Schizofrenia
Plic.
Plic.
La
senti? Senti,
amore mio piccolo, la pioggia che batte sul vetro della finestra?
Il
suo
corpo trema, si agita, si contorce nel buio. Guarda attonito quelle
goccioline
inesistenti, si butta contro la finestra e comincia a darle dei pugni,
frenetico più che rabbioso.
Spirito
labile, coscienza effimera e solo un ammasso di passi vuoti, ecco cosa
era
rimasto di lui. Le braccia esili cominciano ad essere percorse da
scossoni di
terrore, in quella stanza color nero cupo, che gli sembrava fosse stata
messa
lì per opprimerlo, per soffocarlo, stringendogli le gola con
artigli di demone
e soffocando fino a poterlo guardare, trionfante, esalare il suo ultimo
respiro. E barcollava, sotto il peso di quei pensieri gravidi di
terrore,
avanti ed indietro, oscillando come sbattuto dai venti di morte,
trattenuto da
catene sanguinanti di ricordi, ricordi di quel pavimento nero e di
quelle
sbarre nere alla porta nera per il suo cuore NERO.
Ascolti
i violini,
amore mio? Godi della loro malvagia melodia, senti i loro archi
frinire!! Godi
della poesia della terra! Cos’è questa? Una
campana?
Il
suo
tempo era immenso, oppure infinitesimale, aveva vissuto più
di noi e forse
ancora doveva superare l’adolescenza, la sua vita era
già agli sgoccioli
nonostante non fosse mai cominciata. Un sorriso di perversione si
delinea su
quel volto sconfitto, e nel silenzio della notte scura si
può quasi sentire il
cervello lavorare, stridere sotto la pressione di un istinto selvaggio,
che ne
attenua le capacità e lo riduce al livello di animale. Si
solleva le maniche, e
mostra le numerose ferite sui polsi, gli squarci della bruciante
bramosia di
morte, e riprende a flagellare se stesso dando violenti pugni al vetro
della
finestra, costringere le sue nocche a diventare rosse e spaccate,
infrangendo
le proprie illusioni su quel vetro che sembra non cedere, limitandosi,
cinico,
a restituirgli un dolore di cui non comprende il significato. Aveva
poche,
sbiadite immagini del giorno in cui era arrivato in quella stanza e non
vi era più
uscito. Quella figura chiara, avvolta dalle spire
dell’eternità, che lascia su
quel pavimento un essere repellente, rannicchiato e tremante,
sussurrando tra
le lacrime quelle poche parole che erano rimaste scolpite, quel
castello di
sabbia che la marea del tempo non era riuscita a distruggere.
<< Torno
subito, amore mio>>
Stanno
venendo a
prendermi, amore mio bello, sono qui! Vogliono il mio sangue, vogliono
la mia
pioggia!!!
E
svanisce come fumo la rabbia, che forse non era mai esistita veramente,
una volta
distolta l’attenzione, e i pensieri ricominciano a fluire
come al solito.
Vagano per la stanza i suoi occhi vacui, cercano quel qualcosa o
qualcuno ch in
cuor suo lo vuole morto, cerca la fonte della campana e della pioggia,
cerca le
sue speranze che ricorda di aver lasciato in quel cassetto marrone
accanto al
letto.
Maledetti!
Maledetti! Maledetti!
E la
bella rosa della solitudine cominciava a conficcare le sue spine nel
suo povero
cuore martoriato. Gli anni cominciavano a farsi sentire non sul corpo
tormentato, ma sulla fragile mente che era ospitata, come un
involontario
parassita,
in quelle carni che ormai non
sentiva più come sue da tempo immemore, ma che invece erano
solo un peso, un
cumulo di cose non fatte, un’esistenza incompleta della quale
avrebbe
volentieri fatto a meno. E percepiva il fiato della vita sul collo che
lo
perseguitava con la sua insistenza, con quella sua odiosa bellezza, che
gli
faceva sentire le proprie unghie radicate nella pelle, le sue labbra
sensuali
tinte di quel rosso scarlatto che ancora gli provocava la nausea. Smettila, smettila, smettila,
le
ripeteva, e il suo cervello chiedeva sangue alle arterie, troppo,
forse, e se
lo sentiva salire in quel cranio malsano quasi come fosse Potere allo
stato
puro. S’inebriava di quella falsa onnipotenza, si ubriacava
di tutto l’odio che
il suo cuore non aveva ancora provato, rideva sguaiatamente, talvolta
urlando
per la gioia e per il dolore nello stesso momento.
Quasi
sapeva che, però, quel potere era fittizio. E se ne rendeva
conto, dopo aver
goduto della affascinante nebbia rossastra nella sua testa. Ne
soffriva. E smetteva, in quei momenti, di
esistere, perché la mente gli implodeva, e lui si scopriva
rannicchiato in un
angolo di quell’onnipresente stanza nera, e li sentiva, li
sentiva ballare e
venire danzando, dicendogli che lui sarebbe stato il prossimo a venir
ghermito
dagli artigli dell’aria infetta in cui viveva.
La
pioggia … ha
smesso … no … la senti, amore mio, la senti, la
senti, LA SENTI?
Riprende
a traballare, quell’insanità si riappropria del
suo corpo. Lei, la sua dolce
figura, i suoi lineamenti delicati, la sua stessa essenza,
c’erano, le vedeva,
le SENTIVA. La sentiva su di se, sulla sua pelle, scorgeva i suoi esili
contorni nitidamente su tutti i muri, ovunque si voltasse, e scompariva
così
com’era apparsa, riappariva così com’era
scomparsa e non era mai stata lì.
Stanno
venendo, e
hanno preso la pioggia, la mia pioggia, amore mio. Vogliono me,
vogliono te,
adesso.
E si
porta, con un ghigno malato, sul muro opposto della stanza.
Non
mi avranno. Li
precederò. E tu verrai con me, vero, amore mio?
Si
lancia urlando. Dà una spallata alla finestra, manda il
vetro in mille pezzi.
Assapora il gusto delle schegge che gli perforano la carne. Poi sente
l’aria
che gli fende il corpo, che gli fa aderire i vestiti alla pelle scarna.
Dove
sei, ora,
amore mio? Perché non sei qui con me? Fa freddo …
ma dov’è la pioggia? Puoi
sentirla, vero?
Lo
sguardo si tutti coloro che sostavano nel cortile si rivolse al corpo
quasi
senza peso che cadeva, dolcemente, dalla stanza situata al quarto
piano.
Se
la pioggia non c’è allora tu … non
esisti, vero, amore mio?
Un
telefono squilla, la casa è semideserta, una donna alta, col
viso segnato dalle
rughe ed i capelli già quasi imbiancati, va a rispondere con
passo lento.
-Pronto?
Signora?
-Si,
sono io …. Chi è?-
-Qui
parla la Casa di cura per le patologie mentali di St. Moris
… dobbiamo …
comunicarle una brutta notizia … suo figlio …
è … -
La
donna
lasciò cadere la cornetta, e piombò in ginocchio.
Pianse qualche lacrima,
lacrime dolorose, lacrime di quel tipo che può versare solo
una madre, spezzata
dal dolore e dal rimorso. E, in mezzo alla sua sofferenza, nella mente
si
delinearono, terrorizzanti e impietose, le quattro parole che diceva al
suo bambino:
Torno
subito, amore
mio