Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    21/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

La mattina del 28 agosto su Forlì aleggiava un clima cupo. Benché facesse molto caldo e tutti quanti si aspettassero un altro giorno di siccità, in cielo si erano sparse nuvole dense e scure, che promettevano bene, per chi desiderava un po' di acqua.

Pareva l'atmosfera ideale per l'attesa che si spandeva in città. Si aspettava la guerra, si aspettava lo scoppio definitivo della peste, si aspettava la pioggia.

Caterina aspettava notizie da Pirovano. Da giorni, ormai non aveva sue notizie. Era certa che la sua lettera fosse arrivata a destinazione, ma ormai cominciava a chiedersi se Giovanni da Casale sarebbe tornato senza annunciarsi o se, piuttosto, gli fosse successo qualcosa e nessuno avesse ancora avuto il modo o il coraggio di avvertirla.

In fondo, pensava, mentre era ancora stesa a letto, svestita e con lo sguardo perso verso il soffitto, anche Ottaviano Manfredi era partito per tornare presto e invece era stato ucciso e non era tornato più.

Sapeva che era tardi e che di solito, a quell'ora, era già attiva da un pezzo. Si domandò se qualcuno si fosse accorto della sua assenza o meno.

Quella, per lei, era stata una notte tremenda. Aveva rivissuto buona parte dei traumi che ancora a trentasei anni non riusciva a superare, aveva ragionato sul presente, aveva provato a figurarsi il futuro – e i suo le era sembrato eccessivamente breve – e poi si era arresa al sonno, ma solo quando già si intravedevano i bagliore dell'aurora.

Aveva dormito poco, in modo agitato, rivedendo davanti a sé Ludovico Marcobelli che cadeva in terra cadavere e si era svegliata chiamando il suo nome, in un bagno di sudore. Sapeva che nei primi tempi, alla rocca tutti si erano accorti di quel suo problema. Tutti l'avevano sentita gridare nel sonno almeno una volta. Giovanni aveva cercato di calmarla, e in parte ce l'aveva anche fatta, ma ormai, morto anche lui da quasi un anno, gli incubi c'erano ancora e la Tigre stava pian piano tornando avvezza a quel genere di risveglio.

Quando sentì bussare alla porta, non si mosse di un millimetro, ma chiese chi fosse.

Dall'altro lato dello spesso legno, la voce di Cesare Feo, un po' preoccupata, chiese: “Mia signora, sono io, non vi ho vista a colazione, né dai soldati... State bene?”

La Contessa incurvò appena le labbra: qualcuno che si era accorto della sua assenza c'era, in fondo.

“Che volete?” chiese, ruvida, senza spostarsi.

“C'è una lettera da Firenze per voi.” rispose il castellano.

La Sforza ancora non si mosse, pensando che potesse essere una missiva di Lorenzo, o, più probabile, di Fortunati.

Fu solo quando il Feo soggiunse: “Si tratta di una lettera di messer Giovanni da Casale...” che finalmente la donna scattò in piedi e si presentò alla porta.

Quando l'aprì, l'uomo, come ormai era avvezzo a fare, distolse un po' lo sguardo, per non indugiare troppo sulle forme ben visibili della sua signora, appena coperte da una sottilissima vestaglia da notte.

La Tigre prese subito il messaggio e lo ringraziò frettolosamente, facendo come se volesse richiudere subito l'uscio, ma Cesare la frenò e le disse: “Con me c'è qualcuno che voleva vedervi...”

Caterina si accigliò chiedendosi chi potesse essere, se il castellano si era azzardato a portarglielo direttamente lì, con il rischio di trovarla svestita e non pronta a ricevere una visita.

Si calmò subito, però, quando finalmente intravide dietro al Feo il suo sestogenito Sforzino. Teneva la testa un po' china e la guardava di sottecchi, il viso paffuto acceso da un forte rossore.

“Vuole ringraziarvi di persona per qualcosa...” spiegò Cesare, che aveva solo accettato di scortare il bambino fino a lì, su insistenza di Bernardino, senza sapere di preciso il motivo.

Allora la Contessa annuì e, rivolgendosi al figlio, disse: “Non era necessario, ma sono contenta che i confetti ti siano piaciuti.”

Senza riuscire a spiccicare parola, il bambino guardò esitante il castellano, come a cercarne l'appoggio per qualche motivo e poi, in un moto di coraggio, andò incontro alla madre e la cinse con le braccia.

La Leonessa non era abituata a quel genere di slanci, da parte del Riario, ma l'apprezzò. In quella stretta, c'era per lei un simbolo. Suo figlio le stava dicendo silenziosamente che, in fondo, lei non stava sbagliando proprio tutto, le stava assicurando che qualcosa di buono sapeva farlo anche lei, seppur di rado.

Accarezzandogli appena la testa, mentre il castellano si allontanava, la donna sospirò e gli disse, a voce bassa: “Resta sempre buono come sei adesso. E perdonami, se non so starti vicino come vorresti.”

C'era qualcosa, nel tono in cui la madre gli aveva parlato, che allarmò Sforzino. Nelle sue frasi c'era un che di ineluttabile, come fosse un monito giunto da un qualche oracolo, come se, in un certo senso, la donna gli stesse confidando le sue ultime volontà.

Un po' spaventato da quella sensazione, il ragazzino sciolse il proprio abbraccio e poi, annuendo appena verso la Tigre, abbozzò un sorriso, che, però, lasciava trasparire tutta la sua insicurezza.

Caterina capiva solo in parte lo stato d'animo del figlio e, rammaricandosi di non conoscerlo abbastanza da riuscire a intuire i suoi pensieri, gli diede un ultimo buffetto sulla guancia e cercò di rassicurarlo dicendo: “Vedrai che andrà tutto bene. Per adesso pensa solo ai tuoi studi e a fare il bravo.”

Il Riario fece di nuovo un cenno con il capo e poi, non sapendo che altro fare o dire, si avvicinò alla porta e fu la Sforza a fargli segno di andare pure, togliendolo dall'imbarazzo del momento.

Ancora assorta, la donna richiuse l'uscio e andò alla scrivania per leggere la missiva di Pirovano.

Non era molto lunga e, soprattutto, le faceva presente che sarebbe tornato a Forlì il 29 o il 30 di quel mese. Essendo già il 28, a Caterina parve di poter tornare a respirare. Sapeva che il suo rapporto con Giovanni da Casale non era un idillio e che, forse, avrebbe anche dovuto dare spiegazioni di quanto aveva fatto in sua assenza, ma le mancava troppo una parvenza di punto fisso quale era lui.

La parte meno personale di quella lettera riguardava l'ultima proposta fatta dalla Signoria, per la condotta di Ottaviano.

Il solo pensare al proprio primogenito rimandava la Leonessa su tutte le furie. Era sfaticato, un perdigiorno, e non c'era notte che non combinasse qualche disastro in città. E la cosa più grave era che la Contessa non riusciva a far nulla per fermarlo. Avrebbe potuto, ma, per lei, era come trovarsi davanti Girolamo. Preferiva disinteressarsene, piuttosto che affrontarlo. Non le piaceva, agire a quel modo, ma non riusciva a far altrimenti.

In breve Pirovano riportava una proposta che non era né particolarmente allettante, ma nemmeno troppo svantaggiosa. Fosse stato per Caterina, a quel punto, avrebbe accattato e basta. Però, dopo aver incontrato a Castrocaro suo cognato Lorenzo, sapendo che c'era lui dietro quella rigidità di Firenze nei termini dell'accordo, non voleva mollare la presa.

Fondamentalmente, quella proposta prevedeva buona parte dei punti suggeriti da lei, ma si negava in modo netto l'obbligo di proteggerla, in caso di guerra.

La Tigre sapeva benissimo che quel diniego era legato al fatto che il Popolano fosse proteso verso i francesi, ben pronto a favorirli, se questo significava distruggere lei. E dunque come poteva lasciare che il suo Stato si impegnasse a combattere fianco a fianco con lei, in caso proprio di invasione francese?

Con un sospiro, sapendo che quella missiva sarebbe stata letta non solo da Lorenzo, ma almeno da una mezza dozzina d'occhi – perché l'Oliva era certo, le aveva riferito, che ogni sua lettera al cognato venisse intercettata e vagliata da terze persone – la Contessa cominciò a vergare un messaggio proprio per il cognato.

Innanzitutto gli chiese, fingendo una certa ingenuità, se dovesse accettare o meno il Beneplacito offertole dalla Signora, anche senza l'obbligo di proteggere il suo Stato in caso di bisogno. Poi insistette, a beneficio degli sguardi indiscreti che si sarebbero posati sulle sue parole, sul fatto che lei fosse persuasa che la Repubblica non avrebbe mai e poi mai fatto qualcosa contro di lei, benché avesse udito qualche voce sostenere il contrario, ma per quello, soggiunse, avrebbe mandato a tempo debito qualcuno a parlare con lui a quattrocchi per chiarirsi.

Per sottolineare i suoi sospetti e far capire a chi avesse letto che sapeva più di quanto credevano, calcando un po' di più sul foglio scrisse: 'Sum advisata che fra pochi mesi li Ex.mi Signori Vostri sonno per scoprirsi contra me in una cosa per la quale conseguiranno certo loro intento, et a questo haveranno la scusa. E' Vinitiani se scopriranno prima contra nui in favore de Antonio de li Ordelaphi.'.

Aggiunse qualche frase più morbida, ricordò al cognato che il piccolo Ludovico – così voleva continuare a chiamarlo con lui – stava bene e non aveva dato più segni di malattia. Chiudeva chiedendosi quando sarebbe arrivato a Forlì Pucci.

Dato che ormai era mattina fatta e che non voleva permettere ai suoi fantasmi di ridurla di nuovo in catene, come era successo subito dopo la morte di Giacomo, Caterina chiuse la lettera e poi andò a cercare un servo. Gli disse di consegnarla subito al castellano, affinché la spedisse, e ordinò anche di farle avere presto il necessario per darsi una rinfrescata.

L'acqua profumata all'alloro arrivò nella sua camera dopo nemmeno un quarto d'ora, accompagnata da Argentina.

La Contessa si deterse con cura il viso, cercò di domare i lunghi capelli bianchi e poi lasciò che la sua domestica personale l'aiutasse a infilarsi il suo abito da lavoro.

“C'è necessità di cambiare le lenzuola..?” chiese Argentina.

Era una domanda di ordine pratico, ma alla Tigre le sue implicazioni non sfuggirono. Fece un sospiro, cercando di non lasciarsi andare a una facile ira. Non poteva permettersi di scattare anche per cose innocue come quella.

“No. Né di qui, né nell'altra stanza.” disse solo, con tono abbastanza neutro.

La serva annuì, quasi che quella fosse una buona notizia non tanto per il minor lavoro da fare, quanto perché sottintendeva che quella notte la sua signora non aveva cercato la compagnia di un uomo.

Quasi leggendole nella mente, però, la Sforza non resistette e le fece presente, con una punta di acidità: “Ciò non significa per forza che io abbia passato la notte da sola.”

“Non era mia intenzione fare certe allusioni, mia signora.” riparò in fretta Argentina.

La donna lasciò correre, non volendo urtarsi con nessuno. Aveva dormito poco e male e ancora portava addosso il peso di quelle ore di tormento. Una volta che fu pronta, congedò la domestica e, fatto un momento il punto della situazione, decise di uscire dalla sua stanza e controllare chi vi fosse nel cortile.

Affacciata alla finestra che dava luce a una delle alcove, riconobbe tra i soldati che si stavano allenando Galeazzo e Bernardino. E anche il giovane che quella notte le aveva dato l'impressione di essere abbastanza intimo con Bianca. Erano tre motivi più che sufficienti per scendere in cortile e seguire quella sessione di addestramento.

 

La staffetta era arrivata con tanta furia a Firenze che in molti si erano accorti di lei. Aveva varcato la porta cittadina con i primi raggi del sole ed era corsa senza fermarsi fino al Palazzo Vecchio, sparendovi subito dentro.

Nell'arco di nemmeno due ore, tutti i notabili della città e tutti quelli che avevano interessi nella guerra che ancora si combatteva contro Pisa, erano accorsi a sentire che novità ci fossero.

Machiavelli aveva dovuto sgomitare, per riuscire a infilarsi tra i suoi concittadini e poter sentire con le sue orecchie quello che si stava dicendo. Riteneva quanto meno degradante, per un Segretario di Stato, dover ricorrere alla forza per riuscirvi, ma tale era la realtà in cui viveva, e poteva solo farci l'abitudine.

Era il 29 agosto e il caldo pareva intenzionato a non mollare nemmeno per un istante la presa sui fiorentini. A Niccolò non avrebbe dato nemmeno troppo fastidio, se non fosse stato che quell'afa faceva sì che gli uomini ammassatisi in quella sala avessero portato con loro un tanfo difficile da sopportare.

'Sembrano un branco di caproni...' si era messo a pensare il Segretario, mentre cercava comunque di tendere l'orecchio alla staffetta, che continuava a parlare.

Dopo appena un paio di frasi, capì quanto la situazione fosse delicata e di facile fraintendimento.

“Ma anche Vitelli, allora, soffre ora di febbre terzana?” aveva chiesto il Gonfaloniere di Giustizia, che appariva confuso come tutti gli altri.

“Sì, ma non è questo il vero motivo per cui sta rallentando le sue azioni...” spiegò il messaggero, che aveva gli occhi fuori dalle orbite, come se fosse scappato dal diavolo in persona: “Il mio signore, Ranuccio da Marciano, sa quel che mi fa dire! Il Vitelli ci vuol vendere e vuol farlo partendo dal farci perdere Pisa, dando tempo ai pisani di ricompattarsi, invece di dare subito il sacco alla città!”

“Questo è assurdo!” sbottò qualcuno e qualcun altro fece eco, ma, di fatto, la lentezza delle operazioni del comandante generale delle truppe fiorentine aveva già fatto storcere qualche naso, in passato, e un tradimento sarebbe stato solo la coronazione di una condotta molto ambigua.

“Ma è stata proprio la Signoria a vietare il saccheggio!” fece notare qualcuno: “Che altro avrebbe dovuto fare?”

Ma subito le voci di quelli che se la prendevano con Paolo Vitelli, ormai da tempo emblema di una lunga guerra che non aveva portato altro che spese, coprirono quelle dei pochi che lo difendevano.

Jacopo Salviati ascoltava tutto in silenzio, cercando di orientarsi. Capiva gli scettici, quelli che vedevano nel loro comandante una persona di difficile interpretazione, ma concordava anche con quelli che lo spalleggiavano. Aveva solo eseguito gli ordini e se stava ritardando un po' a riorganizzare il suo esercito, il motivo era solo l'epidemia di malaria. Era quasi la fine d'agosto, dai fiumiciattoli e dalle paludi arrivavano interi plotoni di zanzare e l'aria era malsana. Era ovvio che quella malattia non se l'era inventata.

Mentre chi più chi meno, tutti i presenti ponevano le loro domande alla staffetta – mandata, ormai non c'erano più dubbi, da Ranuccio da Marciano – Jacopo lanciò uno sguardo a Lorenzo Medici, in piedi poco lontano da lui.

Sul suo viso tirato e grigiastro era impressa un'espressione dura. I suoi occhi tondi puntavano non tanto verso quello che stava parlando, quanto verso il Gonfaloniere di Giustizia.

Il Salviati allora seguì con attenzione le mosse del cugino di sua moglie. Lo vide parlottare con uno di quelli che era con lui, scuotendo piano la testa e poi quello a cui si era rivolto si avvicinò proprio al Gonfaloniere e, approfittando di un momento di caso in cui la folla fece un gran fracasso, gli disse qualcosa all'orecchio.

Ci volle un po', prima che i presenti si calmassero quel tanto che bastava a qualcuno per prendere la parola e farsi capire in modo distinto.

“Si valuterà con attenzione la cosa – disse il Gonfaloniere di Giustizia, alzando i toni abbastanza da farsi udire da tutti – e si faranno le dovute ricerche. Per il momento, non emettiamo alcuna condanna, né alcun giudizio. L'operato di Paolo Vitelli sarà vagliato nei prossimi giorni.”

Così come si era infiammata all'inizio, così la confusione parve implodere e, in capannelli di sei o sette persone, tutti i fiorentini accorsi poco per volta si dileguarono, tornando alle rispettive occupazioni.

Biagio Bonaccorsi, che si era palesato alle spalle di Machiavelli, chiese all'amico, del quale giudizio si fidava oltre ogni dire: “Dunque Paolo Vitelli è davvero un traditore?”

Niccolò sospirò, infastidito dalla gente che, andandosene, a volte arrivava addirittura a scansarlo, come se fosse fatto di vetro: “Per esser certi che le accuse di Ranuccio da Marciano sono veritiere e giuste – disse, con un che di sibillino – bisognerebbe esser certo che Ranuccio da Marciano sia un uomo veritiero e giusto.”

L'altro, che era solito pendere dalle labbra di Macchia e prendere ogni sua parola come oro colato, capì solo fino a un certo punto il suo commento.

Il Segretario di Stato si accorse della vaga perplessità che si era impadronita dell'amico, e si innervosì al pensiero che in tutta Firenze l'unico che sembrasse apprezzarlo appieno fosse un simile babbeo.

“Lasciamo stare...” borbottò tra sé Machiavelli: “Ho del lavoro da fare e più tardi voglio passare in osteria.”

Biagio si aprì in un sorriso ed esclamò: “Anche io credo che passerò in osteria, più tardi!”

Niccolò stirò le labbra e, dimenticando un po' l'affettazione con cui era solito declinare le proposte che non l'allettavano, ribatté: “Nessun problema, basta che non sia quella in cui andrò io.”

 

“Come non si trovano altri gatti?!” fece Caterina, guardando sconcertata Ridolfi: “Questa primavera la città era invasa da gatte con il pancione e adesso mi venite a dire che non trovate altri gatti da liberare per le strade dei bassifondi?!”

Il Governatore, che era entrato nella Sala della guerra quasi in punta di piedi, per non disturbare il lavorio che coinvolgeva non solo la Tigre, ma anche il castellano, una dozzina di Capitani, Luffo Numai, Galeazzo Riario e l'Oliva si risentì subito moltissimo del tono usato dalla sua signora.

Già riteneva che fosse degradante, per un uomo della sua importanza, dover correr dietro ai dei gatti, figurarsi sentirsi quasi gridare dietro dalla donna che gli aveva affibbiato quel compito ingrato.

In realtà a Simone era stato chiesto di scegliere, se recarsi in una delle case vicino a Porta San Pietro per assicurarsi se il nuovo caso sospetto fosse davvero di peste, o occuparsi dei felini. Dopo nemmeno un secondo di esitazione, Ridolfi aveva scelto la seconda prospettiva, lasciando volentieri la prima al Capo dei Magistrati Tornielli.

“Non piove da mesi.” rese noto lui, freddo, sentendosi gli occhi di almeno metà dei presenti addosso: “I gatti hanno avuto sete, hanno avuto fame e sono morti. Quelli che girano adesso per Forlì sono gli unici che siamo riusciti a trovare in questa zona.”

La Contessa, che teneva in braccio il figlio più piccolo, fece un respiro molto fondo e lento per calmarsi. Non le piaceva affatto il modo in cui il Governatore le si era rivolto. Non aveva alzato la voce, ma era aggressivo e la fissava come se stesse parlando con una pazza.

“In qualche modo dobbiamo ridurre i ratti che girano per strada.” sbuffò, tornando a guardare la mappa che aveva davanti, ignorando Giovannino, che per richiamare la sua attenzione le toccava la guancia con la manina dalle dita tozze: “Se non trovate altri gatti, prendete una ventina di uomini e pagateli per ammazzare tutti i topi che trovano.”

A Simone quel provvedimento pareva non solo ridicolo, ma anche inutile. La peste sarebbe arrivata in città comunque, ratti o non ratti, e pagare della gente per scatenare una caccia al topo per le vie di Forlì avrebbe solo creato confusione.

“Allora? Siete ancora qui?!” fece alla fine la Leonessa, perdendo la pazienza.

“Perdonatemi.” si scusò il Governatore e con un rigido inchino a metà, si congedò e se ne andò dalla Sala della Guerra arrovellandosi nel proprio nervosismo.

“Tutto bene, mia signora?” chiese Luffo Numai, che teneva in mano un pesante registro su cui erano annotati in modo preciso e puntuale tutti i membri dell'esercito di Imola e Forlì.

“Sì, tutto bene.” sospirò lei, dando rapidamente un bacio in fronte a Giovannino, per farlo stare un po' fermo: “Ah, quando vi capita, dovete dire Beliardo che quando sarà necessario il suo intervento, gradirei che mi chiamasse. Voglio vedere.”

Oltre a voler assistere alle amputazioni che, prima o poi, il barbiere avrebbe dovuto fare, la Sforza voleva essere presente per poter provare la sua pozione a far dormire. Ci aveva ragionato parecchio ed era giunta a conclusione che quello sarebbe stato un buon banco di prova. La guerra si avvicinava e presto avrebbero dovuto far fronte a molti feriti. Avere qualcosa di sicuro che aiutasse i cerusici a tagliare e ricucire senza il paziente che imprecava e ululava di dolore avrebbe solo aiutato.

Numai annuì e poi, porgendole il registro, le disse: “Se volete controllare...”

“Avete già controllato voi.” fece la donna, schiarendosi la voce: “Mi fido. Piuttosto, adesso che sappiamo che hanno accerchiato Alessandria, mi aspetto che la guerra prosegua verso Pavia e poi verso Milano. Dobbiamo richiamare Dionigi Naldi, non appena i francesi avranno passato Pavia.”

Anche Cesare Feo e Galeazzo si erano avvicinati. Avevano passato almeno mezz'ora a scartabellare l'inventario arrivato da Imola quella mattina, in cui ci si dilungava soprattutto sui pezzi di artiglieria e sulla quantità di corazze e scudi.

Luffo, che aveva ben inteso il ragionamento della sua signora – che vedeva nel lasciare Naldi alla difesa di Milano solo una mossa suicida – alzò appena una spalla e convenne: “Sì, lo richiameremo appena avranno passato Pavia.”

“Cesare, scrivete a Gian Piero Landriani e ditegli che presto verrà sostituito, come gli avevo anticipato. Si organizzi per restare a Imola, o per andare dove preferisce. Non ho intenzione di tenerlo legato a queste terre.” sospirò Caterina, con Giovannino sempre appollaiato in braccio: “E se volesse raggiungere suo figlio Piero a Forlimpopoli, che sia chiaro che è libero di farlo, ma che non lo faccia solo per convincerlo a lasciare la sua rocca.”

Il castellano prese mentalmente nota di tutto e poi disse piano: “E la condotta per messer Ottaviano?”

Nel sentir citare il suo primogenito, ogni giorno più inutile, svogliato e scostante, la Tigre avvertì un peso sullo stomaco. Appoggiò il suo ultimogenito sul tavolone su cui era stesa la mappa d'Italia e, tenendolo un po' per un braccio per paura che ne cadesse, scosse la testa e basta, come a dire che non c'era ancora nulla di fatto.

“Notizie da Tommaso?” provò a chiedere di rimando e fu il turno del Feo di scuotere piano il capo, con gli occhi intristiti.

Dopo qualche minuto ancora di confronto, la Sforza richiamò a sé tutti i Capitani presenti e, davanti alla mappa, su cui stava ancora Giovannino, fecero il punto della situazione. Era snervante attendere di continuo, sapendo di non poter far nulla per schivare la tempesta.

“Il papa non ha più avanzato pretese – concluse la Contessa, prima di congedare tutti – il che significa, come avevamo immaginato, che la richiesta di soldi era solo un pretesto. È il nostro Stato che vuole.”

'E la mia testa' soggiunse, solo nel proprio pensiero.

Deglutì un paio di volte e poi, una mano che sorreggeva la schiena del suo piccolo, indicò Roma sulla mappa e soggiunse: “State certi che anche se avranno il giglio di Francia, i soldati che arriveranno qui sono mossi da Rodrigo Borja. Caduta Milano, basterà loro il tempo di far la strada, e saranno qui.”

“E Firenze?” chiese a quel punto il Capitano Francesco Numai, che, come spesso accadeva, si dimostrava la voce critica del circolo ristretto di uomini della Tigre: “Ci aiuterà? Ha ancora qualche valore, la vostra unione con il Medici? Avete fatto pubblicare il vostro matrimonio e avete fatto sì che Bernardi rompesse l'anima a tutti parlandone giorno dopo giorno... Ci servirà a qualcosa o sarà solo una spesa?”

La notizia della cauzione chiesta da Lorenzo il Popolano era circolata in fretta tanto quanto le chiacchiere circa le notti brave che la Contessa si concedeva in quel periodo. Solo che in tanti non avevano capito che quei soldi sarebbero uscite dalle sue tasche, al massimo da quelle di Luffo Numai, e non certo da quelle dello Stato.

“Firenze non ci è nemica.” rispose un po' piccata la donna, scorgendo Galeazzo che, silenzioso, la osservava preoccupato: “Ma non ci è nemmeno amica, in questo momento. Dobbiamo comportarci come se non esistesse.”

Il Capitano sollevò un sopracciglio e, puntando gli occhi verso i segnalini di legno che indicavano le truppe della Repubblica nel Pisano, commentò: “Difficile da farsi.” e poi, spostando lo sguardo in modo plateale su Giovannino, il simbolo più evidente e inconfutabile del legame tra Firenze e Forlì, ripeté: “Davvero difficile.”

Caterina non ribatté, andando avanti come nulla fosse, anche se quell'ultimo scambio di battute l'aveva destabilizzata abbastanza.

Quando arrivò a sciogliere la riunione, ebbe appena il tempo di dare le ultime disposizioni al castellano, in merito al grano che sarebbe arrivato di lì a poche ore, e ad affidare Giovannino a Galeazzo, prima di essere raggiunta dal Capitano Bezzi, che non aveva preso parte al Consiglio di Guerra.

“Mia signora, alle porte della città c'è messer Giovanni da Casale. L'abbiamo lasciato entrare e tra poco sarà qui alla rocca.” disse il soldato.

Caterina, siccome era passato da un po' il mezzogiorno, si era aspettata di riavere per sé il suo amante come minimo il giorno dopo. In fondo anche lui, nella sua ultima lettera, aveva preventivato di poter ritardare l'arrivo fino al 30.

Sentiva il cuore battere rapido. In quel momento capiva quanto l'assenza del milanese fosse stata pesante per lei. Voleva rivederlo, risentire la sua voce e l'odore della sua pelle. Le mancava più di quanto, forse, fosse lecito.

Cercò di non dare a vedere, comunque, il suo stato di profonda agitazione. Stringendosi una mano nell'altra, disse a Galeazzo di andare pure, e il ragazzo, con in braccio il fratellino, fece come gli era stato detto, anche se con una strana inquietudine nel petto. Sapeva benissimo che cos'era Pirovano per sua madre e immaginava come si sarebbero ritrovati.

Ne ebbe una mezza conferma quando sentì la donna dire al Capitano Bezzi: “Accoglietelo voi e ditegli che lo aspetto nella mia stanza.”

“Andiamo, Giovannino...” sussurrò allora il Riario all'orecchio del fratello, mentre lo portava fuori dalla Sala della Guerra, dirigendosi con sicurezza verso le scale, per scendere fino alla sala delle armi, il più lontano possibile dalla stanza della Tigre: “Nostra madre ha da fare...”

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas