Una breve one shot sulla morte di Remus, della
quale non si sa nulla purtroppo. Solo vaghi accenni ai pairing.
Lasciate un commento, se vi va.
SOMETHING TO FIGHT FOR
Remus
Lupin combatteva da eroe.
Si librava agile tra uno spiraglio di
luce e l’altro, mancava gli incantesimi come ballasse una danza leggiadra,
riusciva a proteggere gli alleati vicini e ad evitare che venissero colpiti.
Pensava a sua moglie, allora. La vedeva
in lontananza, ogni tanto schivare un colpo oppure gridare con la bacchetta
puntata. In lui si faceva strada un misto di orgoglio e amore, era caldo, e
leniva le sue ferite, almeno superficialmente. Pensava che poche ore prima
l’aveva stretta per quella che sarebbe stata, con ogni probabilità, l’ultima
volta.
E intanto teneva d’occhio ogni
spostamento degli avversari, ogni minimo movimento; gli sembrava quasi di
percepire i loro sguardi di ghiaccio sotto le maschere. Si gettò davanti ad una
ragazza per evitare che un getto di luce verde la colpisse. Non poteva avere
più di diciotto anni. Tremava incontrollabilmente,
perdeva sangue da più parti. Lui aveva fatto quanto doveva. Le rivolse uno
sguardo di incoraggiamento, poi si rialzò, risoluto, e vide con stupore che lei
faceva lo stesso. Tornarono a combattere.
Remus
Lupin pensava ancora a sua moglie quando il cielo si frantumò e ricadde su di
lui, e le sue ferite si lacerarono. Stava cercando di ricordare con precisione
il suo profumo, per evocare un Patronus. Fu un
attimo: i suoi occhi incrociarono due maghi che combattevano più in là; uno di
loro continuava a scagliare Avada Kedavra
da ogni parte. E poi sua moglie irruppe sulla scena, duellando con la donna che
aveva già contribuito ad uccidere una parte di Remus.
Bellatrix
Lestrange era veloce, saettante: rideva mentre
cercava in tutti i modi di portare a termine il suo compito, mentre cercava la
gratitudine di un padrone che mai avrebbe ricambiato il suo amore, mentre
scagliava l’ennesimo anatema mortale verso sua nipote. E l’ennesimo si rivelò
quello giusto. Nello stesso istante in cui il primo spiraglio di luce verde
schizzava dalla bacchetta della donna, il Patronus di
Remus era corso verso Tonks:
troppo tardi, perché l’incantesimo l’aveva già centrata, aveva già spento i
suoi occhi e gettato un’ombra densa su tutti i colori del suo essere.
Tonks
ricadde all’indietro, e pesantemente urtò il suolo; Remus
si sorprese a pensare, da qualche parte dentro di se, che non era mai stata
delicata. Cercò di urlare o disperarsi, ma non c’era tempo per il dolore.
Remus
Lupin combatteva per uccidere.
Dalla sua bacchetta partivano fiotti di
luce verde, che in diverse occasioni centrarono dei mangia morte andando a
paralizzare i loro ghingi invisibili. Combatteva per
uccidere, e pensava a suo figlio. Gli aveva accarezzato i capelli blu
elettrico, l’ultima volta che l’aveva tenuto in braccio. Suo figlio non
meritava morti e vendette e luci verdi. Suo figlio aveva già perso sua madre. Pensò
a Harry, e sentì forte dentro di sé la certezza che lui poteva davvero fermare
quell’orrore. Stava uccidendo degli uomini senza quasi rendersene conto, due o
forse dieci o forse venti, casualmente vedeva corpi accasciarsi di fronte a sé,
e in realtà vicino a lui sentiva la risata del suo bambino, e negli occhi
portava il suo sguardo innocente e curioso. La sua sete di vendetta si agitava
e cresceva, e pungeva come le altre ferite, ma non riusciva comunque a sentirsi
meglio. La morte partiva dalla sua mano e andava a segno, la stessa morte che
portava nel cuore, da troppo tempo ormai. La rabbia abbaiava in lui e lo faceva
divenire sempre più simile al lupo che ormai era parte del suo essere, e che
ringhiava incantesimi e sferzava maledizioni con la stessa pungente ferocia di
un paio di artigli. Sentiva il suo corpo esistere, amplificato; ogni
sensazione, ogni emozione, lo scuoteva dalla più profonda fibra del suo essere,
ed era un dolore acuto, perché in sé c’erano solo odio e disperazione. In un
angolo, un angolo che proteggeva da tutto il resto, c’era sua moglie che
cercava di far addormentare il loro bambino cantando. Prese quel ricordo e ci
si aggrappò, mentre l’ennesimo mangia morte crollava ai suoi piedi come un
burattino. Il dolore fisico prese a manifestare la sua presenza, come un urlo
acuto di sottofondo che si aggiungeva all’orrore cieco. Da qualche parte,
lontano, Tonks continuava a cantare.
Remus
Lupin combatteva, fino alla fine.
Sentiva che uno dei mangia morte sarebbe
presto stato il suo ultimo avversario, sapeva che la morte era accanto a lui ad
attendere un buon momento per finirlo. Scoprì di non avere paura. Si sentiva in
colpa per suo figlio, ma tutte le persone più importanti della sua vita erano
ormai andate via, l’avevano abbandonato a sé stesso. Fu allora che permise alla
ferita più grande di riaprirsi, un’ultima volta, e di fronte a lui gli sembrò
di vedere il volto magnifico di un giovane ignaro ancora della sua fine, i
capelli corvini lisci e sconvolgenti nella loro perfezione, gli occhi grigi e
canzonatori, che parevano incitarlo ad andare fino in fondo. Con Sirius accanto a lui, la paura divenne solo un ricordo
lontano. Non temeva la morte, perché era già morto da tempo, e molte volte. Era
morto il bambino sereno che era in lui, quando un morso l’aveva trasformato in
una bestia; era morto quando la guerra aveva spezzato la sua giovinezza; una
parte di lui era sparita per sempre insieme a James e Lily, quando erano stati
uccisi; e aveva sperato intensamente di morire quando, senza poter fare nulla
per fermarlo, aveva visto Sirius sparire nel velo, i
lineamenti che conosceva a menadito oscurati dal peso degli eventi della sua
vita, la risata che era capace ogni volta di fargli venire i brividi solo un
eco lontano della sua memoria. Aveva pregato di morire e non era accaduto, e
intanto la sua anima se n’era andata via, in silenzio, ad inseguire il cane
nero che spesso popolava i suoi sogni, a cercare di nuovo quegli occhi
indagatori, quel sorriso beffardo. Si accorse che la morte era più vicina,
quando i ricordi presero possesso di lui, mentre la realtà si faceva più sfocata,
ed era quasi piacevole lasciarsi andare, e Sirius era
il balsamo per ogni suo dolore.
Remus
Lupin morì mentre naufragava nella gioia di tutta una vita.
Era perso tra le macchie d’inchiostro che
otto mani avevano tracciato su di una pergamena stregata, quando capì di aver
fatto un passo falso.
Stava ripercorrendo le orme imprecise di
un cane e di un lupo, quando il suo incantesimo mancò l’avversario che lo
sovrastava, lasciandolo indifeso.
Si consolava nella speranza di un mondo
migliore stringendo con foga il suo migliore amico che da tempo aveva creduto
perduto, quando il mangia morte alzò la bacchetta, pronto a scagliare l’anatema
che l’avrebbe riportato da tutti i suoi cari.
Abbracciava stretta la sua famiglia,
quando l’uomo che aveva di fronte pronunciò quelle due parole che conosceva
così bene.
Infine, inseguiva un latrato in una notte
buia, e l’aria era il suo respiro, e il prato era la sua pelle e si beava della
compagnia della persona più importante della sua vita, quando l’incantesimo lo
colpì.
Non ebbe il tempo di spostarsi, ma
realizzò che stava morendo, e ne fu dannatamente felice.
“Arrivo”
Fu il suo ultimo pensiero.