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Autore: rolly too    25/07/2009    2 recensioni
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me. Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua. Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile. Che cosa avevo fatto?
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giovedì 23 Ottobre

La prima cosa che vidi, come se ci fosse stata solo quella, era la crosta ancora rossa di sangue sulla tempia, in parte coperta dai ricci color mogano che gli ricadevano disordinatamente sulla fronte. Un livido violaceo gli si allungava dall’occhio sinistro al labbro, coprendogli quasi metà faccia.
Il volto, alla luce del sole, sembrava un po’ meno pallido di quanto non mi fosse sembrato sotto alla pioggia, ma l’incredibile azzurro dei suoi occhi era lo stesso. Le labbra sottili erano incurvate in quello che poteva sembrare un sorriso ansioso, e mi fissava come se si aspettasse di vedermi esplodere da un momento all’altro.
«Tu…» mormorai, imbarazzata. Cosa dovevo dire? Non sapevo come comportarmi.
«Mi chiamo Gioele.» si presentò a bassa voce, stringendosi nelle spalle e affondando le mani nelle tasche dei jeans. Da sotto la camicia a quadri si intravedeva la canottiera scura. «Sono quello che hai investito con il motorino.» mi rammentò, come se ce ne fosse stato bisogno. Credeva che non lo ricordassi?
«Sì, lo so.» borbottai, a disagio. «Stai… uhm… stai bene? Voglio dire, non sei ferito gravemente, vero?»
Scosse il capo e sorrise più apertamente. Si sfiorò delicatamente la ferita sulla tempia.
«Un po’ di mal di testa. E parecchi lividi qua e là.» rispose. «Ho preso una bella botta, credo, ma non è niente di mortale.»
«Mi dispiace tantissimo!» esclamai costernata. «Ho cercato di evitarti, ma la strada era bagnata e…»
«Lo so.» mi interruppe lui. «Non sono mica venuto qui per incolparti. E’ solo che mi sei sembrata parecchio sconvolta, così ho pensato che magari era il caso, sì, sai, di farti sapere che sono vivo e che non dovresti davvero preoccuparti.»
«Bè, tanto meglio se stai bene.» sospirai. «Ma vorrei fare qualcosa per scusarmi. Dovresti almeno denunciarmi.»
«Così ti sentirai meno in colpa?» mormorò guardandomi di sottecchi, intimidito. L’espressione dipinta sul suo volto mi diede una stranissima impressione.
Per un istante mi sembrò di trovarmi davanti a un cucciolo di tigre terrorizzato. Innocuo e tremante. Gioele, però, sembrava cercare di contenere bene la propria ansia.
«Credo che non smetterò di sentirmi in colpa solo per questo.» borbottai, rimproverando per l’ennesima volta la mia mancanza di responsabilità. Come avevo potuto accelerare sotto a quell’acquazzone? Ero forse impazzita?
Gioele alzò timidamente la mano e mi sfiorò il braccio per richiamare la mia attenzione.
«Smetti di pensarci, d’accordo?» sussurrò. «Non mi è successo niente.»
Annuii piano, cercando di convincermi che aveva ragione, che sarebbe potuta capitare una tragedia che invece era stata evitata.
«Allora…» borbottò a bassa voce «Hai un nome?»
«Carlotta. O Totta, se preferisci. Mi chiamano tutti così.» Ed era vero. Persino i miei professori sembravano conoscermi solo con quel nome, e solo raramente capitava che mi chiamassero per intero.
«Totta.» ripeté in un soffio inudibile, scandendo attentamente ogni lettera.
«In che classe sei?» domandai, cercando di capire come fosse possibile che non lo avessi mai visto prima. Non avevo mai notato la sua presenza a scuola, e, a essere onesta, non avevo mai sentito nessuno nominare qualcuno che si chiamasse Gioele.
«Quarta B.»
 Rimasi per un attimo a fissarlo, senza dire nulla.
Era un ragazzo così strano! Parlava lentamente, senza mai guardarmi negli occhi, a voce bassa. I suoi sorrisi erano appena accennati; i suoi movimenti delicati, timorosi, a tratti quasi femminili. I lineamenti potevano apparire spigolosi, ma nell’insieme il suo volto era dolce, e la pelle pallida, unita agli occhi chiari, lo faceva apparire tremendamente fragile, indifeso.
«Tu?» chiese dopo un po’, vedendo che ero persa nei miei pensieri.
«Terza C.»  m’interruppi, lo sguardo attirato dal sangue sulla fronte come da una calamita. «Sei andato da un medico?» gli domandai, forse un po’ brusca.
Si ritrasse leggermente, ma sorrise.
«Appena tornato a casa sono stato sottoposto a una stressante visita medica completa.» annunciò con un tono volutamente solenne. «Mia madre è traumatologa, ci ha messo più di un’ora per capire che stavo benissimo. Mi sono preso anche una bella strigliata perché non ho fatto abbastanza attenzione.» aggiunse sottovoce.
«Ma non è stata colpa tua!» esclamai, sconvolta. Sembrava che funzionasse tutto al contrario. Io, che avevo rischiato di ferire gravemente una persona, ero stata coccolata e tranquillizzata; lui, che era, semmai, la vittima, era stato rimproverato. Com’era assurdo!
«Sì, ma è proprio tipico di me farmi investire da un motorino quasi fermo.» borbottò stringendosi nelle spalle. «I miei genitori lo sanno bene. Mio padre crede che il mio sia un modo per attirare l’attenzione.» lasciò cadere quel commento quasi casualmente, e non capivo se fosse perché desiderava ricevere un mio parere o perché, semplicemente, voleva mettermi al corrente dei fatti.
«E’ così?» indagai.
Abbozzò un sorriso, guardando altrove.
«Non mi sono accorto del tuo motorino finché non me lo sono trovato sopra. Erano coccinelle?»
La sua risposta mi lasciò basita. Potevo capire la sbadataggine, perché io stessa non ero quella che si poteva definire una persona attenta, ma da lì a non accorgersi dell’arrivo di un motorino fuori controllo mi sembrava che ne passasse. Ma ciò che mi stupì maggiormente fu che avesse notato, in tutto quel trambusto, i disegni sulla scocca del mio mezzo.
«Sì…» mormorai. «Coccinelle.»
In quel momento suonò la campanella che segnava la ripresa delle lezioni. Mi avviai in silenzio verso la porta, meditabonda, mentre Gioele camminava lentamente accanto a me, lo sguardo perso nel vuoto. Un ragazzo con una folta zazzera di capelli biondi ci superò ridendo e diede una pacca sulla testa a Gioele, che immediatamente si portò una mano alla tempia con un’espressione di sofferenza sul volto contratto per il dolore.
«E’ la tua nuova ragazza, Genio?» lo denigrò, sputando l’ultima parola come se si fosse trattato di una terribile offesa.
«Idiota.» borbottai fermandomi accanto a Gioele, che si era bloccato in mezzo al cortile, le dita premute sulla fronte, le labbra contratte, gli occhi serrati.
«Ti senti male?» gli domandai con voce eccessivamente acuta mentre lo vedevo impallidire vistosamente davanti ai miei occhi.
Pensai che fosse sul punto di svenire, perciò gli poggiai una mano sulla spalla, preoccupata, e mi guardai intorno in cerca di qualcuno che potesse aiutarmi.
Ma in giardino non era rimasto nessuno, ormai, e i pochi ragazzi che passarono accanto a noi si limitarono a fissarci ridendo.
«E’ tutto a posto.» sputò lui tra i denti, mentre riapriva gli occhi e li sbarrava, come per rimettere a fuoco la scena. «E' la botta che ho preso.»
Si raddrizzò e trasse qualche profondo respiro, poi riprese a camminare verso l’ingresso. Non mi allontanai da lui, che, pallidissimo, mi sembrava ancora sofferente.
«E’ tutto a posto.» ripeté lui a voce leggermente più alta. Si scostò da me e annuì. «Dovremmo andare in classe, siamo già in ritardo.»
Aprii la bocca per parlare, per dirgli che avrebbe dovuto andare in infermeria, ma lui non mi diede il tempo di emettere un fiato. Si voltò verso di me, guardandomi negli occhi per la prima volta, e parlò lentamente, con voce stanca.
«Andiamo in classe. Non ho bisogno di niente, davvero. Ce la faccio, mi è passato.»
Annuii, turbata, e ripresi a camminare verso l’ingresso. Lui mi ignorò. Quando giungemmo davanti alla mia classe non mi guardò nemmeno e proseguì per la propria strada, proprio come se fossi stata una perfetta sconosciuta.
La professoressa non era ancora in classe quando entrai. Due mie compagne disegnavano fiori alla lavagna, mentre i maschi, seduti a terra vicino alla finestra, commentavano con urla e schiamazzi l’ultima partita di calcio.
Ines mi corse incontro.
«Grazie per la versione.» esordì non appena fu abbastanza vicina da farsi sentire. «Dovresti scrivere meglio, però, perché la tua calligrafia è illeggibile. Ci avrei messo la metà del tempo se fossi riuscita a decifrare tutte le parole. Chi era quel tipo con cui parlavi, poco fa? Non mi sembra d’averlo mai visto.»
«Uno che ho investito in motorino due giorni fa.» sospirai, evitando di notare il suo brusco cambio d’argomento. Ero abituata, ormai, all’esuberanza della mia amica, al suo particolare modo di sistemare i corti capelli rossi dietro alle orecchie e alla velocità con cui parlava, ma ogni tanto non potevo fare a meno di pensare che aveva, davvero, troppa energia.
«Ma dai? Com’è possibile questa cosa?» fece con tono sarcastico. «Ti diciamo sempre di non correre, e tu non ascolti mai!» mi rimproverò agitando una mano. «Spero che quel povero disgraziato non si sia fatto male. Anche se aveva un bel livido, diciamocelo.»
«Stavo andando piano!» protestai. «E comunque, dice di stare bene.»
«Non l’ho mai visto prima. Chi è?»
«Si chiama Gioele, è in quarta B. Ma tu mi credi se ti dico che non l’ho neppure mai sentito nominare?»
«Già.» annuì lei, pensierosa. «Pure per me è una faccia nuova, e neanche una faccia granché bella. Ce ne sono di migliori.»
«Questo cosa c’entra?» sbottai. Non era raro che Ines guardasse la situazione solo in relazione alla bellezza del ragazzo in questione, e, nonostante sapessi che i suoi erano solo commenti, e che la mia amica non era superficiale come avrebbe potuto sembrare, non riuscii a fare a meno di sentirmi irritata. «Avrei potuto ammazzarlo, cosa importa se è figo o non lo è?»
«Nulla, in effetti.» commentò Ines con leggerezza. «Facevo considerazioni. Cosa è venuto a dirti? Che intende denunciarti e che ti aspetterà fuori da scuola per riempirti di botte?»
Lanciai una breve occhiata all’orologio appeso alla parete, cercando di immaginare quanto tempo ci sarebbe voluto prima che la professoressa, già mostruosamente in ritardo, arrivasse, poi mi sedetti sul tavolo più vicino e sospirai.
«Esattamente il contrario, in effetti.» borbottai. «E’ venuto a dirmi di non preoccuparmi, che la colpa è stata sua e che sta bene. E’ stato piuttosto irritante.»
«Una bella sfuriata placa il senso di colpa.» sentenziò Ines incrociando le braccia. Rimase un istante in silenzio, gli occhi verdi chiusi, poi li riaprì e mi rivolse un sorriso vivace .
«Parlando di cose serie. Quando esci con Gabriele?»
Arrossii vistosamente e saltai giù dal tavolo, mi avvicinai alla mia amica e le tappai la bocca con la mano.
«Mai!» sibilai. «Non parlare ad alta voce, se Sandro lo sente lo va a raccontare a tutta la scuola.»
Ines si liberò dalla mia presa e mi rivolse uno sguardo di sufficienza.
«Sandro è suo fratello, sicuramente lo sa già. E poi, non c’è niente da nascondere. Prendi me, per esempio: tutti sanno che sono uscita con Marco.»
«E con Mattia, Vito, Leonardo, Simone, Gabriel, Dragan, Joe, Fabiano… lo sanno perché se lo sono raccontati tra di loro mentre parlavano delle fidanzate!»
«Esagerata. Lo sanno perché non lo nascondo a nessuno. Perché te ne vergogni?»
«Perché» sibilai «sabato esco con lui per la prima volta, e sarei molto più tranquilla se la faccenda non diventasse affare pubblico.»
«Certo, perché la tua vita interessa a tutto il mondo. Ascolta me: goditi l’appuntamento e fregatene degli altri.»
«Tutti a posto, fate silenzio!» tuonò una voce furiosa dalla porta. La professoressa, strizzata nel suo tailleur grigio topo, entrò in classe a passo di marcia e si sistemò dietro alla cattedra con uno scatto nervoso.
In pochi secondi, in classe tornò l’ordine e lei aprì il registro con un moto di stizza.
«Interrogo.» annunciò. Si voltò a guardarmi e mi fece un cenno eloquente con la mano. «Viglianisi, alla lavagna immediatamente. E voialtri… silenzio.»
La mia interrogazione durò per quello che mi parve un tempo immensamente lungo e non andò affatto bene.
Sospirando, mi trascinai al mio posto e aspettai in silenzio la fine della lezioni.

«Ciao.»
Salutai Francesca con un cenno della mano e m'incamminai verso la fermata dell'autobus, mentre lei mi seguiva con un'espressione interrogativa stampata sul volto.
«Che tipo è Gioele?» le domandai dopo un po'. Sollevò gli occhi al cielo e fece un cenno impaziente con la mano. «Non è in classe con te?» insistetti.
«Come l'hai conosciuto?» chiese, stupita. «Non parla con nessuno, a meno che non sia costretto.»
«L'ho investito con il motorino.» spiegai brevemente, in attesa di una risposta. Non sapevo per quale motivo sentissi il bisogno di saperne di più su di lui, ma in quel momento mi sembrava più importante che mai riuscire a racimolare il maggior numero possibile di informazioni su di lui.
«Un tipo pieno di soldi, ecco com'è.» rispose la mia amica con un sospiro desolato. «Credimi se ti dico che è una delle pochissime cose che si sa di lui. Te l'ho detto, non parla mai, e se qualcuno gli fa una domanda su di lui o sulla sua famiglia risponde con un non lo so o non me lo ricordo. Ah, e poi è bravissimo a scuola, questo sì. Quelli che hanno i nostri professori lo sanno tutti: lo adorano e ne parlano in continuazione. Credo che non abbia mai preso meno di otto, da quando è qui.»
«Accidenti.» commentai con un fischio.
«Infatti. E tu non hai idea di quello che voglia dire essere interrogati insieme a lui. Perché i prof. fanno i confronti e poi si strappano i capelli, e se c'era una speranza di prendere la sufficienza... bé, meglio rassegnarsi.»
«Non sembrerebbe, a vederlo.»
«No, vero? Eppure è così. Ma è un tipo tranquillo, sai, e se ci riesce cerca di aiutare durante i compiti. Non tutti, però. Odia Luca e sono sicura che un giorno o l'altro si uccideranno.»
Soffiai. Esagerata come sempre.
«Sei pronta per l'appuntamento di sabato?» cambiò improvvisamente argomento lei. «Scommetto che non vedi l'ora.»
Mi sentii arrossire violentemente,
«Volete smetterla di parlarne, tu e Ines? Lo sai che non mi va.»
«Se non volevi che ne parlassimo non dovevi dircelo. Dove andrete?»
«Non te lo dirò mai.» risposi piccata. L'ultima cosa che volevo era ritrovarmi le mie amiche alle costole durante l'appuntamento con il ragazzo a cui andavo dietro da una vita.
«Tanto lo scoprirò!» canticchiò lei con aria canzonatoria.
«Ma certo.» replicai ridendo. «Lo scoprirai il lunedì, quando ti racconterò com'è andata.»
Spalancò la bocca.
«Crudele!» si lagnò. «Credi davvero che sarei capace di seguirvi?»
«Assolutamente sì. So che lo faresti, e non dire di no.»
Incrociò le braccia sul petto prosperoso e scosse il capo. I ricci scuri, tagliati appena sotto alle orecchie, le si scompigliarono più di quanto non fossero già e lei non si diede pena di sistemarli.
«Forse lo farei.» ammise con un sorriso. «Ma sappi che ti chiamerò domenica mattina e tu mi dovrai raccontare ogni minimo particolare. Capito? Non dovrai saltare nemmeno una parola di quello che vi siete detti.»
«Lo farò!» risposi ridendo.
Salimmo sull'autobus chiacchierando, e non ci accorgemmo subito della presenza di Vito.
Portava i capelli lunghi, la sua immancabile giacca di pelle nera e i jeans scoloriti. Avevo parlato con lui solo un paio di volte, il mese prima, quando usciva con Ines. Alla fine, lei l'aveva piantato per quel Marco che stava al quarto anno e che già stava perdendo posizioni in confronto alla sua nuova preda, tale Filippo, di cui io non avevo assolutamente ricordi, nonostante lei continuasse a ripetere che ci avevo parlato insieme un paio di mesi prima.
«Ecco che arriva la lagna.» mi sussurrò all'orecchio Francesca, avvinghiata al palo di sostegno, mentre Vito avanzava verso di noi facendosi strada tra la calca di vecchiette che tornavano in autobus dal mercato del giovedì.
«Ciao, ragazze.» ci salutò mestamente quando fu sicuro che eravamo a portata d'orecchio.
«Vito!» lo salutò Francesca con falsa allegria. Io mi limitai a fargli un cenno con la testa, impegnata com'ero a cercare di mantenere l'equilibrio tra mille borse della spesa e un passeggino che qualcuno aveva abbandonato accanto a me. «Come stai?»
Le pestai con forza un piede. Con che coraggio gli faceva quella domanda? Probabilmente adesso ci sarebbe toccato ascoltare uno dei suoi monologhi sulla disperazione che l'aveva assalito quando Ines aveva deciso di rompere con lui.
«Niente è più come prima.» sospirò con aria melodrammatica. Francesca sbuffò piano, evitando di farsi sentire da lui che, fortunatamente, non era riuscito a venirci accanto e in quel momento si trovava a qualche passo da noi. I viaggiatori che si trovavano tra noi ci nascondevano in parte alla sua vista, tanto più che io non ero abbastanza alta da sovrastare le loro teste e guardare il ragazzo, perciò non mi feci problemi a sollevare gli occhi al cielo in direzione di Francesca, che annuì e si passò un dito sulla gola per indicarmi la fine che avrebbe preferito fare piuttosto che ascoltarlo sino all'arrivo.
«Quindi, capite, per me Ines era così importante... Non riesco a capire come abbia potuto preferire Marco a me. Voglio dire, lui è simpatico, però non riesco a capire l'attrazione...» stava dicendo Vito quando riuscii finalmente a riconcentrarmi sulle sue parole. Annuii con convinzione, facendogli così credere di aver ascoltato ciò che aveva detto.
«Certo.» approvò Francesca. «Assolutamente inspiegabile.»
Non so se Vito riuscì a cogliere il tono sarcastico della mia amica, perché continuò a parlare come se nessuno avesse detto niente.
«Così, quando la vedete, se vi capita di finire in argomento, chiedetele perché mai si ostina a evitarmi... Magari è disposta a cambiare idea,  forse ha solo timore di dirmelo...»
«Ma certamente.» mi sussurrò Francesca all'orecchio, ironica. «Se fosse così direi che stiamo parlando di due Ines diverse. L'ha lasciato perché è una piaga, cosa c'è da cambiare idea?»
Non risposi. Per fortuna la nostra fermata non era lontana, così mi affrettai a salutare Vito con mille scuse e cercai di farmi strada verso el porte d'uscita, con Francesca che mi camminava accanto spingendo da parte quelli che si trovavano sulla nostra traiettoria.
Quando scendemmo tirò un sospiro di sollievo.
«Lo ucciderò prima o poi.» esclamò esasperata. «Perché non fa come tutti, che quando vengono lasciati se ne vanno a cercare un'altra? E poi, che cosa avrebbe mai dovuto aspettarsi da Ines? Di portarla all'altare? Credimi se ti dico che quello lì su questo mondo ce l'hanno messo per sbaglio.»
Sorrisi e salutai la mia amica con un gesto stanco della mano.
«Vado.» annunciai, ignorando il suo sfogo. «Devo studiare e decidere che cosa mettermi sabato.»
«Hai bisogno di un consulto, magari, per il vestito? Sai che ho più occhio di te.»
«Sì, ma se scegli tu sembrerà che io stia andando a ritirare l'Oscar direttamente dalle mani di George Clooney, perciò grazie, ma credo che farò da me.»
Annuì e si allontanò per la strada deserta, saltellando allegra sotto al sole pallido di mezzogiorno mentre cantava una vecchia canzone d'amore.

 

Ed ecco il secondo capitolo, con la presentazione del povero disgraziato che è finito sotto al motorino. Spero che vi sia piaciuto.
Ringrazio le persone che hanno letto, che hanno inserito la storia tra le seguite e tra i preferiti e Charlie_me che ha commentato lo scorso capitolo.

Baci,
rolly too

   
 
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