Quasi cent’anni prima
Sta
salendo la nebbia. Margherita
spinge indietro la tendina e guarda la densa foschia bianca strisciare
lungo il
fianco ripido della montagna. Fa sempre così, quando piove
d’autunno: l’umidità
si condensa giù dove la valle è più
ampia e poi si compatta, unendosi fino a
formare una sorta di serpentone evanescente. È allora che
viene raccolta dal
vento del sud, che la sospinge verso la Svizzera e verso le rampe che
conducono
all’altopiano engadinese, ricco di laghi e di pascoli
rigogliosi. Lungo il suo
cammino, la striscia di nebbia incrocia inevitabilmente San Giorgio e
lì si
ferma per un bel po', perché le montagne si stringono
attorno al paese e
formano una barriera che il vento e la foschia faticano a superare.
La
casa della Zingara si trova in
una posizione sopraelevata rispetto a quelle che la circondano e questo
fa sì
che dalla sua finestra si goda di un'ottima vista sul lato destro della
valle.
Con un sospiro che appanna il vetro di fronte al suo viso, Margherita
osserva
la massa fumosa riempire il solco scavato dal fiume, avvolgere gli
alberi, le
rocce e le abitazioni grigiastre. Peccato. Ottobre è ormai
iniziato e bastano
un paio di giorni di pioggia per uccidere definitivamente l'estate e
sprofondare la terra in un autunno freddo e umido. Le sarebbe piaciuto
approfittare ancora un po' del sole tiepido di un settembre che
è stato
insolitamente mite.
Dopo
aver lanciato un'ultima
occhiata ai tetti ricoperti da solide lastre di granito rese lucide
dalla
sottile pioviggine, la bambina si allontana dalla finestra e si siede
sulla
poltroncina rossa che la Zingara di solito riserva a lei o ad Agnese.
Sistemandosi meglio la sottana attorno alle ginocchia, Margherita si
passa le
mani sulle braccia. Fa freddo, lì dentro.
L'umidità le morde le ossa, ma non
può fare nulla per scacciarla, perché il brutto
tempo è arrivato all'improvviso
e la Signora Mursciù non ha ancora chiesto a nessuno di
portarle su un po' di
legna per il camino.
Dopo
averla invitata in casa sua,
la Zingara è sparita dietro la porta bianca e non ne
è più riemersa. La sente
muoversi in quella che immagina essere la cucina, ma non ha il coraggio
di
andare a vedere che cosa sta facendo: i suoi genitori le hanno
insegnato le
buone maniere e sa che non è educato muoversi in casa degli
altri come se si fosse
nella propria abitazione. Però inizia ad annoiarsi. Le
piacerebbe che ci fosse
anche Agnese, lì con lei: in due, potrebbero scacciare
l’imbarazzo dell’attesa
chiacchierando un po’. La Francesa però non ha
invitato la ragazzina bionda, e
forse è per questo che Margherita si sente quegli strani
brividi nelle ossa.
Non
è la prima volta che la
Signora Mursciù decide di vederla senza chiamare anche la
loro comune amica e
la bambina prova dei sentimenti contrastanti in proposito. Se, da un
lato, quel
rapporto preferenziale con la Zingara la fa sentire speciale,
quasi importante, dall’altro Margherita non riesce a
scacciare i sensi di colpa che l’assalgono ogni volta che
Agnese non è lì con
loro. Se ci pensa, le sembra quasi di tradire l’amica, di
infrangere un patto
che nessuna delle due ha mai menzionato ad alta voce, ma che entrambe
sentono
di avere stretto con il cuore.
Che
poi, chissà perché la
Francesa a volte decide di non invitare Agnese? Margherita non riesce
proprio a
vederne il motivo. Talvolta pensa che sia tutto un trucco, quello della
Zingara: chi glielo assicura che la donna non veda di nascosto anche
l’altra
ragazzina? Forse la sta solo illudendo di essere speciale. Forse
riserva lo
stesso identico trattamento sia a lei che ad Agnese. L’idea
le accende già una
scintilla di gelosia nello stomaco.
Prima
che possa approfondire
ulteriormente quei pensieri, Margherita viene distratta
dall’arrivo della
padrona di casa. Di nuovo, come nell’occasione della sua
ultima visita, la donna
non è sola, ma è accompagnata dal suo amico dalla
pelle scura, quello che ha
preso un fazzoletto e l’ha trasformato in un medaglione.
Quando la vede, l’uomo
sorride mettendo in mostra due file di denti bianchi e perfetti, ma la
bambina
lo ignora: la sua attenzione è tutta concentrata
sull’altro uomo, quello
che sta un po’ indietro, alle spalle della
Zingara. L’ha visto una sola volta, ma non ha alcun dubbio
circa la sua
identità: è il Signor Mursciù.
E
Margherita non lo riconosce
solo perché non ha il braccio destro – quello che
un cane gigante gli ha
strappato via, lasciando solo l’aria a riempire la manica
della camicia – ma
anche e soprattutto per quel certo nonsoché che si porta
addosso. Il Signor
Mursciù brilla, esattamente come brilla la Zingara.
La
bambina si trova a fissarlo a
bocca aperta. Anche se è più basso del gigante
dalla pelle scura, anche se ha
le spalle più strette e non è altrettanto
imponente, Margherita trova che la
sua presenza assorba tutta l’aria della stanza. Ha la stessa
pelle ambrata
della moglie, ma il volto non è liscio come quello di lei:
no, è coperto da uno
strato di barba ispida e bruna che gli nasconde le guance, la gola e si
unisce
alla peluria che si intravede sul petto, lì dove la camicia
non è chiusa fino
all’ultimo bottone. Anche le nocche della mano sinistra sono
coperte da peli
scuri, e i suoi capelli sono scarmigliati, selvaggi, troppo lunghi per
essere i
capelli di un uomo.
Per
un attimo, la ragazzina pensa
che quello non è un cristiano come tutti gli altri, ma il Gigiatt, la creatura selvatica e solo
vagamente umana che, secondo il
maestro Silvano, vive nei boschi della Val Masino, al di là
delle montagne a
sud. Ma è soltanto un pensiero passeggero,
perché, nonostante l’aspetto
trasandato, il Signor Mursciù sembra risplendere di una luce
impalpabile: i
suoi occhi non sono gli occhi di una bestia o di un Omm
Selvadégh, ma sono pieni del bagliore di
un’alba senza tempo.
Margherita
non è sicura di cosa sia
quell’uomo, ma si sente
intimidita, più piccola della sua età. Lo
straniero dalla pelle nera le sembra
quasi rassicurante, adesso.
Senza
prendersi il disturbo di
fare le presentazioni, la Zingara la indica con un cenno del capo.
«Voilà la petite»
dice, e Margherita le
punta addosso gli occhi chiari, presa alla sprovvista da quella lingua
strana.
«Qu’en penses-tu? Elle te
plaît?»
Il
Signor Mursciù non dice
niente, ma fa segno di sì con il capo. Poi rivolge alla
bambina un sorriso
gentile a cui lei risponde con uno sguardo duro come il granito. Non
c’è niente
da sorridere. Scommette che l’italiano lo sa parlare
benissimo, quindi il fatto
che la Francesa si sia rivolta a lui in un’altra lingua non
le piace affatto.
Ha la sensazione che quei due – quei tre
– stiano tramando qualcosa alle sue spalle e la cosa le fa
ribollire lo stomaco
dalla rabbia.
«Che
cosa hai detto?» chiede
allora, rivolta alla Zingara.
«Nulla»
la tranquillizza la
donna. «Gli ho solo spiegato che sei una mia amica.»
Margherita
aggrotta la fronte,
sentendosi tradita da una bugia così palese. «Non
è vero» protesta. «Gli hai
chiesto qualcosa. L’ho sentito bene, che gli hai fatto una
domanda.»
La
Signora Mursciù sembra quasi
imbarazzata, ma l’uomo dalla pelle scura scoppia a ridere.
«È una bambina
intelligente» commenta, guardando la Zingara. La cosa sembra
divertirlo, ma almeno
ha parlato in italiano e Margherita lo trova subito un po’
più simpatico di
prima.
Lo
sguardo della Francesa si fa
più dolce. «Lo so» commenta in un soffio.
Il
Signor Mursciù borbotta ancora
qualcosa e la Zingara sospira un “oui”
che anche Margherita sa che vuole dire “sì”,
poi si avvicina al marito, gli posa le mani sulle spalle e lo bacia. La
bambina
sente il disgusto vibrarle nella gola e subito si volta a fissare il
camino
spento, perché a lei quella cosa
lì
fa schifo e comunque si vergogna da morire ad assistere a quelle
faccende da
grandi.
Lo
straniero dalla pelle nera
ridacchia ancora – forse trova divertente la reazione della
ragazzina – e poi
si avvicina alla coppia. «Dobbiamo andare» dice,
posando una mano sulla spalla
del Signor Mursciù. Anche se sembra dispiaciuto, lui si
allontana dalla moglie.
«Fais attention à toi,
chérie» le
sussurra, e Margherita si chiede se quello sia un addio. Di certo
è un
arrivederci che guarda lontano, ragiona la bambina, perché
il lavoro tiene il
Signor Mursciù via da casa per molto tempo e forse
passeranno parecchi mesi,
prima che la Zingara lo possa riabbracciare. È una sorte
comune a molte donne
del paese, quella: che sia per il lavoro, per la guerra o per il
desiderio di
cercare fortuna oltreoceano, gli uomini iniziano a scarseggiare,
lì da quelle
parti.
«A
presto, Margherita» la saluta
l’amico della Francesa, prima di dirigersi nuovamente verso
la porta bianca
dalla quale è comparso poco prima. Quando vede che il Signor
Mursciù lo segue,
la bambina aggrotta la fronte, confusa. Non avevano forse detto che
dovevano
andare? E allora perché non hanno preso le scale che
conducono al portone giù
al piano terra? È quella, l’uscita. Pochi istanti
più tardi, sente dei passi
sopra la propria testa e capisce che dev’esserci una seconda
rampa di scale:
invece che scendere, questa sale. E dove va? Si chiede Margherita.
Sopra di
loro ci sono soltanto il solaio e il tetto.
La
bambina lancia un’occhiata
curiosa alla Zingara. «Ma dove vanno?» chiede.
«Via»
sospira la donna, gli occhi
scuri un po’ meno luminosi del solito.
«Perché
non escono dalla porta?»
si informa Margherita, che è abituata alle stranezze, ma che
non riesce
comunque a capire perché i due uomini non abbiano preso la
via più comoda.
Per
tutta risposta, la Signora
Mursciù scrolla le spalle e cambia argomento.
«Parliamo del motivo per cui ti
ho fatta venire qui» dice, rianimandosi e pescando una
sottile chiave di ottone
dalla tasca dell’abito rosso che indossa quel giorno. Sotto
lo sguardo attento
della ragazzina, raggiunge l’antica cassettiera di mogano
posta accanto
all’ingresso e fa scattare la serratura del cassetto
inferiore. Con i gesti
rapidi e precisi di chi sa cosa sta cercando, vi fruga dentro per
qualche
istante, prende qualcosa e poi lo richiude.
Quando
la donna si siede di
fronte a lei, accomodandosi sul divano, Margherita fa del proprio
meglio per
mantenere un contegno educato e non cedere alla curiosità
che le imporrebbe di
sbirciare ciò che la Zingara ha in mano. Senza farsi
pregare, la Signora
Mursciù si posa sulle ginocchia un fagottino di cotone
azzurro. La stoffa,
ripiegata a mo’ di pacchetto, custodisce qualcosa di piccolo
e, per un attimo,
la bambina si chiede se si tratti di un gioiello, o magari di
un’altra fialetta
come quella che la donna aveva dato a lei e ad Agnese tempo prima.
Quando
la Zingara scioglie il
legaccio che tiene uniti i lembi del fazzoletto chiaro,
però, la bimba vede che
l’oggetto che la donna ha preso dal cassetto non è
altro che una seconda
chiave. «Voglio che questa la tieni tu» dice la
Francesca, porgendogliela.
Margherita
l’afferra con
circospezione. Nessuno le ha mai affidato una chiave, prima
d’ora. Quella che
tiene tra le mani in quel momento è piccola, apparentemente
delicata: più che
una porta, sembra adatta per aprire l’anta di un armadio. La
bambina lo solleva
per osservarla meglio: è fatta di un materiale trasparente e
la luce la
attraversa da parte a parte, riempiendola di innumerevoli riflessi
infuocati.
Margherita
ne saggia la
consistenza con un’unghia, poi si rivolge alla Zingara.
«Di cos’è fatta?» le
chiede.
La
donna le sorride. «È ambra» le
spiega. «È come la resina che trovi sugli abeti,
ma è molto più vecchia.»
Perplessa,
la bambina la stringe
un po’ più forte tra indice e pollice. La resina
che cola dagli abeti e dal
pruno che cresce davanti a casa sua è morbida, malleabile e
appiccicosa, mentre
quella di cui è fatta quella chiave è dura come
il vetro. Però non vuole
apparire sciocca, così cambia domanda. «Di
cos’è?» indaga.
«Vuoi
sapere che cosa apre?» si
accerta la Zingara, sporgendosi un pochino verso di lei. La ragazzina
annuisce,
abbassando lo sguardo sulla chiave, e la Signora Mursciù
allunga una mano fino
a coprire quella di Margherita, pelle color caramello, dalle ombre
dorate,
contro pelle d’alabastro, segnata da vene azzurrine.
«Questa chiave», annuncia,
con il tono basso con cui è solita raccontarle le storie
più bizzarre e
grandiose, «apre una porta molto antica. Non è un
posto adatto ai bambini,
quindi, almeno per adesso, non posso portarti a vederla, né
posso rivelarti
dove si trovi. Tra qualche anno, però, prometto che ti
condurrò lì e ti
racconterò tutto quello che c’è da
sapere a proposito di quella porta e di
quello che ci si trova al di là di essa.»
Quella
risposta, naturalmente,
non fa che stuzzicare ulteriormente la curiosità di
Margherita, che ora sente
di avere l’assoluta necessità di sapere qualcosa
di più a proposito della porta
che solo la chiave che ha tra le mani può aprire. Sente di
volerla toccare,
vuole impugnarne la maniglia, abbassarla e passare oltre
l’uscio.
Per
qualche secondo, la sfiora la
tentazione di insistere e provare a convincere la Zingara a portarla in
quel
posto misterioso, se non altro per dare una sbirciatina. Desiste
subito, però:
sa benissimo che quando la Signora Mursciù dice di no a una
cosa, non c’è verso
di farle cambiare idea. «Ma che tipo di porta
è?» chiede invece. «Serve per
entrare in una casa? O forse in un palazzo?» O
magari in un castello,
pensa la bambina con un fremito di eccitazione. Lei non l’ha
mai visto, un
castello vero, perché da quelle parti non ce
n’è nemmeno uno. Quelli che i
valligiani chiamano con deferenza castèi
non sono altro che palazzotti
di modeste dimensioni, mezzi diroccati e con solo qualche sparuta
torretta.
La
Francesa esita per un istante.
«No, direi che è… direi che
è piuttosto la porta di una recinzione che separa questa
nostra terra dalla terra di altre persone. Come un cancello che
delimita i
confini di un giardino o di un orto che non ci appartiene»
Margherita
annuisce in silenzio
per qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto. La sua mente le
propone l’immagine
di un fazzoletto di terreno ombroso e verdeggiante, ricco di alberi
strani e di
fiori dal profumo vibrante. Le pare di vedere il terriccio scuro e
fertile, il
muschio spesso che cresce sui tronchi, il gioco sinuoso dei raggi
obliqui del
sole che si intrecciano con i rami. Forse ci sono dei pavoni che
zampettano tra
le felci, le sembra di scorgerne i riflessi bluastri delle code
magnifiche, e
tra le foglie più alte saltellano i merli indiani.
Può quasi annusare il
profumo del proibito e si chiede se quel cancello assomigli almeno un
po’ a
quelli che, in qualche occasione, lei e Agnese hanno scalato e
scavalcato per
introdursi in un campo non loro e rubare qualche mela o una manciata di
ciliegie.
«Prometti
di averne cura?»
La
voce della Zingara la distrae
dalle sue fantasticherie e Margherita annuisce senza nemmeno pensarci.
Guarda
la chiave per un secondo soltanto e poi cerca gli occhi neri della
Signora
Mursciù. «Va bene», promette,
«ma perché l’hai data a me?
Perché non puoi
tenerla tu?»
La
Francesa sorride e alla
bambina il suo sguardo sembra più dolce del solito.
«L’affido a te perché io
dovrò andare via per qualche tempo. Se qualcuno dovesse
averne bisogno in mia
assenza, potrà rivolgersi a te.»
Quella
notizia è inaspettata e
Margherita aggrotta la fronte, turbata. «Devi andare
via?» ripete, per
accertarsi di avere capito bene. «Perché? Dove
devi andare?» Nelle orecchie le
risuona all’improvviso ciò che la donna aveva
detto una delle ultime volte che
lei e Agnese le avevano fatto visita, quando aveva confessato che le
persone che
l’avevano costretta a fuggire dalla sua casa erano sulle sue
tracce. Che l’avessero
infine trovata, obbligandola a lasciare anche San Giorgio della Valle?
Intuendo
forse le sue preoccupazioni,
la Zingara posa una mano sul ginocchio della ragazzina. «Non
temere, non è
nulla di allarmante» la rassicura. «Tra poco
avrò una bambina e voglio che
nasca tra la mia gente. Non posso tornare in Francia, ma ho degli amici
in
Svizzera, vicino a Ginevra: andrò lì.»
Margherita
è sbalordita. Lo sguardo
le cade sulla pancia della donna, che le pare piatta come sempre: non
le sembra
proprio che ci sia una bambina, lì dentro. «Come
fai a sapere che sarà proprio
una femmina?» è la domanda migliore che le riesce
di fare.
La
Francesa si sfiora appena il
ventre con la punta delle dita. «L’ho
sognata» rivela. «Sarà una bambina,
sarà
piccola e bruna, con occhi buoni e capelli selvaggi. Si
chiamerà Flora e vedrà il
mare.»
Le
parole della donna sono talmente
sicure che a Margherita sembra quasi di vedersela davanti, quella
bambina che
ancora non esiste: se la immagina come una versione infantile della
Zingara,
piccola e minuta e con gli occhi neri.
«Passerà
qualche anno, prima che
potremo rivederci» continua la Signora Mursciù.
«Cambieranno tante cose, in
questi anni: la guerra finirà e tu crescerai, avrai altri
interessi e
conoscerai altre persone. Non dimenticarti mai di me, però,
e non dimenticarti
mai di questa chiave. Sii una buona custode e non cederla a nessuno che
non
abbia il diritto di averla.»
Una
fitta di apprensione attraversa
lo stomaco della piccola. «Ma come faccio a sapere se
qualcuno ha il diritto di
averla oppure no? Prima mi hai detto che qualcuno potrebbe averne
bisogno: come
faccio io a capire se chi me la chiede ne ha davvero bisogno o se,
invece, me
la vuole rubare e basta?»
La
Zingara le sorride di nuovo.
«Lo capirai da sola.»
Quella
risposta non piace alla
bambina, le sembra terribilmente insoddisfacente. «Ma
come?» insiste. «Spiegami
un po’ meglio come fare! Non voglio sbagliare!»
La
mano della donna sale ad accarezzarle
la guancia rotonda e morbida. «Non ti sbaglierai, Margherita.
Tu hai un dono
raro, anche se ancora non lo sai. Scoprirai anche questo, negli anni a
venire.»
La
bambina si stringe la chiave al
petto, sentendosi preda di una strana tristezza. Vorrebbe sapere molto
di più,
ma percepisce con estrema chiarezza che la Zingara non ha intenzione di
dirle
altro. Sembra quasi che la stia salutando, in effetti: è
come se le stesse
lasciando un ultimo dono, un’eredità che
dovrà gestire da sola per molto tempo.
Animata
da una flebile scintilla
di speranza, Margherita da voce al pensiero che le ha appena
attraversato la
testa. «E Agnese?» chiede.
«C’è una chiave anche per lei?»
Non
appena la sente fare il nome
di Agnese, la Signora Mursciù si rabbuia. «No. Per
lei non ho niente.»
La
bambina non riesce a dare un
nome all’ombra che ha scorto nel tono della Zingara, ma
avverte con chiarezza l’aria
della stanza farsi pesante e stringersi attorno a lei nello stesso modo
in cui
la nebbia, là fuori, si stringe attorno alle case di San
Giorgio.