Capitolo quarto
Marco a uomo tutta l'aggressività
Ma non posso privarmi del nome che porto
Conscio di una brutta popolarità
Perché a volte mi faccio giustizia da solo
Odio nascondermi e mendicare
Credo solo in quello che fa bene a me
E non chiedo alla vita niente di speciale
Cammino da solo e non mi volto mai
Continuo a correre…
(“Calma e sangue freddo” – Luca Dirisio)
La cosa bella di Albizzi era che non
potevi mai sapere se avesse deciso di mollare o se invece ti stesse prendendo
per i fondelli e avesse in animo qualcosa di nuovo da tramare! Poteva sembrare
che, dopo il colloquio avuto con Giovanni, l’uomo avesse deciso di soprassedere
e lasciar perdere quella povera cupola… e invece il giorno dopo eccolo di nuovo
lì, bello tranquillo e soddisfatto, perché gli operai si erano convinti a
lasciarsi pagare da lui e avevano iniziato a buttare giù impalcature e mattoni.
Nel frattempo Cosimo, allertato da Marco
Bello, aveva deciso di tornare a Firenze per cercare di fermare quello scempio,
nonostante la madre Piccarda fosse in fin di vita per aver contratto la peste
(ma non erano andati in campagna per sfuggire al contagio?).
Quando giunse in città si recò subito
alla Cattedrale, scortato da Marco Bello, e rimase esterrefatto di fronte alla
scena della devastazione della cupola e del sorriso compiaciuto di Rinaldo che
stava in beata contemplazione del casino che aveva provocato. Cosimo sarebbe
voluto intervenire con veemenza per fermare gli operai e dirne quattro ad
Albizzi, già che c’era, ma prima di lui arrivò Giovanni che anche questa volta
era rimasto a spiare confondendosi in
mezzo alla folla.
Il ragazzo si fece avanti, senza sapere
che anche Cosimo era presente, e senza mezzi termini dichiarò che quello che
stava succedendo era una colossale idiozia.
“Ma cosa fate? Non potete distruggere
tutto il lavoro che è stato fatto! Questa è la cupola della nostra Cattedrale,
diventerà il vanto di Firenze” protestò.
Diverse persone lo guardarono in
cagnesco. I soldi di Albizzi, se non le sue parole, avevano sortito l’effetto
desiderato…
“Questa cupola è figlia del demonio!”
beh, sì, Albizzi aveva fatto scuola e qualcuno si era davvero lasciato
convincere.
“Dio ha mandato la peste a Firenze per
punire i peccati dei Medici!”
“Solo quando la cupola sarà distrutta
saremo salvi!”
Questo tanto per dimostrare quanto la
folla si lasci trascinare dal primo deficiente che straparla…
“Ma vi ascoltate quando parlate? Credete
davvero che la peste sia una punizione divina per la costruzione della cupola?”
La maggior parte della gente annuì
convinta; altri erano convinti semplicemente dai quattrini di Albizzi…
“Bene, sapete come la vedo io, allora?
E’ vero che Firenze ha dei gravi peccati da scontare, ma non riguardano certo
l’edificazione di una cupola” replicò Giovanni. “I peccati di Firenze sono
legati alle infinite guerre civili che si sono succedute e ai tanti innocenti
che ne sono rimasti vittime! I miei antenati, gli Uberti, sono stati trattati
in maniera crudele e vergognosa dopo aver fatto tanto per il bene di questa
città. Sono stati esiliati, ma non solo: i figli di Farinata degli Uberti,
ancora bambini, sono stati rinchiusi in prigione e uccisi in modo atroce, solo
uno di loro è riuscito a salvarsi. E ancora peggio, le spoglie mortali di
Farinata e di sua moglie Adaleta sono state disseppellite e profanate!”
Gli occhi di Giovanni mandavano tuoni e fulmini e appariva lampante che
Rinaldo Albizzi non era l’unico, da quelle parti, ad avere la memoria lunga per
le offese…
“Volete espiare i peccati di Firenze?
Allora riparate agli oltraggi che i miei antenati hanno subìto! Io vi chiedo di
edificare la cupola per permettere la consacrazione della Cattedrale e a quel
punto i resti di Farinata e di sua moglie potranno riposare nel posto che gli
spetta, con tutti gli onori, nel Duomo di Firenze” esclamò il ragazzo. Cosimo,
che lo ascoltava con molto interesse, pensò che era un’idea mica male: la
cupola sarebbe servita anche per rendere omaggio agli Uberti e ripagarli per
gli oltraggi che avevano dovuto sopportare…
Albizzi, che si era visto rovinare anche
quella giornata che gli era parsa tanto promettente, non la vedeva allo stesso
modo, anzi! Quel ragazzino sfacciato non voleva proprio capire e si permetteva
una volta ancora di farsi beffe di lui e di fregarsene allegramente dei suoi
tentativi per rovinare i Medici.
“Questa cupola è un’empietà e deve
essere distrutta” intervenne, in un altro emozionante
confronto pubblico con Giovanni. “Non c’è niente di onorevole nell’essere
sepolti in un luogo edificato con i soldi ricavati dall’usura e tu non puoi volere questo per i tuoi antenati!”
“Siete così pronto a condannare i Medici
per il loro lavoro di banchieri, ma non vi è venuto in mente che quello che
avete fatto voi, ossia pagare gli
operai perché distruggano la cupola, potrebbe essere definito corruzione?” decisamente Giovanni aveva
un bel fegato, questo bisogna riconoscerlo!
Albizzi si sarebbe volentieri scagliato
sul ragazzo per fargli non si sa bene cosa dopo essere stato definito corrotto (e pure ipocrita, per buona
misura) davanti a tutta la gente di Firenze, ma in quel momento Cosimo pensò
bene di intervenire per spostare l’attenzione di tutti su di sé. Aveva ammirato
l’audacia di Giovanni e si convinceva sempre più del fatto che quel giovane
fosse molto importante per i suoi piani, leale e affidabile com’era…
possibilmente, preferiva che Albizzi non gli spaccasse la testa con un mattone!
“Distruggere la cupola non fermerà la
peste” esclamò, facendosi largo in mezzo alla gente. “Questa cupola è un
omaggio a Dio e…”
“Ma sentitelo, adesso vuole parlare in
nome di Dio!” fece, sprezzante, uno degli operai. Altri annuirono energicamente
e brontolarono contro Cosimo.
“E’ forse Cosimo de’ Medici che vuole
parlare a nome di Dio?” intervenne Giovanni, che non riusciva proprio a stare
zitto, era più forte di lui… “Ma non è proprio quello che Messer Albizzi sta facendo da due giorni?”
A dirla tutta, Giovanni aveva ragione e
qualcuno tra la folla dovette rendersene conto, perché ci fu un certo
scompiglio. In compenso, il Messer Albizzi in questione era veramente
scocciato.
“Non ho mai affermato di parlare in nome
di Dio” disse, con una straordinaria faccia di bronzo. “La verità è sotto gli
occhi di tutti: la peste è arrivata a Firenze da quando è iniziata la
costruzione della cupola. E non dobbiamo stupircene, perché Dio non può
accettare l’omaggio di un usuraio come Cosimo che ha sottratto le decime del
Papa per costruire la sua opera!”
Le cose parvero mettersi improvvisamente
male per il Medici. La gente cominciò a guardarlo con odio e qualcuno iniziò
perfino a insultarlo e ad armarsi di sassi per colpirlo. Marco Bello si mise in
mezzo per difendere il suo padrone e, tanto per cambiare, Giovanni volle far
sapere al resto del mondo come la pensava sulla questione!
“Messer Albizzi ha ragione” dichiarò,
con grande sorpresa di tutti. Ma se fino a quel momento non gliene aveva
lasciata passare una…? Tuttavia il ragazzo era piuttosto abile nel far girare
il vento a suo favore. “Né Dio né la mia famiglia possono accettare un omaggio
edificato con del denaro sottratto alla Chiesa. Infatti dovranno essere le
famiglie nobili fiorentine a pagare per la costruzione della cupola: sono state
loro a oltraggiare i miei antenati e a profanare le loro spoglie mortali,
pertanto saranno loro a fare ammenda, finanziando la costruzione della cupola!”
Cosimo era entusiasta: a quanto pareva
quella era la perfetta quadratura del cerchio. Non doveva più preoccuparsi per
la cupola e così decise di allontanarsi insieme a Marco Bello prima che gli
operai ci ripensassero e ricordassero per quale motivo avevano preso in mano
quei sassi…
Ci mancherebbe solo
questa! Io dovrei pagare per la costruzione di una cupola che nemmeno voglio?
Non se ne parla neanche, pensò Albizzi, alquanto irritato per la soluzione
trovata da Giovanni. Tuttavia anche lui non era da meno quando si trattava di
rigirare la frittata, come avevo già fatto notare altre volte.
“Forse Messer Uberti non ha tutti i torti” replicò, con un sorrisetto
sprezzante. “Tuttavia ciò che è stato costruito
finora deriva dall’usura e pertanto va distrutto. Quando la parte che offende
Dio sarà spazzata via insieme ai peccati dei Medici, allora e solo allora le
famiglie nobili di Firenze saranno più
che disposte a finanziare la costruzione della cupola.”
E come no?
La partita si era
conclusa con un pareggio, uno a uno e palla al centro. Giovanni aveva strappato
una risicata promessa di finanziamento per la cupola, ma Albizzi avrebbe
continuato a pagare gli operai perché buttassero giù ciò che era stato
costruito fino a quel momento.
Cosimo de’ Medici
avrebbe dovuto trovare un’altra strada. E la trovò, infatti, come un’illuminazione
improvvisa.
Quando, il giorno dopo,
Rinaldo Albizzi si recò alla Cattedrale insieme al figlio Ormanno, vide con suo
grande disappunto che gli operai erano tutti fuori dall’edificio e che la
distruzione della cupola era bloccata.
“Cosimo ha fatto
della Cattedrale un rifugio per gli appestati e gli operai non entrano per
paura del contagio” spiegò Ormanno con lo stesso tono sprezzante del padre, di
cui era il perfetto clone vivente.
Albizzi ne aveva
veramente abbastanza di quella storia. Portò il suo cavallo di fronte al
portone della Cattedrale e si mise a chiamare Cosimo.
“Che cos’è questa
storia, Medici? Pretendo una spiegazione!”
Ma quando il portone
si aprì non ne uscì Cosimo, bensì Marco Bello.
“Il mio padrone è
dentro con i malati” disse con una gran faccia da schiaffi. “Se volete entrare
siete il benvenuto.”
Rinaldo Albizzi non
aveva la minima intenzione di entrare in una Cattedrale piena di appestati, col
rischio concreto di contrarre la malattia. Però, evidentemente, quello che non
voleva fare lui lo dovevano fare gli altri. Irritato per la risposta sfacciata
del servitore di Cosimo, non lo degnò nemmeno di una risposta e si rivolse
invece agli operai che erano tutti lì fuori.
“Entrate subito nella
Cattedrale e continuate a distruggere la cupola!” ordinò.
Quelli, ovviamente,
se ne guardarono bene e, anzi, lo fissarono con espressioni che dicevano
chiaramente entrateci voi se ci tenete
tanto e la cupola potete buttarla giù
da solo per quel che ci riguarda.
“Vi ordino di
obbedire! Entrate immediatamente!” ripeté, sempre più infuriato.
Certo, come no? Gli
operai, brontolando e scuotendo il capo, iniziarono addirittura ad
allontanarsi, tanto per chiarire meglio il concetto. Intanto Marco Bello, sul
portone della Cattedrale, si divertiva un sacco… e questo mandò alle stelle il
giramento di scatole di Albizzi.
Poi, ad un certo
punto, anche a lui venne un’illuminazione. Cosimo pensava di fregarlo? Molto
bene, gli avrebbe reso il favore con gli interessi!
“Hai detto che il tuo
padrone è dentro con gli appestati. Dove si trova il suo protetto, Giovanni
Uberti?” domandò a Marco.
“Anche lui è dentro
con i malati” rispose l’uomo, preso alla sprovvista.
Perché quella era
proprio la risposta che Rinaldo si aspettava e non si lasciò sfuggire l’occasione.
“Cosimo de’ Medici ha
portato quel ragazzo in una Cattedrale piena di malati di peste? Ma non ha proprio
un briciolo di vergogna? Giovanni è un ragazzino, è sotto la sua protezione e
lui lo espone al contagio!” esclamò, ostentando un’espressione scandalizzata. “Se
il tuo padrone non vuol degnarsi di uscire, abbia almeno il buon senso di
mandare fuori il ragazzo. Vuole forse farlo morire? Questo non è il suo posto.
Dirai a Cosimo che mi occuperò io di
Giovanni, visto che lui si comporta in maniera tanto irresponsabile, e lo
porterò a Palazzo Albizzi.”
Marco Bello non trovò
niente da replicare. In effetti, una volta tanto, l’uomo aveva ragione. Peccato
che la sua offerta non fosse così innocente e disinteressata come voleva
sembrare…
“Come volete, Messere”
disse, rientrando nella Cattedrale.
Mentre aspettava che
Giovanni uscisse, Rinaldo si rivolse al figlio.
“Il leccapiedi di
Cosimo ha gironzolato per la città anche se i Medici erano andati via. Scopri
che cosa ha in mente” gli disse. Il giovane annuì e partì a cavallo e se
qualcuno pensa che volesse togliersi dai piedi il figlio per avere un incontro senza testimoni con Giovanni… beh, a
pensare male si fa peccato ma in genere ci si azzecca!
Albizzi sorrise. Per
una volta le cose stavano andando nella giusta direzione. Cosimo credeva di
averlo preso in contropiede, ma l’ultima parola sarebbe stata la sua: avrebbe
portato Giovanni al suo palazzo e, finalmente, sarebbe riuscito a convincerlo a
passare dalla sua parte.
E poi, già che c’era,
si sarebbe tolto anche qualche soddisfazione personale, qualcosa che aveva
pensato fin dalla prima volta in cui quel ragazzino presuntuoso aveva osato
sfidarlo…
Il portone della
Cattedrale si aprì di nuovo e questa volta fu Giovanni a uscire, con un’aria
alquanto perplessa. Con ogni evidenza, Cosimo lo aveva incoraggiato ad
accontentare Albizzi e lui non capiva perché. Forse si era reso conto del
pericolo a cui lo aveva esposto e voleva rimediare… o forse aveva pensato che
era giunto il momento di fare una concessione a Rinaldo per avere qualcosa in
cambio.
“Ah, eccoti, meno
male che Cosimo ha avuto almeno la lungimiranza di farti uscire” commentò l’uomo,
non appena lo vide. “Avanti, vieni, ti porto al mio palazzo. Quel Medici è
davvero senza scrupoli, quando ha in mente quella sua dannata cupola non riesce
a pensare ad altro! E’ abominevole che abbia portato un ragazzino come te
dentro una chiesa piena di appestati… Cosimo è senza scrupoli, senza morale e
senza vergogna.”
“Messer Cosimo ha
detto che devo venire con voi, ma io non capisco perché. Avrei potuto tornare a
Palazzo Medici e…” disse Giovanni, facendo qualche passo poco convinto verso
Albizzi. Si guardava intorno come a cercare una spiegazione, ma l’uomo non
aveva voglia di perdere altro tempo in chiacchiere. Scese da cavallo, andò
deciso verso il ragazzo e lo afferrò per un braccio, sospingendolo poi verso l’animale.
Risalito in groppa, prese Giovanni, lo sollevò e lo mise davanti a sé sul dorso
della bestia.
“Cosa faresti a
Palazzo Medici da solo? Cosimo avrebbe dovuto occuparsi di te ma,
evidentemente, ha di meglio da fare, così ci penserò io” replicò Albizzi.
“Guardate che io non
ho mica bisogno di una guardia del corpo, so cavarmela da solo, non c’è nessun
bisogno che venga nel vostro palazzo” cercò di protestare il ragazzo, ma senza
molto successo.
Albizzi spronò la
cavalcatura e se lo portò via, molto compiaciuto della sua apparente vittoria.
Non sapeva che, in
realtà, Cosimo aveva avallato tranquillamente quella specie di sequestro di persona. Aveva avuto modo
di conoscere bene Giovanni ed era sicurissimo che, comunque fosse andata, il ragazzo
avrebbe tenuto la testa sulle spalle e non si sarebbe lasciato manipolare da
Albizzi.
In compenso, Giovanni
non aveva idea di che cosa stesse succedendo!
Fine capitolo quarto