Giovedì 23 Ottobre
La prima cosa che vidi, come se ci fosse stata solo
quella, era la crosta ancora rossa di sangue sulla tempia, in parte coperta dai
ricci color mogano che gli ricadevano disordinatamente sulla fronte. Un livido
violaceo gli si allungava dall’occhio sinistro al labbro, coprendogli quasi metà
faccia.
Il volto, alla luce del sole, sembrava un po’ meno pallido di quanto
non mi fosse sembrato sotto alla pioggia, ma l’incredibile azzurro dei suoi
occhi era lo stesso. Le labbra sottili erano incurvate in quello che poteva
sembrare un sorriso ansioso, e mi fissava come se si aspettasse di vedermi
esplodere da un momento all’altro.
«Tu…» mormorai, imbarazzata. Cosa dovevo
dire? Non sapevo come comportarmi.
«Mi chiamo Gioele.» si presentò a bassa
voce, stringendosi nelle spalle e affondando le mani nelle tasche dei jeans. Da
sotto la camicia a quadri si intravedeva la canottiera scura. «Sono quello che
hai investito con il motorino.» mi rammentò, come se ce ne fosse stato bisogno.
Credeva che non lo ricordassi?
«Sì, lo so.» borbottai, a disagio. «Stai… uhm…
stai bene? Voglio dire, non sei ferito gravemente, vero?»
Scosse il capo e
sorrise più apertamente. Si sfiorò delicatamente la ferita sulla tempia.
«Un
po’ di mal di testa. E parecchi lividi qua e là.» rispose. «Ho preso una bella
botta, credo, ma non è niente di mortale.»
«Mi dispiace tantissimo!» esclamai
costernata. «Ho cercato di evitarti, ma la strada era bagnata e…»
«Lo so.» mi
interruppe lui. «Non sono mica venuto qui per incolparti. E’ solo che mi sei
sembrata parecchio sconvolta, così ho pensato che magari era il caso, sì, sai,
di farti sapere che sono vivo e che non dovresti davvero preoccuparti.»
«Bè,
tanto meglio se stai bene.» sospirai. «Ma vorrei fare qualcosa per scusarmi.
Dovresti almeno denunciarmi.»
«Così ti sentirai meno in colpa?» mormorò
guardandomi di sottecchi, intimidito. L’espressione dipinta sul suo volto mi
diede una stranissima impressione.
Per un istante mi sembrò di trovarmi
davanti a un cucciolo di tigre terrorizzato. Innocuo e tremante. Gioele, però,
sembrava cercare di contenere bene la propria ansia.
«Credo che non smetterò
di sentirmi in colpa solo per questo.» borbottai, rimproverando per l’ennesima
volta la mia mancanza di responsabilità. Come avevo potuto accelerare sotto a
quell’acquazzone? Ero forse impazzita?
Gioele alzò timidamente la mano e mi
sfiorò il braccio per richiamare la mia attenzione.
«Smetti di pensarci,
d’accordo?» sussurrò. «Non mi è successo niente.»
Annuii piano, cercando di
convincermi che aveva ragione, che sarebbe potuta capitare una tragedia che
invece era stata evitata.
«Allora…» borbottò a bassa voce «Hai un
nome?»
«Carlotta. O Totta, se preferisci. Mi chiamano tutti così.» Ed era
vero. Persino i miei professori sembravano conoscermi solo con quel nome, e solo
raramente capitava che mi chiamassero per intero.
«Totta.» ripeté in un
soffio inudibile, scandendo attentamente ogni lettera.
«In che classe sei?»
domandai, cercando di capire come fosse possibile che non lo avessi mai visto
prima. Non avevo mai notato la sua presenza a scuola, e, a essere onesta, non
avevo mai sentito nessuno nominare qualcuno che si chiamasse Gioele.
«Quarta
B.»
Rimasi per un attimo a fissarlo, senza dire nulla.
Era un
ragazzo così strano! Parlava lentamente, senza mai guardarmi negli occhi, a voce
bassa. I suoi sorrisi erano appena accennati; i suoi movimenti delicati,
timorosi, a tratti quasi femminili. I lineamenti potevano apparire spigolosi, ma
nell’insieme il suo volto era dolce, e la pelle pallida, unita agli occhi
chiari, lo faceva apparire tremendamente fragile, indifeso.
«Tu?» chiese
dopo un po’, vedendo che ero persa nei miei pensieri.
«Terza C.»
m’interruppi, lo sguardo attirato dal sangue sulla fronte come da una calamita.
«Sei andato da un medico?» gli domandai, forse un po’ brusca.
Si ritrasse
leggermente, ma sorrise.
«Appena tornato a casa sono stato sottoposto a una
stressante visita medica completa.» annunciò con un tono volutamente solenne.
«Mia madre è traumatologa, ci ha messo più di un’ora per capire che stavo
benissimo. Mi sono preso anche una bella strigliata perché non ho fatto
abbastanza attenzione.» aggiunse sottovoce.
«Ma non è stata colpa tua!»
esclamai, sconvolta. Sembrava che funzionasse tutto al contrario. Io, che avevo
rischiato di ferire gravemente una persona, ero stata coccolata e
tranquillizzata; lui, che era, semmai, la vittima, era stato rimproverato.
Com’era assurdo!
«Sì, ma è proprio tipico di me farmi investire da un
motorino quasi fermo.» borbottò stringendosi nelle spalle. «I miei genitori lo
sanno bene. Mio padre crede che il mio sia un modo per attirare l’attenzione.»
lasciò cadere quel commento quasi casualmente, e non capivo se fosse perché
desiderava ricevere un mio parere o perché, semplicemente, voleva mettermi al
corrente dei fatti.
«E’ così?» indagai.
Abbozzò un sorriso, guardando
altrove.
«Non mi sono accorto del tuo motorino finché non me lo sono trovato
sopra. Erano coccinelle?»
La sua risposta mi lasciò basita. Potevo capire la
sbadataggine, perché io stessa non ero quella che si poteva definire una persona
attenta, ma da lì a non accorgersi dell’arrivo di un motorino fuori controllo mi
sembrava che ne passasse. Ma ciò che mi stupì maggiormente fu che avesse notato,
in tutto quel trambusto, i disegni sulla scocca del mio mezzo.
«Sì…»
mormorai. «Coccinelle.»
In quel momento suonò la campanella che segnava la
ripresa delle lezioni. Mi avviai in silenzio verso la porta, meditabonda, mentre
Gioele camminava lentamente accanto a me, lo sguardo perso nel vuoto. Un ragazzo
con una folta zazzera di capelli biondi ci superò ridendo e diede una pacca
sulla testa a Gioele, che immediatamente si portò una mano alla tempia con
un’espressione di sofferenza sul volto contratto per il dolore.
«E’ la tua
nuova ragazza, Genio?» lo denigrò, sputando l’ultima parola come se si fosse
trattato di una terribile offesa.
«Idiota.» borbottai fermandomi accanto a
Gioele, che si era bloccato in mezzo al cortile, le dita premute sulla fronte,
le labbra contratte, gli occhi serrati.
«Ti senti male?» gli domandai con
voce eccessivamente acuta mentre lo vedevo impallidire vistosamente davanti ai
miei occhi.
Pensai che fosse sul punto di svenire, perciò gli poggiai una
mano sulla spalla, preoccupata, e mi guardai intorno in cerca di qualcuno che
potesse aiutarmi.
Ma in giardino non era rimasto nessuno, ormai, e i pochi
ragazzi che passarono accanto a noi si limitarono a fissarci ridendo.
«E’
tutto a posto.» sputò lui tra i denti, mentre riapriva gli occhi e li sbarrava,
come per rimettere a fuoco la scena. «E' la botta che ho preso.»
Si raddrizzò
e trasse qualche profondo respiro, poi riprese a camminare verso l’ingresso. Non
mi allontanai da lui, che, pallidissimo, mi sembrava ancora sofferente.
«E’
tutto a posto.» ripeté lui a voce leggermente più alta. Si scostò da me e annuì.
«Dovremmo andare in classe, siamo già in ritardo.»
Aprii la bocca per
parlare, per dirgli che avrebbe dovuto andare in infermeria, ma lui non mi diede
il tempo di emettere un fiato. Si voltò verso di me, guardandomi negli occhi per
la prima volta, e parlò lentamente, con voce stanca.
«Andiamo in classe. Non
ho bisogno di niente, davvero. Ce la faccio, mi è passato.»
Annuii, turbata,
e ripresi a camminare verso l’ingresso. Lui mi ignorò. Quando giungemmo davanti
alla mia classe non mi guardò nemmeno e proseguì per la propria strada, proprio
come se fossi stata una perfetta sconosciuta.
La professoressa non era ancora
in classe quando entrai. Due mie compagne disegnavano fiori alla lavagna, mentre
i maschi, seduti a terra vicino alla finestra, commentavano con urla e
schiamazzi l’ultima partita di calcio.
Ines mi corse incontro.
«Grazie per
la versione.» esordì non appena fu abbastanza vicina da farsi sentire. «Dovresti
scrivere meglio, però, perché la tua calligrafia è illeggibile. Ci avrei messo
la metà del tempo se fossi riuscita a decifrare tutte le parole. Chi era quel
tipo con cui parlavi, poco fa? Non mi sembra d’averlo mai visto.»
«Uno che ho
investito in motorino due giorni fa.» sospirai, evitando di notare il suo brusco
cambio d’argomento. Ero abituata, ormai, all’esuberanza della mia amica, al suo
particolare modo di sistemare i corti capelli rossi dietro alle orecchie e alla
velocità con cui parlava, ma ogni tanto non potevo fare a meno di pensare che
aveva, davvero, troppa energia.
«Ma dai? Com’è possibile questa cosa?» fece
con tono sarcastico. «Ti diciamo sempre di non correre, e tu non ascolti mai!»
mi rimproverò agitando una mano. «Spero che quel povero disgraziato non si sia
fatto male. Anche se aveva un bel livido, diciamocelo.»
«Stavo andando
piano!» protestai. «E comunque, dice di stare bene.»
«Non l’ho mai visto
prima. Chi è?»
«Si chiama Gioele, è in quarta B. Ma tu mi credi se ti dico
che non l’ho neppure mai sentito nominare?»
«Già.» annuì lei, pensierosa.
«Pure per me è una faccia nuova, e neanche una faccia granché bella. Ce ne sono
di migliori.»
«Questo cosa c’entra?» sbottai. Non era raro che Ines guardasse
la situazione solo in relazione alla bellezza del ragazzo in questione, e,
nonostante sapessi che i suoi erano solo commenti, e che la mia amica non era
superficiale come avrebbe potuto sembrare, non riuscii a fare a meno di sentirmi
irritata. «Avrei potuto ammazzarlo, cosa importa se è figo o non lo
è?»
«Nulla, in effetti.» commentò Ines con leggerezza. «Facevo
considerazioni. Cosa è venuto a dirti? Che intende denunciarti e che ti
aspetterà fuori da scuola per riempirti di botte?»
Lanciai una breve occhiata
all’orologio appeso alla parete, cercando di immaginare quanto tempo ci sarebbe
voluto prima che la professoressa, già mostruosamente in ritardo, arrivasse, poi
mi sedetti sul tavolo più vicino e sospirai.
«Esattamente il contrario, in
effetti.» borbottai. «E’ venuto a dirmi di non preoccuparmi, che la colpa è
stata sua e che sta bene. E’ stato piuttosto irritante.»
«Una bella sfuriata
placa il senso di colpa.» sentenziò Ines incrociando le braccia. Rimase un
istante in silenzio, gli occhi verdi chiusi, poi li riaprì e mi rivolse un
sorriso vivace .
«Parlando di cose serie. Quando esci con Gabriele?»
Arrossii vistosamente e saltai giù dal tavolo, mi avvicinai alla mia amica e
le tappai la bocca con la mano.
«Mai!» sibilai. «Non parlare ad alta voce, se
Sandro lo sente lo va a raccontare a tutta la scuola.»
Ines si liberò dalla
mia presa e mi rivolse uno sguardo di sufficienza.
«Sandro è suo fratello,
sicuramente lo sa già. E poi, non c’è niente da nascondere. Prendi me, per
esempio: tutti sanno che sono uscita con Marco.»
«E con Mattia, Vito,
Leonardo, Simone, Gabriel, Dragan, Joe, Fabiano… lo sanno perché se lo sono
raccontati tra di loro mentre parlavano delle fidanzate!»
«Esagerata. Lo
sanno perché non lo nascondo a nessuno. Perché te ne vergogni?»
«Perché»
sibilai «sabato esco con lui per la prima volta, e sarei molto più tranquilla se
la faccenda non diventasse affare pubblico.»
«Certo, perché la tua vita
interessa a tutto il mondo. Ascolta me: goditi l’appuntamento e fregatene degli
altri.»
«Tutti a posto, fate silenzio!» tuonò una voce furiosa dalla porta.
La professoressa, strizzata nel suo tailleur grigio topo, entrò in classe a
passo di marcia e si sistemò dietro alla cattedra con uno scatto nervoso.
In
pochi secondi, in classe tornò l’ordine e lei aprì il registro con un moto di
stizza.
«Interrogo.» annunciò. Si voltò a guardarmi e mi fece un cenno
eloquente con la mano. «Viglianisi, alla lavagna immediatamente. E voialtri…
silenzio.»
La mia interrogazione durò per quello che mi parve un tempo
immensamente lungo e non andò affatto bene.
Sospirando, mi trascinai al mio
posto e aspettai in silenzio la fine della lezioni.
«Ciao.»
Salutai Francesca con un cenno della mano e
m'incamminai verso la fermata dell'autobus, mentre lei mi seguiva con
un'espressione interrogativa stampata sul volto.
«Che tipo è Gioele?» le
domandai dopo un po'. Sollevò gli occhi al cielo e fece un cenno impaziente con
la mano. «Non è in classe con te?» insistetti.
«Come l'hai conosciuto?»
chiese, stupita. «Non parla con nessuno, a meno che non sia costretto.»
«L'ho
investito con il motorino.» spiegai brevemente, in attesa di una risposta. Non
sapevo per quale motivo sentissi il bisogno di saperne di più su di lui, ma in
quel momento mi sembrava più importante che mai riuscire a racimolare il maggior
numero possibile di informazioni su di lui.
«Un tipo pieno di soldi, ecco
com'è.» rispose la mia amica con un sospiro desolato. «Credimi se ti dico che è
una delle pochissime cose che si sa di lui. Te l'ho detto, non parla mai, e se
qualcuno gli fa una domanda su di lui o sulla sua famiglia risponde con un non
lo so o non me lo ricordo. Ah, e poi è bravissimo a scuola, questo sì. Quelli
che hanno i nostri professori lo sanno tutti: lo adorano e ne parlano in
continuazione. Credo che non abbia mai preso meno di otto, da quando è
qui.»
«Accidenti.» commentai con un fischio.
«Infatti. E tu non hai idea
di quello che voglia dire essere interrogati insieme a lui. Perché i prof. fanno
i confronti e poi si strappano i capelli, e se c'era una speranza di prendere la
sufficienza... bé, meglio rassegnarsi.»
«Non sembrerebbe, a vederlo.»
«No,
vero? Eppure è così. Ma è un tipo tranquillo, sai, e se ci riesce cerca di
aiutare durante i compiti. Non tutti, però. Odia Luca e sono sicura che un
giorno o l'altro si uccideranno.»
Soffiai. Esagerata come sempre.
«Sei
pronta per l'appuntamento di sabato?» cambiò improvvisamente argomento lei.
«Scommetto che non vedi l'ora.»
Mi sentii arrossire violentemente,
«Volete
smetterla di parlarne, tu e Ines? Lo sai che non mi va.»
«Se non volevi che
ne parlassimo non dovevi dircelo. Dove andrete?»
«Non te lo dirò mai.»
risposi piccata. L'ultima cosa che volevo era ritrovarmi le mie amiche alle
costole durante l'appuntamento con il ragazzo a cui andavo dietro da una
vita.
«Tanto lo scoprirò!» canticchiò lei con aria canzonatoria.
«Ma
certo.» replicai ridendo. «Lo scoprirai il lunedì, quando ti racconterò com'è
andata.»
Spalancò la bocca.
«Crudele!» si lagnò. «Credi davvero che sarei
capace di seguirvi?»
«Assolutamente sì. So che lo faresti, e non dire di
no.»
Incrociò le braccia sul petto prosperoso e scosse il capo. I ricci
scuri, tagliati appena sotto alle orecchie, le si scompigliarono più di quanto
non fossero già e lei non si diede pena di sistemarli.
«Forse lo farei.»
ammise con un sorriso. «Ma sappi che ti chiamerò domenica mattina e tu mi dovrai
raccontare ogni minimo particolare. Capito? Non dovrai saltare nemmeno una
parola di quello che vi siete detti.»
«Lo farò!» risposi ridendo.
Salimmo
sull'autobus chiacchierando, e non ci accorgemmo subito della presenza di Vito.
Portava i capelli lunghi, la sua immancabile giacca di pelle nera e i jeans
scoloriti. Avevo parlato con lui solo un paio di volte, il mese prima, quando
usciva con Ines. Alla fine, lei l'aveva piantato per quel Marco che stava al
quarto anno e che già stava perdendo posizioni in confronto alla sua nuova
preda, tale Filippo, di cui io non avevo assolutamente ricordi, nonostante lei
continuasse a ripetere che ci avevo parlato insieme un paio di mesi
prima.
«Ecco che arriva la lagna.» mi sussurrò all'orecchio Francesca,
avvinghiata al palo di sostegno, mentre Vito avanzava verso di noi facendosi
strada tra la calca di vecchiette che tornavano in autobus dal mercato del
giovedì.
«Ciao, ragazze.» ci salutò mestamente quando fu sicuro che eravamo a
portata d'orecchio.
«Vito!» lo salutò Francesca con falsa allegria. Io mi
limitai a fargli un cenno con la testa, impegnata com'ero a cercare di mantenere
l'equilibrio tra mille borse della spesa e un passeggino che qualcuno aveva
abbandonato accanto a me. «Come stai?»
Le pestai con forza un piede. Con che
coraggio gli faceva quella domanda? Probabilmente adesso ci sarebbe toccato
ascoltare uno dei suoi monologhi sulla disperazione che l'aveva assalito quando
Ines aveva deciso di rompere con lui.
«Niente è più come prima.» sospirò con
aria melodrammatica. Francesca sbuffò piano, evitando di farsi sentire da lui
che, fortunatamente, non era riuscito a venirci accanto e in quel momento si
trovava a qualche passo da noi. I viaggiatori che si trovavano tra noi ci
nascondevano in parte alla sua vista, tanto più che io non ero abbastanza alta
da sovrastare le loro teste e guardare il ragazzo, perciò non mi feci problemi a
sollevare gli occhi al cielo in direzione di Francesca, che annuì e si passò un
dito sulla gola per indicarmi la fine che avrebbe preferito fare piuttosto che
ascoltarlo sino all'arrivo.
«Quindi, capite, per me Ines era così
importante... Non riesco a capire come abbia potuto preferire Marco a me. Voglio
dire, lui è simpatico, però non riesco a capire l'attrazione...» stava dicendo
Vito quando riuscii finalmente a riconcentrarmi sulle sue parole. Annuii con
convinzione, facendogli così credere di aver ascoltato ciò che aveva
detto.
«Certo.» approvò Francesca. «Assolutamente inspiegabile.»
Non so
se Vito riuscì a cogliere il tono sarcastico della mia amica, perché continuò a
parlare come se nessuno avesse detto niente.
«Così, quando la vedete, se vi
capita di finire in argomento, chiedetele perché mai si ostina a evitarmi...
Magari è disposta a cambiare idea, forse ha solo timore di
dirmelo...»
«Ma certamente.» mi sussurrò Francesca all'orecchio, ironica. «Se
fosse così direi che stiamo parlando di due Ines diverse. L'ha lasciato perché è
una piaga, cosa c'è da cambiare idea?»
Non risposi. Per fortuna la nostra
fermata non era lontana, così mi affrettai a salutare Vito con mille scuse e
cercai di farmi strada verso el porte d'uscita, con Francesca che mi camminava
accanto spingendo da parte quelli che si trovavano sulla nostra
traiettoria.
Quando scendemmo tirò un sospiro di sollievo.
«Lo ucciderò
prima o poi.» esclamò esasperata. «Perché non fa come tutti, che quando vengono
lasciati se ne vanno a cercare un'altra? E poi, che cosa avrebbe mai dovuto
aspettarsi da Ines? Di portarla all'altare? Credimi se ti dico che quello lì su
questo mondo ce l'hanno messo per sbaglio.»
Sorrisi e salutai la mia amica
con un gesto stanco della mano.
«Vado.» annunciai, ignorando il suo sfogo.
«Devo studiare e decidere che cosa mettermi sabato.»
«Hai bisogno di un
consulto, magari, per il vestito? Sai che ho più occhio di te.»
«Sì, ma se
scegli tu sembrerà che io stia andando a ritirare l'Oscar direttamente dalle
mani di George Clooney, perciò grazie, ma credo che farò da me.»
Annuì e si
allontanò per la strada deserta, saltellando allegra sotto al sole pallido di
mezzogiorno mentre cantava una vecchia canzone d'amore.
Ed ecco il secondo capitolo, con la presentazione
del povero disgraziato che è finito sotto al motorino. Spero che vi sia
piaciuto.
Ringrazio le persone che hanno letto, che hanno inserito la storia
tra le seguite e tra i preferiti e Charlie_me che ha commentato lo scorso
capitolo.
Baci,
rolly too