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Autore: Red Owl    05/06/2019    0 recensioni
Agnese e Caterina non si incontreranno mai, perché le dividono quasi cent'anni di storia. Eppure hanno qualcosa che le accomuna: qualcosa celato nei boschi che circondano il paesino di San Giorgio della Valle, dove entrambe sono cresciute. C'è un segreto antico, nascosto tra i castagni e le vecchie mura di un paesino della montagna lombarda: Agnese ha scelto di dimenticarlo, Caterina, forse, non l'ha mai conosciuto. Verrà però un giorno in cui entrambe dovranno fare i conti con il passato, quando un nemico subdolo e ingannatore verrà a bussare alla loro porta, alla ricerca di qualcosa che soltanto loro possono dargli.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Quasi cent’anni prima

Sta salendo la nebbia. Margherita spinge indietro la tendina e guarda la densa foschia bianca strisciare lungo il fianco ripido della montagna. Fa sempre così, quando piove d’autunno: l’umidità si condensa giù dove la valle è più ampia e poi si compatta, unendosi fino a formare una sorta di serpentone evanescente. È allora che viene raccolta dal vento del sud, che la sospinge verso la Svizzera e verso le rampe che conducono all’altopiano engadinese, ricco di laghi e di pascoli rigogliosi. Lungo il suo cammino, la striscia di nebbia incrocia inevitabilmente San Giorgio e lì si ferma per un bel po', perché le montagne si stringono attorno al paese e formano una barriera che il vento e la foschia faticano a superare.

La casa della Zingara si trova in una posizione sopraelevata rispetto a quelle che la circondano e questo fa sì che dalla sua finestra si goda di un'ottima vista sul lato destro della valle. Con un sospiro che appanna il vetro di fronte al suo viso, Margherita osserva la massa fumosa riempire il solco scavato dal fiume, avvolgere gli alberi, le rocce e le abitazioni grigiastre. Peccato. Ottobre è ormai iniziato e bastano un paio di giorni di pioggia per uccidere definitivamente l'estate e sprofondare la terra in un autunno freddo e umido. Le sarebbe piaciuto approfittare ancora un po' del sole tiepido di un settembre che è stato insolitamente mite.

Dopo aver lanciato un'ultima occhiata ai tetti ricoperti da solide lastre di granito rese lucide dalla sottile pioviggine, la bambina si allontana dalla finestra e si siede sulla poltroncina rossa che la Zingara di solito riserva a lei o ad Agnese. Sistemandosi meglio la sottana attorno alle ginocchia, Margherita si passa le mani sulle braccia. Fa freddo, lì dentro. L'umidità le morde le ossa, ma non può fare nulla per scacciarla, perché il brutto tempo è arrivato all'improvviso e la Signora Mursciù non ha ancora chiesto a nessuno di portarle su un po' di legna per il camino.

Dopo averla invitata in casa sua, la Zingara è sparita dietro la porta bianca e non ne è più riemersa. La sente muoversi in quella che immagina essere la cucina, ma non ha il coraggio di andare a vedere che cosa sta facendo: i suoi genitori le hanno insegnato le buone maniere e sa che non è educato muoversi in casa degli altri come se si fosse nella propria abitazione. Però inizia ad annoiarsi. Le piacerebbe che ci fosse anche Agnese, lì con lei: in due, potrebbero scacciare l’imbarazzo dell’attesa chiacchierando un po’. La Francesa però non ha invitato la ragazzina bionda, e forse è per questo che Margherita si sente quegli strani brividi nelle ossa.

Non è la prima volta che la Signora Mursciù decide di vederla senza chiamare anche la loro comune amica e la bambina prova dei sentimenti contrastanti in proposito. Se, da un lato, quel rapporto preferenziale con la Zingara la fa sentire speciale, quasi importante, dall’altro Margherita non riesce a scacciare i sensi di colpa che l’assalgono ogni volta che Agnese non è lì con loro. Se ci pensa, le sembra quasi di tradire l’amica, di infrangere un patto che nessuna delle due ha mai menzionato ad alta voce, ma che entrambe sentono di avere stretto con il cuore.

Che poi, chissà perché la Francesa a volte decide di non invitare Agnese? Margherita non riesce proprio a vederne il motivo. Talvolta pensa che sia tutto un trucco, quello della Zingara: chi glielo assicura che la donna non veda di nascosto anche l’altra ragazzina? Forse la sta solo illudendo di essere speciale. Forse riserva lo stesso identico trattamento sia a lei che ad Agnese. L’idea le accende già una scintilla di gelosia nello stomaco.

Prima che possa approfondire ulteriormente quei pensieri, Margherita viene distratta dall’arrivo della padrona di casa. Di nuovo, come nell’occasione della sua ultima visita, la donna non è sola, ma è accompagnata dal suo amico dalla pelle scura, quello che ha preso un fazzoletto e l’ha trasformato in un medaglione. Quando la vede, l’uomo sorride mettendo in mostra due file di denti bianchi e perfetti, ma la bambina lo ignora: la sua attenzione è tutta concentrata sull’altro uomo, quello che sta un po’ indietro, alle spalle della Zingara. L’ha visto una sola volta, ma non ha alcun dubbio circa la sua identità: è il Signor Mursciù.

E Margherita non lo riconosce solo perché non ha il braccio destro – quello che un cane gigante gli ha strappato via, lasciando solo l’aria a riempire la manica della camicia – ma anche e soprattutto per quel certo nonsoché che si porta addosso. Il Signor Mursciù brilla, esattamente come brilla la Zingara.

La bambina si trova a fissarlo a bocca aperta. Anche se è più basso del gigante dalla pelle scura, anche se ha le spalle più strette e non è altrettanto imponente, Margherita trova che la sua presenza assorba tutta l’aria della stanza. Ha la stessa pelle ambrata della moglie, ma il volto non è liscio come quello di lei: no, è coperto da uno strato di barba ispida e bruna che gli nasconde le guance, la gola e si unisce alla peluria che si intravede sul petto, lì dove la camicia non è chiusa fino all’ultimo bottone. Anche le nocche della mano sinistra sono coperte da peli scuri, e i suoi capelli sono scarmigliati, selvaggi, troppo lunghi per essere i capelli di un uomo.

Per un attimo, la ragazzina pensa che quello non è un cristiano come tutti gli altri, ma il Gigiatt, la creatura selvatica e solo vagamente umana che, secondo il maestro Silvano, vive nei boschi della Val Masino, al di là delle montagne a sud. Ma è soltanto un pensiero passeggero, perché, nonostante l’aspetto trasandato, il Signor Mursciù sembra risplendere di una luce impalpabile: i suoi occhi non sono gli occhi di una bestia o di un Omm Selvadégh, ma sono pieni del bagliore di un’alba senza tempo.

Margherita non è sicura di cosa sia quell’uomo, ma si sente intimidita, più piccola della sua età. Lo straniero dalla pelle nera le sembra quasi rassicurante, adesso.

Senza prendersi il disturbo di fare le presentazioni, la Zingara la indica con un cenno del capo. «Voilà la petite» dice, e Margherita le punta addosso gli occhi chiari, presa alla sprovvista da quella lingua strana. «Qu’en penses-tu? Elle te plaît?»

Il Signor Mursciù non dice niente, ma fa segno di sì con il capo. Poi rivolge alla bambina un sorriso gentile a cui lei risponde con uno sguardo duro come il granito. Non c’è niente da sorridere. Scommette che l’italiano lo sa parlare benissimo, quindi il fatto che la Francesa si sia rivolta a lui in un’altra lingua non le piace affatto. Ha la sensazione che quei due – quei tre – stiano tramando qualcosa alle sue spalle e la cosa le fa ribollire lo stomaco dalla rabbia.

«Che cosa hai detto?» chiede allora, rivolta alla Zingara.

«Nulla» la tranquillizza la donna. «Gli ho solo spiegato che sei una mia amica.»

Margherita aggrotta la fronte, sentendosi tradita da una bugia così palese. «Non è vero» protesta. «Gli hai chiesto qualcosa. L’ho sentito bene, che gli hai fatto una domanda.»

La Signora Mursciù sembra quasi imbarazzata, ma l’uomo dalla pelle scura scoppia a ridere. «È una bambina intelligente» commenta, guardando la Zingara. La cosa sembra divertirlo, ma almeno ha parlato in italiano e Margherita lo trova subito un po’ più simpatico di prima.

Lo sguardo della Francesa si fa più dolce. «Lo so» commenta in un soffio.

Il Signor Mursciù borbotta ancora qualcosa e la Zingara sospira un “oui” che anche Margherita sa che vuole dire “sì”, poi si avvicina al marito, gli posa le mani sulle spalle e lo bacia. La bambina sente il disgusto vibrarle nella gola e subito si volta a fissare il camino spento, perché a lei quella cosa lì fa schifo e comunque si vergogna da morire ad assistere a quelle faccende da grandi.

Lo straniero dalla pelle nera ridacchia ancora – forse trova divertente la reazione della ragazzina – e poi si avvicina alla coppia. «Dobbiamo andare» dice, posando una mano sulla spalla del Signor Mursciù. Anche se sembra dispiaciuto, lui si allontana dalla moglie. «Fais attention à toi, chérie» le sussurra, e Margherita si chiede se quello sia un addio. Di certo è un arrivederci che guarda lontano, ragiona la bambina, perché il lavoro tiene il Signor Mursciù via da casa per molto tempo e forse passeranno parecchi mesi, prima che la Zingara lo possa riabbracciare. È una sorte comune a molte donne del paese, quella: che sia per il lavoro, per la guerra o per il desiderio di cercare fortuna oltreoceano, gli uomini iniziano a scarseggiare, lì da quelle parti.

«A presto, Margherita» la saluta l’amico della Francesa, prima di dirigersi nuovamente verso la porta bianca dalla quale è comparso poco prima. Quando vede che il Signor Mursciù lo segue, la bambina aggrotta la fronte, confusa. Non avevano forse detto che dovevano andare? E allora perché non hanno preso le scale che conducono al portone giù al piano terra? È quella, l’uscita. Pochi istanti più tardi, sente dei passi sopra la propria testa e capisce che dev’esserci una seconda rampa di scale: invece che scendere, questa sale. E dove va? Si chiede Margherita. Sopra di loro ci sono soltanto il solaio e il tetto.

La bambina lancia un’occhiata curiosa alla Zingara. «Ma dove vanno?» chiede.

«Via» sospira la donna, gli occhi scuri un po’ meno luminosi del solito.

«Perché non escono dalla porta?» si informa Margherita, che è abituata alle stranezze, ma che non riesce comunque a capire perché i due uomini non abbiano preso la via più comoda.

Per tutta risposta, la Signora Mursciù scrolla le spalle e cambia argomento. «Parliamo del motivo per cui ti ho fatta venire qui» dice, rianimandosi e pescando una sottile chiave di ottone dalla tasca dell’abito rosso che indossa quel giorno. Sotto lo sguardo attento della ragazzina, raggiunge l’antica cassettiera di mogano posta accanto all’ingresso e fa scattare la serratura del cassetto inferiore. Con i gesti rapidi e precisi di chi sa cosa sta cercando, vi fruga dentro per qualche istante, prende qualcosa e poi lo richiude.

Quando la donna si siede di fronte a lei, accomodandosi sul divano, Margherita fa del proprio meglio per mantenere un contegno educato e non cedere alla curiosità che le imporrebbe di sbirciare ciò che la Zingara ha in mano. Senza farsi pregare, la Signora Mursciù si posa sulle ginocchia un fagottino di cotone azzurro. La stoffa, ripiegata a mo’ di pacchetto, custodisce qualcosa di piccolo e, per un attimo, la bambina si chiede se si tratti di un gioiello, o magari di un’altra fialetta come quella che la donna aveva dato a lei e ad Agnese tempo prima.

Quando la Zingara scioglie il legaccio che tiene uniti i lembi del fazzoletto chiaro, però, la bimba vede che l’oggetto che la donna ha preso dal cassetto non è altro che una seconda chiave. «Voglio che questa la tieni tu» dice la Francesca, porgendogliela.

Margherita l’afferra con circospezione. Nessuno le ha mai affidato una chiave, prima d’ora. Quella che tiene tra le mani in quel momento è piccola, apparentemente delicata: più che una porta, sembra adatta per aprire l’anta di un armadio. La bambina lo solleva per osservarla meglio: è fatta di un materiale trasparente e la luce la attraversa da parte a parte, riempiendola di innumerevoli riflessi infuocati.

Margherita ne saggia la consistenza con un’unghia, poi si rivolge alla Zingara. «Di cos’è fatta?» le chiede.

La donna le sorride. «È ambra» le spiega. «È come la resina che trovi sugli abeti, ma è molto più vecchia.»

Perplessa, la bambina la stringe un po’ più forte tra indice e pollice. La resina che cola dagli abeti e dal pruno che cresce davanti a casa sua è morbida, malleabile e appiccicosa, mentre quella di cui è fatta quella chiave è dura come il vetro. Però non vuole apparire sciocca, così cambia domanda. «Di cos’è?» indaga.

«Vuoi sapere che cosa apre?» si accerta la Zingara, sporgendosi un pochino verso di lei. La ragazzina annuisce, abbassando lo sguardo sulla chiave, e la Signora Mursciù allunga una mano fino a coprire quella di Margherita, pelle color caramello, dalle ombre dorate, contro pelle d’alabastro, segnata da vene azzurrine. «Questa chiave», annuncia, con il tono basso con cui è solita raccontarle le storie più bizzarre e grandiose, «apre una porta molto antica. Non è un posto adatto ai bambini, quindi, almeno per adesso, non posso portarti a vederla, né posso rivelarti dove si trovi. Tra qualche anno, però, prometto che ti condurrò lì e ti racconterò tutto quello che c’è da sapere a proposito di quella porta e di quello che ci si trova al di là di essa.»

Quella risposta, naturalmente, non fa che stuzzicare ulteriormente la curiosità di Margherita, che ora sente di avere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di più a proposito della porta che solo la chiave che ha tra le mani può aprire. Sente di volerla toccare, vuole impugnarne la maniglia, abbassarla e passare oltre l’uscio.

Per qualche secondo, la sfiora la tentazione di insistere e provare a convincere la Zingara a portarla in quel posto misterioso, se non altro per dare una sbirciatina. Desiste subito, però: sa benissimo che quando la Signora Mursciù dice di no a una cosa, non c’è verso di farle cambiare idea. «Ma che tipo di porta è?» chiede invece. «Serve per entrare in una casa? O forse in un palazzo?» O magari in un castello, pensa la bambina con un fremito di eccitazione. Lei non l’ha mai visto, un castello vero, perché da quelle parti non ce n’è nemmeno uno. Quelli che i valligiani chiamano con deferenza castèi non sono altro che palazzotti di modeste dimensioni, mezzi diroccati e con solo qualche sparuta torretta.

La Francesa esita per un istante. «No, direi che è… direi che è piuttosto la porta di una recinzione che separa questa nostra terra dalla terra di altre persone. Come un cancello che delimita i confini di un giardino o di un orto che non ci appartiene»

Margherita annuisce in silenzio per qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto. La sua mente le propone l’immagine di un fazzoletto di terreno ombroso e verdeggiante, ricco di alberi strani e di fiori dal profumo vibrante. Le pare di vedere il terriccio scuro e fertile, il muschio spesso che cresce sui tronchi, il gioco sinuoso dei raggi obliqui del sole che si intrecciano con i rami. Forse ci sono dei pavoni che zampettano tra le felci, le sembra di scorgerne i riflessi bluastri delle code magnifiche, e tra le foglie più alte saltellano i merli indiani. Può quasi annusare il profumo del proibito e si chiede se quel cancello assomigli almeno un po’ a quelli che, in qualche occasione, lei e Agnese hanno scalato e scavalcato per introdursi in un campo non loro e rubare qualche mela o una manciata di ciliegie.

«Prometti di averne cura?»

La voce della Zingara la distrae dalle sue fantasticherie e Margherita annuisce senza nemmeno pensarci. Guarda la chiave per un secondo soltanto e poi cerca gli occhi neri della Signora Mursciù. «Va bene», promette, «ma perché l’hai data a me? Perché non puoi tenerla tu?»

La Francesa sorride e alla bambina il suo sguardo sembra più dolce del solito. «L’affido a te perché io dovrò andare via per qualche tempo. Se qualcuno dovesse averne bisogno in mia assenza, potrà rivolgersi a te.»

Quella notizia è inaspettata e Margherita aggrotta la fronte, turbata. «Devi andare via?» ripete, per accertarsi di avere capito bene. «Perché? Dove devi andare?» Nelle orecchie le risuona all’improvviso ciò che la donna aveva detto una delle ultime volte che lei e Agnese le avevano fatto visita, quando aveva confessato che le persone che l’avevano costretta a fuggire dalla sua casa erano sulle sue tracce. Che l’avessero infine trovata, obbligandola a lasciare anche San Giorgio della Valle?

Intuendo forse le sue preoccupazioni, la Zingara posa una mano sul ginocchio della ragazzina. «Non temere, non è nulla di allarmante» la rassicura. «Tra poco avrò una bambina e voglio che nasca tra la mia gente. Non posso tornare in Francia, ma ho degli amici in Svizzera, vicino a Ginevra: andrò lì.»

Margherita è sbalordita. Lo sguardo le cade sulla pancia della donna, che le pare piatta come sempre: non le sembra proprio che ci sia una bambina, lì dentro. «Come fai a sapere che sarà proprio una femmina?» è la domanda migliore che le riesce di fare.

La Francesa si sfiora appena il ventre con la punta delle dita. «L’ho sognata» rivela. «Sarà una bambina, sarà piccola e bruna, con occhi buoni e capelli selvaggi. Si chiamerà Flora e vedrà il mare.»

Le parole della donna sono talmente sicure che a Margherita sembra quasi di vedersela davanti, quella bambina che ancora non esiste: se la immagina come una versione infantile della Zingara, piccola e minuta e con gli occhi neri.

«Passerà qualche anno, prima che potremo rivederci» continua la Signora Mursciù. «Cambieranno tante cose, in questi anni: la guerra finirà e tu crescerai, avrai altri interessi e conoscerai altre persone. Non dimenticarti mai di me, però, e non dimenticarti mai di questa chiave. Sii una buona custode e non cederla a nessuno che non abbia il diritto di averla.»

Una fitta di apprensione attraversa lo stomaco della piccola. «Ma come faccio a sapere se qualcuno ha il diritto di averla oppure no? Prima mi hai detto che qualcuno potrebbe averne bisogno: come faccio io a capire se chi me la chiede ne ha davvero bisogno o se, invece, me la vuole rubare e basta?»

La Zingara le sorride di nuovo. «Lo capirai da sola.»

Quella risposta non piace alla bambina, le sembra terribilmente insoddisfacente. «Ma come?» insiste. «Spiegami un po’ meglio come fare! Non voglio sbagliare!»

La mano della donna sale ad accarezzarle la guancia rotonda e morbida. «Non ti sbaglierai, Margherita. Tu hai un dono raro, anche se ancora non lo sai. Scoprirai anche questo, negli anni a venire.»

La bambina si stringe la chiave al petto, sentendosi preda di una strana tristezza. Vorrebbe sapere molto di più, ma percepisce con estrema chiarezza che la Zingara non ha intenzione di dirle altro. Sembra quasi che la stia salutando, in effetti: è come se le stesse lasciando un ultimo dono, un’eredità che dovrà gestire da sola per molto tempo.

Animata da una flebile scintilla di speranza, Margherita da voce al pensiero che le ha appena attraversato la testa. «E Agnese?» chiede. «C’è una chiave anche per lei?»

Non appena la sente fare il nome di Agnese, la Signora Mursciù si rabbuia. «No. Per lei non ho niente.»

La bambina non riesce a dare un nome all’ombra che ha scorto nel tono della Zingara, ma avverte con chiarezza l’aria della stanza farsi pesante e stringersi attorno a lei nello stesso modo in cui la nebbia, là fuori, si stringe attorno alle case di San Giorgio.

   
 
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