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Autore: Saelde_und_Ehre    16/06/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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Der Kampf geht weiter in diesem Krieg...

 

Qualche giorno dopo

La bandiera di guerra del Reich – un drappo color sangue attraversato dai quattro bracci di una croce, con una croce patente nera e una svastica in campo bianco al centro – sventolava sul piazzale del castello del borgo, stagliandosi contro il cielo lattiginoso dell’alba.
Una piccola fanfara suonò le note di apertura della Königgrätzer Marsch mentre il generale e i comandanti di reggimento passavano in rassegna i battaglioni allineati all’ombra dei bastioni in pietra rossa; alle loro spalle, ieratici alfieri reggevano lo stendardo della fanteria e quello della Divisione.
Gli ufficiali erano alla testa delle rispettive unità, con gli elmetti d’acciaio e le sciabole cerimoniali che pendevano dal fianco.
“Soldati!” esordì il tenente generale von Salza, in tono solenne, fermandosi proprio ai piedi del vessillo inastato. “Questa non è che la prima fase di una lunga guerra, ma in soli dieci giorni siamo riusciti a forzare la linea della Vistola e giungere alle porte di Varsavia, come avanguardia dell’intero esercito. Questo non sarebbe stato possibile senza di voi, perché ognuno di voi” – e, nel porre enfasi su quelle parole, percorse l’intera schiera col suo acuto sguardo chiaro – “ha contribuito, nel suo piccolo, al successo di questa impresa. Siamo giunti fin qui, armati di coraggio, abnegazione, spirito di cameratismo e speranza, e i risultati sono stati a dir poco eccellenti.” Con passo marziale, fece un breve giro avanti e indietro, guardando ad uno ad uno gli ufficiali della divisione, dai fedelissimi del suo Stato Maggiore al più umile comandante di plotone. Quando, per un istante, gli occhi blu del generale si fissarono nei suoi, Erich Kühn sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. “Pertanto, allo snodo di questo passaggio cruciale, ritengo giusto premiare coloro che, attraverso le loro gesta e i loro consigli, hanno saputo guidare le loro truppe e condurle alla vittoria, affinché la loro condotta possa fungere da esempio per tutti gli altri.”
A quelle parole, la tensione si fece quasi spasmodica, ma nessuno osò rompere il silenzio carico di aspettativa che il discorso del generale aveva fatto piombare tra gli astanti.
Una voce tonante iniziò a declamare una lunga lista di nomi di ufficiali, sottufficiali, graduati, perfino militari di truppa dei vari battaglioni che per un motivo o per l’altro si erano distinti sul campo di battaglia. A ciascuno di loro, il tenente generale Erwin von Salza consegnava personalmente le onorificenze e rivolgeva qualche parola di incoraggiamento. Erich notò che riservava a tutti lo stesso trattamento, indipendentemente dal grado.
Gli ufficiali del terzo battaglione assistevano impassibili alla cerimonia, qualcuno dondolava nervosamente la testa qua e là o spostava il peso del corpo da un piede all’altro.
Quando il generale si avvicinò alla loro schiera, il sottotenente trattenne il respiro.
“Maggiore Hans Christoph Bühler, comandante del terzo battaglione…”
L’interpellato si fece avanti con passo marziale, salutò militarmente e rimase immobile mentre il generale gli applicava la croce di ferro di seconda classe sul taschino sinistro dell’uniforme. Quando Erich l’aveva visto per la prima volta, alla caserma del Reggimento di Potsdam, aveva faticato a credere che quel giovane uomo coi lineamenti da ragazzo fosse il suo comandante di battaglione, ma poi si era ritrovato a combattere ai suoi ordini e ne aveva ricavato un’impressione positiva.
Von Salza si congratulò con lui e Bühler indietreggiò di un passo, rimanendo però alla testa della schiera. Di tanto in tanto spostava lo sguardo dal generale ai subalterni, come se già immaginasse, in base ai rapporti da lui compilati, chi fossero gli altri destinatari dell’onorificenza. Von Kleist, nella sua nuova veste di comandante di compagnia, manteneva un’aria all’apparenza distaccata; Erich si sentiva pervaso da una strana aspettativa, come una sincera speranza che tra quei nomi ci fosse anche il suo.
“Capitano Konrad Wilhelm von Bentheim und Steinfurt, comandante della prima compagnia…”
Erich lo guardò mentre si faceva avanti, col suo solito incedere solenne, e veniva decorato dal generale: non si meravigliò del fatto che ci fosse anche lui tra i nominati, visto il gran parlare che si faceva delle sue gesta.
“Capitano Friedrich Hartwig von Kleist, comandante della seconda compagnia…”
Il giovane, passato al comando della compagnia in seguito al ferimento del capitano Fromm e successivamente promosso per avanzamento di grado, avanzò di un passo e ricevette la croce di ferro.
Dopo di lui, furono premiati un’altra mezza dozzina di ufficiali tra capitani, tenenti e sottotenenti, poi von Salza si voltò verso di lui, provocandogli un sussulto involontario. “Sottotenente Erich Kühn.”
Lì per lì, udire il proprio nome in quel contesto provocò al giovane ufficiale un leggero brivido, ma gli sguardi del comandante di divisione e del maggiore, puntati su di lui, lo trasformarono in un brivido di stupore. Con un cenno del capo, il capitano von Kleist lo spinse a fare un passo avanti e mettersi sull’attenti.
Erich cercò di mantenere la posizione mentre l’anziano generale gli si avvicinava e gli avvolgeva il nastro nero, bianco e rosso intorno all’occhiello per poi appuntargli la croce di ferro di seconda classe sul taschino, ma il cuore aveva preso a galoppargli all’impazzata nel petto e, forse, le guance gli si erano tinte di rosso per l’emozione.
Von Salza, tuttavia, non diede segno di essersene accorto. “Congratulazioni, sottotenente”, disse imperturbabile, stringendogli con forza la mano e dispensandogli una leggera pacca sulla spalla.
Passò poi oltre, premiando altri soldati, mentre il ragazzo faceva di nuovo dietrofront con le labbra involontariamente piegate all’insù. Non fece nemmeno caso alle occhiate torve che qualcuno doveva avergli scoccato: era felice che il suo impegno fosse stato riconosciuto all’unanimità dai suoi superiori.
“Tuttavia,” riprese il generale, terminata la premiazione, “è proprio adesso che ci lasciamo alle spalle la prima fase della guerra lampo. Non siamo che una piccola parte dell’intera armata, coloro che più di tutti dovranno dimostrarsi degni di questo impareggiabile onore. Ricordate: l’onorificenza che vi è stata conferita oggi non è un premio, ma la giusta ricompensa per il servigio reso alla vostra Patria – un invito e un’esortazione a fare del vostro meglio, spingendo i vostri soldati a far altrettanto. Adesso giunge la fase più ardua della guerra, l’assalto diretto alla capitale. Andate in battaglia, e date il meglio di voi!”

Un venticello leggero increspava le fronde, trasportando le prime foglie secche che si depositavano per terra e scrocchiavano sotto le suole chiodate degli stivali. Dopo i progressi della mattinata, il battaglione si concedeva una piccola pausa prima di rimettersi in marcia, ma i tuoni sordi dell’artiglieria che permeavano l’atmosfera non contribuivano a distoglierli neanche per un istante dalla realtà contingente.
Seduti all’ombra di un albero, il capitano Bentheim e il capitano von Kleist consumavano il rancio, tenendosi in disparte mentre osservavano i soldati: alcuni erano seduti per terra con la gavetta poggiata in grembo, altri erano ancora in fila davanti alla marmitta da campo in attesa di ricevere la loro razione, altri ancora fumavano o scrivevano lettere alla famiglia. Tra gli ultimi, Friedrich scorse anche il sottotenente Kühn, chino sul foglio con le maniche rimboccate fino al gomito, che con una mano teneva la penna e con l’altra accarezzava la poderosa testa di Otto, il cane-soldato del plotone.
Da lontano si udiva la voce del capitano Schwieger, che arringava i suoi sottoposti come se stesse facendo un comizio di Partito: sotto l’uniforme da ufficiale della Wehrmacht, il suo collega conservava metodi da camicia bruna, ma sapeva risultare convincente e dare coraggio ai suoi uomini, e il suo carattere affabile, gioviale e sempre pronto allo scherzo gli aveva fatto conquistare la fiducia anche dei veterani e degli ufficiali più conservatori.
Von Kleist posò il piatto ormai vuoto e allungò le gambe. “Chissà per quanto ne avranno ancora,” disse. Stavano aspettando il maggiore e gli altri comandanti di compagnia per discutere delle mosse da fare nel pomeriggio, ma gli unici ad essersi presentati nel luogo concordato per l’incontro erano proprio loro due. “Walkenhorst l’hai visto?”
“Eravamo insieme durante le manovre, ma poi l’ho perso di vista,” rispose Bentheim. “E Hans dov’è?”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Prova a indovinare.”
“Guarda caso, mi pare di aver intravisto von Rauheneck da qualche parte.” Konrad sollevò un sopracciglio. “Non è che l’ha di nuovo… preso in ostaggio?”
Stringendosi nelle spalle, von Kleist annuì. “Non lo lascia in pace.”
“Evidentemente l’ha preso in simpatia.”
Quelle parole provocarono una leggera risata a entrambi, poi Friedrich tacque di nuovo, assorto nelle proprie meditazioni. “Al di là di tutto, abbiamo dimostrato di essere una buona squadra, anche se Hans è partito con mille riserve.” Il pensiero gli dipinse sul volto un sorriso, che quando i loro sguardi s’incontrarono fu alterato da una piega beffarda. “E poi ci sei tu, coi buoni vecchi metodi da burocrate prussiano.”
Konrad ghignò a quell’allusione. “Hai mai visto un burocrate prussiano distruggere un carro armato?”
“E tu hai mai visto un ufficiale della Wehrmacht distruggere un carro armato e fare rapporto della propria brillante azione con un tono così compassato da far pensare che stesse parlando delle condizioni atmosferiche?”
L’altro scosse la testa, stando al gioco. “Leggenda narra che i capelli del colonnello siano diventati bianchi dopo che tu sei entrato a far parte del suo Reggimento…”
“Io direi che invece è stato lui a rischiare di farli diventare bianchi a me, con tutte le volte che mi ha mandato nei magazzini a fare l’inventario o a sistemare documenti nell’archivio.”
“La Patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina, Fritz.”
Friedrich scrollò le spalle. “Certo, ma se il massimo della mia aspirazione fosse stato quello di rimanere nelle retrovie mentre gli altri combattevano per me, probabilmente mi sarei risparmiato molti sacrifici… e non sarei qui.”
“Vedila così,” fu la laconica replica dell’altro, “è anche grazie al contributo di chi sta nelle retrovie se noi ufficiali e combattenti di prima linea possiamo fare quello che facciamo ogni giorno.”
Von Kleist emise un sospiro sconfitto, sapendo che il suo amico non avrebbe desistito fino a quando lui non gli avrebbe dato ragione. E in parte – riconobbe – aveva ragione, anche se stavano analizzando la stessa questione da due prospettive diverse: una più idealistica e l’altra più pragmatica. “Sei poi andato a trovare Fromm?”
“Giusto stamattina”, rispose Bentheim. “Mi sono trattenuto un po’ al suo capezzale, gli ho portato un giornale, abbiamo parlato di quello che accade in Germania… poi il capitano medico mi ha fatto gentilmente capire che era ora di lasciarlo lavorare in pace.”
“Stasera penso che andrò a trovarlo anch’io, visto che ci tiene a sapere come si stanno comportando i soldati della compagnia.”
“Probabilmente nei prossimi giorni lo trasferiranno in un ospedale delle retrovie e poi lo rimanderanno in Germania per la convalescenza… credo che per lui questa campagna sia ormai finita qui.”
Friedrich abbassò la voce. “Dovrò dargli anche delle notizie poco piacevoli: quando saprà i nomi di coloro che sono morti ieri… aveva investito molto in quei ragazzi, ma non ha fatto in tempo a trasmettergli i suoi insegnamenti.”
“Quando la pallottola parte, non sai mai se è destinata a te o a qualcun altro: spesso è il puro caso a determinare la tua sorte.” Konrad aveva pronunciato quel pensiero ad alta voce, ma l’altro sembrò comprendere subito a cosa si riferiva.
Una foglia si staccò dal ramo, volteggiò pigramente di fronte a loro e si posò ai loro piedi, come un’allegoria della morte. Con l’unica differenza che, mentre la silenziosa caduta di una foglia suggeriva impressioni malinconiche, la morte di un soldato era spesso violenta, accompagnata da spari e urla, o preceduta da una dolorosa agonia. Entrambi ne erano stati diretti testimoni, ed entrambi erano dovuti scendere a patti con quella realtà.
“Cambiando discorso…” riprese Friedrich, per distogliere la mente da quelle considerazioni, “non te l’ho più chiesto, ci sono notizie di Reinhardt?”
“Mi ha scritto giusto ieri. Non dovrebbe essere tanto lontano: probabilmente nei prossimi giorni ci rivedremo.”

La sala di scherma, un immenso locale decorato con semicolonne marmoree e affreschi che raffiguravano le varie discipline dei Giochi di Olimpia, era gremita di aspiranti ufficiali in tenuta bianca da allenamento. Il diciannovenne cadetto Bentheim si sedette su una delle panche e si passò una mano tra i capelli sudati, continuando a osservare i ragazzi che si scambiavano colpi di fioretto. Tra essi, cercò con lo sguardo il suo amico Reinhardt, che doveva aver appena terminato il suo incontro, e lo individuò mentre gli si avvicinava con la maschera sotto il braccio e le labbra increspate da un sorriso. Prima ancora di ricevere conferma da parte sua, gli lesse in volto l’entusiasmo per la vittoria.
“Com’è andata, allora?” gli chiese l’altro.
Egli scrollò le spalle con sobrietà. “Punteggio massimo.”
Non si vantava volentieri dei suoi successi, né cercava stima o gratificazione dai suoi pari, ma non aveva ancora terminato la frase che Reinhardt gli gettò le braccia al collo e lo strinse in un abbraccio caloroso. “Me lo sentivo!” esclamò, gli occhi celesti accesi da un guizzo. “Di questo passo vinceremo anche la prossima gara!”
Konrad lo ricambiò con un tiepido sorriso, quando la sua attenzione fu catturata da un paio di cadetti della squadra avversaria che, tenendoli a debita distanza, scoccavano occhiate furtive nella loro direzione. Aggrottò le sopracciglia e diede loro le spalle, deciso a lasciare la sala, ma Reinhardt lo afferrò per una manica e, con ostentata noncuranza, gli indicò uno degli affreschi in cui erano raffigurati due atleti greci che praticavano il pancrazio. Konrad, che col tempo aveva imparato a riconoscere i suoi muti segnali, gli resse il gioco e tese l’orecchio.
“E così, saremo di nuovo contro la squadra di quel damerino”, stava dicendo Reiting, con voce carica di malcelato disprezzo. “Mi chiedo sempre per quale motivo abbia scelto di fare il soldatino, quando potrebbe tranquillamente vivere di rendita alle spalle della sua famiglia.”
“Mi sembra ovvio”, replicò un suo compagno, “vuole mettersi in mostra, far vedere quanto è bravo in tutto ciò che fa.”
Konrad smise di ascoltare, determinato a lasciarsi scivolare addosso ogni insinuazione. Non gli importava di quello che gli altri pensavano di lui, a patto che non minasse la sua integrità. Tuttavia, percepiva la tensione, a stento trattenuta, che irrigidiva la postura del suo amico, e sapeva che, se quei due si fossero permessi di insultarlo a viso aperto, Reinhardt sarebbe intervenuto senza indugio in sua difesa. Sapeva quanto fosse impulsivo quando si trattava di proteggere qualcuno – non solo lui – se lo riteneva vittima di un’ingiustizia, ma voleva evitare che si scagliasse addosso a loro com’era successo durante l’ultima libera uscita. Comprese comunque che si stava trattenendo solo perché si trovavano in presenza di altri cadetti, e non perché lui gli aveva chiesto espressamente di non dar loro corda.
“Principe von Bentheim und Steinfurt”, soffiò Reiting, a denti stretti.
I due si voltarono e si trovarono di fronte l’espressione tronfia dell’aspirante ufficiale, gli occhi ridotti a due fessure.
“Credo di averti ripetuto almeno un centinaio di volte che voglio essere chiamato soltanto Bentheim”, ringhiò Konrad in tono gelido.
Reiting si limitò a restituirgli un’occhiata velenosa, senza degnare Reinhardt di uno sguardo; poi, richiamato dal suo compagno, girò i tacchi con un movimento rigido e si dileguò.
Bentheim, impassibile, raccolse la maschera e il fioretto senza commentare l’accaduto, che riteneva di triviale importanza, mentre il suo compagno fremeva di rabbia.
“Non possono permettersi di trattarti così. Chi si credono di essere?”
“Se pensano che le loro parole possano avere un qualche effetto su di me, si sbagliano di grosso.” Senza attendere risposta, Konrad si avviò lungo i corridoi seguito dall’amico. “Io so quello che faccio e perché lo faccio, e lo sai anche tu.” Reinhardt era forse l’unico, insieme a Friedrich, che lo conoscesse veramente, al di là delle convenzioni sociali e dell’addestramento.
“Tu sai bene che non è vero, è per questo che mi fanno arrabbiare”, dichiarò l’altro, roteando il fioretto, dopo un breve silenzio.
“Cosa?”
“Quello che dicono. Tu non sei come loro, non lo sei mai stato… e vedi di non diventarlo mai.”

“Konrad?”
La voce di Friedrich lo distolse dai suoi ricordi, indicando una porzione di cielo invasa da due squadriglie di caccia che si affrontavano compiendo ardite acrobazie. Da quella distanza, i P.11 si distinguevano dai loro rivali tedeschi per la struttura più robusta e la forma delle ali, alte e arcuate come quelle di giganteschi gabbiani color verde oliva.
Uno degli aerei polacchi si mise in coda a un Messerschmitt; prontamente, l’altro guizzò via, sfruttando la sua maggiore velocità per sottrarsi al tiro, quindi richiamò fulmineo scaricandogli addosso una raffica di traccianti. Dilaniato dai proiettili, il P.11 terminò il suo volo in un lampo di luce abbagliante, per poi precipitare in vite venendo accolto dalle patrie campagne. L’aereo tedesco, costretto a un atterraggio di fortuna, scomparve oltre i rilievi ondulati lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Pur privata del suo capopattuglia, la formazione tedesca inseguì i caccia polacchi fino a che, come puntini lontani, non furono inghiottiti dalle basse nubi.
Quella vista rammentò a Friedrich suo fratello Manfred, asso della guerra civile spagnola, e si chiese dove si trovasse, dato che non riceveva sue notizie da giorni.
Ma la guerra andava avanti e non si poteva guardare indietro.

La colonna si fermò nei pressi di un castello in rovina, dove erano già stazionati altri camion tedeschi carichi di soldati e armamenti; sul terrapieno alle spalle della fortezza erano già stati sistemati dei pezzi d’artiglieria da campagna.
Gli ufficiali scesero ordinatamente dai veicoli e si riunirono all’ombra delle mura diroccate, incorniciate da una fitta schiera di alberi selvatici: Friedrich non ne conosceva la storia, ma gli parve un luogo ameno, quasi romantico, che riportava alla mente leggende dimenticate e si ergeva come un baluardo inviolato in mezzo all’oceano di devastazione. Un albero robusto, rinsecchito dall’autunno, troneggiava come una solitaria sentinella su quello che restava di una torre.
Hans si avvicinò ai mattoni consunti, di un rosso ormai sbiadito e venato di muschio, e in tono grave declamò: “Dove sono gli ultimi castelli che non sono ancora stati conquistati? Dov’è che il vento canta le vecchie canzoni che non si sono ancora perse nel silenzio?”
Riconoscendo i versi, von Kleist rispose: “Dove sono coloro che ci ascoltano? Dove sono coloro che ci capiscono, che insieme a noi, nell’augurarsi l’antica felicità, intraprendono nuove strade?”
L’altro sfiorò le vecchie pietre con le dita. “Chi, se non noi? Dove, se non qui? E quando, se non adesso?”
Friedrich emise un sospiro, ma non replicò, e quel breve scambio di battute cadde così com’era iniziato.
Il maggiore si allontanò di qualche passo, le braccia dietro la schiena, volgendosi verso l’orlo del precipizio che dava sulla pianura. Frugò nella tasca dell’uniforme, trasse una sigaretta dall’astuccio di metallo e se l’accese con un fiammifero. Per un paio di minuti fumò in silenzio, senza degnare il compagno di uno sguardo, come se quel gesto lo aiutasse in qualche modo a dissipare la tensione che lo avvolgeva.
“C’è qualcosa che ti preoccupa?” gli chiese a bassa voce il capitano, senza lasciarsi frenare dal suo contegno schivo.
“Se ci sono davvero quattro divisioni bloccate su questo fronte e si è reso necessario l’intervento di tutta la Ostpreußen, la situazione deve essere parecchio problematica”, rispose l’altro. “Ci hanno richiamati quando ormai eravamo praticamente arrivati alle porte di Varsavia…”
Von Kleist ponderò le parole prima di rispondere, ma in quel momento sopraggiunse l’aiutante di campo del comandante di reggimento, un capitano sui trent’anni che ne dimostrava almeno quaranta, con gli occhiali spessi e l’aria da contabile. Dopo i saluti di rito, guardò Bühler con sussiego e scandì: “Signor maggiore, il colonnello Wolff richiede la sua presenza.”
Hans, ripreso il solito contegno formale, si congedò frettolosamente, e Friedrich lo guardò allontanarsi per raggiungere gli altri ufficiali superiori, tutti riuniti intorno al generale von Salza che quella mattina si era messo in marcia insieme a loro.

Di nuovo solo, il capitano si guardò intorno alla ricerca di un varco praticabile, lo individuò e si arrampicò sulle rovine per meglio scrutare il paesaggio: ai suoi occhi si profilò il grigiore di un’ampia distesa paludosa, animata da un brulicare di scontri cruenti. La pianura era tagliata dal corso irregolare di un fiume le cui acque verdastre assumevano una tonalità ancora più cupa sotto il cielo plumbeo; qua e là si scorgevano le macchie scure di qualche foresta e agglomerati di case che offrivano copertura a contingenti di soldati.
Trasse la mappa dal portadocumenti che portava in cintura e la dispiegò sul piano di un muro crollato, sfruttando la sua conoscenza basilare della lingua polacca per cercare di leggere le indicazioni: la sua era rimasta bruciata durante un’esplosione e si era dovuto arrangiare prendendo quella di un ufficiale prigioniero. Osservando lo scenario della battaglia, annotò le informazioni necessarie.
Grandi reparti si scontravano in grovigli confusi; Panzer e mortai bombardavano senza sosta la città vicina, mentre le facciate dei palazzi crollavano come castelli di cartone. C’erano almeno cinque divisioni di fanteria e due corazzate della Wehrmacht, mentre al fianco della fanteria polacca erano state schierate brigate di cavalleria e carri armati. La battaglia, che doveva imperversare da giorni, aveva lasciato sul campo decine di carcasse di mezzi pesanti: solo i feriti venivano portati subito via, indipendentemente dal colore dell’uniforme che indossavano.
A un certo punto, un rumore di passi che affondavano nell’erba alta lo indusse a voltarsi di scatto, portando d’istinto la mano alla fondina della pistola. Di fronte a lui si profilò la figura ben piantata del giovane Erich Kühn, coi capelli leggermente arruffati e l’elmetto appeso alla cintura, che accennò un saluto militare mentre il cane del plotone, che ormai l’aveva preso in simpatia, lo seguiva come un’ombra.
“Sottotenente,” lo accolse von Kleist in tono asciutto, per poi tornare a scrutare il paesaggio.
Dopo una breve pausa, il ragazzo chiese: “Come ha detto che si chiama questo posto, signor capitano?”
“Łowicz.”
Kühn strabuzzò gli occhi. “Come?”
“Lowitsch,” tradusse il capitano, in un più familiare tedesco. Indicò il nastro d’acqua limacciosa, che assumeva sinistre iridescenze sotto la luce di un sole smorto. “E quello è il fiume Bzura.”
Il sottotenente guardò a sua volta la mappa e provò a decifrarla, pur non comprendendo una parola di polacco. “Ma… non immaginavo che ci fossimo allontanati così tanto da Varsavia. Sono parecchi chilometri!”
“Ordini dell’alto comando del gruppo d’armate”, rispose Friedrich. “Quest’area era già in mano al nostro esercito, ma la controffensiva nemica ha costretto i comandanti di divisione a richiamarci.”
Mentre parlava, un’unità di ulani caricò con ferocia contro i fianchi della fanteria tedesca, penetrando a fondo nei suoi ranghi nonostante la schiacciante inferiorità numerica. Molti cavalieri si scontrarono col piombo dei cannoni e ricaddero all’indietro nel fango, ma i superstiti continuarono imperterriti a sfidare il fuoco di sbarramento, falciando i nemici con sciabole e pallottole di fucili. Il ragazzo più giovane strinse le labbra con aria vagamente turbata. “Stanno perdendo un sacco di uomini, ma non demordono.”
“Fanno soltanto il loro dovere, proprio come noi.” Friedrich alzò lo sguardo su di lui. “Non farebbe lo stesso per difendere il suo popolo, se un esercito nemico marciasse su Berlino?”
Kühn sembrò sul punto di esprimere le proprie riflessioni ad alta voce, ma alla fine si limitò soltanto ad assentire. “È così, signore.”
Il capitano tornò a rivolgere l’attenzione a quello che doveva essere il piazzale del castello e vide che il capannello di ufficiali superiori si stava disperdendo. “È meglio se scendiamo, sottotenente,” disse, facendogli strada, “venga, ho trovato una scorciatoia.”

Il capitano von Kleist rimase a guardare la compagnia che si schierava secondo i suoi ordini: vide facce accese dalla speranza, tese dall’incertezza o distorte dalla paura, che lo fissavano come attendendosi da lui qualche parola d’incoraggiamento. Tra di esse individuò il volto del sottotenente Kühn, con le guance colorite e un luccichio di baldanza nello sguardo azzurro, che sembrava impaziente di entrare in azione. Con le spalle dritte, il mitra che gli pendeva dalla spalla, sembrava ancora più alto.
Accanto a lui vide il sottotenente Hartmann, che quando si accorse della sua presenza schiacciò sotto lo stivale la sigaretta che stava fumando e assunse una posa marziale, il tenente Wessel con le braccia incrociate, saldo come una roccia, e il tenente Körner, la cui usuale insicurezza aveva ceduto il posto a un’insolita gravità.
Di fronte a loro c’era la battaglia più ardua e più cruenta che avessero mai combattuto, al cospetto della quale gli scontri precedenti sembravano semplici scaramucce. Dietro di loro, le decine di commilitoni morti, i feriti e i prigionieri dei giorni precedenti, che avevano drasticamente ridotto il numero di effettivi dei vari reparti.
Finiti i tempi dei duelli cavallereschi e delle illusioni romantiche, giunge l’età della miseria, della decadenza e delle rovine.
L’unica cosa che si poteva fare era adoperarsi affinché dopo le tenebre sorgesse un nuovo sole.

Hans balzò giù dalla Kübelwagen prima ancora che il motore si spegnesse, spinto dall’urgenza.
Schmidt, che l’aveva traghettato fin lì lungo una strada impervia ma relativamente sicura, emise un rumoroso sospiro. Scese a sua volta dalla macchina, si accese una sigaretta schermandola con la mano e rimase a fissarlo con una faccia da cerbiatto inebetito, in attesa di un ordine. “Si tenga a disposizione, caporale,” gli disse l’ufficiale in tono sbrigativo, “non dovrei metterci molto.”
“Sissignore.”
Quando Bühler gli ebbe voltato le spalle, il graduato scosse la testa con vigore ed espulse una generosa boccata di fumo. Rammentò ancora una volta la corsa folle sotto il tiro dell’artiglieria e si chiese come facesse, quel ragazzo, a mostrarsi impassibile anche in situazioni simili. Quel ragazzo doveva avere almeno quindici anni meno di lui, se era vero ciò che si diceva sul suo conto, eppure sembrava che considerasse la propria incolumità come una questione di secondaria importanza. Si chiese se fosse fidanzato, o magari già sposato e padre di figli, ma alla fine decise che forse sarebbe stato meglio non conoscere la risposta.
“Dov’è il comandante di compagnia?” stava chiedendo intanto il maggiore, rivolto a un gruppo di soldati delle retrovie, che alzarono la testa all’unisono e scattarono sull’attenti.
Uno di loro indicò un ufficiale biondo, dalla corporatura snella e atletica, intento a dare ordini a un ragazzo che lo superava in altezza di parecchie dita. “Il capitano von Kleist stava giusto chiedendo di lei, signor maggiore.”

Von Kleist congedò il soldato Schreiber e inforcò il binocolo: dietro la copertura di un casolare, un gruppo di soldati in grigioverde stava armando un mortaio pesante; poco distante, nel settore occupato dalla compagnia di Walkenhorst, un 7TP solitario si lanciò a gran velocità tra le schiere di fanti tedeschi, costringendoli a buttarsi a terra in copertura per evitare le raffiche di mitragliatrice. Un folto gruppo di Panzer stava per fare il suo ingresso nei quartieri periferici della città, mentre la fanteria polacca arretrava sempre più verso l’interno, in quella che sembrava una strenua difesa delle ultime postazioni.
I reparti del capitano Bentheim e del capitano Schwieger erano sotto attacco da parte della cavalleria, ma sembravano mantenere un netto vantaggio.
Anche la sua compagnia, però, aveva fatto significativi progressi, e quel momentaneo stallo derivava sicuramente da una manovra consapevole dei comandanti avversari, per ricomporre le loro truppe e tentare un contrattacco quando meno se lo aspettavano.
“Von Kleist!”
“Signor maggiore.”
“Riposo, capitano,” disse Hans, senza che il giovane accennasse minimamente a mettersi sull’attenti. “Sono venuto a vedere come stavano le cose.”
“Tutto sotto controllo, signore,” lo rassicurò il capitano.
Bühler si guardò intorno, indugiando sui soldati fermi nelle loro posizioni, che avevano preso posto in trincee abbandonate – chi col fucile puntato, chi con un mitra e chi col nastro della MG 34 già inserito – poi annuì. Gli chiese di informarlo dei progressi dell’avanzata, ma non aveva ancora finito di parlare quando un lungo fischio stridulo si sovrappose alla sua voce. Un proiettile d’artiglieria impattò tra le prime file ed esplose con un sonoro boato, sollevando una fontana di terra e sassolini.
“Tutti in copertura!” ordinò il capitano.
Hans e Friedrich si appiattirono spalla contro spalla contro il solco della trincea, alcuni soldati corsero al riparo prorompendo in grida concitate, mentre una pioggia di fischi ed esplosioni, simili a meteore cadute dal cielo, irrompeva per turbare quella situazione di apparente calma.
“Mortai leggeri,” osservò von Kleist dopo un po’, alzando la testa per individuare la traiettoria dei proiettili. Si voltò poi verso il maggiore, che gli rivolse un tacito sguardo d’intesa.
“Copertura!” ripeté Hans, a voce più alta. “Ci attaccano alle spalle!”
“Stanno aggiustando il tiro… non so cosa abbiano in mente, ma…”
In quel preciso istante, una detonazione più forte delle altre fece vibrare l’aria, mentre un ordigno si schiantava al suolo col fragore di un terremoto. Un rombo assordante sembrò risucchiare ogni altro rumore, poi la terra eruttò una violenta ondata di schegge, detriti e scintille.
Friedrich si sentì sollevare e scaraventare a peso morto diversi metri più avanti, mentre intorno a lui continuava a scatenarsi il pandemonio. La sua schiena urtò contro qualcosa di duro, una secca stilettata di dolore sembrò attraversarlo da parte a parte, e per un tempo indefinito giacque ansimando contro la superficie che aveva arrestato la sua caduta, con la vista che gli sfarfallava e la cacofonia che gli perforava i timpani.
“Signor capitano!” chiamò una voce, tra i colpi di tosse.
Von Kleist, ancora leggermente frastornato dall’impatto, il cuore che gli martellava violento nel petto, constatò quasi con sollievo di essere ancora tutto intero. Aveva preso un brutto colpo alla schiena e la sua bustina era volata chissà dove, ma in compenso riuscì a rialzarsi senza fatica.
L’interruzione del bombardamento aveva lasciato spazio a una quiete spettrale, sospesa.
“Sono qui!” rispose, ripulendosi i capelli e l’uniforme dalla sporcizia.
Mentre si avvicinava, sbatté le palpebre per mettere a fuoco la visuale e, tra le folate di fumo nero e denso, scorse alcune figure che tentavano di tirarsi su. Un soldato stava trascinando via un commilitone per le braccia, uno si allontanò zoppicando e un altro ancora lanciò un grido straziante. Una quinta figura, piegata in due dai colpi di tosse, si rialzò e si avvicinò con cautela al ferito.
Friedrich, riconoscendolo, mosse qualche passo nella sua direzione, e Hans levò lo sguardo su di lui: sul volto pallido, sporco di fuliggine, era comparsa un’espressione contrita. Riservò un’ultima occhiata al soldato che giaceva riverso per terra, immobile, poi scosse la testa. “Poveraccio.”
“Già,” mormorò il capitano.
Bühler si alzò in piedi e si passò una mano sulla giubba dell’uniforme. “Tutto bene, capitano?” chiese.
“Sì, signor maggiore. E lei?”
“Non si preoccupi per me,” rispose l’altro, senza mezzi termini. “Siamo troppo esposti all’artiglieria nemica. Dobbiamo andarcene da qui ed evitare l’accerchiamento, altrimenti sarà una carneficina.”
Friedrich annuì, cercando di riprendere il controllo della situazione. “Non c’è problema, ci penso io.”
“Resto qui con lei”, dichiarò con risolutezza l’altro.

I tonfi dei mortai continuavano a rimbombare, scuotendo la terra fin nelle fondamenta.
Dietro la copertura di un casolare abbandonato, i fucili stretti al petto, un gruppo di soldati attendeva che l’immane terremoto cessasse. Un ragazzo che non doveva avere più di diciott’anni si aggrappò alla giubba di un commilitone più anziano e nascose il viso nella sua spalla, forse per soffocare un singhiozzo; il maresciallo Eichmann borbottò qualcosa a mezza bocca, ma le sue parole si persero tra i cupi ululati dell’artiglieria. Da qualche parte, vicino a loro, un muro crollò sotto l’impeto dei grossi calibri.
Come di riflesso, il capitano von Kleist strinse più forte la pistola. Il maggiore era seduto accanto a lui, immobile come una statua e i sensi in allerta, ma Friedrich lo sentì irrigidire i muscoli delle braccia.
“A questo punto, quelli del plotone comunicazioni dovrebbero essere riusciti a far pervenire il messaggio”, disse, poco convinto.
“Lo sapremo tra poco, quando l’artiglieria entrerà in azione per neutralizzare i mortai…” Hans abbassò la voce, poi si accostò al suo orecchio e a voce bassa soggiunse: “Sempre se lo farà.”
Friedrich si limitò a incassare la testa tra le spalle, intrappolato in quell’attimo di angosciosa eternità.

Una giovane recluta raggiunse di corsa il maggiore, si irrigidì sull’attenti e salutò militarmente. “Signore, il colonnello Wolff la convoca al comando di reggimento!”
Bühler, che tutto si aspettava tranne una comunicazione simile, lo fissò per un istante a occhi sgranati. “Ha reso noto il motivo, soldato?”
“Nossignore”, rispose il ragazzo. “Questioni urgenti, signore.”
“Dove si trova adesso?”
“Nel quartiere est.”
Hans annuì con l’aria di trovarsi di fronte a una necessità ineluttabile. “Sarò lì a breve.”
Tendendo l’orecchio, notò che i colpi di mortaio erano sempre più lenti e smorzati, come quando la grandine si diradava fino a trasformarsi in pioggia; ad ogni modo, l’intervento dell’artiglieria doveva averli dimezzati o costretti a ripiegare verso una posizione più riparata. Si voltò verso Friedrich. “Von Kleist, le affido la sezione. Devo andare al comando di reggimento, prenderò con me la squadra di Hoffmann.”
Friedrich guardò perplesso la scarsa decina di soldati già radunati intorno a lui: da quando il sergente era rimasto ferito, il comando era passato a un caporale che non arrivava a vent’anni. “Andrà… a piedi?”
“La Kübelwagen è andata distrutta poco fa, capitano, e non ho tempo per procurarmi un altro mezzo,” rispose l’altro, stringendosi nelle spalle. “Sfrutterò la copertura delle linee tedesche, è una zona relativamente sicura. Si attenga alle mie direttive e mantenga la posizione fino a quando non sarò tornato,” aggiunse poi. “Bisogna limitare il più possibile la perdita di altri uomini.”
“Certo, signor maggiore.”
Hans lo guardò dritto negli occhi come se volesse assicurarsi la sua fiducia, poi ricaricò la pistola, indossò uno Stahlhelm e si mise un MP38 ad armacollo. “Tornerò tra poco, capitano. Non prenda iniziative personali, né abbandoni il suo posto per nessuna ragione.”
Von Kleist corrugò la fronte, poi annuì. “Può contare su di me, signore.”

Cumuli di macerie e automobili rovesciate ostruivano il passaggio, offrendo ripari improvvisati ai soldati che si scontravano riempiendo le strade di grida e crepitare di armi da fuoco. Ogni tanto, un proiettile d’artiglieria piovuto da chissà dove si schiantava contro la facciata di un palazzo, proiettando tutt’intorno miriadi di schegge e calcinacci; i marciapiedi erano straziati da profonde voragini colme di detriti.
Un ululato cupo fendette l’aria, l’edificio parve tremare fin nelle fondamenta e i mattoni crollati rotolarono giù col fragore di una valanga.
Il maggiore Bühler si rannicchiò ancora di più contro uno dei pochi muri ancora intatti, mentre placche d’intonaco scrostato gli piovevano addosso. Proprio sotto i suoi occhi, un camion dell’esercito polacco esplose con un rombo assordante e fu divorato dalle fiamme.
In breve tempo, i nemici erano riusciti a riconquistare l’area che fino a mezz’ora prima era ancora in mano al suo Reggimento, inseguendolo fin lì dopo aver ucciso tutti gli uomini della sua scorta.
Una serie di tonfi e sussulti squassò la terra, poi fu di nuovo silenzio, intervallato soltanto dai rumori secchi e ravvicinati delle sparatorie. Hans attese ancora qualche istante, immobile e teso come una preda braccata, poi rilasciò tutto il fiato che si era imposto di trattenere. Disinfettò alla bell’e meglio il palmo sanguinante, strofinandolo col fazzoletto che aveva inumidito con le ultime gocce d’acqua rimaste nella sua borraccia, quindi se la fasciò con una benda di garza.
Prima di uscire allo scoperto, la P38 ben stretta nella mano ferita, tastò per un’ultima volta il mitra scarico come se volesse accertarsi di averlo ancora con sé.
Avanzò mantenendosi rasente ai muri, la pistola alta dinanzi a sé. I suoi inseguitori dovevano essere ormai lontani, ma le poche centinaia di metri che lo separavano dal comando di reggimento sembravano chilometri costellati di pericoli insormontabili: sui tetti, alle finestre degli edifici abbandonati, erano appostati cecchini e mitraglieri pronti a scaricare raffiche di proiettili addosso ai tedeschi che passavano di lì; cannoni d’artiglieria da campagna presidiavano le entrate delle strade.
A un crocicchio scorse dei medici polacchi intorno a un gruppo di feriti: li avevano fatti distendere su delle barelle allineate lungo un marciapiede e li caricavano su un’ambulanza, offrendo loro acqua e sigarette. Alcuni di essi erano prigionieri tedeschi con la divisa delle Waffen-SS.
Le vie erano disseminate di cadaveri che si riconoscevano solo per il colore delle uniformi. Da qualche parte, pensò Hans stringendo più forte l’impugnatura della pistola, dovevano esserci anche i corpi dei soldati che lo avevano accompagnato fin lì.
Si guardò intorno con circospezione: la canna di una mitragliatrice pesante sbucava dal davanzale di una finestra, ma la strada accanto sembrava deserta, occupata solo da una porta divelta e da un’automobile ridotta a un cumulo di lamiere carbonizzate.
“Halt!” urlò una voce perentoria, in un tedesco gutturale. Subito dopo, riecheggiò il colpo di un fucile e il bossolo di una cartuccia tintinnò sul selciato, a pochi metri da lui.
L’ufficiale sibilò un’imprecazione tra i denti e sgattaiolò via, nascondendosi dietro l’angolo di un palazzo. Dalla finestra piovve una grandinata di proiettili, che si acquietò non appena l’eco dei suoi passi si spense.
Lo scalpiccio, ritmico e pesante, di una decina di stivali militari si andava sempre più avvicinando. Di nuovo, Hans s’impose di trattenere il respiro, appiattendo la schiena contro il muro; il battito del cuore gli rimbombava nelle tempie come un tamburo da guerra.
A un certo punto qualcuno schioccò un ordine, i passi si fermarono e la stessa voce chiese dove fosse andato il tedesco.
Senza attendere risposta, Bühler abbandonò il suo nascondiglio, scavalcò un muretto crepato e scivolò lungo la parete fino a immettersi in un vicolo buio, incalzato dagli stivali dei nemici. Per quanto si fosse premurato di non fare rumore, le loro sagome scure comparvero all’imboccatura della via e puntarono i fucili contro di lui.
“Halt!”
Il maggiore arretrò di un passo e si guardò alle spalle, accorgendosi con orrore di essere stato attirato in un vicolo cieco. Strinse i denti, come un animale in trappola: sapeva di avere solo due colpi nel caricatore, era sicuro del fatto che molto probabilmente sarebbe morto prima di riuscire a spararne anche solo uno, ma decise comunque che non si sarebbe arreso. Di riflesso, fece scivolare un dito sul grilletto: non voleva che il sangue degli uomini morti al suo fianco fosse versato invano.
“No”, rispose infine, ostentando un tono tranquillo.
Calò un silenzio di tomba. Una pallottola fischiò costringendolo ad abbassarsi per schivarla, Hans premette a sua volta il grilletto e il soldato che aveva sparato stramazzò al suolo senza un lamento.
Un solo colpo.
Frugò nella tasca alla ricerca di un caricatore, pur essendo consapevole di quanto sciocco fosse anche soltanto sperare di trovare il tempo per inserirlo: di fronte a sé aveva quattro fucili, alle spalle una parete invalicabile.
­Un altro soldato sparò, lui si ritrasse appiattendosi contro il muro ma la fucilata lo sfiorò di striscio alla spalla, procurandogli una violenta sferzata di dolore. Quello che sembrava il caposquadra estrasse rapido la pistola e gliela puntò contro. “Giù la pistola,” ordinò, in un tedesco approssimativo.
Hans deglutì a vuoto, immobile contro la parete, e rinsaldò la presa sull’impugnatura dell’arma. Non aveva vie di scampo, lo sapeva, non poteva ammazzarli tutti né tentare la fuga: lo avrebbero gambizzato o ucciso sparandogli alla schiena.
Cercò di mantenersi impassibile, anche se i battiti accelerati e la bocca riarsa gli rendevano difficoltoso respirare. Come un monito, sentì riecheggiare nella testa le parole del suo istruttore, ai tempi della scuola ufficiali: “in un combattimento da uomo a uomo, il vincitore è chi ha un colpo in più nel caricatore.”
Lui non solo non aveva un colpo in più nel caricatore, ma si trovava da solo contro quattro nemici.
La scelta era tra gettare la pistola, alzare le mani e consegnarsi come un comune prigioniero oppure serbare per sé quell’ultima, fatale pallottola. Ma le braccia erano divenute blocchi di marmo inerte che non accennarono a muoversi.
Il sergente fece cenno agli uomini col fucile di puntarglieli contro il petto. “Aufgeben oder sterben.”
Arrendersi o morire.
Ancora una volta, Bühler rimase immobile e non mollò la presa sulla sua arma, ma la strinse fino a farsi sbiancare le nocche. Come paralizzato, si limitò a sostenere lo sguardo del sottufficiale: se anche avesse voluto muoversi, probabilmente non ci sarebbe riuscito.
Il sergente abbaiò qualcosa, un soldato indicò la sua croce di ferro di seconda classe, un altro lo afferrò per il bavero e cercò di buttarlo per terra. Nella colluttazione, il maggiore tentò di difendersi con l’ultimo proiettile rimasto, ma l’uomo, pur ferito a un fianco, gli sferrò un calcio negli stinchi e lo inchiodò per terra. Una seconda pedata lo colpì al costato mozzandogli il respiro; Hans si morse la lingua per reprimere un lamento.
La P38 gli sgusciò di mano, rotolò sul selciato con un tinnire metallico; il giovane si piegò in avanti mentre la sua vista veniva invasa da un lampo bianco. Il dolore fu tale da dargli l’impressione che qualcosa si fosse spezzato dentro di lui, tuttavia riuscì a puntellarsi sui gomiti un attimo prima di finire faccia a terra.
Un persistente sapore metallico gli si insinuò in bocca, ma non seppe dire se fosse bile o sangue: forse entrambe. Sollevò lentamente la testa, come un sonnambulo, e attraverso la visuale annebbiata scorse la canna della pistola del sottufficiale ancora puntata contro di lui.
Si impose di alzare le mani, ma ancora una volta non fu in grado di muoversi.
I quattro uomini lo trafissero con espressioni cariche d’astio e, in un tedesco appesantito dall’accento, il sergente gli ordinò: “Aufstehen.”
Con le ultime forze che gli restavano, Hans tentò di tirarsi su, ma uno dei soldati gli afferrò un braccio, glielo torse con violenza e glielo immobilizzò dietro la schiena, per poi issarlo come se fosse stato un sacco di patate. Una canna di fucile gli si piantò tra le scapole.
“Marsch.”
L’ufficiale non riuscì a muoversi. Schiuse appena le labbra per dire qualcosa, ma dalla bocca gli uscì solo un’imprecazione inarticolata. Uno stivale chiodato lo colpì con violenza al fianco, il calcio di un fucile lo raggiunse al volto e l’oscurità calò sul suo capo come un drappo nero.

  
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