
Era tipico di suo fratello, se ci pensava. Jace non era mai stato il tipo che le rispetta troppo, le regole. Il che rendeva estremamente sensato il fatto che si fosse celato dietro alla scusa di imporne qualcuna solo per poi infrangerla. Sapeva che Alec, a differenza sua, consapevole che avrebbero avuto dei limiti, imposti appunto da qualche regola, si sarebbe rilassato, cullandosi nella falsa speranza che si sarebbero dati una calmata.
Ovviamente Jace si era preso gioco di lui.
E l’aveva fatto ubriacare.
Alec aveva perso il conto dei bicchieri che aveva buttato giù. Uno e poi basta, continuava a dire Jace. E tutte le volte che Alec gli diceva che quello era davvero l’ultimo, lui ribatteva dicendo che spettava al perdente della serata decidere quando sarebbe stato l’ultimo.
Alec non ricordava quella regola, (che tra l’altro, per come la vedeva lui, era totalmente priva di senso), ma ottenebrato dall’alcol come era, trovava difficile persino ricordarsi il suo nome, quindi non era sicuro che il suo cervello fosse affidabile.
Arrivati a questo punto, l’unica cosa che gli sembrava sensata era andare da Maia e chiederle altri drink.  
Barcollò fino al bancone, dove si appoggiò con la grazia di un facocero, e attirò l’attenzione dell’amica.
“MAIA!” Esclamò, ma in realtà ciò che uscì dalla sua gola fu più che altro un grido. Era una sua impressione o le persone dentro a quel bar erano particolarmente rumorose? Non potevano abbassare un po’ la voce e avere un po’ di rispetto per qualcuno che voleva bere in santa pace? Non gli sembrava di chiedere molto.
Solo del sano silenzio, in modo che avrebbe potuto bere il suo drink in tranquillità.
“MAIA!” La chiamò ancora e il tizio che stava vicino a lui in attesa di un drink lo guardò malissimo, tappandosi un orecchio. Alec lo guardò altrettanto male – come si permetteva, poi, di guardarlo in quel modo e di fargli capire che lo trovava fastidioso? Lui era fastidioso, soprattutto con quella maglietta orrenda piena di pappagalli. Quale essere umano normale trova di buon gusto una camicia con i pappagalli?
Il suo pensiero andò a Magnus.
Lui di certo non si sarebbe mai messo un simile obbrobrio. Magnus era un uomo di classe e pieno di buon gusto, si vestiva sempre con roba costosa e di alta qualità. Era una specie di guru della moda, quindi Alec pensò di essere in dovere di informare qualcuno che di moda se ne intende (Magnus), che qualcun altro (il tizio vicino a lui) dentro a quel bar, stava commettendo un crimine.
Sì, all’Hunter’s Moon c’era un criminale e Alec l’aveva appena smascherato. Ma non aveva autorità su di lui, perché lui non era un guru dell’alta moda, protettore di capi pregiati.
Ma Magnus sì, quindi se Alec l’avesse informato, lui avrebbe potuto raggiungerlo al bar, far valere la sua autorità e denunciare quello scellerato dalla camicia verde piena di pappagalli rossi.

> To: Magnus, 22.57
Cè un tzio con una camcia orrenda. Pesno dovretsi intervnire.

Perché le lettere si muovevano, dannazione? Non potevano stare ferme così da permettergli di informare chi di dovere che stava avvenendo un crimine?
Alec inviò il messaggio. Almeno la freccia dell’invio stava ferma, aiutandolo ad adempiere il suo compito.

“Alec, santo cielo, hai finito di urlare?”
Alec alzò gli occhi dal suo cellulare e sorrise, quando riconobbe Maia.
“Hai una ruga in mezzo agli occhi che ti fa sembrare cattiva. Sei arrabbiata con me?” Si sporse sul bancone, allungando un braccio verso l’amica per accarezzarla. Non ci riuscì come aveva immaginato, perché le sue dita sfiorarono a malapena il viso della ragazza. “Non essere arrabbiata con me Maia, io ti voglio bene.” Alec abbandonò la sua impresa e, barcollando, si diresse direttamente nella parte di bancone che permetteva di andare sul retro di esso, nella postazione riservata ai baristi. Maia gli andò in contro, cercando di bloccarlo. Fu inutile, ovviamente, perché per quanto Maia potesse essere forte, Alec la sovrastava con la sua corporatura e altezza. La abbracciò.
“Non devi essere arrabbiata con me.” Le lasciò un bacio sui capelli, prima di accarezzarle i ricci.
“Non lo sono.” Disse lei, ricambiando quell’abbraccio e dandogli una pacca sulla schiena. “Tu invece sei ubriaco. Dovresti smettere di bere.”
Alec sciolse repentinamente quel contatto, separandosi da lei. “NO!” Esclamò, mettendo il broncio come un bambino a cui è appena stato tolto il giocattolo preferito. “Voglio bere! Devo festeggiare! Ho vinto io, lo sai? E poi devo dimostrare a Jace che non sono un ottantenne. Tu pensi che sia vecchio dentro?”
“No, Alec, non lo penso.”
Alec si guardò intorno (tutto era così sfuocato, accidenti!) e poi guardò di nuovo l’amica. Le sorrise, anche se aveva l’impressione di non sentirsi più le guance, quasi come se i suoi muscoli facciali si fossero addormentati.
“Le mie guance russano?”
Maia lo guardò perplessa. “Cosa hai detto?” Alzò un sopracciglio.
“Se le mie guance russano!” Esclamò lui, come se fosse la cosa più normale del mondo. “Mi sa che mi si è addormentata la faccia.”
Maia si passò una mano sul viso e fece appello a tutta la sua pazienza. “Alec, le tue guance non russano. Sei solo… ubriaco. Molto ubriaco.” Lo accompagnò fuori dal bancone e fece cenno ad uno dei suoi colleghi di sostituirla un attimo. Portò Alec in uno dei tavoli liberi e lo fece sedere. “Devi bere  un po’ acqua, adesso.”
Alec, seduto al tavolo, appoggiò la schiena allo schienale della sedia e incrociò le braccia al petto. “NO!” Esclamò, mettendo il broncio, di nuovo. “Non voglio l’acqua. Ti prego, l’ultimo poi basta.”
“Un bicchiere ancora e ti troverò svenuto sul tavolo da biliardo!” Rispose Maia, con decisione. “Tu berrai dell’acqua, io troverò quel disgraziato di tuo fratello, poi vi chiamerò un taxi e porterete i vostri culi bianchi a casa.”
“Dire culi bianchi è un po’ razzista.” Biasciò Alec. “Ma…” Alzò un indice, come se avesse avuto un pensiero importante. “In effetti il mio culo è bianco. Non razzista, però.” Alec negò forte con il capo. “No, no. Il mio culo non è per niente razzista.”
“Lo so, Alec.” Lo assecondò, anche se quel discorso non aveva completamente senso. “Ora, aspettami qui. Torno subito. Non muoverti.”
“Non mi muovo, capo!”
Maia sospirò e si diresse nuovamente verso il bancone. Prese un bicchiere d’acqua e lo portò ad Alec. “Bevilo.” Gli disse, piazzandoglielo sotto al naso. “Vado a cercare Jace.”
Alec annuì e la guardò sparire tra la folla. Si guardò intorno e notò di nuovo il tizio con la camicia orrenda. Il che gli fece ritornare in mente la sua missione. Maia poteva anche averlo distratto – che fosse anche lei una complice del tizio-pappagallo? – ma lui era un uomo che prendeva seriamente i suoi oneri di buon cittadino. E un buon cittadino informa sempre le autorità quando assiste ad un crimine.

> To: Magnus, 23.13
La camcia con i pappagalli. È brutta. Lo so che pesni sia brutta preché tu ti vetsi sempre bne. Quidni è cme un crimne e io devo infomrarti dei crimini contro la moda. Preché sei un guru.

Alec inviò.
Poi pensò di dover aggiungere un’altra verità.

E sei bellissimo.
Vorrei che fssi qui, preché ti pesno da oggi.
Nessno potrebbe odiatri preché sei meraviglioso. Io lo so.


Alec fissava il cursore della chat che lampeggiava, quasi fosse in attesa di veder scritte altre verità. Verità che solo una buona dose d’alcol era riuscita a fargli scrivere.

“Ho chiamato Izzy.”
La voce di Maia, tuttavia, lo costrinse a lasciare perdere il suo cellulare e a portare l’attenzione su di lei. Teneva Jace sotto braccio e lo stava aiutando a sedersi.
“Barcolli come un ubriaco, Jace.” Gli fece notare e il biondo rise.
“Perché sono ubriaco. E anche tu lo sei.” Soffiò ad un centimetro del viso del fratello. “Maia me l’ha detto.”
Alec si voltò verso l’amica, sentendosi tradito. “Non sono ubriaco!”
“Sì, lo sei. Tutti e due lo siete. Quindi starete buoni qui e aspetterete Izzy.”
Entrambi incrociarono le braccia al petto, risentiti. “Izzy è cattiva.” Disse Jace.
“Ci farà la predica.” Finì Alec.
“Userà quel tono di rimprovero severo come quello che usava la mamma. Ti ricordi, Alec?”
“Mi ricordo la mamma e la voce grossa delle sgridate.” Alec fissò il vuoto. “Non era bello essere sgridati.”
Jace negò con forza. “Per niente.” E seguì lo sguardo di Alec, rimanendo incantato a guardare il nulla pure lui.
Maia sospirò. “Immagino, ragazzi.” Li assecondò, paziente. “E mi dispiace, ma adesso devo tornare a fare il mio lavoro. Voi state qui, d’accordo?”
Entrambi annuirono. Maia lanciò loro un’altra occhiata apprensiva, prima di tornare dietro al bancone a servire i clienti. Li tenne d’occhio finché non vide Isabelle comparire dalla porta. Era struccata e indossava tuta e scarpe da ginnastica.
“Ho fatto prima che ho potuto.” Si giustificò, quando raggiunse il bancone. “Dove sono?”
Maia le indicò il tavolo dove aveva parcheggiato gli amici. “Laggiù. Buona fortuna. Alec diventa particolarmente eloquente, quando è ubriaco.”
“L’alcol gli toglie i freni inibitori.” Concordò Izzy. “Grazie Maia.” Le sorrise.
“Non è stato un problema. Non li avrei mai lasciati a loro stessi, non in quelle condizioni!” Sorrise di rimando.
Le due si salutarono e poi Isabelle si diresse verso il tavolo indicatole da Maia per recuperare i suoi fratelli.



Alec si svegliò con un mal di testa atroce e la parte sinistra del corpo addormentata. Il braccio gli formicolava così tanto che per un attimo fu sicuro di doverselo amputare. Quando poi sbatté le palpebre, abituando gli occhi alla luce del sole, e riuscì a mettere completamente a fuoco ciò che lo circondava, si rese conto che si trovava in camera sua: la luce filtrava dalle tende appena scostate e Jace era la causa della sua mancata circolazione. Suo fratello era rotolato nella sua parte di letto e lo stava usando come cuscino umano.
“Jace!” Sussurrò con convinzione, togliendoselo di dosso. L’altro rotolò di nuovo nel suo lato di materasso e gli rispose con un grugnito. “Jace!” Provò di nuovo, scuotendolo con vigore.
“Agitami in questo modo ancora una volta e ti vomito addosso.” Bofonchiò il biondo, scorbutico, tenendo gli occhi chiusi e rifiutandosi di svegliarsi del tutto. “Credo di essere ancora ubriaco.”
Alec poteva capirlo. Aveva in bocca un sapore di morte e pestilenza che gli faceva venire voglia di rimettere – e di rinunciare all’alcol per il resto dei suoi giorni. La testa gli pulsava così forte che aveva l’impressione di averla infilata dentro ad una morsa e che ci fosse qualcuno che stringesse quell’affare con la sola intenzione di fargli saltare le cervella. Si mise seduto con grandissima fatica e rimase a fissare il nulla. Non ricordava come erano arrivati a casa sua, ne tanto meno come avessero fatto ad arrivare fino al suo letto e addormentarsi lì. Alec aveva ancora i vestiti della sera precedente addosso, erano stropicciati e avevano un odore orribile, un misto di gin e sudore che gli fece venire voglia di bruciarli piuttosto che metterli in lavatrice, consapevole che nemmeno dieci lavaggi avrebbero cancellato quella puzza. Si alzò dal letto, scostando i vari plaid sotto cui era sotterrato – non erano andati sotto al piumone vestiti, notò, e questo lo rincuorò parecchio perché non aveva nessuna voglia di cambiare anche le lenzuola.
Uscì dalla sua stanza, lasciando Jace addormentato sul suo letto, e si chiuse la porta alle spalle. Si sarebbe fatto una doccia lunga dieci secoli e poi, forse, avrebbe provato a ricostruire i passi della sera prima.
Ma prima, aveva bisogno di un caffè da sei litri e di un’aspirina. Si diresse, scalzo, verso la cucina con tutta l’intenzione di seguire il suo piano, ma una figura lo spaventò.
“Ma che caz- Izzy!” Esclamò e il tono acuto della propria voce fu una tortura per il suo mal di testa.
“Buongiorno anche a te, fratellone!” Disse la ragazza, mentre adagiava due tazzone di caffè su un vassoio. “Ti sei svegliato, vedo. Stavo per venire a farlo io.”
Alec prese una delle due tazze e l’abbracciò con tutte e due le mani. Annusò il profumo invitante del caffè prima di berne un sorso.
“Grazie, Iz.” Le disse. “Ci hai riportati a casa?”
La ragazza annuì. “Ci siamo fatti una bella dormita nel tuo letto come quando eravamo bambini. Con la differenza che adesso tu e Jace siete decisamente più ingombranti. Ed è difficile gestirvi, quando siete ubriachi. Ho dovuto usare la voce grossa più di una volta, per rimettervi in riga.”
Alec si grattò la nuca, imbarazzato. “Scusa, le cose sono un po’ degenerate, ieri sera.”
“Ho notato. Siete due idioti, lo sapete vero?” Izzy lo guardò con una ruga tra le sopracciglia, lo sguardo serio e severo.
“Lo so.” Alec bevve un sorso del suo caffè e il suo stomaco fece una capriola, probabilmente non ancora desideroso di ricevere altri liquidi. Ad Alec venne la nausea. Era una tortura non poter bere caffè. “Se ti può rincuorare, penso sia l’ultima sbronza della mia vita.”
Izzy emise un verso di scherno dal naso e lo guardò come se la sapesse lunga. “Non è vero, e lo sai. È tipo un ciclo lunare: ogni tot di tempo vi viene voglia di esagerare e vi riducete in questo modo. Per fortuna non vi comportate così ogni mese.”
“Già, per fortuna.” La testa di Alec pulsava ad ogni parola. “Dio, sono sicuro che sto per morire.”
“Non essere melodrammatico, fratellone. Bevi un altro po’ di caffè e prendi un’aspirina, vedrai che starai meglio.” Gli sorrise, prendendo l’altra tazza dal vassoio e superandolo per dirigersi verso l’uscita della cucina. “Ah, e fatti una doccia. Puzzi di morte.” Aggiunse, prima di uscire dalla stanza, sicuramente per portare il caffè a Jace.
Alec non poteva darle torto, comunque. Aveva disperatamente bisogno di una doccia. Bevve un altro po’ di caffè, prendendolo a piccole dosi così che il suo stomaco si abituasse nuovamente ad essere riempito. La nausea iniziale era sparita e Alec lo reputò un buon segno.
Si appoggiò al bordo del tavolo della cucina, godendosi il silenzio. Era un toccasana per il suo mal di testa e immediatamente si rilassò. Si promise, tuttavia, di non ripetere un’esperienza simile. Non reggeva più le sbronze come quando aveva vent’anni e probabilmente quello era il modo che aveva il suo corpo per comunicarglielo.
Sospirò, finendo il suo caffè e dirigendosi verso il lavandino per lavare la tazza. Dopo averla lavata e riposta nella credenza, sentì la vibrazione del suo cellulare. Impiegò qualche secondo a capire che ce l’aveva ancora nella tasca dei pantaloni, dove l’aveva lasciato la scorsa sera.

> From: Magnus, 10.13
Credo che qualcuno abbia bevuto un po’ troppo, la scorsa sera.
Come sta andando con i postumi? Hai bisogno di qualcosa?


Alec corrugò la fronte, leggendo quel messaggio, ma poi un flash di ricordi invase la sua mente e scorse con il pollice per leggere i messaggi precedenti. Trovò tutto ciò che aveva scritto a Magnus – e che invece era convinto di aver solo pensato nei suoi vari vaneggiamenti da ubriaco – e provò un feroce senso di imbarazzo. Gli aveva scritto ciò che pensava da quando l’aveva conosciuto, in pratica: ovvero che lo trovava bellissimo e meraviglioso. Due cose estremamente vere, ma anche molto compromettenti se la persona in questione è un tuo amico e per ora deve rimanere tale. Il fatto che Alec avesse capito di provare dei sentimenti per Magnus non stava a significare che l’altro dovesse necessariamente saperlo. Ma ovviamente, Alec-ubriaco non la pensava come Alec-sobrio.
“Merda,” Sussurrò a denti stretti. “Merda-merda-merda.” Fissò il cursore della chat che lampeggiava. Rimase con i pollici sospesi sulla tastiera, con l’intenzione di sfiorare le lettere e scrivere una risposta che avesse senso. Ma non la trovò. L’unica cosa che poteva avere senso era spiegare a Magnus che iniziava a provare qualcosa per lui e Alec non era ancora pronto per questo. Così chiuse la chat e bloccò lo schermo del cellulare, che appoggiò sulla superficie del tavolo, resistendo all’impulso di scagliarlo a terra.
Era stato un idiota. E adesso si sentiva talmente in imbarazzo che era quasi convinto non sarebbe più riuscito a guardare Magnus in viso.
Sospirò, fissando il telefono, abbandonato ed inerme, sul tavolo. Le parole di quel messaggio gli tornarono in mente. Magnus, in ogni caso, aveva fatto finta di niente. Non aveva dato peso alle parole di Alec, le aveva semplicemente trattate come i vaneggiamenti di un ubriaco, altrimenti avrebbe risposto a quelle dichiarazioni e non avrebbe semplicemente evidenziato che qualcuno aveva bevuto troppo. E poi era passato subito a parlare dei postumi della sbronza, quindi forse se non aveva risposto alle dichiarazioni di Alec era perché non gli interessavano, o perché pensava fossero semplicemente pensieri senza senso pronunciati da qualcuno che aveva il cervello immerso nell’alcol.
Alec era confuso: non sapeva se rimanerci male per questa sua deduzione, o esserne sollevato. Se avessero fatto finta entrambi che quei messaggi non erano mai stati scritti, il loro rapporto sarebbe rimasto invariato, uguale. E ad Alec piaceva davvero tanto il rapporto che avevano.
Ma il fatto che Magnus avesse volutamente ignorato le parole di Alec, significava che anche lui non voleva che il loro rapporto mutasse e questo stava a significare che non voleva altro da lui se non amicizia?
Alec non lo sapeva. E non sapeva nemmeno perché improvvisamente non sapeva più quello che voleva, soprattutto perché tutto gli sembrava un controsenso: era lui stesso il primo a volere che le cose non cambiassero, ma allo stesso tempo desiderava che Magnus le facesse cambiare perché anche Alec, in cuor suo, voleva che cambiassero.
Era un controsenso, un pensiero confusionario dominato solo dall’indecisione e dall’insicurezza. Fissò ancora il suo cellulare, prima di abbandonare definitivamente l’idea di rispondere a quel messaggio. Piuttosto, uscì dalla cucina e si diresse verso il bagno, dove avrebbe fatto la doccia che tanto sentiva il bisogno di farsi.
Era tornato il solito Alec, pensò con amarezza. L’Alec che si faceva scegliere e non aveva il coraggio di fare la prima mossa. Si sentì avvilito e quasi senza speranze. Chissà se un giorno avrebbe davvero avuto il coraggio di cambiare. Chissà se un giorno avrebbe ritrovato la forza e la sicurezza delle quali Will lo aveva privato.
Chissà se un giorno Alec sarebbe riuscito a rimpadronirsi di quella parte di se stesso che Will gli aveva strappato via e che aveva calpestato.


Uscito dal bagno, avvolto nel suo accappatoio e con i capelli ancora bagnati, Alec si diresse in camera sua per prendere dei vestiti puliti. Aveva gettato quelli che aveva addosso in lavatrice e forse aveva usato più detersivo del necessario per  lavarli, ma questi erano dettagli. Una volta aperta la porta della sua camera, trovò Isabelle e Jace sdraiati sul suo letto, uno vicino all’altra, a guardare qualcosa sul tablet – di Alec, ovviamente.
Entrambi avevano la schiena appoggiata alla testiera del letto e fissavano lo schermo che avevano sistemato al centro del materasso. Jace stava ancora bevendo la gigantesca tazza di caffè che Izzy aveva preparato.
“Come mai con lei non sei scorbutico?” Domandò Alec, dirigendosi verso il suo armadio.
“SSSHHHH!!” lo zittirono entrambi. Alec capì l’antifona e afferrò dei vestiti a caso: maglietta e pantaloni di una vecchia tuta, poi si abbassò verso il cassetto che stava alla base del suo armadio e afferrò un paio di boxer. Continuando il mutismo che gli era stato imposto, uscì dalla sua camera e si diresse di nuovo verso il bagno per cambiarsi. Si tolse l’accappatoio e lo sistemò al suo solito posto, in un gancio attaccato al muro vicino alla vasca da bagno. Si vestì velocemente, si asciugò i capelli con altrettanta velocità con un colpo di phon e infine si lavò i denti. Due volte perché non voleva rischiare nemmeno lontanamente che quel sapore amaro gli rimanesse in bocca.
Con il mal di testa che ancora pulsava feroce, Alec aprì lo sportello del mobiletto dei medicinali che stava proprio sopra al lavandino in cui si era appena lavato i denti. Prese la confezione di aspirina e ne estrasse una, che ingoiò senza problemi. Ne estrasse una seconda da portare a Jace e poi uscì dal bagno.
Percorse la poca distanza che separava il bagno dalla sua camera ed entrò di nuovo. Senza dire una parola, si sistemò sul letto, vicino ad Izzy e allungò l’aspirina a Jace, che l’afferrò, ringraziandolo.
Alec, a quel punto, prestò finalmente attenzione al tablet: stavano guardando New Girl e Alec sorrise, perché ricordava bene quando Izzy li aveva quasi costretti a guardarla con lei e alla fine si erano appassionati pure lui e Jace. Erano alla terza stagione e appena avevano un po’ di tempo libero, si riunivano per guardarla insieme. E dal momento che Alec non avrebbe cominciato a lavorare prima di sera, il turno di Izzy sarebbe cominciato alle tre del pomeriggio e Jace aveva il giorno libero, quello era il momento adatto per guardarsi qualche episodio. Alec era sicuro che Jace avesse già chiamato Clary per informarla di dove fosse, anche se ormai la rossa conosceva l’andamento. Nei casi in cui la situazione degenerava, come la sera precedente, Jace si fermava sempre a casa di Alec. Per fortuna, comunque, non capitava spessissimo.
“Avreste dovuto aspettarmi.” Sussurrò Alec, sistemandosi meglio, mentre Izzy gli faceva spazio.
“Ci stavi mettendo una vita a farti la doccia, così abbiamo deciso di cominciare.” Rispose Jace.
“Sono commosso dalla vostra gentilezza.” Ribatté Alec, sarcastico. Isabelle ridacchiò e, dopo aver messo pausa, gli raccontò velocemente la parte di episodio che si era perso. In pratica, quasi tutto, ma Alec non lo fece notare e rimase ad ascoltare la sorella.
Nei momenti in cui si sentiva perso, quelli in cui si sentiva inadatto e inadeguato, dove gli sembrava di essere un caos ambulante che si nutre di insicurezze, vivere attimi simili lo aiutava sempre un po’ a ritrovare se stesso. Jace ed Izzy lo aiutavano dall’alba dei tempi, anche quando non sapevano di farlo: a volte, come in quell’istante, bastava solo la loro presenza a far tranquillizzare Alec.


*


Giovedì, il terzo di novembre, ore 18.00. Alec era appena entrato nel suo palazzo e aveva notato che l’ascensore era guasto. Perfetto, pensò sarcastico, quattro piani di scale, che vuoi che sia!
Il suo nuovo appartamento, quello in cui viveva da quando era tornato da Haiti, si trovava al quarto piano. Prima della sua partenza, aveva annullato il contratto di affitto dell’appartamento precedente perché c’erano troppi ricordi. Voleva evitare qualsiasi luogo gli ricordasse Will, di conseguenza aveva deciso che lasciare il posto dove aveva vissuto quella storia d’amore finita in un disastro fosse un bene, per lui.
Poi, circa due mesi prima del suo ritorno, durante una delle chiamate via Skype, Izzy l’aveva informato che aveva trovato un appartamento perfetto per lui.
«Stai per tornare, giusto? Quindi mi sono presa la libertà di trovarti un posto in cui vivere, quando tornerai in patria.»
La verità era che Isabelle si era data tanto da fare a trovargli un appartamento perché temeva che, senza una casa a cui fare ritorno, Alec avrebbe prolungato la sua permanenza ad Haiti.
Alec la conosceva abbastanza da saperlo, ma non gliel’aveva mai fatto notare. Si era semplicemente limitato a ringraziarla e a prendere in considerazione l’appartamento, nel quale adesso viveva.
Continuò a salire e l’improvviso brontolio del suo stomaco gli ricordò che il suo pranzo era stata una barretta ai mirtilli presa al distributore automatico tra una visita e l’altra. Con l’arrivo dell’inverno i bambini si ammalano con una facilità disarmante. Aveva perso il conto delle gole rosse che aveva visto durante il giorno.
Ultima rampa di scale. Era finalmente arrivato al suo piano, il che stava a significare che appena messo piede nel suo appartamento, avrebbe potuto sfamare il suo stomaco e smettere di farlo brontolare.
Un imprevisto, tuttavia, lo informò che il destino non la pensava come lui.
“Magnus.” Balbettò, stupito.
Un imprevisto bellissimo, si sentiva di dire, ma non appena i loro occhi si incrociarono Alec provò una cosa che non aveva mai provato stando insieme a Magnus: imbarazzo. Riusciva solo a pensare all’ultimo messaggio che gli aveva mandato e improvvisamente ebbe voglia di sotterrarsi.
Magnus si staccò dal muro al quale era appoggiato e gli si avvicinò. Indossava un cappotto color vinaccia, lungo fino al ginocchio e aperto su una camicia color avorio, che aveva dei ricami dorati. Indossava dei pantaloni dello stesso colore del cappotto, aderenti e infilati dentro ad un paio di anfibi neri, i cui lacci erano pieni di brillantini scuri.
Era bello da togliere il fiato e Alec improvvisamente ebbe la sensazione che la sua spina dorsale fosse fatta di burro.
“Allora ti ricordi di me.” Cominciò Magnus, fermandosi di fronte a lui. Aveva gli occhi truccati con dell’eyeliner puntellato di glitter. “Questo significa che mi stai ignorando volutamente.”
“Magnus…” Iniziò Alec, dispiaciuto. Era vero. Non parlava con Magnus da due giorni. Non aveva risposto al suo messaggio e non gliene aveva mandati altri. Non si erano nemmeno sentiti per telefono e, da quando si conoscevano, telefonate e scambi di messaggi durante la giornata erano diventati la normalità per loro. “Io…” prese un profondo respiro per trovare il coraggio di dire la verità, “Io mi sentivo in imbarazzo. Quel messaggio…”
Magnus lo zittì gentilmente, alzando l’indice anellato ad altezza delle sue labbra, ma senza toccarle. “Alexander. Se ti avessi evitato ogni volta che ti ho fatto un complimento, non saremmo nemmeno dovuti diventare amici, non trovi?”
Alec si sentì un idiota. Il fatto che avesse capito di provare qualcosa per Magnus l’aveva destabilizzato al punto da non rendersi conto che, forse, stava esagerando. Magnus gli faceva complimenti di continuo, gli aveva persino detto che lo trovava fantastico, e non si era mai tirato indietro. Non l’aveva mai evitato. Anzi, era sempre stato piuttosto esplicito e questo mai aveva creato degli imbarazzi tra di loro – certo, Alec arrossiva ogni volta che Magnus gli diceva una carineria, ma questo perché era un disastro ambulante che non sapeva reagire ai complimenti.
Era stato sciocco reagire in quel modo, da parte sua. Dire a Magnus che lo trovava bellissimo non era una dichiarazione dei suoi sentimenti, era semplicemente un dato di fatto. Alec aveva capito, passando prima attraverso la moltitudine delle sue insicurezze, che per capire effettivamente cosa sarebbero potuti diventare, doveva buttarsi un pochino anche lui. Non poteva continuare a pretendere che fosse sempre Magnus a fare i primi passi, doveva muoverli anche lui, perché solo in quel modo avrebbero capito se da amici potevano diventare qualcosa di più.
“Hai ragione.”
“Certo che ho ragione, girasole.”
Alec sorrise. “Mi dispiace. E mi dispiace anche di averti mandato quei messaggi strani.”
“In realtà li ho trovati divertenti. È bello sapere che mi ritieni un guru della moda. Oltre che bellissimo e meraviglioso.”
Alec arrossì, nonostante tutto. “Diciamo che ti ho solo detto cose che sai già.”
“Ma è comunque bello sentirsele dire.” Magnus gli accarezzò delicatamente una guancia arrossata. “Ora, visto che siamo tornati alla normalità, devo dirti una cosa.”
“Entriamo e ne parliamo con calma?” Alec indicò la porta di casa sua. Magnus annuì e insieme percorsero la breve distanza che li separava dall’appartamento di Alec.


“Devo preoccuparmi?” Domandò Alec, una volta varcata la soglia del suo appartamento, mentre si toglieva il giubbotto.
“No, cioccolatino.” Magnus lo imitò, togliendosi a sua volta il cappotto e appoggiandolo all’attaccapanni vicino alla porta, proprio dove lo stava sistemando Alec. “Volevo solo parlare con te di una cosa che mi riguarda.”
“Questo non mi aiuta a non preoccuparmi, Magnus.”
Alec percorse il piccolo corridoio che separava l’ingresso dal resto della casa, e Magnus lo seguì: il salotto e la cucina erano quasi del tutto comunicanti, separate solo da un mezzo muretto basso. Non c’era la porta, quindi si poteva dire che fossero quasi la stessa stanza.
Nella parte del salotto, comunque, si trovava un divano in pelle nera, largo e dall’aspetto comodo; davanti ad esso ci stava una televisione attaccata al muro. Vicino alla tivù, si trovava un mobile che arrivava quasi a toccare il soffitto, nel quale si trovavano una moltitudine di libri e DVD. In fondo alla stanza, sotto all’ampia finestra, c’erano degli scatoloni ammucchiati, alcuni già aperti e svuotati, alcuni ancora imballati.
La casa di Alec, per quello che poteva dire Magnus da ciò che adesso aveva sotto gli occhi, rispecchiava molto la sua personalità: era semplice, ma estremamente accogliente e trasmetteva una sorta di calore confortevole, qualcosa che ti fa sentire al sicuro.
Alle parole di Alec, comunque, Magnus sospirò. “Mi è arrivata una lettera, ieri.”
“Una lettera?” Alec alzò un sopracciglio, mentre faceva cenno a Magnus di seguirlo in cucina. Magnus lo fece e osservò Alec fargli cenno di sedersi al tavolo, mentre lui si dirigeva verso la credenza e prendeva un bollitore, che riempì d’acqua e mise sul fuoco.
Magnus in un primo momento, però, rimase in piedi. “Lo so, vero? Ormai chi le usa più le lettere? Voglio dire, ci siamo evoluti, esistono le email dal 1971!”
Alec abbandonò il bollitore e si voltò verso di lui. Erano abbastanza vicini, così gli mise le mani sulle spalle, per cercare di calmarlo. “Magnus, stai straparlando. Non agitarti e dimmi che succede.”
L’uomo si rilassò sotto il tocco gentile di Alec e sospirò, prima di guardarlo da sotto le lunghe ciglia. “Mi hanno chiesto di fare il giudice speciale ad un talent show. Parteciperei a tre episodi, dove giudicherei i ballerini emergenti e dove mi farebbero fare delle esibizioni speciali.”
“E questo è un bene o un male?”
“Non lo so, è questo il punto. Per questo vorrei la tua opinione. Mi fido di te e mi hai detto che mi avresti sempre detto la verità.”
Alec sentì l’ombra di un sorriso che tentava di aprirgli il viso, ma si trattenne. Magnus si fidava di lui. Era una cosa così bella da sentirsi dire.
“Allora analizza i pro e i contro. Partiamo con i contro, quali sono?”
“Dovrei stare a Los Angeles per tre settimane, lontano da Erin.” Magnus alzò un dito per numerare il primo contro. “Dovrei tenere chiusa la scuola di danza.” Alzò un secondo dito. “E terzo, ma non meno importante, starei lontano da te.”
Alec arrossì violentemente, non aspettandosi per niente di essere incluso in uno dei tre motivi che spingevano Magnus a non andare. Il suo cuore si agitò un poco per quell’improvvisa tanto quanto inaspettata confessione.
“Adesso vediamo i pro.” Balbettò Alec, cercando di darsi un contegno e non apparire come uno scolaretto imbranato. Troppo tardi, pensò.
“I pro, in realtà, sono in svantaggio. Ne abbiamo uno contro tre: andrei a Los Angeles per ballare.”
“E tu ami ballare.”
“Ma amo anche mia figlia.”
“Magnus.” Alec prese il viso dell’uomo tra le mani. “Andare non significa non amare Erin, o abbandonarla. Lei starà con tua madre, noi tutti le daremo una mano, e starà bene. E poi circa dal 1871 hanno inventato il telefono, quindi potrai sentirla ogni volta che vorrai.” Gli sorrise incoraggiante e Magnus ricambiò quel sorriso, appoggiando le mani sui polsi di Alec. Tuttavia, non sembrava ancora convinto, così Alec continuò. “Quando mi hai portato da Sophia mi hai detto che partecipare a quelle serate ti fa bene, perché ti ricorda che la danza non è solo il tuo lavoro, ma anche la tua passione. Questa è un’occasione in più per vivere la tua passione.”
“Pensi che dovrei accettare, quindi?”
“Io penso che se fossi stato convinto fin dall’inizio di voler rifiutare, non saresti venuto qui a chiedermi cosa ne penso.”
Magnus accennò una risata. “Sei un so tutto io fastidioso.”
“Questo l’avevi già appurato, mi sembra di ricordare.” Alec gli accarezzò le guance con i pollici e abbassò le mani. “Vai, Magnus. Erin starà bene. E io non vado da nessuna parte. Mi troverai qui, quando tornerai.”
Magnus sorrise. “Uscirai con me, al mio ritorno?”
Alec avvampò per quella richiesta così diretta, ma annuì. Il suo cuore perse un battito al pensiero che anche Magnus voleva che le cose tra di loro cambiassero, si evolvessero – di conseguenza, tutti i timori che aveva avuto qualche giorno prima si affievolirono parecchio.
“Un appuntamento vero?”
Alec annuì ancora, incapace di proferire parola. Si sentiva uno stupido. Perché doveva reagire in quel modo? L’idea di uscire con Magnus gli faceva chiudere la bocca dello stomaco dall’euforia, ma non riusciva ad esprimere quell’emozione come avrebbe voluto. Era come se in realtà la sua contentezza stesse remando contro di lui e lo facesse chiudere in se stesso, piuttosto che aiutarlo a mostrarsi felice.
“Quando devi partire?” Domandò, perché Alec era davvero idiota fino al midollo.
“Il dieci di dicembre. Finirei intorno al trentuno, ma penso di tornare per Natale.”
“D’accordo. Allora abbiamo tempo per prepararci e per trovare un sostituto per non chiudere la scuola, durante la tua assenza.”
Abbiamo?”
“Pensavi di fare questa cosa da solo? No, Magnus. Mi hai coinvolto, ormai. Ci siamo dentro insieme.”
Magnus si aprì in un sorriso enorme, sentendo il cuore che veniva invaso da un profondo senso di gratitudine. “Grazie, Alexander.”
“Non ringraziarmi, mi fa piacere esserti d’aiuto.”
Magnus gli stampò un bacio sulla guancia e Alec, inevitabilmente, sorrise.
Il bollitore fischiò. Entrambi si erano dimenticati che Alec l’aveva messo sul fuoco, così sussultarono. Si guardarono e risero di quel gesto, poi Alec si allungò verso uno scaffale della dispensa dove teneva vari tipi di the per far scegliere a Magnus quello che preferiva.
“Li ho comprati per te.” Confessò. “Spero ti piacciano.”
Magnus scelse del the nero. “Vuoi dire che stavi pianificando di invitarmi a casa tua, Alexander?” Alzò gli occhi su di lui, guardandolo con un’astuta malizia.
Alec arrossì. “Ho solo pensato, nell’eventualità in cui tu capitassi da queste parti, che sarebbe stato gentile avere qualcosa da offrirti, visto che non bevi caffè. E come vedi, la mia lungimiranza è servita.”
Magnus ridacchiò. “Non posso darti torto. A mia discolpa, però, devo dire che la mia improvvisata qui è stata dettata dal tuo silenzio. Non mi piace passare le giornate senza sentirti, così mi sono fatto mandare il tuo indirizzo da Isabelle. È così una cara ragazza.”
“Izzy è solo una grandissima impicciona. Ma sono contento ti abbia detto dove vivo, almeno abbiamo chiarito.” Alec prese la bustina che Magnus aveva scelto e si voltò verso il bollitore per lasciare che l’infuso restasse in ammollo nell’acqua bollente. Il the solubile non era buono come il the in foglia, ma Alec aveva trovato solo quello. “Anche a me non piace passare le giornate senza sentirti.” Aggiunse, con un filo di voce, ma Magnus riuscì chiaramente a sentirlo.
“Allora non facciamolo più.” Gli rispose semplicemente.
Alec si voltò di nuovo verso di lui e annuì. Gli piaceva come piano. Soprattutto, lo rendeva felice. Tanto felice.


Magnus stava seduto al tavolo della cucina di Alec e lo guardava, in piedi davanti al frigo mentre lo apriva per tirare fuori dello yogurt. Gli venne inevitabilmente da sorridere, ricordando il loro incontro in caffetteria, due mesi prima.
Era davvero strano pensare come quel ragazzo fosse diventato importante per lui in così poco tempo. Quando aveva ricevuto quella lettera, era stato Alexander il primo a venirgli in mente, non sua madre o Raphael o Cat. Alexander. Voleva sapere cosa ne pensasse, voleva che lo aiutasse a scegliere, dal momento che era davvero indeciso. Si fidava di lui e della sua opinione, gli piaceva il suo modo di pensare e di vivere le situazioni. Ora che ci pensava, gli piacevano parecchie cose di lui, tipo che agitasse il naso, quando era sovrappensiero, finendo per assomigliare ad un coniglietto (era adorabile oltre ogni limite, davvero). Gli piaceva quel senso di protezione che trasmetteva e Magnus era sempre stato affascinato da chi riesce a trasudare una sensazione simile. Non tanto perché avesse bisogno di sentirsi protetto, ma perché chi sa proteggere, sa anche dare un senso di sicurezza che non si trova molto spesso.
Gli piaceva che arrossisse davanti ai complimenti e che sorridesse di più, in sua compagnia – Magnus l’aveva notato. Era oltremodo soddisfacente essere motivo di un sorriso tanto luminoso.
Gli piaceva che, nonostante Alec avesse le sue barriere, continuasse a fare di tutto per aiutare Magnus a scavalcarle, giorno dopo giorno.
E gli piaceva che lo trovasse meraviglioso.  Magnus ancora sentiva il cuore scalpitare, se solo ripensava a quel messaggio. Sei meraviglioso. Io lo so.
“Ti piace?” Domandò Alec, sedendosi di fronte a lui con una tazza piena di yogurt e cereali in una mano e un piattino di biscotti nell’altra. Posizionò il piattino vicino a Magnus, in modo che se avesse voluto avrebbe potuto mangiarne un po’. “Sono sicuro che non è buono come il the che ti compri, ma spero non faccia schifo.”
Magnus gli sorrise. “È buono, Alexander. Ti ringrazio.” Afferrò un biscotto e gli diede un morso. Era buono e sapeva di mandorle.  
Alec mescolò i suoi cereali nello yogurt e ricambiò quel sorriso. Affondò il cucchiaio in quella mistura e la portò alla bocca. Il suo senso di fame si calmò immediatamente.
“Ti prego, non dirmi che quella è la tua cena.”
“No, diciamo che è più… una merenda?”
“Hai pranzato, oggi?”
“Con una barretta ai mirtilli.”
“Quindi no, non hai pranzato, confettino. Stasera ceneremo insieme, così mi assicurerò che mangerai!”
Alec rise e guardò altrove. La premura di Magnus era una delle cose che gli piacevano più di lui. “Va bene,” Rispose, tornando a guardarlo,  “Ma offro io.”
“No.”
“Sì.”
“Ti ho invitato io.”
“E io non mi sono fatto  vivo per due giorni. Voglio farmi perdonare.”
“Non hai niente da farti perdonare, abbiamo già chiarito.”
“Allora diciamo che è una clausola legata al mio consenso: accetto l’invito, a patto che offro io.”
“Questa è dittatura, Alexander!”
Alec mise da parte i suoi cereali e allungò una mano verso quella di Magnus, coprendola. “Hai ragione, non voglio essere dittatoriale. Quindi senti se questa idea ti va bene: oggi offro io, la prossima volta offri tu.”
“Mi piacciono le prossime volte.” Affermò Magnus, con la voce morbida.
“Anche a me. Implicano sempre un dopo.”
“E che il prima è andato così bene che vuoi ripetere per forza.”
Alec annuì e abbassò gli occhi sulle loro mani: Magnus aveva fatto in modo che si intrecciassero e adesso Alec stava guardando le loro pelli che si univano, mentre le dita andavano a riempire i rispettivi vuoti l’uno nella mano dell’altro. Magnus accarezzò con il proprio pollice quello di Alec, che si ritrovò a cercare nuovamente lo sguardo dell’uomo. Lo trovò immediatamente, perché l’altro lo stava già guardando. Si sorrisero, in un modo che diede l’impressione ad Alec che il mondo si fosse fermato, che l’umanità fosse estinta e loro due fossero gli ultimi uomini rimasti sulla Terra. Improvvisamente, divenne sordo a qualsiasi suono e cieco a qualsiasi immagine non fosse Magnus, i suoi occhi bellissimi, il suo sorriso luminoso e il suo viso. Alec era sicuro che quel viso l’avrebbe fatto morire, prima o poi.
Era tutto così giusto che Alec pensò per una frazione di secondo che potessero essersi trovati per un motivo. Non aveva mai creduto nel destino, ma da quando conosceva Magnus, un po’ doveva ammettere di essersi ricreduto.
Lo squillo improvviso del suo cellulare, tuttavia, lo riportò alla realtà con un sussulto. Non erano più gli ultimi due uomini sulla Terra, e l’umanità abitava ancora il pianeta.
“Scusa.” Disse a Magnus, sciogliendo l’intreccio delle loro mani. L’uomo gli fece un cenno con la mano che stava a significare non preoccuparti.
“Pronto.” Rispose, dopo aver estratto il cellulare dai pantaloni.
“Ehi fratellone, mamma non risponde, così ho pensato di informare te.” Cominciò Max, dall’altro capo del telefono. “Torno mercoledì all’ora di pranzo, non nel pomeriggio.”
“E come mai?”
“Lezione rimandata, quindi finisco prima. Non sei contento di vedermi?”
“Certo che sono contento. Vuoi che ti venga a prendere?”
“No, prendo il treno, ma grazie.”
“D’accordo… lo dico io a mamma.”
“Sei così efficiente, fratellone!”
Alec poté chiaramente percepire il sorriso nella voce del fratello. “Ricordati di chiamarla comunque stasera, però. Sai che le fa piacere quando la chiami.”
“Certo, capo!” Esclamò Max, un altro sorriso che sicuramente gli tendeva le labbra. Alec riusciva a percepirlo. “Un’altra cosa…” continuò il minore e Alec, questa volta, sentì il sorriso che sciamava. Si preoccupò un po’, ma rimase in silenzio ad ascoltare. “Mi ha chiamato papà. Chiede se lo andiamo a trovare per il Ringraziamento.”
Alec chiuse gli occhi e una ruga si formò in mezzo ad essi, quando aggrottò leggermente le sopracciglia. Magnus notò quel cambiamento di espressione, ma non disse nulla.
Era tipico di suo padre, pensò Alec. Tendeva sempre a comunicare attraverso Max, perché sapeva che tra i suoi figli era quello che, di solito, tendeva a dare una buona attenuante a tutti. Max era il tipo di persona che dava molta fiducia, pensando in partenza che la persona che si trovava davanti ne fosse meritevole, e poi la toglieva nel caso in cui quella persona si fosse dimostrata indegna di quella fiducia. Questo non gli impediva, tuttavia, di credere nelle seconde opportunità. Max era dell’idea che le persone sbagliano e che bisogna ascoltarle, quando vogliono rimediare ai loro errori.
Quando Robert se n’era andato Max aveva solo nove anni e quel gesto aveva spezzato la fiducia che provava nei confronti di suo padre, al quale voleva molto bene. Per questo motivo, Robert era tornato da lui chiedendogli perdono e l’occasione di poter riallacciare il loro rapporto. E Max, che aveva un cuore buono, aveva accettato. Non sarebbe stato facile perdonarlo, sia per come aveva trattato sua madre, sia per il modo in cui li aveva abbandonati, ma voleva provarci.
Alec era convinto che Robert non si meritasse la bontà di Max, ma era anche convinto che il suo fratellino, sotto quel punto di vista, fosse una persona decisamente migliore di lui. Max stava provando ad abbandonare il rancore, Alec no. Non riusciva a perdonare qualcuno che ogni volta che lo guardava non riusciva a celare il disprezzo che provava nei suoi confronti. Non riusciva a perdonare qualcuno che aveva tradito sua madre e l’aveva lasciata sola con quattro figli.
Sospirò. “Max, Robert è tuo padre. Non mi devi chiedere il permesso per vederlo.”
“Lo so, ma… l’ultima volta che vi siete visti non è finita bene…”
“Quando mai finisce bene?”
Max sospirò, dispiaciuto. “Lo so che lui ti ferisce e detesto quando lo fa. Vorrei che si svegliasse un giorno e avesse una mentalità completamente diversa, vorrei che…”
“Che mi accettasse?” Finì Alec per lui, rendendosi conto che Max non avrebbe finito quella frase.
“Sì.” Sussurrò il minore. E Alec sentì il petto che si colmava d’affetto per quel ragazzo.
“Ascoltami,” cominciò, “Papà ha le sue idee, è fatto a modo suo e questo ormai l’ho appurato. Rimane il fatto, però, che non mi trovo bene con lui. Ma questo non significa che tu non possa avere un rapporto con lui. È tuo padre, Max. Non devi sentirti in colpa se vuoi provare a passarci del tempo insieme.”
Max rimase in silenzio, quasi come se stesse riflettendo sulle parole del fratello, così Alec continuò. “Se vuoi vederlo per il Ringraziamento, digli che passerai a trovarlo. Chiedilo anche a Jace ed Izzy, se ti fa piacere. Ma spero tu mi capisca, se non verrò.”
“Lo capisco, Alec, e mi dispiace. Mi dispiace che abbia scelto di non averti nella sua vita perché non sa che si perde.”
Alec accennò un sorriso. “Stai facendo lo sdolcinato, adesso.” Ma in realtà le parole di suo fratello l’avevano emozionato.
“Ti voglio bene.” Continuò Max, ignorando quel commento.
“Anche io.” Rispose quindi Alec.
“E grazie per esserci sempre.”
“Non ringraziarmi, Maxie.”
“Non chiamarmi così, sono adulto ormai!”
“Ti chiamerò così ogni volta che vorrò. Sono più grande di te.”
“Sei solo un Matusa, Alec!” Rise il ragazzo e Alec, inevitabilmente, accennò un sorriso. “Devo andare, fisica non si studia da sola!”
“D’accordo. Non torni questo week-end?”
“No, rimango. Torno direttamente mercoledì.”
“Va bene, allora ci vediamo mercoledì. Ciao, Maxie!” Alec ridacchiò e sentì chiaramente Max dall’altro capo del telefono che si esibiva in una smorfia di disappunto rumorosa per quel soprannome, prima di riattaccare. Alec bloccò lo schermo del suo cellulare e se lo rimise in tasca, prima di guardare di nuovo Magnus. Non aveva sentito il desiderio di alzarsi e andare in un’altra stanza per mantenere privata quella conversazione. Era rimasto seduto esattamente dov’era, davanti a Magnus, che era a portata d’orecchio, perché con lui gli veniva naturale essere se stesso e lasciare che venisse a conoscenza delle sue dinamiche familiari. Forse perché aveva la certezza che Magnus non l’avrebbe giudicato, o forse perché voleva mostrargli anche le cose spiacevoli della sua vita e vedere se le avrebbe accettate come quelle belle. Non era un test contorto per mettere Magnus alla prova, era solo il modo che aveva Alec di mettersi a nudo, di mostrarsi nella sua interezza – di chiedere, indirettamente e attraverso i gesti: guardami, c’è anche questo in me, ti piaccio lo stesso?
“Va tutto bene?” gli domandò Magnus, davanti al suo silenzio.
“Sì.”
Magnus lo scrutò. “Sei sicuro?”
Alec intuì che dalle risposte che aveva dato a Max al telefono, Magnus era riuscito a comprendere quasi tutta la conversazione. “Sì, Magnus, stai tranquillo. Sono abituato a mio padre.” Sospirò. “Lui… lui fa così da dieci anni ormai.” Alec si appoggiò allo schienale della sedia. “Pensa ancora che la mia omosessualità sia dettata dal trauma che mi ha provocato la malattia di Max.”
La fronte di Magnus si aggrottò. “Che vuoi dire?”
“Ho fatto outing a vent’anni, dopo che Max aveva finito la terapia e si era ripreso. Il medico che l’ha curato era un uomo, quindi mio padre pensa che le cose siano collegate. Crede che, e cito quasi testualmente, la paura di perdere il mio fratellino sia stata così forte che ho sviluppato un moto di gratitudine così elevato per chi l’ha salvato che mi ha spinto a credere di essere attratto dagli uomini.”
Magnus non sapeva cosa dire. Si limitò a guardare Alec pensando a come potesse sentirsi ad avere un padre che trovasse scuse così assurde per giustificare il suo orientamento sessuale. Robert preferiva credere che fosse tutto dettato da un trauma, piuttosto che accettare suo figlio per quello che era.
“È assurdo, lo so.” Continuò Alec, davanti al suo silenzio. Guardò altrove e il suo sguardo riuscì quasi a viaggiare indietro nel tempo, a un decennio prima, quando aveva riunito tutta la sua famiglia e aveva detto la verità. Alec ricordava che tutta la situazione di Max l’aveva fatto riflettere: a undici anni suo fratello era stato così coraggioso da affrontare una terapia contro il cancro. Alec voleva smettere di avere paura di quello che avrebbero potuto pensare gli altri di lui, voleva essere coraggioso, voleva guardare la vita in faccia e affrontarla, proprio come aveva fatto Max.
Così aveva dato voce ai pensieri che lo tormentavano da quando aveva tredici anni e li aveva tirati fuori. Veritas vos liberat, la verità rende liberi. Era scritto nel vangelo di Giovanni, quello che leggeva suo padre.
E Alec voleva finalmente essere libero. La sua libertà, tuttavia, ebbe un prezzo: suo padre, di fronte al suo coming-out, l’aveva guardato come se fosse la più grande delusione della terra e aveva lasciato la stanza senza dire una parola, senza salutare nessuno. Da quel momento, i loro discorsi erano cessati. E se prima di quel momento, il loro rapporto era fragile per il comportamento di Robert – che due anni prima li aveva lasciati per andare da Annamarie, dopo aver passato anni a tradire Maryse – dopo quel giorno, non rimase più niente. Alec e suo padre si scambiavano convenevoli e poi, inevitabilmente, finivano per discutere. Per questo preferiva non vederlo.
“Max ha avuto una ricaduta.” Cominciò Alec, perché voleva che Magnus sapesse tutto e pensò che quello fosse il momento adatto. “Dopo la fine della terapia, ha sempre fatto esami di routine e, tre anni fa, i medici si sono accorti che c’era qualcosa che non andava. La malattia era tornata, allo stesso rene.” La voce di Alec tremò un attimo, senza che lui davvero volesse o riuscisse a trattenersi. La sua mente venne invasa da flash di ricordi veloci che scorsero come un fotogramma che ne segue un altro e poi un altro e un altro ancora. Ricordò l’ospedale, sua madre con il viso tirato, preoccupato. L’angoscia era riuscita persino a modificarle i bei lineamenti, rendendoli quasi spigolosi. Ricordò Jace, che aveva sempre Clary al suo fianco a fargli da roccia. Diana aveva solo un anno all’epoca , così Luke e Maia si prendevano cura di lei, quando i genitori erano da Max. Ricordò Simon con un braccio intorno alle spalle di Izzy, che non piangeva mai davanti ai suoi fratelli, ma Alec sapeva riconoscere quando l’aveva fatto. Era sicuro lo facesse davanti a Simon, che si era dimostrato un amico eccezionale e una spalla solida su cui fare affidamento. Durante tutto quel periodo, infatti, non aveva mai lasciato il fianco di Isabelle.  Per Alec era stato diverso: non aveva mai chiesto a Will di accompagnarlo in ospedale perché sapeva avrebbe trovato anche suo padre. E non era dell’umore giusto per affrontare litigi e discussioni, non quando suo fratello doveva affrontare un’operazione, così si limitava a lasciarsi andare una volta tornato a casa. Ogni volta che apriva la porta del proprio appartamento, puntualmente ci trovava Will, che non diceva mai niente, quando lo vedeva con le lacrime che gli gonfiavano gli occhi, e si limitava a stringerlo a sé.
Quel filo di ricordi venne interrotto dalla mano di Magnus che coprì la sua – un gesto di comprensione e rispetto –  così Alec continuò a parlare. “Non mi scorderò mai come mi ha guardato, mentre l’oncologa ci spiegava, con tatto, come stavano le cose. Max mi ha dato del bugiardo, mi ha detto che gli avevo promesso sarebbe andato tutto bene e che invece non era vero niente.” Deglutì, sentendo le parole che gli morivano in gola.  Sarebbe sempre stato doloroso, ricordare quel periodo. “Mi disse che era stato tutto inutile perché adesso rischiava di morire.” Alec si passò la mano che aveva libera sul viso. “Mio fratello ha avuto un attacco di panico. Aveva diciotto anni, era più consapevole e più spaventato. La paura gli ha fatto dire cose che non pensava. Ancora mi chiede scusa, se gli torna in mente quello che ha detto quel giorno, ma gli dico che non deve scusarsi di nulla. Era spaventato, quindi tutto ciò che usciva dalla sua bocca era solo la paura a farglielo dire.” Alec abbassò lo sguardo sulle loro mani. “Non ha mai rischiato di morire davvero. La dottoressa che l’ha seguito ha detto che eravamo ancora in tempo a togliere il rene. Ciò non toglie, comunque, che eravamo tutti preoccupati e, soprattutto, spaventati.” Sospirò, come se dovesse trarre sollievo da quei ricordi, come se ancora una volta, proprio come era successo durante la prima volta in cui aveva accennato a Magnus della malattia di Max, avesse dovuto ricordare a se stesso che adesso le cose andavano bene, che era tutto finito. “Comunque, Max ha acconsentito all’operazione, così come mia madre e mio padre. Siamo stati fuori dalla sala operatoria per tutto il tempo e quando si è svegliato e ci hanno detto che potevamo andare da lui, ci ha accolto con un sorriso. È andato tutto bene, è stata la prima cosa che ci ha detto.” Alec accennò un sorriso a labbra chiuse, alzando solo un angolo della bocca in modo quasi impercettibile. Senza lasciare la mano di Magnus, appoggiò la schiena allo schienale della sedia e, con la mano libera, sollevò la maglietta quel tanto da mostrare il tatuaggio. “Pochi mesi dopo, ha voluto che ce lo facessimo. Ha detto che, se non ci avesse avuto vicini, non sarebbe mai riuscito a superare la paura che quella malattia gli aveva fatto provare.” Alec si riabbassò la maglietta e tornò a guardare Magnus, che rimaneva ad ascoltare in rispettoso silenzio. Si ricordava quando gli aveva chiesto il significato di quel tatuaggio, poche settimane prima. E adesso capiva perché non aveva voluto dirglielo in una palestra piena di persone: era un argomento troppo delicato, troppo importante e troppo intimo. Una storia che non poteva essere condivisa davanti ad orecchie casuali. Magnus apprezzò moltissimo che Alec si fidasse di lui al punto da raccontargli il resto di una storia che aveva già iniziato a raccontargli tempo indietro.
“La cosa assurda di tutta questa situazione si è manifestata alla fine. Un giorno sono andato a trovare Max e ho incontrato mio padre che stava andando via. Ci siamo salutati e pensavo che la cosa finisse lì, dal momento che non moriva mai dalla voglia di parlarmi, ma mi sbagliavo.”
Alec camminava lungo il corridoio dell’ospedale. Non voleva cadere nel solito cliché secondo cui gli ospedali si assomigliano un po’ tutti, ma non poté fare a meno di pensarlo. Quell’ospedale non era poi così diverso da quello in cui lavorava. Aveva corridoi ampi e bianchi, mentre i muri erano colorati. Uno studio aveva dimostrato che la policromia aiutasse a prevenire gli attacchi di panico, quindi i reparti ospedalieri avevano abbandonato il bianco totale. Teoria che, purtroppo, non sempre funzionava. C’era lo stesso odore di disinfettante che penetrava nelle narici, dando l’idea di una pulizia estrema e minuziosa. Tuttavia, quell’ospedale era diverso da quello in cui lavorava per un motivo ben specifico: in una di quelle stanze c’era il suo fratellino. Max aveva appena subito l’estrazione del rene malato e adesso era sotto osservazione. Alec aveva pensato di andare a trovarlo per vedere come stesse e proprio mentre si dirigeva verso la stanza di suo fratello, in corridoio incontrò suo padre che procedeva nel senso opposto al suo: probabilmente se ne stava andando. Alec lo salutò, convinto che come ogni volta suo padre si sarebbe limitato a ricambiare per poi superarlo senza aggiungere altro. Quella volta, invece, Robert si fermò davanti al suo primogenito – cosa che stupì parecchio Alec.
“Max sta bene.”
Alec annuì. “Reagisce bene all’intervento.”
Solo quando Robert parlò di nuovo, Alec si rese conto di aver frainteso le sue parole.
“Intendo che è guarito, Alec. Starà bene, d’ora in poi. Non devi più temere per lui.”
Alec in un primo momento non volle crederci. Non voleva credere che suo padre stesse tirando fuori di nuovo quella storia ridicola secondo cui il suo coming-out derivasse dal trauma dovuto a ciò che era successo anni prima.
“Lo pensi davvero, non è vero? Pensi che sia una conseguenza di un trauma. Se fosse come dici, perché Jace è innamorato di Clary? Perché anche lui non ti ha detto che gli piacciono gli uomini?”
“Jace non è mai stato confuso. Tu sì. Sei sempre stato sensibile, Alec. Tutta la faccenda di tuo fratello ti ha segnato più di tutti, ma adesso…”
“Adesso cosa? Speri che ti dica che siccome questa volta a curarlo è stata una donna, adesso sono etero? Non funziona così, e dovresti saperlo!”
Ad Alec faceva male. Faceva così male che sentì le lacrime affiorare, ma le ricacciò indietro. Suo padre riusciva a pugnalarlo con ogni parola che usciva dalla sua bocca e con ogni sguardo che albergava nei suoi occhi. Non era stato più lo stesso da quando gli aveva detto come stavano le cose. Si era semplicemente limitato a guardare Alec e vedere solo la sua sessualità, che disapprovava a tal punto da cercare di trovarne una causa, quasi come se, derivando da qualcosa, avesse potuto avere la certezza che, prima o poi, proprio come Max, anche Alec sarebbe guarito. L’unica, sostanziale, differenza era che Alec non era malato.
“Perché non puoi accettarmi e basta?” Glielo domandò senza astio alcuno nella voce, ma con tutta la sofferenza che un cuore umano poteva sopportare. Suo padre si era comportato in modo pessimo, sia con lui che con sua madre. Ma rimaneva pur sempre suo padre e proprio per questo i suoi comportamenti avevano il potere di farlo soffrire. “Perché non puoi smettere di trovare scusanti, o giustificazioni, a quello che sono? Perché non puoi volermi bene e basta?” Una lacrima solcò il viso di Alec e lui l’asciugò via con la stessa velocità con cui era scesa. Suo padre rimase immobile. Guardò Alec e restò impassibile davanti al suo dolore. Non pronunciò parola alcuna. Non si sforzò nemmeno di provare a rispondere alle sue domande. Alec si sentì uno stupido solo per aver pensato di poterci provare, a chiarire con lui.
“D’accordo. Gestiamola a modo tuo. Fingiamo che io non esista.” Alec serrò la mascella e ricacciò indietro le lacrime di rabbia che minacciavano di scendere. “Per la cronaca: non sono mai stato confuso. So che mi piacciono i maschi da quando avevo tredici anni! Solo che a
te questo non sta bene, quindi fingi che io sia confuso nella speranza che un giorno possa redimermi e cominciare ad innamorarmi delle persone che tu ritieni giuste: donne. Non succederà mai. Ho un ragazzo, lo sai? No. E nemmeno ti interessa. Probabilmente la cosa ti disturba anche, quando, in realtà, dovresti solo accettarmi, volermi bene.” Alec guardò suo padre, nella speranza che provasse almeno a capirlo, ma non fu così. Robert rimase immobile, di nuovo, a fissarlo come se le parole che stava pronunciando fossero assurdità inconcepibili, capricci privi di senso, le lamentele di un bambino che non sa chi è o cosa vuole davvero dalla vita. Fu un’altra pugnalata, così Alec decise di lasciar perdere. “Adesso, se vuoi scusarmi, devo andare a trovare mio fratello.” Si voltò, con un groppo che gli otturava la gola, e si diresse verso la camera di Max.
“Lui è sempre stato così.” Concluse Alec, terminando il suo tuffo nel passato. Mentre lui parlava, Magnus era rimasto in silenzio ad ascoltare. Stringeva la sua mano per fargli sentire la sua presenza e tutta la sua comprensione. Quando finì di parlare, però, Alec sentì chiaramente la presa di Magnus allentarsi: lasciò la sua mano solo per alzarsi dal tavolo, circumnavigarlo e raggiungerlo. Fu una specie di flashback, per Alec, che ripensò allo stesso gesto fatto da Will, cinque anni prima.  
Ma Magnus non aveva niente di William.
Will non l’aveva mai guardato come adesso lo stava guardando Magnus: con comprensione, con tenerezza e affetto. Lo guardava quasi come se avesse voluto fargli da scudo contro il mondo e le cose che gli facevano male. Per questo, quando Magnus lo abbracciò, Alec provò una strana sensazione: ebbe la certezza che l’avrebbe protetto da tutte quelle parole cattive che riuscivano a ferire più di un pugno in pieno stomaco. Alec si alzò dalla sedia per riuscire al meglio a ricambiare l’abbraccio di Magnus, che lo strinse forte a sé quasi avesse voluto fondersi con lui.
“Ti sceglierei sempre.” Sussurrò Magnus, quando si allontanò da lui quel tanto da riuscire a guardarlo in viso. Gli appoggiò le mani sulle guance e gliele accarezzò. “Sceglierei sempre di averti nella mia vita, piuttosto che bandirtene. Tuo padre non si rende conto della fortuna che ha avuto e che ha scioccamente buttato via.”
Alec ebbe la certezza di sentire il suo cuore fermarsi, prima di riprendere velocemente la sua corsa, quasi battesse a velocità triplicata. Magnus era Atlantide: ne parlano tutti, chiunque racconta di quella meravigliosa città andata perduta nelle profondità marine. Tutti ci credono, come si può credere ai miti, ma nessuno la trova mai.
Alec aveva trovato la sua Atlantide in Magnus, che lo capiva e sapeva sempre cosa dirgli per farlo sentire meglio; che sapeva farlo ridere nel modo più genuino possibile, che lo faceva ballare e gli permetteva di essere liberamente se stesso; che guardava le parti spiacevoli della sua vita e le abbracciava quanto quelle belle, se non di più. Alec, raccontandogli il rapporto controverso che aveva con Robert, era come se gli avesse indirettamente chiesto: c’è anche questo in me, ti piaccio lo stesso? E Magnus, stringendolo con così tanta forza tra le sue braccia, pronunciando quelle parole così dolci, era come se avesse risposto a quella domanda con certo, mi piaci sempre, in ogni caso, indipendentemente da tutto.
“Riesci sempre a tirarmi su di morale.” Sussurrò Alec, quasi avesse temuto che qualcun altro avesse potuto udire quelle parole che, invece, dovevano rimanere solo ed esclusivamente per Magnus – perché solo lui aveva quel potere.
Magnus sorrise. “Non te l’ho detto? È diventata la mia missione principale assicurarmi che tu sia felice.”
Alec ricambiò quel sorriso e scosse affettuosamente la testa. Mai come in quel momento era stato convinto di provare dei sentimenti per Magnus che esulassero dall’amicizia. Non sapeva ancora dargli un nome, ma qualsiasi cosa fossero, classificarli come amicizia non era abbastanza.
“Grazie.”
“Non dirlo nemmeno, Alexander. Sono qui per te.” Gli accarezzò una guancia e Alec inclinò la testa verso il palmo di Magnus. Rimasero in silenzio. Magnus continuava ad accarezzare il viso di Alec con dolcezza, mentre lui lasciava che quel contatto facesse da balsamo su quelle cicatrici, che ogni tanto facevano ancora male. Era come se Magnus fosse il suo acchiappasogni e lo stesse proteggendo dagli incubi solo per far filtrare i sogni belli.
In realtà, Alec era convinto che Magnus stesso fosse un sogno, il più bello che avesse mai potuto avere. Se davvero fosse stato così e lui stava dormendo, non voleva assolutamente essere svegliato.
Tuttavia, la suoneria del cellulare di Magnus non la pensava così. Lo squillo ruppe il silenzio e li fece sussultare. Quando vide che a chiamarlo era sua madre, Magnus rispose immediatamente. Alec lo guardò rimanere esattamente davanti a lui, senza allontanarsi di un millimetro, mentre parlava con Madelaine. E ancora una volta, realizzò quanto fosse bello, sia dentro che fuori.



*


“Farò schifo, Izzy!”
“Non è vero, Simon. Rilassati.”
Isabelle gli rivolse un sorriso incoraggiante e gli prese una mano tra le sue. Si trovavano al Pandemonium, un locale che normalmente era una discoteca, ma una volta a settimana organizzava serate evento dove artisti emergenti potevano esibirsi. Quella sera, toccava a Simon, che settimane prima si era fatto convincere da Izzy che esibirsi in pubblico fosse una buona idea. Così, di giovedì sera, si dietro le quinte del palco che di solito al Pandemonium veniva usato come pedana per il dj.
Simon rimpiangeva le quattro mura del suo appartamento. Il pubblico in genere lo metteva in agitazione. La sola idea di salire su quel palco gli faceva venire voglia di vomitare.
“Non posso farcela.”
“Puoi, invece!” Esclamò Isabelle, convinta delle sue parole. “Da quanto ti conosco?”
“Dieci anni, più o meno?”
“E ti ho mai mentito?”
Simon negò con il capo.
“Quindi dovresti credermi quando ti dico che ti adoreranno.” Isabelle sorrise.  “Sei un musicista eccezionale, Simon, e il tuo talento merita di essere condiviso con il mondo.”
Simon suonava la chitarra da quando era un bambino. Amava suonare e aveva passato gli ultimi anni a farlo per Isabelle, improvvisando concerti solo per lei nel proprio appartamento, quando lo andava a trovare.
E tutte le volte che suonava, sul viso di Izzy compariva un sorriso luminoso e orgoglioso che si tramutava in parole di incoraggiamento non appena la canzone finiva. Dovresti farlo di mestiere, Simon, sei bravissimo! Gli diceva sempre e Simon inevitabilmente si trovava ogni volta a pensare che Isabelle aveva il potere magico di infondere fiducia alle persone che la circondavano: se lei credeva in qualcuno, quel qualcuno cominciava automaticamente a credere in se stesso. E questa era una delle tante ragioni che la rendevano fantastica, uno dei tanti motivi per cui Simon si era innamorato di lei.
“Il mio talento stava benissimo nel mio appartamento.” Simon sbirciò la folla davanti al palco. Era formata da un numero discreto di persone. “Lontano da estranei.” Aggiunse, con gli occhi ancora fissi sulla gente.
“Non dire idiozie! Il tuo talento è esattamente dove deve essere. E anche tu. In ogni caso, se dovesse venirti l’ansia, io e Maia siamo nel primo tavolo sotto al palco. Griderò il tuo nome in segno di apprezzamento per infonderti coraggio!”
Simon rise e la guardò. Era consapevole che la sua faccia assomigliasse all’emoji con gli occhi a cuore, perché Izzy era meravigliosa e bellissima  e ogni giorno gli dava un motivo nuovo per amarla. E più i motivi aumentavano, più Simon era sicuro andassero a nutrire il suo coraggio. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento di confessarle i suoi sentimenti. Ci voleva sperare, almeno.
“Penseranno che sei la mia groupie…” Arrossì al solo pensiero.
“Non vuoi che scoraggi possibili fan interessate a conoscerti meglio?” Izzy svirgolò le sopracciglia con malizia. “Ma forse hai ragione… conterrò l’entusiasmo. Tu guardami e io ti incoraggerò silenziosamente, che so con un’alzata di pollici o un sorriso…”
Simon avrebbe voluto dirle che non gli interessava nessun’altra, che era lei l’unica e che sempre lo sarebbe stata, ma rispose anzi: “Sembra perfetto.”
Isabelle ridacchiò e si sporse per abbracciarlo. “Adesso vai, tocca a te e non puoi più rimandare!” 
Simon ricambiò quell’abbraccio, stringendola forte a sé. Quando si separarono, Isabelle gli diede un bacio sulla guancia come ultimo segno di incoraggiamento e scese dalle quinte, dirigendosi verso il tavolo dove stava Maia. Simon la seguì con lo sguardo finché non la vide sedersi e poi, con un ultimo profondo respiro, afferrò la chitarra e si diresse verso il palco.



Era andata sorprendentemente bene. Simon non aveva vomitato nemmeno una volta, ne era svenuto. Si era persino divertito e le sue canzoni erano piaciute. Ne aveva cantate tre, tutte scritte da lui. Aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa di estremamente intimo nel far ascoltare a qualcuno le proprie canzoni. Era come mettere a nudo la propria anima, o la parte più profonda dei propri pensieri. Scrivere una canzone e farla ascoltare a qualcuno era l’equivalente di dire ehi, nella mia testa ci sono questi pensieri, prendeteli!
Per questo Simon era sempre stato un po’ restio a cantare in pubblico. Aveva il timore che chiunque lo ascoltasse non apprezzasse i suoi pensieri. Questo problema con Isabelle non si era mai posto, perché lei conosceva i suoi pensieri e li apprezzava, alcuni li condivideva persino. C’era quella complicità tra loro che cancellava ogni tipo di imbarazzo. Si parlavano sempre a cuore aperto, senza temere l’uno il giudizio dell’altra.
“Glielo dirai prima o poi?” La voce di Maia, seduta al suo fianco lo destò dai suoi pensieri. Finita la sua esibizione, Simon aveva raggiunto le ragazze al tavolo, mentre il suo posto sul palco era stato preso da un sassofonista di mezza età.
Simon si voltò verso l’amica. “Cosa? E a chi?”
Maia indicò con l’indice il bancone del locale, qualche metro più in là, dove Isabelle stava aspettando le loro bevute. “Che sei innamorato di lei.”
Simon divenne rosso come un peperone. Alla faccia del non essere scoperto, Lewis! Come agente segreto avrebbe davvero fatto schifo. Se l’MI6 fosse dipeso dalla sua inesistente faccia di bronzo, i servizi segreti britannici sarebbero durati circa trenta secondi, prima di andare in contro ad un’implosione certa. Simon aveva appena appurato che non aveva niente di James Bond e questo faceva decisamente schifo. Non sapeva dire nemmeno una minuscola bugia, o camuffare un segreto, perché la sua faccia aveva appena deciso di contribuire alla sua esecuzione sociale e farlo avvampare davanti alle insinuazioni di Maia. Insinuazioni, tra l’altro, che erano solo la pura verità – ma accidenti Simon pensava di poter fare meglio di così! E invece era appena diventato il cosplay scadente di un pomodoro.
“N-non so di cosa parli!”
Maia roteò gli occhi al cielo. “Simon. L’unica cosa più ovvia di te che scrivi una canzone per lei sarebbe andare là adesso e dirle apertamente che la ami!”
“Non ho scritto una canzone per lei!” Mentì Simon, mettendosi sulla difensiva.
Maia alzò un sopracciglio, non credendo nemmeno per un attimo a ciò che usciva dalla bocca dell’amico. “Ah no? Perché ogni volta che ti guardo vedo tutto ciò che desidero e non posso avere dice proprio il contrario.”
Vorrei sentirti mia.
Ci sono volte che amarti mi fa male, volte in cui penso di chiudere gli occhi e smettere di guardarti perché ogni volta che ti guardo, vedo tutto ciò che desidero e non posso avere.
Ma poi penso a come sarebbe un mondo senza te. Oscuro, come il buio che vedo non appena i miei occhi si chiudono, o si posano su qualcosa diverso da te.
Sei il mio sole, la cosa più vicina a tutto ciò che di vitale e bello c’è in questa esistenza.
Se rinunciassi a te, perderei tutto ciò che c’è di buono in me.

Era un pezzo della canzone che Simon aveva scritto per Isabelle. E forse quella sera l’aveva cantata perché, in cuor suo, desiderava soltanto che Izzy gli chiedesse dove aveva trovato l’ispirazione e lui avrebbe potuto finalmente farsi coraggio e dire che era lei la sua musa, che ogni volta che il suo viso albergava la mente di Simon lui veniva invaso dalla voglia di scrivere musica. O forse l’aveva cantata e basta, solo per se stesso. Solo per fare in modo che le parole riempissero l’aria e alleggerissero  il suo cuore, così abituato a tacere su determinati sentimenti da trovare persino assurdo l’ipotesi che qualcuno potesse davvero ascoltare quella dichiarazione d’amore. Ma qualcuno l’aveva fatto: Maia si era accorta di tutto e gli aveva fatto una domanda ben specifica, una domanda da cui Simon non poteva sottrarsi.
“Sei la prima che se ne accorge.” Rispose, quindi, arrendendosi all’inevitabile. Negare, ormai, sarebbe stato inutile. “E vorrei che rimanesse un segreto. Voglio dirle ciò che provo, Maia, davvero, ma…”
“Al momento giusto.” Concluse lei per lui.
Simon annuì. “Sì. Senza contare che ora ha un ragazzo, quindi è piuttosto ovvio che non le interesso.”
“Spesso abbiamo la soluzione davanti agli occhi e non ce ne rendiamo conto. Forse anche tu le interessi, ma non l’ha ancora capito, o forse hai ragione e non le interessi. Ma non lo capirai mai, se non provi.” Maia accennò un sorriso. “Il momento giusto arriverà quando sarai saturo di aspettare, quando il desiderio di capire se hai anche solo una chance sarà più forte di qualsiasi altra cosa.”
“Anche della paura di perderla?”
“Soprattutto di quella. Il timore di perderla, di rovinare quello che avete in caso lei non ricambi, è lo scoglio più grande da superare. Ma sono sicura troverai il coraggio di parlarle, prima o poi.”
Simon sorrise. Era stranamente liberatorio sapere che qualcun altro oltre a lui fosse a conoscenza di ciò che provava davvero. Sapeva, tuttavia, che il momento giusto non era ancora arrivato perché Izzy stava ancora con Mark e Simon non voleva mettersi in mezzo a loro due. In più, sentiva che il suo coraggio non era ancora arrivato al livello pieno. C’erano ancora delle tacche da riempire. Voleva credere, però, che un giorno sarebbe stato in grado di dire ad Isabelle che era innamorato di lei da anni, ormai, e che la reputava la creatura più straordinaria che avesse mai messo piede in questo mondo.
“Eccomi!” Isabelle interruppe i suoi pensieri, arrivando al tavolo con un vassoio su cui stavano tre drink e prendendo posto davanti a Simon. I tre presero il proprio drink e prima che potessero assaggiarlo, Izzy alzò il proprio bicchiere invitando gli altri due ad imitarla. “A Simon!” Esclamò, prima di far tintinnare i bicchieri e bere un sorso del suo drink. “Sei stato bravissimo! Ti avevo detto che dovevi fidarti di me!”
Simon le sorrise e annuì. “Mi fido sempre di te.”
Isabelle ricambiò quel sorriso, facendo perdere a Simon una quantità di battiti cardiaci indefinita. Era così bella che sembrava fosse stata disegnata da un angelo, o che lei stessa fosse un angelo. Abbassò lo sguardo sulle sue mani che abbracciavano il drink, quasi temesse che Izzy potesse leggergli la mente e venire a conoscenza di quel pensiero. Molte volte Simon avrebbe voluto essere più spigliato, più sicuro di sé. Era certo che se avesse avuto più fiducia in se stesso avrebbe anche avuto più successo con le ragazze, ma le volte che aveva provato a cambiare era diventato solo una parodia di sé, qualcuno con cui nemmeno Simon stesso si sentiva a proprio agio. Quindi aveva accettato ormai di essere fatto a modo suo: Simon Lewis era impacciato e a tratti imbranato, tendeva a straparlare quando era nervoso, spesso dicendo anche cose senza senso. Gli piaceva fare battute che solo lui capiva, citare film che solo lui conosceva e indossare t-shirt colorate che avevano stampe sopra che facevano riferimenti a libri fantasy, fantascientifici o a gruppi rock che ormai non ascoltava più nessuno, se non lui.
E finché lui si sentiva a suo agio con se stesso, andava bene così.
Rialzò lo sguardo dalle proprie mani ad Isabelle. Lei e Maia stavano ridendo per qualcosa che Simon non era riuscito a cogliere, troppo intento com’era stato nei suoi pensieri.
Lui si era innamorato di Izzy per quella che era e, se fosse stato destino, forse un giorno anche lei si sarebbe innamorata di lui per quello che era. A Simon non rimaneva altro che pazientare e scoprirlo.


*



Madelaine aveva chiamato Magnus per sapere a che punto fosse ed entro quanto sarebbe arrivato a casa sua. L’uomo aveva quindi guardato Alec, che gli aveva risposto con un’alzata di spalle e un circa un’oretta? chiesto sottovoce per non disturbare la sua conversazione. Al che, Magnus aveva riferito le tempistiche alla madre e aveva concluso la telefonata.
«Ti dispiace se viene anche Erin con noi?» Aveva domandato, rimettendosi il cellulare in tasca. Alec si chiedeva come fosse possibile che riuscisse a farlo visto quanto erano aderenti i suoi pantaloni. Non che se ne lamentasse, comunque. Magnus aveva delle gambe bellissime: definite e muscolose in un modo perfetto. E se dicesse di non averle guardate sarebbe uno sporco bugiardo, quindi era inutile che mentisse anche a se stesso.
«Assolutamente no, Magnus!» Aveva esclamato, tranquillizzandolo. «A te dispiace se vado a farmi una doccia veloce? Sono stato in ambulatorio tutto il giorno e…» aveva cominciato a giustificarsi, ma Magnus l’aveva interrotto alzando un indice. Lo sistemava sempre all’altezza delle sue labbra, ma non lo toccava mai.
«Vai, pasticcino. Io ti aspetto qui.»
Alec aveva sorriso. «Fai come se fossi a casa tua. Faccio presto.»
Magnus aveva dovuto mordersi la lingua per non dirgli che l’avrebbe volentieri raggiunto. Avrebbe gettato i propri vestiti sul pavimento e si sarebbe infilato in doccia con lui, anche solo per rivedere il corpo di Alexander in tutta la sua meravigliosa gloria – e questa volta, magari, senza pantaloncini – ma si era trattenuto. Aveva optato per sedersi sul divano, mentre Alec spariva nel corridoio che legava il salotto al resto della casa, dove Magnus aveva supposto ci fossero il bagno e le camere.
Alec aveva davvero fatto presto ed era tornato dopo una ventina di minuti, fresco di doccia e vestito con un maglione nero e un paio di jeans. Magnus davvero non si capacitava di come un essere umano potesse risultare così bello vestito in un modo così semplice. Avevano lasciato l’appartamento di Alec dopo poco e si erano diretti verso l’ascensore per poi dirigersi in strada, dove Magnus aveva parcheggiato solo qualche ora prima.
Adesso, si trovavano entrambi davanti alla porta dell’appartamento di Madelaine, in attesa. Alec sentì un certo nervosismo invaderlo e impiegò qualche secondo a capire che era dettato dalla consapevolezza che stava per conoscere la madre di Magnus. E non seppe perché tanto nervosismo, dal momento che non era niente di ufficiale: lui e Magnus non uscivano insieme – ancora – quindi perché agitarsi  tanto? Per adesso, probabilmente, Magnus l’avrebbe presentato come un suo amico, di conseguenza non avrebbe dovuto sentirsi nervoso. Ma allora perché riusciva a percepire i palmi delle mani sudati?
Madelaine aprì la porta e lasciò inconsapevolmente in sospeso quell’interrogativo che Alec si era posto nella propria mente.
La donna assomigliava moltissimo a Magnus: aveva gli stessi occhi e le stesse labbra – Alec lo notò perché più di una volta si era trovato a fissare quelle di Magnus – i suoi capelli lunghi e neri le incorniciavano il viso, ma era comunque evidente che madre e figlio avessero gli stessi zigomi. A differenza del figlio, che aveva tratti più marcati, la sua bellezza era più delicata, più femminile, ma era evidente che Magnus avesse preso anche quella dalla madre.
Anakku!” Esclamò la donna, abbracciando Magnus di slancio. Alec non sapeva cosa significasse quella parola, ma dalla reazione di Magnus doveva essere sicuramente qualcosa di bello.
“Ciao, ibu.” Ricambiò l’abbraccio e, ancora, Alec udì una parola di cui non colse il significato. La stessa cosa gli capitava quando Magnus appellava Erin e in quei momenti, proprio come adesso, si era chiesto che lingua fosse. E dal momento che sapeva che Magnus era nato a Giacarta, aveva dedotto potesse essere indonesiano, di conseguenza, come lo parlava lui, probabilmente anche sua madre lo parlava.
“Lui è Alexander.” Magnus sciolse l’abbraccio e introdusse Alec. Quando la donna posò i suoi castani occhi a mandorla su di lui, Alec sentì lo stomaco chiudersi in se stesso. Madelaine lo guardò con attenzione, quasi volesse studiarlo, ma senza metterlo in soggezione. Non voleva metterlo a disagio, sembrava solo… curiosa – come se stesse finalmente dando un volto ad un nome che aveva sentito spesso. Alec arrossì al solo pensiero di Magnus che parlava di lui con sua madre.
“Buonasera, signora.” La salutò perché si era reso conto che era rimasto in silenzio e restare muto come un pesce non rientrava esattamente nelle mosse vincenti per fare una bella impressione. “Può chiamarmi Alec.” Allungò una mano per presentarsi, ma Madelaine preferì abbracciarlo. Era più bassa di Magnus, così per ricambiare quella stretta – che lo colse del tutto di sorpresa – Alec dovette chinarsi un po’. Adesso capiva da chi Magnus aveva preso l’espansività.
“E tu puoi chiamarmi Madelaine. Signora mi fa sentire vecchia!” La donna sciolse l’abbraccio e alzò lo sguardo su di lui. “E dammi del tu, caro.”
Alec le sorrise, percependo le guance che si accaldavano nonostante tutto. “Va bene.” Rispose, prima di guardare Magnus. Non seppe esattamente perché lo fece, forse voleva solo essere certo che a lui andasse bene, che fosse a suo agio con l’idea di Alec che chiama sua madre per nome e le da del tu come se la conoscesse da sempre. Quando vide Magnus sorridergli e fare un cenno d’assenso con la testa, tuttavia, si rilassò immediatamente.
“Dov’è Erin?” Domandò Magnus, riportando l’attenzione sulla madre.
Madeline si spostò dall’ingresso per lasciarli passare. “Ti sta aspettando, in realtà.”
Magnus a quelle parole, entrò per primo e Alec lo seguì subito dopo.


Erin si trovava in salotto. Aveva i capelli legati in due treccine da due elastici a forma di piccoli pompon viola. Indossava una maglietta dello stesso colore a maniche lunghe su cui era stampata un’ape e dei jeans. Era seduta sul pavimento a gambe incrociate come una piccola indiana e stava giocando con una bambola. Magnus la osservò mentre le pettinava i capelli con cura per qualche istante, prima di attirare la sua attenzione.
“Ciao, bintang.
La bambina si voltò immediatamente e non appena vide il padre, lasciò la bambola sul pavimento per alzarsi e corrergli in contro. Magnus si chinò alla sua altezza e lasciò che Erin si tuffasse tra le sue braccia, circondandogli il collo in un abbraccio.
“Ciao papà!” Erin gli lasciò un bacetto impacciato sulla guancia e Magnus sorrise inevitabilmente.
“Ti sei divertita con la nonna?”
Erin annuì e cercò Madelaine alle spalle del padre. Quando, però, i suoi occhi incontrarono la figura di Alec, la bambina non riuscì a trattenere un sorriso. “C’è Alec!” Esclamò, emettendo un gridolino euforico, ed allungò le braccia verso di lui.
Alec, che era rimasto in disparte fino a quel momento a guardare Magnus, si avvicinò ai due e assecondò la richiesta della bambina di essere presa in braccio. Non appena Erin passò dalle braccia del padre a quelle di Alec, circondò il collo di quest’ultimo per abbracciarlo.
“Ciao, scimmietta.” Le disse con un sorriso. “Come stai?”
Erin si scostò da lui quel tanto per riuscire a guardarlo. “Bene, e tu?”
Alec sorrise, perché Erin aveva questa abitudine di domandare e tu? quando le veniva chiesto come stesse che la rendeva ancora più adorabile. Alec era sicuro che ci fosse Magnus, dietro a quella particolare abitudine, perché aveva capito quanto l’uomo tenesse all’educazione di sua figlia.
“Bene, grazie per averlo chiesto.”
Erin sorrise e si sistemò meglio. Alec assecondò i suoi movimenti in modo che stesse più comoda.
“Vuoi vedere la mia bambola?”
“Sì.” Le rispose, prima di voltarsi verso Magnus. “Abbiamo un po’ di tempo prima di andare?”
Magnus, che era intento a guardare Alec che teneva in braccio sua figlia – appurando che quello sarebbe sempre stato uno dei suoi punti deboli, qualcosa che avrebbe sempre ridotto il suo scheletro ad un ammasso morbido di burro fuso – annuì.
“Certo.”
“Andare dove?” Si inserì Madelaine.
“A cena.” Le rispose Magnus, mentre lasciava la figura di Alec che si dirigeva verso il centro del salotto con Erin e si concentrava sulla madre.
Madelaine aggrottò la fronte. “Ma avevi detto che avreste cenato qui.”
“Quando l’avrei detto?” Le chiese, perplesso.
“Prima! Hai detto veniamo a cena. Sono sicura, anakku.
“Ho detto che andiamo a cena. Sarei venuto a prendere Erin e saremmo andati a cena.”
Madelaine si fece pensierosa. Ricordava la telefonata con Magnus, ma… “Accidenti! Odio quel telefono! Mentre parlavamo la tua voce è andata via, ho sentito solo iamo e ho dedotto fosse veniamo!” La donna si picchiettò la fronte con il palmo della mano. Odiava quell’aggeggio infernale! Non lo sapeva usare, dannazione, e evidentemente quel coso odiava lei altrimenti non sarebbero successe certe cose!
“Hai già preparato da mangiare?” Le domandò Magnus.
“Sì, ma andate se avete altri piani!” Madelaine sorrise, cercando di tranquillizzarlo. A Magnus, però, dispiaceva andarsene così guardò Alec, che era seduto sul pavimento insieme ad Erin e, intuendo la conversazione, si era messo ad ascoltarli. L’idea di cenare a casa di Madelaine lo agitava meno di quanto si sarebbe mai aspettato. Soprattutto perché quella donna sembrava naturalmente propensa per far sentire le persone a proprio agio – e poi, visto che aveva già cucinato includendo anche lui nell’invito, gli sembrava scortese rifiutare.
“Per me possiamo restare.” Gli disse, quindi, rispondendo alla tacita richiesta che Magnus sembrava stesse porgendogli solo con gli occhi. “Sempre se va bene per tutti.” Alec guardò più che altro Madelaine, per essere sicuro di non essere di troppo.  
“A me va benissimo, caro.” Gli sorrise, e poi si voltò verso Magnus. “A te sta bene?”
Il figlio annuì. “Potrei approfittarne per parlarti di una cosa.” Guardò di nuovo Alec e questi intuì che voleva parlare con la madre della sua partenza verso Los Angeles, così annuì complice.
“Vai, io e Erin giochiamo un po’.”
Magnus annuì e lo guardò, rendendosi pienamente conto dell’espressione soffice che doveva avere sul viso. Il fatto era che non riusciva a trattenersi, non quando si trattava di Alexander. Lui lo capiva con uno sguardo e si impegnava sempre per riuscire ad aiutarlo, qualsiasi fosse la situazione. Era una dote che Magnus ammirava, un qualcosa che si trovava raramente nelle persone, soprattutto perché Alec lo aiutava solo perché voleva farlo e non perché si aspettasse qualcosa in cambio. Era gentile di natura. E in quel momento, a Magnus vennero in mente le parole di Maia, pronunciate quella sera di ormai due mesi prima, quando aveva visto Alexander per la seconda volta, a cena a casa di Clary: Alec è buono. E ora, Magnus ne aveva la certezza. Aveva provato sulla sua pelle quella verità e sapeva che era una delle cose che gli piacevano di lui.
“Grazie, tesoro.”
Alec gli sorrise, mentre le sue guance si coloravano di un rosa intenso. “Vi aspettiamo qui.” Gli disse, non staccandogli gli occhi di dosso finché Magnus non sparì in cucina con la madre. Il ballerino dovette fare appello a tutte le sue forze per non raggiungere l’altra stanza camminando all’indietro come un gambero, pur di non interrompere il contatto visivo con Alec – ma era sicuro che se l’avesse fatto, sarebbe finito inevitabilmente contro uno spigolo, quindi preferì evitare.
Quando entrò in cucina, Madelaine lo seguì e incrociò le braccia al petto.
“Devo preoccuparmi?”
“No.”
“Allora inizia a parlare.”



“Los Angeles?” Domandò Madelaine non appena il figlio finì di raccontarle tutto ciò che aveva raccontato ad Alec qualche ora prima.
Magnus annuì, le braccia incrociate al petto. Sospirò, guardando la madre di fronte a lui. “Cosa ne pensi?”
“Penso che tu debba fare ciò che ti rende felice.” Madelaine accennò un sorriso. “Accettare ti renderebbe felice?”
Magnus non aveva bisogno di pensarci su, non più almeno. La chiacchierata con Alexander aveva portato i suoi buoni frutti ed erano arrivati insieme alla conclusione che fare quell’esperienza l’avrebbe fatto felice.
“Sì.”
“Allora penso tu abbia già la tua risposta. ” La donna lo abbracciò e Magnus ricambiò, chinandosi un poco e sistemando il viso nell’incavo del collo della donna – un’abitudine che aveva fin da bambino e che l’età adulta non era riuscita a portargli via.
“Sai, il fatto che tu sia andato da Alec per primo, dovrebbe farti riflettere.”
Magnus sorrise, anche se Madelaine non poteva vederlo. “Abbiamo già trovato tutte le soluzioni ai miei dubbi. Vuole aiutarmi a trovare un sostituto che tenga aperta la scuola quando non ci sono e ha messo a disposizione se stesso e la sua famiglia nel caso tu abbia bisogno di aiuto con Erin.”
Madelaine sciolse l’abbraccio, mettendo le mani sulle spalle del figlio e scostandolo quel tanto da sé per riuscire a guardarlo in viso. “Mi spieghi cosa accidenti stai aspettando a chiedergli di uscire? È palese che gli piaci!”
Sul viso di Magnus sbocciò un sorriso che andava da orecchio ad orecchio. “L’ho fatto, in realtà. Gli ho chiesto se al mio ritorno potremmo avere un appuntamento vero e ha detto sì.”
Gli occhi di Madelaine si illuminarono, riflettendo la felicità che albergava nella voce del figlio. “Si vede da come vi guardate, che vi piacete, sai?”
Magnus non riusciva a smettere di sorridere. “È bello, ibu, bellissimo come nessuno prima di lui. Dentro e fuori.”  
Madelaine gli accarezzò una guancia. “Te lo meriti, lo sai, vero? Ti meriti qualcuno che ti faccia stare bene, qualcuno di salutare per te e per tua figlia. Qualcuno che ti veda esattamente per quello che sei e ti apprezzi, pregi e difetti.”
Madelaine non aveva bisogno di pronunciare il nome di Camille per far capire a Magnus che stava parlando di lei. A sua madre, Camille non era mai piaciuta – questo perché era riuscita a capire prima di lui che razza di persona orribile fosse. Ma Magnus all’epoca era giovane e ingenuo. Non riusciva a vedere al di là del proprio naso, tanto che era accecato dall’amore. Un amore che l’aveva reso incapace di capire che i sentimenti di Camille non erano puri, ma dettati da un profondo egoismo. Era riuscita a manipolarlo, quasi a plasmarlo affinché si comportasse come lei voleva che si comportasse. Aveva cercato di privarlo della sua essenza per fare in modo che assomigliasse sempre di più a lei. Madelaine l’aveva capito, ma Magnus in quel periodo era stato sordo alle parole della madre che cercava di avvisarlo, di salvaguardarlo da un’arpia. «Ti sbagli, mamma. Camille non è così, lei mi ama!» Era sempre così che Magnus concludeva le loro telefonate, quando era ancora in giro per il mondo con la sua vecchia compagnia di danza. Aveva avuto torto, comunque. Magnus aveva donato il suo cuore a qualcuno che l’aveva masticato, sputato e calpestato. E Madelaine nonostante tutto, nonostante avesse passato anni a cercare di metterlo in guardia, quando le sue parole, alla fine, si erano avverate non aveva pronunciato il fatidico te l’avevo detto. Al contrario, si era semplicemente limitata a sostenere Magnus, a stargli vicino, occupandosi di lui nel modo più materno possibile e a raccogliere i cocci del suo cuore infranto, aiutandolo a ricostruirlo passo dopo passo.
E adesso, forse, con un po’ di fortuna, quel cuore avrebbe potuto tornare a battere in modo giusto, vigoroso.
Forse, avrebbe potuto tornare a battere per Alexander.







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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Mi scuso immensamente per il ritardo, ma ho avuto poco tempo! Spero che non abbiate trovato questo capitolo noioso, proprio perché un po’ più lungo e spero di riuscire a ridurre i tempi di pubblicazione tra un capitolo e l'altro! 
Parlando di questo capitolo, devo ammettere che sono un po’ insicura sulla parte di Raphael – perché temo sempre di rovinare il suo personaggio, o di non riuscire a trattare bene il tema della sua asessualità dal momento che mi documento su Internet. Nella serie Raphael dice “I’m just not interested in sex”, quindi mi baso anche su quello, ma se ci fosse qualcuno più documentato in materia, me lo faccia sapere, così eventualmente cercherò di caratterizzarlo meglio in futuro!
Sono poco convinta anche della parte riguardante Simon, soprattutto perché temo di banalizzarlo un po’.
Tutto questo per dirvi che mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di queste parti e del capitolo in generale!
Vi saluto e ringrazio immensamente chiunque legga questa storia, chi l’abbia messa tra le seguite/preferite/ricordate e chi spende un po’ di tempo a recensirla! Lo apprezzo davvero tantissimo, quindi grazie, grazie, grazie!
Un abbraccio, alla prossima! <3

PS: Vi siete ripresi dal finale di serie? E, soprattutto, vi è piaciuto?
E, ancora, quanto da 1 a 10 siamo tutti come Alec, quando guarda il suo futuro marito e gli dice “I do like you in a tux” con gli occhi a cuore? 
   
 
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