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Autore: Gotick_92    25/07/2009    4 recensioni
Si lancia urlando. Dà una spallata alla finestra, manda il vetro in mille pezzi. Assapora il gusto delle schegge che gli perforano la carne. Poi sente l’aria che gli fende il corpo, che gli fa aderire i vestiti alla pelle scarna.
Genere: Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Schizofrenia

Plic.

Plic.

La senti? Senti, amore mio piccolo, la pioggia che batte sul vetro della finestra?

Il suo corpo trema, si agita, si contorce nel buio. Guarda attonito quelle goccioline inesistenti, si butta contro la finestra e comincia a darle dei pugni, frenetico più che rabbioso.

Spirito labile, coscienza effimera e solo un ammasso di passi vuoti, ecco cosa era rimasto di lui. Le braccia esili cominciano ad essere percorse da scossoni di terrore, in quella stanza color nero cupo, che gli sembrava fosse stata messa lì per opprimerlo, per soffocarlo, stringendogli le gola con artigli di demone e soffocando fino a poterlo guardare, trionfante, esalare il suo ultimo respiro. E barcollava, sotto il peso di quei pensieri gravidi di terrore, avanti ed indietro, oscillando come sbattuto dai venti di morte, trattenuto da catene sanguinanti di ricordi, ricordi di quel pavimento nero e di quelle sbarre nere alla porta nera per il suo cuore NERO.

Ascolti i violini, amore mio? Godi della loro malvagia melodia, senti i loro archi frinire!! Godi della poesia della terra! Cos’è questa? Una campana?

Il suo tempo era immenso, oppure infinitesimale, aveva vissuto più di noi e forse ancora doveva superare l’adolescenza, la sua vita era già agli sgoccioli nonostante non fosse mai cominciata. Un sorriso di perversione si delinea su quel volto sconfitto, e nel silenzio della notte scura si può quasi sentire il cervello lavorare, stridere sotto la pressione di un istinto selvaggio, che ne attenua le capacità e lo riduce al livello di animale. Si solleva le maniche, e mostra le numerose ferite sui polsi, gli squarci della bruciante bramosia di morte, e riprende a flagellare se stesso dando violenti pugni al vetro della finestra, costringere le sue nocche a diventare rosse e spaccate, infrangendo le proprie illusioni su quel vetro che sembra non cedere, limitandosi, cinico, a restituirgli un dolore di cui non comprende il significato. Aveva poche, sbiadite immagini del giorno in cui era arrivato in quella stanza e non vi era più uscito. Quella figura chiara, avvolta dalle spire dell’eternità, che lascia su quel pavimento un essere repellente, rannicchiato e tremante, sussurrando tra le lacrime quelle poche parole che erano rimaste scolpite, quel castello di sabbia che la marea del tempo non era riuscita a distruggere. << Torno subito, amore mio>>

Stanno venendo a prendermi, amore mio bello, sono qui! Vogliono il mio sangue, vogliono la mia pioggia!!!

E svanisce come fumo la rabbia, che forse non era mai esistita veramente, una volta distolta l’attenzione, e i pensieri ricominciano a fluire come al solito. Vagano per la stanza i suoi occhi vacui, cercano quel qualcosa o qualcuno ch in cuor suo lo vuole morto, cerca la fonte della campana e della pioggia, cerca le sue speranze che ricorda di aver lasciato in quel cassetto marrone accanto al letto.

Maledetti! Maledetti! Maledetti!

E la bella rosa della solitudine cominciava a conficcare le sue spine nel suo povero cuore martoriato. Gli anni cominciavano a farsi sentire non sul corpo tormentato, ma sulla fragile mente che era ospitata, come un involontario parassita,  in quelle carni che ormai non sentiva più come sue da tempo immemore, ma che invece erano solo un peso, un cumulo di cose non fatte, un’esistenza incompleta della quale avrebbe volentieri fatto a meno. E percepiva il fiato della vita sul collo che lo perseguitava con la sua insistenza, con quella sua odiosa bellezza, che gli faceva sentire le proprie unghie radicate nella pelle, le sue labbra sensuali tinte di quel rosso scarlatto che ancora gli provocava la nausea. Smettila, smettila, smettila, le ripeteva, e il suo cervello chiedeva sangue alle arterie, troppo, forse, e se lo sentiva salire in quel cranio malsano quasi come fosse Potere allo stato puro. S’inebriava di quella falsa onnipotenza, si ubriacava di tutto l’odio che il suo cuore non aveva ancora provato, rideva sguaiatamente, talvolta urlando per la gioia e per il dolore nello stesso momento.

Quasi sapeva che, però, quel potere era fittizio. E se ne rendeva conto, dopo aver goduto della affascinante nebbia rossastra nella sua testa.  Ne soffriva. E smetteva, in quei momenti, di esistere, perché la mente gli implodeva, e lui si scopriva rannicchiato in un angolo di quell’onnipresente stanza nera, e li sentiva, li sentiva ballare e venire danzando, dicendogli che lui sarebbe stato il prossimo a venir ghermito dagli artigli dell’aria infetta in cui viveva.

La pioggia … ha smesso … no … la senti, amore mio, la senti, la senti, LA SENTI?

Riprende a traballare, quell’insanità si riappropria del suo corpo. Lei, la sua dolce figura, i suoi lineamenti delicati, la sua stessa essenza, c’erano, le vedeva, le SENTIVA. La sentiva su di se, sulla sua pelle, scorgeva i suoi esili contorni nitidamente su tutti i muri, ovunque si voltasse, e scompariva così com’era apparsa, riappariva così com’era scomparsa e non era mai stata lì.

Stanno venendo, e hanno preso la pioggia, la mia pioggia, amore mio. Vogliono me, vogliono te, adesso.

E si porta, con un ghigno malato, sul muro opposto della stanza.

Non mi avranno. Li precederò. E tu verrai con me, vero, amore mio?

Si lancia urlando. Dà una spallata alla finestra, manda il vetro in mille pezzi. Assapora il gusto delle schegge che gli perforano la carne. Poi sente l’aria che gli fende il corpo, che gli fa aderire i vestiti alla pelle scarna.

Dove sei, ora, amore mio? Perché non sei qui con me? Fa freddo … ma dov’è la pioggia? Puoi sentirla, vero?

Lo sguardo si tutti coloro che sostavano nel cortile si rivolse al corpo quasi senza peso che cadeva, dolcemente, dalla stanza situata al quarto piano.

Se la pioggia non c’è allora tu … non esisti, vero, amore mio?

 

 

Un telefono squilla, la casa è semideserta, una donna alta, col viso segnato dalle rughe ed i capelli già quasi imbiancati, va a rispondere con passo lento.

-Pronto? Signora?

-Si, sono io …. Chi è?-

-Qui parla la Casa di cura per le patologie mentali di St. Moris … dobbiamo … comunicarle una brutta notizia … suo figlio … è … -

La donna lasciò cadere la cornetta, e piombò in ginocchio. Pianse qualche lacrima, lacrime dolorose, lacrime di quel tipo che può versare solo una madre, spezzata dal dolore e dal rimorso. E, in mezzo alla sua sofferenza, nella mente si delinearono, terrorizzanti e impietose, le quattro parole che diceva al suo bambino:

Torno subito, amore mio

  
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