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Autore: crazy lion    26/06/2019    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Sarò breve perché il capitolo è lungo (e ho pure fatto dei tagli). Nel prossimo, che ho già impostato, si parlerà di tutti i giorni prima del battesimo. Magari alcuni li descriverò più in fretta o li salterò, parlando solo dei momenti importanti. Dal prossimo capitolo la storia sarà un po' più veloce, diciamo, per quanto riguarda le tempistiche. Cercherò di non renderla troppo frettolosa, comunque.
Qua ci sono alcuni passi avanti, delle cose che accadono sono molto importanti. Altre sono lasciate volutamente in sospeso.
Dopo questo me ne mancano solo undici, signori! Solo undici!
Buona lettura!




ATTENZIONE!
In questo capitolo citerò la saga Luce e ombra dell'autrice Emmastory e alcuni personaggi presenti in essa (Christopher, Kaleia, Sky, Noah, Eliza e Bucky). La scrittrice, che fra l'altro è una mia carissima amica, mi ha dato il permesso di inserirli nella mia storia per utilizzarli. In che modo, lo vedrete solo leggendo.
Preciso che non ho riportato parti di quei libri e che l'unico dialogo che ho scritto tra due personaggi è inventato da me, e anche per questo ho avuto l’autorizzazione.
Grazie, Emmastory. Sei stata gentilissima! Ti voglio bene.
Vi consiglio di andare a leggere quella saga: è meravigliosa.
 
 
 
Your heart got me hurting at times
Your heart gave me new kind of highs
Your heart got me feeling so fine
So what to do
Still falling for you
Still falling for you
 
It took us a while
With every breath a new day
With love on the line
We've had our share of mistakes
But all your flaws and scars are mine
Still falling for you
Still falling for you
 
And just like that
All I breathe
All I feel
You are all for me
I'm in
And just like that
All I breathe
All I feel
You are all for me
No one can lift me, catch me the way that you do
I'm still falling for you
 
Brighter than gold
This love shining brighter than gold
This love is like letters in bold
This love is like out of control
This love's never growing old
You make it new
Still falling for you
Still falling for you
(Ellie Goulding, Still Falling For You)
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 108.
 
SENSI DI COLPA E CHIARIMENTI
 
Demi non aveva visto Mary, quel giorno. Un po' le dispiaceva, ma in parte era sollevata perché non aveva molta voglia di parlare e non voleva sembrare assente come invece era. Il suo corpo era lì, ma la testa si trovava da tutt'altra parte, il suo cervello si era fermato alle cinque parole che aveva detto ad Andrew e che, forse, avrebbero rovinato ogni cosa fra loro.
O magari l'hanno già fatto, solo che tu ancora non te ne rendi conto.
Fu colta da un breve ma intenso tremore. Se qualcuno l'aveva vista forse aveva pensato che era strano avere freddo a novembre, un mese che quell'anno era mite, e non aveva di certo capito che erano il suo cuore e la propria anima a percepire quel gelo. Doveva sbrigarsi, se voleva che Hope arrivasse in tempo all'asilo. Erano le otto ormai. Risalì in macchina, dove la bambina la aspettava.
"Mamma?" chiese la piccola, seduta nel seggiolino.
"Sì?"
Hope attese qualche momento continuando a guardarla, poi chiese:
"Giochi?"
talmente piano che Demi fece fatica a sentirla e le lacrime negli occhi della figlia la allarmarono. Non sembrava un semplice capriccio, la bambina pareva davvero triste.
"Cosa?" domandò la ragazza e Hope le fece capire, tra parole smozzicate e frasi dette a metà, che da qualche giorno non giocavano più insieme. Demi avrebbe voluto dirle che l'avrebbero fatto più tardi, nel pomeriggio. Sapeva che non bisogna sempre accontentare i bambini, che non si deve ascoltare ogni loro richiesta o capriccio perché in quel modo li si educa male. Ma non ci riuscì. Hope aveva ragione, eccome se ce l'aveva! In quegli ultimi giorni Demi le aveva prestato molta meno attenzione del solito quasi senza rendersene conto. Si era sempre occupata di lei, ovvio, ma non aveva quasi mai giocato con la bambina perché nella sua testa c'era solo Mackenzie, per un sacco di motivi. Prima di tutto perché la situazione a scuola non era facile, poi perché la bambina non ricordava, perché era ammalata, perché insomma aveva parecchi problemi. A volte capita che, quando un figlio è in difficoltà, di qualsiasi cosa si tratti, i genitori stiano più dietro a lui anche se ne hanno altri magari più piccoli. Non lo fanno con cattiveria, anzi, a volte nemmeno se ne accorgono. Il fatto è che vedono quel figlio o quella figlia come il più debole e il più bisognoso ma, se da una parte è vero e giusto, dall'altra se tutto ciò viene portato avanti, alla lunga gli altri ne soffrono molto. Hope era ancora piccola ed erano passati soltanto cinque giorni, ma Demi in quel momento si sentì una madre e una persona orribile e schifosa. Come aveva potuto? Non c'era solo Mac, nella sua vita. Hope aveva bisogno di giocare per stare bene e lei, la sua mamma, non le era rimasta accanto.
"Amore mio!" esclamò, uscendo dall'auto e aprendo una delle portiere del passeggero. Accarezzando il visetto paffuto della bambina, Demi mormorò: "Adesso andiamo un pochino a casa, okay? Giochiamo e poi ti porto all'asilo."
In caso di problemi o ritardo, i bambini venivano fatti entrare anche dopo le otto, fino alle otto e mezza al massimo. Non avevano molto tempo, ma era pur sempre qualcosa.
Demi non era una che approfittava di questa possibilità senza una ragione, e forse quella ad un occhio esterno poteva apparire poco importante ma a lei, soprattutto in un momento del genere, lo sembrava particolarmente. Doveva essere al lavoro alle nove circa, per cui avrebbe fatto in tempo e se in quella mezzora poteva giocare con sua figlia beh, tutto considerato non ci avrebbe di certo rinunciato.
Hope sorrise felice e le due tornarono a casa. Quando Demi la prese per farla scendere, la piccola non volle camminare e, non appena la madre la strinse a sé, rise e lanciò gridolini di gioia.
Una volta dentro andarono subito sul tappeto e la bambina tirò fuori i peluche di due gatti.
"Gatti" disse infatti a voce piuttosto alta, sicura che quella parola si pronunciasse così.
"Sì, brava."
Demi ne prese uno e, dopo averli fatti avvicinare, le due fecero finta di essere ognuna il proprio micio e si presentarono a vicenda, dopodiché iniziarono a muoverli come se volessero farli rincorrere. Hope rideva un sacco, lanciava grida eccitate e Demi, contagiata dalla figlia, sorrideva a sua volta. Tuttavia, ne era consapevole, il sorriso non le arrivava agli occhi. Era spento, lo sentiva. Faceva attenzione ai leggerissimi movimenti dei propri muscoli facciali e si rendeva conto che quei sorrisi erano sì sinceri, ma un po' forzati. Se Hope fosse stata più grande e se ne fosse accorta, o se in quel momento qualcuno l'avesse vista, avrebbe definito quell'espressione "sorriso triste", uno di quelli che sembrano dire:
"Qualcosa non va."
"Mamma, PC" disse Hope dopo poco.
Aveva imparato a pronunciare quell'acronimo da un po', era sicuramente più facile di "computer". Si era stancata presto del gioco e Demi sapeva cosa desiderava.
"Va bene." Si avvicinò al tavolo, tirò fuori il portatile e i cavi dal borsone in cui li teneva per proteggerli meglio e collegò i fili, poi la prese in braccio e si sedette. "Adesso lo accendiamo" continuò, guidando la mano della bambina e facendole premere un bottone. Mentre aspettavano che si avviasse, la ragazza non smise di parlare. "Per me tu e tua sorella siete la cosa più importante. Sei molto piccola e non lo puoi capire, ma è così. Ho sbagliato con te in questi giorni, mi dispiace. Non avrei dovuto, non succederà più."
Hope la guardò, le sorrise e le prese una mano nella sua, per quanto le fosse possibile visto che quella della mamma era più grande, e gliela strinse. In quello sguardo Demi lesse una singola frase:
Ti perdono per non aver giocato con me.
Ovvio era che Hope non potesse provare rancore, ma che sentisse la solitudine; e, dato che la donna credeva che per dire ad un bambino piccolo "Ti voglio bene" uno dei modi più efficaci fosse quello di giocare con lui, come le aveva detto un suo professore una volta, sentì che quel peso che si portava dentro era più leggero e faceva meno male. Guardò ancora gli occhi innocenti di sua figlia e si commosse, cercando però di nascondere un imminente pianto con un colpo di tosse. Non voleva turbarla.
"Ti voglio bene. Tantissimo."
Intanto Hope le accarezzava i capelli e ogni tanto ci giocava. Rise un sacco quando Demi le fece il solletico e poi finse di mangiarle la pancia.
"E se ti mangio tutta che fai? Eh?" chiedeva, solleticandole anche i fianchi.
La risata dei bambini è la cosa più bella del mondo, la ragazza l'aveva sempre pensato. Intanto il computer si era avviato e, dopo essere andata sul Desktop, aprì il browser e scrisse l'indirizzo di un sito web di scrittura che visitava da un po’. L'aveva scoperto per caso da alcuni mesi scrivendo un indirizzo in modo sbagliato e ci si trovava già molto bene. Ovvio era che non leggesse quotidianamente, anche se avrebbe voluto, e che dato che tra il lavoro, le figlie e la casa non aveva molto tempo, si dedicasse alla lettura solo una mezzoretta ogni sera. Non credeva avrebbe scritto mai nulla, ma le piaceva tanto leggere anche se, purtroppo, non tutte le storie erano di qualità. Non aveva creato un account e probabilmente non l'avrebbe mai fatto. Le sarebbe piaciuto, ma sapeva che sarebbe stato necessario scrivere un nickname e, se avesse cominciato a conoscere qualcuno tramite messaggi privati, avrebbe dovuto nascondere la sua vera identità. Altrimenti, non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe successo. Un delirio, di sicuro. E lei non voleva tutto questo, non desiderava mettersi nei guai e mentire alla gente. Il suo unico obiettivo era leggere qualcosa su un sito di storie come facevano tutti gli altri milioni di persone iscritte o che, pur non essendolo, lo visitavano ogni giorno. Dato che non aveva un account non le era possibile leggere quelle a rating rosso, per adulti. Ma onestamente, non gliene poteva importare di meno. Le dispiaceva solo non avere la possibilità di commentare. Moltissimi racconti erano in inglese, ma vi si potevano trovare scritti in tante lingue, sia fanfiction che storie originali. Aveva letto alcune fanfiction su di lei e, fino ad ora, non ne aveva trovata nessuna di offensiva che la dipingesse come una criminale o in altri modi orrendi. Sapeva da molto cos'erano le fanfiction e che le RPF, Real Person Fiction ovvero storie sui personaggi famosi, non sempre li raffiguravano come brave persone. Certo, alcuni autori scrivevano di problemi che le celebrità avevano veramente avuto, magari leggendo biografie o documentandosi in altri modi, altri invece li facevano apparire come gente schifosa. In certe lei era un personaggio famoso, in altre invece, con l'avvertimento Alternative Universe, era una ragazza normale. E questo non le dispiaceva. Quello che le avrebbe fatto male sarebbe stato vedere uno scritto in cui lei, usata o meno come prestanome, faceva la parte della prostituta, o di una persona con tanti amanti, o di una criminale… Era vero, era tutto inventato, ma Demi credeva che non le sarebbe piaciuto per niente leggere un racconto simile. Sarebbe stato orribile, e una mancanza di rispetto da parte degli autori nonostante il disclaimer. Aveva trovato storie in cui altri cantanti, sempre con l’avvertimento Alternative Universe, venivano raffigurati come dei drogati o dei criminali quando non lo erano mai stati e aveva chiuso subito. Grazie al cielo il sito aveva un regolamento piuttosto rigido e vietava di scrivere che cantanti o attori fossero descritti come assassini o stupratori. Almeno quello! All'inizio, quando aveva letto le prime fanfiction sul proprio conto, si era sentita male al pensiero che pur non offendendola la gente avesse inventato fatti che lei non aveva mai vissuto. Come potevano fare una cosa del genere? Com’era possibile che questo fosse legale, che qualcuno lo permettesse? Le si era annodato lo stomaco in una morsa di dolore e aveva pensato di smettere di leggere, poi di scrivere all’amministrazione. Ma sapeva da anni cos’erano le fanfiction e della loro esistenza, quindi perché solo ora stava così male? Forse perché per la prima volta ne leggeva alcune. Si era presa qualche giorno per riflettere sulla situazione, tentando di calmarsi e non entrando più nel sito. Superati il malessere e la rabbia iniziali, l’aveva riaperto a mente più fredda e si era detta che in fondo erano solo storie e non nuocevano a lei o alla sua immagine in alcun modo, quindi le accettava. Se l’avessero offesa, sarebbe stato un altro discorso. Alcune erano divertenti e la facevano ridere, altre molto profonde, anche quelle in cui non era famosa ma una semplice ragazza. La facevano sentire normale, come tutti gli altri e non le dispiaceva affatto. Adorava leggere di come alcuni autori trattassero problemi come anoressia, bulimia e autolesionismo con tatto e sensibilità, magari riportando parole che lei stessa aveva detto in alcune interviste, e di come cercassero di calarsi in lei e di rappresentare, quanto più fedelmente possibile, i soi sentimenti. Non li avrebbero mai conosciuti fino in fondo, era ovvio, ma Demi si sentiva comunque felice di leggere quegli scritti.
Entrò nella sezione delle storie originali, quindi completamente inventate, e cercò l'autrice Emmastory. La seguiva da poco e le piaceva tantissimo il suo modo di scrivere. Aveva uno stile leggero e fluido che l'aveva catturata e scriveva in un inglese perfetto. Ora stava amando alla follia la sua ultima saga, "Luce e Ombra", e stava leggendo la seconda parte anche se la ragazza stava già lavorando alla terza. La prima, "Luce e ombra: Il Bosco delle fate", che lei aveva appena fatto in tempo a godersi, non era più presente perché l'autrice aveva deciso, scrivendolo anche sul profilo, di farne un libro. La stava quindi editando e poi l'avrebbe mandata a qualche casa editrice. Demi leggeva quelle storie anche a Hope e Mackenzie. In fondo, anche se non erano favole e se la bambina più piccola non capiva tutto, non c'erano scene violente o troppo forti per nessuna delle due. Si disse che avrebbe riletto quel capitolo per Mac la sera.
"Eravamo arrivate al numero dieci" mormorò mentre scorreva con il mouse. "Andiamo al seguente. Eccolo qui!" esclamò. "Si intitola "Persa e ritrovata". Mi piace! A te piace, Hope?"
"Sì!" rispose la bambina battendo le mani, anche se non aveva capito cosa significavano quelle parole.
Demetria cominciò a leggere mentre la figlia guardava prima lei e poi lo schermo, come se credesse che i personaggi di cui la mamma parlava potessero uscire dal monitor da un momento all'altro e venire lì a giocare con lei. In effetti le sarebbe piaciuto molto e non capiva perché non accadeva. Non doveva essere tanto difficile! La mamma le aveva detto qualcosa sul fatto che non esistevano, ma lei non ci credeva. Esistevano eccome, e un giorno li avrebbe trovati e conosciuti tutti. La storia che Demi stava leggendo era quella della fata Kaleia che viveva nel bosco di Primedia con la mamma adottiva Eliza e la sorella Sky, più grande di lei di appena due anni. Trovare proprio quella storia tra le originali non era stato un caso, Demi ne era certa. Comunque la fata era adulta e viveva le sue avventure anche assieme a Christopher, il suo protettore o, in altre parole, un insegnante. In realtà era molto di più, visto che il rapporto tra fate e protettori era davvero profondo. Il capitolo non era molto lungo, come tutti gli altri del resto. Nonostante avesse poco tempo Demetria amava i capitoli corposi ma c'era da dire che quelli di Emmastory non erano nemmeno troppo corti. Arrivarono ad un punto in cui Kaleia trovava una piccola pixie di nome Lucy e diceva che poteva avere sei anni.
"Sei, come tua sorella" disse Demi fermandosi un momento.
"P-p-pixie" riuscì finalmente a dire Hope. "Cos'è?"
"È una fatina piccola."
Era consapevole del fatto che le pixie e le fate sono creature diverse, ma non avrebbe saputo come altro spiegarlo a una bambina della sua età. In ogni caso, l'autrice aveva scritto una nota per spiegare che in quella saga le fate e le pixie erano grandi come gli umani, anche se la loro nascita e i primi due mesi di vita erano differenti. Non sapeva ancora in che modo, Emmastory aveva detto che avrebbe spiegato tutto più avanti e Demi non vedeva l'ora di scoprirlo. Aveva anche aggiunto che, nonostante in effetti pixie e fate fossero creature diverse, nella sua saga non lo erano. In fondo quella storia piaceva molto anche alla donna e, se Hope la vedeva semplicemente come una favola, com'era giusto che fosse, la mamma ne coglieva anche i momenti più difficili e drammatici per i personaggi e i messaggi profondi che lanciava. Si commosse nel leggere che la piccola pixie Lucy si era persa e non trovava più i suoi genitori e che Kaleia, buona e dolce com'era, si offriva di aiutarla. Quella fata le ricordava un po' lei stessa caratterialmente parlando e pensava che sarebbe stata una buona madre. Lo credeva anche di Sky, benché lei avesse un carattere completamente diverso.
"Lucy" disse Hope. "Kia!"
"Sì, amore, brava."
Demi le scompigliò i capelli e le picchiettò la punta del naso facendola ridere. Kia era il modo in cui la bambina aveva abbreviato un nome difficile come quello di Kaleia, che tra l'altro Demetria trovava bellissimo.
"Lo scoiattolo come si chiama?"
Hope si fece improvvisamente seria e concentrata. Iniziò a fissare lo schermo e le lettere come se riuscisse a leggerle, poi guardò Demi e chiese:
"Cky?"
Ci era quasi arrivata.
"Si chiama Bucky" le rispose la ragazza, scandendo bene e con lentezza quel nome, "ma è un po' difficile, lo so. Lo imparerai presto."
"Cky!" esclamò di nuovo la bambina, indicando il cesto dei giocattoli e ridendo.
"Coraggio, vai a prenderlo."
Hope scese dalle gambe della mamma e corse sul tappeto, poi prese dal cesto dei giocattoli il peluche di uno scoiattolo marrone, con una striscia bianca sulla schiena e i cuscinetti delle zampe rosa.
L'autrice di "Luce e ombra", pur non essendo ancora diventata famosa, aveva tantissime recensioni e visualizzazioni a quella e alle altre sue saghe e storie. Forse questo era dovuto anche al fatto che aveva pubblicizzato i suoi lavori su Facebook e Instagram, dove tra l'altro Demi la seguiva. Aveva avuto talmente tanti riscontri positivi che aveva deciso di far fare una linea di gadget di animali e bambole dell'ultima saga e l'aveva annunciato non solo sul suo profilo del sito di scrittura, ma anche sui social network incluso Instagram, dove aveva pubblicato delle foto dei prodotti. Ovviamente le fan erano impazzite e tra loro Demi che, pur non scrivendo niente e mantenendo un certo autocontrollo, si era detta che prendere qualche gadget non sarebbe stato affatto male. Aveva girato vari negozi di giocattoli di Los Angeles finché ne aveva trovato uno dove li aveva visti. Dato che non ce n'erano ancora molti in giro costavano parecchio, ma un po' perché era fan lei stessa e  un po' per far contente le figlie, le aveva portate con sé a sceglierli.
Mackenzie era appena guarita dalla febbre e la donna era stata in dubbio se farlo o meno, quindi l'aveva coperta bene e si erano recate al negozio la mattina molto presto, quando ancora nonostante la sua grandezza c'era poca gente. Erano andate subito al sesto piano dove la mamma aveva notato quei giocattoli qualche giorno prima.
Dove sono? aveva domandato Mackenzie pestando i piedi.
Da quando erano partite non era riuscita a stare ferma nemmeno per un attimo.
"Non ricordo, ma ora li troviamo."
La bambina, però, aveva avuto paura che questo non sarebbe accaduto. Vedevano bambole, bambolotti, peluche vari, ma nessuno che avesse sulla scatola la firma dell'autrice, come lei invece aveva detto, e il nome del personaggio della saga. Dopo alcuni minuti, Mackenzie aveva abbassato lo sguardo e iniziato a demoralizzarsi. Forse erano andate troppo tardi, magari erano già finiti e non ne avrebbero trovati mai più. Lei ci aveva sperato davvero tanto, sapeva già chi avrebbe scelto e si era fatta tante illusioni, immaginandosi quanti bei giochi avrebbe fatto con quella bambola. I suoi occhietti si erano riempiti ben presto di lacrime, ma si era premurata di nasconderlo perché la mamma non ci stesse male. In fondo era stata gentile a portarle lì con lei e non a comprare peluche o bambole a caso che magari a loro non sarebbero piaciuti.
"Scusi," aveva chiesto Demi a un commesso, "sa dove possiamo trovare i gadget di "Luce e ombra"?”
"Sono arrivati da poco, aspetti un secondo" le aveva risposto, poi se n'era andato. Poco dopo era tornato e le aveva invitate a seguirlo. "Eccoli qua, ne abbiamo pochissimi ma spero sia abbastanza. Nei prossimi giorni ne arriveranno di più."
Erano tra i primi scaffali, ma comunque un po' nascosti e nessuna delle tre se n'era accorta. Si trovavano su un ripiano molto piccolo rispetto agli altri, e c'erano solamente una decina di scatole sulle quali c'era scritto in grande e in maiuscolo:
LUCE E OMBRA
sotto il nome dell'animale, o della fata o umano in questione, un suo disegno e infine il nickname dell'autrice.
Mackenzie aveva spalancato gli occhi come se avesse visto il Paradiso.
Mamma, mamma, possiamo prenderli tutti? aveva chiesto, continuando a muovere freneticamente le braccia e le gambe e dondolandosi a destra e a sinistra.
Demi aveva sorriso.
"No, tesoro. Di sicuro ci saranno altre persone che li vorranno, magari anche dei bambini come voi. Ne compreremo uno a testa per te e tua sorella, va bene?"
La donna non aveva aggiunto che oltretutto costavano parecchio: cinquantacinque dollari per una bambola e quarantacinque per un peluche erano davvero molti.
E per te?
La ragazza stava per dire che avrebbe potuto farne anche a meno. In fondo non c'erano molti giocattoli ed era giusto che li avesse un bambino piuttosto che un'adulta, ma poi l’aveva vista: Eliza, l'umana che aveva trovato Kaleia e Sky sole nel bosco, due bambine di sei e otto anni che non ricordavano nulla dei loro genitori né della vita che avevano fatto prima di quel momento, e che per fortuna avevano trovato quella donna che le aveva accolte nella sua casa e cresciute come delle figlie. Non poteva non prendere quella bambola.
"I-io," balbettò, "comprerò questa."
Aveva preso con decisione la scatola e se l’era portata al cuore, quasi che il giocattolo all'interno fosse una persona vera.
Mackenzie all'inizio non aveva saputo quale scegliere. Kaleia, Sky, oppure i loro ragazzi Christopher e Noah? Poi si era concentrata sulle prime due. Kaleia forse assomigliava un po' più a Hope. Supponeva che, essendo la minore, da piccola si fosse fidata subito di Eliza, come aveva fatto sua sorella con la loro mamma adottiva, mentre lei i primi tempi, soprattutto quando Demi ed Andrew erano andati a trovarle, era stata quasi sempre distante. Adesso però era tutto diverso, da molto tempo. Quale scegliere? Alla fine aveva preso Sky, perché tra le due le era sempre parsa quella più sola e, forse, chiusa.
Vorrei anche l'altra, mamma aveva detto poi, perché non è giusto che Sky stia male e si senta sola.
"Non è più sola, tesoro. Nella saga ha una famiglia, e la bambola ha te adesso."
Essendo una bambina, Mac credeva che le bambole e i giocattoli potessero avere dei sentimenti ed era giusto che fosse così, per cui Demi rispettava tutto ciò e anzi la invidiava.
Erano andate in un altro negozio perché poco dopo era arrivata una bimba di circa quattro anni che aveva preso Kaleia sorridendo tutta contenta, e poi Demi avrebbe voluto prendere a Hope Darlene, la compagna di Bucky, che a differenza di lui era grigia. Grazie al cielo li avevano trovati e le bambine erano tornate a casa felici.
Certo, quel pomeriggio la ragazza aveva fatto delle spese pazze, non credeva di aver mai speso tanto per dei giocattoli. Ma una volta nella vita si poteva anche fare.
Mentre pensava a tutto questo la ragazza continuava a leggere, cercando di cogliere tutte le espressioni e le intonazioni dei personaggi per coinvolgere di più la bambina che, intanto, muoveva il suo pupazzo avanti e indietro sulle gambette.
Poco dopo il capitolo terminò e, nonostante le proteste di Hope, la mamma le fece capire che era ora di andare e che avrebbero continuato presto.
Dopo averla portata all'asilo, la ragazza si diresse allo studio di registrazione dove ad aspettarla c'era tutto il suo team. Come ogni mattina, prima di cantare la attendevano i suoi consueti esercizi di riscaldamento che eseguiva per riscaldare la voce in modo da averla più ferma e potente in seguito. Per lei non erano noiosi, almeno non più e anzi, li riteneva di fondamentale importanza.
"Pronta?" le chiese il vocal coach.
"Pronta."
Il pianista cominciò a suonare alcune note e l’altro uomo fece alcuni vocalizzi, poi le chiese se da lì sarebbe riuscita a continuare da sola. Lei rispose di sì e iniziò, ricordando di tenere la schiena dritta e di aprire bene la bocca respirando nel modo corretto. Doveva cantare con il diaframma, non con la gola, se voleva che le note uscissero pulite e potenti. Lo sapeva da molti anni ma se lo ripeteva sempre, soprattutto in giorni come quello nei quali non era del tutto concentrata e la sua testa era un po' fra le nuvole. Partì da alcune scale di note basse, poi salì verso quelle sempre più alte. Per fare queste ultime servivano uno sforzo maggiore e più fiato soprattutto se erano lunghe, per tale motivo usare il diaframma era importantissimo. Nonostante cercasse in tutti i modi di non ammalarsi, soprattutto durante i tour - anche se una volta, ahimè, le era successo - e cantasse ogni giorno, ogni volta rimaneva colpita dal fatto che la sua voce diventava molto più bella e potente mano a mano che faceva gli esercizi.
Nell'ora successiva fece un sacco di cose: cantò, registrò un'altra piccola parte del documentario, parlò con il suo manager e con chi le faceva pubblicità del giorno in cui far uscire il singolo "Sorry Not Sorry", ma si comportò sempre con un certo distacco.
"Sì, va bene" rispondeva in modo automatico quando le veniva fatta una domanda.
"Ehi, stai bene?" le chiese Phil. "È da quando sei arrivata che sei strana."
"Fisicamente sì, ma ho qualche problemino a casa."
"Mackenzie è stata male o ha altri problemi a scuola?"
"No."
"Hope?"
"No no, loro non c'entrano, stanno bene per fortuna. Abbastanza, diciamo. Senti, sei molto gentile ma non mi va di parlarne adesso. Continuiamo, d'accordo?"
"E se invece riprendessimo oggi pomeriggio? Scusa la franchezza, Demetria, perché lo sai che ti voglio bene, ma non mi servi a niente così."
"Hai ragione" mormorò lei, mentre il suo cuore sprofondava.
Aveva lavorato molto, sì, ma aveva sbagliato un sacco di volte parole e note, si erano dovuti fermare solo perché lei, stupida, non riusciva a separare la vita privata dal lavoro, il che era un gravissimo sbaglio. Era necessario farlo, anche se le cose andavano male. Ma lei era troppo sensibile e, di nuovo, troppo stupida. Avrebbe dovuto lasciare le bambine dalla mamma quel pomeriggio, perché Mackenzie aveva la psicologa e, se lei fosse stata al lavoro, non avrebbe potuto portarla. Non era possibile che si prendesse una giornata libera e non sarebbe stato corretto nei confronti del suo team. Si scusò mille volte con tutti e disse che sarebbe tornata all'una.
"Chiamami quando ti sei ripresa un po', okay? Mi preoccupo."
"Va bene, Phil. Comunque non è necessario tornare così tardi. Posso farlo tranquillamente tra mezzora. Vado a casa, mi riprendo un attimo e poi rientro in studio."
"Sei sicura?"
"Sì, non c'è problema davvero."
Non poteva sempre sacrificare il lavoro, spostarlo, non venire quando aveva problemi. Tantissime persone lavoravano nonostante fossero in difficoltà molto più serie di lei e Demi non trovava rispettoso comportarsi così, né per Phil, né per il suo team e neanche per se stessa.
"Come vuoi, riprenditi eh?"
"Contaci!"
Una volta uscita, stava per chiamare la madre quando ricevette una telefonata.
"Pronto?"
"Pronto Demi, sono Catherine."
"Oh, ciao! Come stai?"
"Bene, grazie. Senti, io purtroppo oggi ho un problema. In questo momento sono… sono in ospedale con mio figlio."
Non stava bene, allora, ma dalla voce sembrava tutto normale.
"Oddio, mi dispiace!"
Demi non sapeva cosa dire e continuava a chiedersi se era il caso di domandarle cos'era successo o meno.
"Ha l'appendicite. Ieri era strano e oggi l'ho portato in pronto soccorso. I medici hanno faticato a fare la diagnosi ma purtroppo succede spesso in bambini così piccoli con questo problema, e più passa il tempo più il problema può, insomma, aggravarsi.” Deglutì rumorosamente. “Grazie al cielo hanno capito cos’era prima che ci fossero conseguenze più gravi. Lo opereranno fra poco e sono… oddio!"
La sua voce si spezzò. Pur sapendo che era un'operazione semplice e che la situazione non era gravissima, Catherine era una madre ed era molto preoccupata. Si sentiva in colpa per non essersene accorta prima, si domandava se avrebbe potuto fare qualcosa per evitarlo.
"Catherine, tranquilla. Non pensare a noi, Mackenzie verrà un'altra volta."
"È che ho dovuto chiamare tutti i genitori dei pazienti di questi giorni e continuo a dire la stessa cosa a ripetizione." Tirò su con il naso, poi riprese: "Se tutto va bene potremmo fare venerdì. Magari non farò tutti i bambini che avrei quel giorno, solo i casi più, passami il termine e non spaventarti, urgenti. I miei genitori potrebbero stare con George."
"Fai come ti senti. Se vedi che lui ha bisogno di te, rimandiamo a quando le cose andranno meglio."
Non voleva mettere prima il lavoro del figlio, non l’avrebbe mai fatto anche se da quel discorso poteva sembrare così. Aveva solo molte cose da organizzare e a cui pensare, e pur avendo i suoi, essere una madre single non era di certo facile.
"Grazie."
"Andrew lo sa?"
"No, in realtà nella confusione non mi è nemmeno venuto in mente di chiamarlo. Puoi dirglielo tu, per favore? Può telefonarmi se vuole."
"Sì, non c'è problema. C'è qualcuno lì con te?"
Avrebbe voluto chiederle se desiderava che venisse lì, ma non le parve il caso.
"Stanno per arrivare i miei, non preoccuparti. Allora ti faccio sapere."
"D’accordo. Pregherò per tuo figlio, se può servire."
"Certo che sì!"
Demi cercò di fare coraggio alla donna, poi la salutò. All’inizio non era stato così, ma poi le era parsa distrutta e lei, da madre, conosceva bene quella sensazione orribile. Chiamò sua mamma per informarla di tutto, poi salì in macchina e partì.
Poverino, pensò, ha sedici mesi e deve già subire un intervento. E tutto quel dolore che starà sentendo! Aiutalo, Signore.
Tornò a casa e si sdraiò un po' sul divano mentre Batman le leccava il viso, si fece una tisana ai mirtilli e mangiò un paio di biscotti ma si sentì, se possibile, peggio. Il suo malessere non era fisico, non sarebbe stato il cibo a placarlo. Tornò sul divano e rimase lì a fissare il vuoto cercando di svuotare anche la mente, poi chiamò lo studio di registrazione ma non rispose nessuno, così lasciò un messaggio in segreteria.
"Buongiorno, sono Demi Lovato. Per favore, qualcuno potrebbe dire a Phil che sto troppo male e non ce la faccio a tornare stamattina? Vengo nel pomeriggio, giuro! Grazie e arrivederci."
Sì, si stava contraddicendo da sola. E lo odiava. Odiava sentirsi tanto instabile. Per sicurezza mandò un SMS anche al suo manager, dato che non lo trovò al cellulare, poi uscì e risalì in macchina.
Guidò fino a fuori città andando anche piuttosto forte nonostante il traffico. Voleva stare da sola, isolarsi da tutto e da tutti per un po' e sapeva benissimo dove sarebbe andata. Dopo circa venti minuti di auto - avrebbe fatto quella strada in più di mezzora se avesse guidato con prudenza - decise di andare a piedi. Mandò un messaggio a Phil scrivendogli che era andata a fare una passeggiata e poi si mise in cammino. Lì l'aria era più pulita, più fresca e c'erano meno macchine. Tuttavia Demi non si guardò molto intorno e proseguì. Ben presto la strada divenne ghiaiosa e in salita. Si stava arrampicando su una collina e andò avanti, maledicendosi per non aver portato un po' d'acqua o qualcosa da mangiare. Mentre procedeva non pensava a niente, la sua testa era vuota. Tuttavia, questa consapevolezza non la faceva sentire meglio. Fu solo quando si inoltrò nel bosco, dopo aver camminato per quella che le parve un'eternità, che si fermò e si sedette contro un albero. Le lacrime le annebbiarono ben presto la vista, riempiendole sempre più gli occhi stanchi. Non aveva dormito la notte precedente e non sapeva se avrebbe avuto la forza di alzarsi. Alzò un po’ le braccia e le fece ricadere pesantemente sulle ginocchia. Desiderava solo sdraiarsi, ma le sembrava poco igienico farlo su un terreno umido e pieno di erba e terra, sul quale erano passati chissà quali e quanti animali. Eppure non si sentiva a disagio in quel posto, anzi era proprio lì che desiderava essere, non avrebbe voluto trovarsi da nessun'altra parte al mondo. Aveva bisogno di starsene in pace, con la natura come unica compagna. Le capitava così poco di volere una cosa del genere, che aveva intenzione di godersi quella sensazione almeno per un altro po', se i pensieri gliel’avessero concesso. L'aria sapeva di speranza, di serenità, tutte cose che in quel momento lei non provava. Era un periodo difficile e sfortunato, non aveva problemi ad ammetterlo. Intorno a lei c'era solo il silenzio. Ogni tanto si sentiva, in lontananza, qualche uccellino cantare, il rumore di una brezza leggera che spirava fra le fronde spoglie degli alberi e il fruscio delle foglie sollevate da essa. La penombra che i rami creavano conciliava il sonno, ma Demi non si lasciò vincere da esso. Chiuse le palpebre per un momento e poi le riaprì, scossa da un forte tremore che comera venuto se ne andò. Si piegò in avanti e si chiuse a riccio. Il posto che aveva scelto, quello in cui Andrew l'aveva portata il giorno del suo dodicesimo compleanno, era perfetto per le persone sole e tristi. Quel giorno si erano divertiti, vero, ma avevano anche parlato di cose profonde. Solo poco tempo prima lei gli aveva confessato di essere autolesionista e l'aveva implorato di non raccontare nulla a nessuno. Il 20 agosto 2004, invece, gli aveva quasi confessato di essere vittima di bullismo. Quasi, perché poi aveva fugato i dubbi del ragazzo con delle frasi inventate sul momento a cui lui, però, aveva creduto. Lei aveva anche cantato "Anything But Ordinary" di Avril Lavigne e lui aveva percepito in quei pochi versi tutta la sua tristezza e il suo dolore, credendo si riferisse solo all'autolesionismo e ai problemi con il suo corpo. Si erano seduti su un masso vicino al ruscello che Demi vedeva in lontananza e di cui ogni tanto udiva il gorgoglio. Ora però non voleva raggiungerlo. Stava molto meglio lì, nascosta dagli alberi, nascosta da tutto. Con Hope aveva rimediato un po', ma continuava a sentirsi una mamma schifosa anche per Mackenzie. Per quanto riguardava Andrew, poi, forse era meglio non parlarne, non pensarci.
"No," si disse subito dopo, "io invece devo proprio rifletterci! Ho sbagliato e devo sentirmi in colpa, devo darmi tutte le colpe di questo mondo perché è quello che merito."
Non avrebbe mai dimenticato le cose orribili che gli aveva detto. Mai. Aveva esagerato, aveva perso il controllo, ma questa non era una giustificazione. Anche se aveva adottato Hope e Mackenzie lei non era la mamma biologica, quindi avrebbe potuto tranquillamente dirsi:
“Tu non sei la loro madre”,
a questo punto. Ma se non lo era biologicamente lo era con l’anima, la mente e il cuore, e anche di fronte alla legge. E benché Andrew non le avesse ancora adottate, anche lui era sempre stato un padre per loro. Le aveva volute conoscere, era stato presente per entrambe sin dal primo giorno e le amava più della sua vita, come lei. Se era vero che le decisioni finali spettavano a Demi in quanto madre adottiva, lo era altrettanto che lui avesse il diritto di dire la sua e che alla fine potessero prenderle comunque insieme. Perché non l’aveva ascoltato?
Conosco Mackenzie pensò. So che reagirebbe male se le dicessimo della polizia, soprattutto ora.
Aveva cercato di nasconderlo, di negarlo a se stessa, di non rifletterci, ma era quella la verità.
Non sempre era stata fiera di sé, o almeno non riteneva di essere stata tale tutta la sua vita. C'era stato un periodo in cui, l'aveva detto senza problemi anche in un'intervista, non era stata una delle persone più carine di questo mondo, quando era stata male e soprattutto prima di entrare in clinica. Rispondeva male, si incazzava con tutti. Era un modo per difendersi, credeva, per dire che andava tutto bene, che dentro di lei l'inferno non era arrivato ad un punto in cui era diventato così grande e spaventoso da non poter, forse, tornare indietro. E il giorno prima, dopo la discussione, si era sentita di nuovo così. Sola nonostante tutto e tutti, fragile e anche stupida e cattiva. Lei voleva solo il bene per la sua famiglia, e invece ora le sembrava che portando Mac dalla polizia, soprattutto ora, avrebbe potuto commettere un grave sbaglio. Era stata così sicura parlando con Andrew, e invece adesso mille dubbi la assillavano. Era meglio non fare niente? O parlarne con Mackenzie e lasciar decidere a lei? O attendere fino alla settimana seguente? Non riusciva a mettere ordine nel disordine caotico dei propri pensieri.
"Ora basta!" urlò.
La sua voce non echeggiò molto, ma quel suono bastò a renderla ancora più triste. Era sola e lo desiderava, ma al contempo la solitudine la intristiva. Era un controsenso assurdo, se ne rendeva conto. D'altronde, si era sempre considerata una persona complicata. Incazzata con se stessa, scattò in piedi e, trovato un sasso, gli diede un calcio scagliandolo lontano. Corse come una furia fino al ruscelletto che ricordava e si sedette per un momento sul grande masso sul quale lei e l’allora migliore amico si erano accomodati molti anni prima. Che cosa sarebbero diventati, ora? Le sue parole potevano averlo ferito così tanto da indurlo a lasciarla, oppure a dire cose come:
"È meglio che ci prendiamo una pausa di riflessione"?
Sperava con tutta se stessa, dal più profondo del suo essere, che nessuna delle due ipotesi si verificasse perché ne avrebbe sofferto troppo. E con lei anche le bambine, che non avevano nessuna colpa. Cos'avrebbe raccontato loro per spiegare quanto era successo? Mackenzie non si sarebbe di certo accontentata di qualche parola, matura com'era. In parte credeva di meritare che Andrew la lasciasse: si era spinta troppo in là; un conto era offenderlo e ferirlo, un altro ben diverso era dirgli proprio quelle parole e fargli così tanto male.
Una volta una fan le aveva inviato una lettera nella quale le scriveva che il suo ragazzo, dopo sei anni di relazione, le aveva rivolto proprio quelle parole dopo un furioso litigio. Lei era tristissima e aveva detto che aveva iniziato a mangiare molto meno e a non uscire più, a trascurarsi. Demi si era sentita male per lei e aveva parlato di questo ai genitori. La risposta di Eddie era stata:
"Quando uno dei due dice che vuole prendersi quella pausa, significa che è finita tra loro",
il che aveva fatto stare Demetria ancora peggio. Non sapeva se alla fine i due si fossero lasciati o meno, ma si augurava di no. Voleva la felicità per ognuno dei suoi fan, quella felicità che si può trovare tutti i giorni nelle piccole cose perché sapeva benissimo che il "E vissero per sempre felici e contenti" delle favole non esisteva. Non era possibile essere sempre felici, ma forse era meglio così. Comunque, quando uno di loro soffriva e lei ne veniva a conoscenza stava male e cercava di aiutarlo come poteva. Negli anni aveva anche dovuto farsi una corazza per proteggersi da tutto quel dolore, per non esserne schiacciata.
Ritornò con la mente alla sua situazione, che era già abbastanza complicata e dolorosa. Anzi, molto dolorosa.
"Sei stata una stupida!" urlò lanciando un sasso in acqua. "Una deficiente! Una stronza! Una cogliona e un'insensibile!" Ad ogni esclamazione un'altra pietra, più grossa della precedente, finiva nell'acqua calma del ruscello alzando alti spruzzi. "Hai visto che cos'hai fatto? Eh? Hai rovinato tutto, probabilmente. E ti meriti di stare così male, adesso."
Da tanto non si disprezzava in quel modo. Si era detta di tutto quando soffriva di disturbi alimentari, aveva chiamato il proprio corpo e se stessa in maniere orribili e, ora, si sentiva male al solo ricordarle. Ma, se allora erano le malattie a parlare, adesso erano la sua mente e il proprio cuore e sapeva che, purtroppo, avevano ragione. Aveva fatto una grandissima cazzata, punto. Le gocce d'acqua le bagnavano i vestiti e anche il viso, tanta era la veemenza con la quale scagliava i sassi. Doveva liberarsi da tutto quel peso, dalla rabbia che provava nei confronti di se stessa, e per farlo muoveva braccia e gambe per sfogarsi e liberare l'energia che aveva in corpo. Batteva così forte i piedi che il terreno attorno a lei tremava leggermente e la terra si alzava finendole sui vestiti. Trovò una ghianda, la raccolse e ne accarezzò la superficie sporca, poi la pulì nell'acqua fredda e se la mise in tasca. Poi, quasi senza pensarci, iniziò a cantare.
"What have I done? I wish I could run
Away from this ship goin' under
Just tryin' to help, hurt everyone else
Now I feel the weight of the world is on my shoulders
 
What can you do when your good isn't good enough
And all that you touch tumbles down?
Cause my best intentions keep makin' a mess of things
I just wanna fix it somehow
But how many times will it take?
Oh, how many times will it take for me to get it right?
To get it right
 
Can I start again with my faith shaken?
Cause I can't go back and undo this
I just have to stay and face my mistakes
But if I get stronger and wiser, I'll get through this
[…]
So I throw up my fist, throw a punch in the air
And accept the truth that sometimes life isn't fair
Yeah, I'll send out a wish, yeah, I'll send up a prayer
And finally someone will see how much I care
[…]"
Non era una sua canzone ma non importava. Parlava del senso di colpa, del fatto che bisogna affrontare le conseguenze dei propri errori. Corse indietro e, lasciandosi andare contro l'albero di prima, scoppiò in un lungo e silenzioso pianto che esprimeva tutto il suo dolore. Si chiuse di nuovo a riccio e lasciò che le lacrime le bagnassero il collo e i vestiti. Si lasciò andare ai singhiozzi, non rendendosi conto del tempo che passava.
 
 
 
Per prima cosa, Andrew si diresse a casa dei genitori di Demi per capire come stessero - anche se lo immaginava - e quale fosse la situazione. Dianna si era un po' calmata ma, anche se non piangeva più, la voce tremolante e il fatto che continuasse a passeggiare frettolosamente per la stanza stavano ad indicare che era ancora molto preoccupata.
"L'abbiamo cercata nella pasticceria dove a volte va per mangiare qualcosa e leggere il giornale" stava dicendo Eddie e, quando gli fece capire dove si trovava, Andrew comprese che era quella in cui erano andati un giorno loro due e le piccole. "Abbiamo anche chiesto in alcuni negozi e centri commerciali se l'hanno vista. Insomma, spesso ci sono i paparazzi a seguirla, è difficile che non ci si accorga di lei quando entra. Purtroppo però non sembra andata nemmeno lì, anche perché comunque lei è una che, se vuole stare per i fatti suoi, non va certo a fare shopping."
"Siamo anche stati al maneggio di Bryan, pensando che magari fosse andata là per stare un po' con i cavalli" continuò Dallas che, seduta sul divano del salotto accanto al padre, continuava a guardare una fotografia della sorella appesa al muro dietro di lei. C'erano Demi, Madison e Dallas che si tenevano per mano e sorridevano. Risaliva ad alcuni anni prima, non molti. "Non può essere andata molto lontano. È mezzogiorno e le bambine escono alle quattro da scuola, anche se di solito va a prendere Hope un po' prima. Dove può essere?"
"I-il telefono è s-spento. C'è la segreteria" mormorò Dianna a fatica. Dei tre era quella che meno riusciva a controllare le proprie emozioni. Era pallidissima, Andrew temeva che sarebbe potuta crollare da un momento all'altro. "Aveva detto a Phil che sarebbe tornata mezzora dopo al massimo, giusto il tempo di bere qualcosa e riposarsi un pochino. Una che dice così non sparisce per ore. Dio, dov'è la mia bambina?"
Ed ecco che, come l'uomo si era aspettato, la donna scoppiò in un pianto disperato.
Dallas le fu subito accanto e le cinse le spalle con un braccio.
"Andrà tutto bene, mamma. Forse vuole solo stare un po' da sola e non ha detto niente a nessuno, due ore non sono poi così tante" le disse per consolarla.
Intanto, sia Eddie che Andrew continuavano a chiamarla e a mandarle messaggi su messaggi, finché al secondo venne un'illuminazione.
"Forse è un azzardo" cominciò, attirando subito l'attenzione su di sé, "ma tanti anni fa, il giorno del dodicesimo compleanno di Demi, l'avevo portata in un posto fuori città, in collina. C'era un bosco e poi un ruscelletto con un masso enorme sul quale ci siamo seduti a parlare. Potrebbe essere lì. Non è un posto molto frequentato ed è tranquillo, non ci sono particolari pericoli. Magari ha lasciato là la macchina per poi proseguire a piedi."
"Dobbiamo andarci subito!" esclamò Dianna scattando come una molla. "Nel tragitto potrebbe essere scivolata, o caduta, o…"
"Tesoro, ascolta.” Eddie le prese la mano. “Qualsiasi cosa sia successa, è meglio che ci vada solo Andrew. Lui conosce quel posto molto meglio di noi, saprà trovarla in fretta, ne sono sicuro."
“Ma è un posto grande, avrà bisogno di aiuto.”
“Il bosco non lo è poi molto, e se è lì la troverò in fretta.”
La donna sospirò. Il suo istinto materno le diceva di correre là, ma i consigli del marito erano saggi e, alla fine, si rese conto che aspettare lì era la cosa migliore, per quanto le facesse male.
"Va bene" si arrese. "Ma Andrew, voglio che mi chiami per informarmi su tutto, tutto, hai capito? Quando arrivi, che strada fai, quando la trovi e come sta."
"Certo Dianna, non preoccuparti. Dov'è Madison?"
"In camera sua, vuole stare da sola e non parlare con nessuno" sospirò la donna.
La ragazza scese in quel momento. Era bianca come un cencio e aveva le guance rigate di lacrime. Doveva essersi truccata ma ora il trucco le era colato lungo il viso e lei forse non se n'era neanche resa conto o non aveva avuto la forza di pulirlo.
"Novità?" chiese con il groppo in gola.
"No, ma sto andando a cercarla" le rispose Andrew. "Tranquilli, vedrete che non le sarà successo niente."
Non riusciva a capire se le loro reazioni fossero esagerate oppure no, non sapeva nemmeno lui cosa pensare.
"Andrew, aspetta." Dianna lo raggiunse sulla porta e lo fermò posandogli una mano su un braccio. "Devo dirti una cosa. Lo sanno tutti in famiglia, quindi nessun segreto, è solo che desidero spiegarti come mai le mie emozioni sono tanto forti."
"Ti ascolto."
Da una parte avrebbe voluto andare a cercare la sua ragazza, ma dall'altra voleva moltissimo bene a Dianna e fu questo sentimento a fargli capire che era meglio restare un altro po'. Demetria non era in pericolo, almeno così sperava. Continuava a ripeterselo per non impazzire.
"Prima che Demi nascesse Pat era migliorato molto. Stavamo meglio. Con un altro bambino in arrivo avevo cominciato a lavorare come segretaria e cantavo nei weekend. Il giorno dopo la sua nascita le infermiere volevano farle una foto. Una me l'ha portata e mi ha detto che le serviva un nome. Mi ha dato un libro con molti nomi tra cui scegliere e io ne ho trovato uno che sapeva di forza."
Un nome che si addiceva molto bene al carattere di Demi, pensò Andrew, ma non commentò e la lasciò continuare.
"Il giorno prima l'avevo presa in braccio quando era ancora avvolta nella copertina ed ero rimasta affascinata dai suoi occhioni scuri che mi guardavano. L'ho vestita con un abitino che avevo portato da casa e me la sono coccolata un po'. Poi ho visto una cosa." Dianna ebbe un singulto e Andrew iniziò ad allarmarsi. Cosa poteva essere successo? "Ho visto che il cognome del cartellino sulla piccola culla in cui me l’aveva portata quella donna non era Lovato, ma Martinez."
L'uomo spalancò la bocca.
"C'era stato uno… scambio?" chiese.
Mio Dio, e dopo cos'era successo? Non riusciva nemmeno a pensare e sembrava che qualcuno gli stesse piantando un coltello nella testa, ma piano, per torturarlo.
"Sì. Demi era in una stanza in fondo al corridoio nel letto di un'altra donna. C'è stato un fermento quando mi sono messa ad urlare. La bambina piangeva e anche se non era mia io cercavo di calmarla, di farle capire che andava tutto bene, e allo stesso tempo pensavo a Demi e mi domandavo dove potesse essere e chi la stesse allattando. Ero terrorizzata! Un'infermiera è accorsa subito e mi ha tolto la piccola dalle braccia, poi ho sentito solo altre corse e delle grida."
Fu scossa da un fortissimo tremore che la fece quasi crollare a terra, sarebbe successo se Andrew non l'avesse sostenuta.
"E poi?" si azzardò a domandare.
"L'hanno trovata nel letto della signora Martinez, in fondo al corridoio. Avevo già detto all'infermiera il nome, ti rendi conto? E se non ci fosse stato il nome? Lo so che è impossibile, ma insomma, e se non me ne fossi accorta? Comunque dev'essere ancora peggio scoprirlo dopo tempo. Non riesco nemmeno a immaginare…" Gli raccontò che quando aveva finalmente avuto Demi fra le braccia e le infermiere le avevano lasciate sole per un po', era scoppiata a piangere e le aveva promesso che non l'avrebbe persa mai più. "Ora, so che probabilmente non è successo nulla, ma la sua sparizione mi ha fatto tornare in mente quel terribile episodio."
"Capisco. Vado a cercarla, okay?"
"G-grazie" gli rispose trattenendo a stento i singhiozzi. "Demi è fortunata ad averti."
"Credimi, Dianna, sono molto più fortunato io ad avere lei."
Detto questo uscì e, con l'ansia che lo dilaniava mangiandolo dall'interno e un pizzico di speranza nel cuore, si rimise in auto. Tornò a casa, tolse i jeans e la cravatta e indossò una semplice tuta da ginnastica e degli scarponcini, abiti comodi per camminare in collina e nei boschi, dove il terreno è brullo. Trovò traffico quasi subito e maledisse quell'orario bastardo in cui, per un motivo o per l'altro, le macchine intasavano letteralmente le strade. Anni prima, quando era andato in quel luogo con Demi, ci aveva messo solo mezzora ma erano partiti presto e poi, lo ammetteva, era andato piuttosto forte. Adesso invece ci avrebbe messo un'eternità, forse un'ora. Batté una mano sul volante e imprecò. Riprovò a chiamare Demi ma, al posto della segreteria, la voce meccanica disse un'altra cosa:
"Il telefono del cliente da lei chiamato potrebbe essere spento o irraggiungibile. La preghiamo di riprovare più tardi, grazie."
Beh, se era andata nel bosco non lo stupiva che non ci fosse campo. Solo che lui non ce l'aveva un "più tardi". Non voleva essere ossessivo, solo sapere se stava bene visto che sarebbe dovuta tornare e invece era sparita da ore.
Per fortuna il traffico si fece meno intenso mano a mano che si allontanava dal centro della città, quindi poté accelerare parecchio. Un paio di volte passò anche con il rosso, sperando che non si sarebbe preso delle multe salate. Non era di certo un tipo che faceva spesso queste cose, anzi le odiava, ma in quel caso non riusciva a concentrarsi un granché. Durante il tragitto accese la radio e premette un tasto per far partire un CD che aveva messo alcuni giorni prima, un album dei Linkin Park intitolato "One More Light". Molti sostenevano che fosse un grido di aiuto da parte di Chester Bennington, il frontman, che si era suicidato due anni prima. Non sapeva molto di lui e non seguiva il gruppo, ma aveva letto che l'uomo aveva sofferto di depressione e, si diceva, prendesse anche droga e alcol. Sapeva che era stato violentato da piccolo, cosa che doveva averlo traumatizzato a vita, e che un suo carissimo amico si era ucciso l'anno prima. A lui, quel CD che aveva trovato per caso in un negozio di musica sembrava, più che un grido di aiuto, un vero e proprio addio. La canzone che stava per iniziare si intitolava "Nobody Can Save me" e, nonostante il sound allegro, faceva capire che Chester doveva aver sofferto moltissimo. Quando udì i primi versi, Andrew sentì un brivido glaciale attraversargli l'anima.
I'm dancing with my demons
I'm hanging off the edge
Storm clouds gather beneath me
Waves break above my head
At first hallucination
I wanna fall wide awake now
 
You tell me it's alright
Tell me I'm forgiven
Tonight
But nobody can save me now
I'm holding up a light
Chasing up the darkness inside
'Cause nobody can save me
 
Stare into this illusion
For answers yet to come
I chose a false solution
But nobody proved me wrong
At first hallucination
I wanna fall wide awake
Watch the ground giving way now
[…]
Ora lui non ci si ritrovava più così tanto, ma soprattutto quando la canzone parlava dell'oscurità che il cantante aveva dentro, sentiva un peso al petto. Forse si riferiva alla depressione, chi lo sapeva? Ma quale che fosse la vera interpretazione Andrew la vedeva così e, soffrendo di quella malattia, era d'accordo. La depressione porta a vedere tutto nero per quanto banale possa essere questa espressione, annienta la volontà, priva di qualsiasi energia fisica e psicologica e, a volte, toglie la voglia di vivere. E non sempre si può reagire a tutto questo, lui lo sapeva anche troppo bene. Ora però stava un pochino meglio, o almeno gli sembrava che fosse così. Quella canzone esprimeva anche ciò che lui non voleva più essere: una persona che credeva che nessuno potesse salvarla, come diceva l'ultimo verso del ritornello. Girò la testa a destra e a sinistra più volte per scacciare quei pensieri. Doveva cercare Demi. E fare presto, presto!
 
 
 
Sedute al tavolo con gli altri bambini, Elizabeth e Mackenzie si guardavano intorno smarrite come se si trovassero in chissà quale luogo sconosciuto. Si cercavano con lo sguardo e, quando l'una o l'altra metteva giù la forchetta, si stringevano la mano per darsi forza, ma facendo in modo che nessuno se ne accorgesse.
"Scusateci" stava dicendo una bambina. "Siamo stati tutti molto cattivi ascoltando quello che ci dicevano Yvan e Brianna."
I due erano a quel tavolo e, se Mac ogni tanto sorrideva alla bambina e ignorava l'altro quasi non esistesse, Elizabeth guardava male tutti e due e non si premurava nemmeno di nasconderlo.
Non possiamo essere vostre amiche subito spiegò Mac. Ci avete fatte stare male. Noi siamo state sole per mesi, ora non può essere tutto normale. Domani mattina non verremo a giocare con voi così, tranquillamente.
"E quando allora?" chiese Katie, la bambina che tra tutte, e dopo Lizzie, per Mac era la più simpatica.
Le amiche non le avevano parlato molto, ma lei non aveva mai detto niente di male su di loro, Mackenzie ne era certa.
Quando non staremo più male concluse.
Restò vaga perché non ne aveva idea neanche lei.
Non tutti capirono la loro reazione. Alcuni iniziarono a dire:
"Siete sciocche!",
oppure:
"Che esagerate!".
Era normale: in quella classe c'erano trenta alunni e le due amiche sapevano che non sarebbero mai andate a genio a tutti e che ci sarebbero stati alcuni che non avrebbero capito. Altri però, come per esempio Katie, fecero sì con la testa e sorrisero loro.
C'era molta confusione in mensa, tra il loro tavolo e tutti gli altri. Le due bambine ascoltavano pezzi di conversazione di uno, dell'altro e di un altro ancora e non riuscivano a concentrarsi su qualcosa che i loro compagni stavano dicendo.  Abituate a parlare solo fra loro, si erano sempre rinchiuse dentro una bolla nella quale erano in due e non c'era nessun altro lì attorno, ma ora era diverso. La bolla era scoppiata, e se da un lato questo era positivo dall'altro le piccole avevano bisogno dei loro tempi. Chissà, magari tra una settimana avrebbero cominciato a giocare a nascondino o ad acchiapparella con i loro compagni, ma adesso non era ancora il momento. Si sentivano parecchio sopraffatte da tutto quello che era successo nell'ultimo periodo e non solo per quanto riguardava la scuola. Ognuna delle due aveva i propri problemi a casa, le sue difficoltà, e Mackenzie molti demoni contro cui combattere.
Finito di mangiare, le due bambine portarono i propri piatti su un carrello con cui poi qualcuno li avrebbe messi a lavare assieme a tutti gli altri, poi Elizabeth le chiese se voleva andare con lei sotto l'albero dove a volte si sedevano. Avevano ancora un po' di tempo prima dell'inizio delle lezioni del pomeriggio e, dato che non faceva freddo, le maestre lasciavano che i bambini si divertissero in giardino.
Sì, vengo subito. Devo fare una cosa, tu vai intanto.
"Okay, ma va tutto bene?"
Sì, devo solo chiedere una cosa ad una maestra.
"Ah, d'accordo. A fra poco allora."
Mentre la sua amica si allontanava, Mac andò dalle insegnanti. Non tutte stavano in mensa, rimanevano solo alcune di loro di varie classi per controllare i bambini. Non trovando chi cercava, la bambina si diresse in un posto dove sapeva che l'avrebbe trovata: la palestra. Mentre passava, un bidello e un'insegnante che non conosceva la fermarono chiedendole dove stesse andando e lei rispose che doveva parlare con una sua maestra di un compito andato male e che la donna si trovava in palestra. I due le credettero e la lasciarono passare.
La sentì ancora prima di aprire la porta. Stava palleggiando, forse con una palla da basket a giudicare dal rumore secco che produceva, e ogni tanto lanciava piccole grida appena udibili. Allora non si era sbagliata: era stata davvero male in passato. Qualcosa le diceva che ora si trovava lì per quello. Entrò facendo piano, ma non troppo per non apparirle alle spalle e spaventarla. Non appena la vide, Justice lasciò andare la palla che rotolò via e le si avvicinò con il suo solito sorriso radioso.
"Ehi piccola, che ci fai qui?" le chiese con dolcezza.
Devo chiederti una cosa, Justice.
Lo sguardo serio della bambina spense subito il sorriso della più grande.
"Dimmi pure."
Quando i bulli ti facevano del male, tu hai sofferto molto?
"Direi proprio di sì."
Era ovvio che fosse così, ma Mac aveva solo sei anni e anche se quei bambini non l'avevano fatta stare affatto bene, non poteva capire certe cose. Non sapeva fino a che punto erano capaci di spingersi certe persone.
E tu cos'hai fatto? Ne hai parlato con la mamma?
"Oddio, tesoro!" Justice represse un singulto e la abbracciò. "Purtroppo non subito. Crescendo, alcuni non parlano più molto con i genitori."
Perché?
"Perché si è più grandi e alcune cose si preferisce tenerle per sé, anche se fanno male."
Mac rifletté per qualche secondo. Anche lei aveva fatto così, e non era grande. Come si sarebbe comportata tra sei, otto o dieci anni? Si sarebbe chiusa completamente in se stessa?
E quando gliel'hai detto?
"Dopo che…"
"Dopo che mi sono quasi ammazzata" avrebbe voluto dire, ma non lo fece.
"Dopo che ho capito che non ce la potevo più fare da sola" mormorò invece.
Come ho fatto io.
"Sì, più o meno sì."
Ma loro ti prendevano in giro, oppure facevano di peggio? So che con la mia mamma sono stati molto cattivi.
"La tua mamma è una guerriera. Mi ha aiutata molto con le sue canzoni e la sua forza. Diglielo, okay?"
Va bene, grazie.
"Comunque mi hanno presa davvero tanto in giro, ogni giorno per anni."
E sei riuscita a perdonarli?
Le raccontò cos'era accaduto a pranzo, come lei e l'amica si erano sentite e quello che avevano detto loro i bambini.
"Non devi perdonarli se non vuoi, o almeno non adesso. Ci vuole tempo per queste cose. Ricordati solo di non odiare."
Come le aveva detto Padre Thomas, rammentò.
Non li odio, non come odio l’uomo che ha ucciso i miei.
Justice fu percorsa da un brivido al pensiero di ciò che Mackenzie aveva passato.
Quando andrò dalla mia psicologa ne parlerò con lei.
"Fai bene, potrà sicuramente aiutarti. Io ci vado ancora, sai? Mi fa sfogare."
E adesso perché stavi palleggiando?
"Anche quello è uno sfogo. Spesso per buttar fuori le cose che abbiamo dentro usiamo la nostra voce e non il corpo, invece è importante utilizzarli entrambi. Vuoi provare?"
La bambina annuì e prese la palla.
"Adesso fai una schiacciata. Prendi un bel respiro e poi buttala per terra con tutta la forza che hai pensando a tutte le cose negative e brutte che ti sono successe e di cui vorresti liberarti."
Questa è difficile, molto difficile pensò l’altra.
"Posso farlo anche io?" La voce di Elizabeth echeggiò per tutta la palestra. "Non ti vedevo arrivare e un'insegnante mi ha detto che eri qui, Mac. Sono venuta a vedere spiegò sorridendo. Non era arrabbiata, si era solo preoccupata per la sua amica. "Che fate?"
"Le stavo insegnando un modo per sfogarsi un po'. E certo, puoi farlo anche tu."
La maestra le spiegò come e le diede una palla. Entrambe le bambine, ora, erano in mezzo alla stanza, in piedi l'una accanto all'altra e fissavano il vuoto, proprio come aveva fatto Justice poco prima. Buttare fuori tutte le cose brutte non era affatto facile, richiedeva concentrazione per pensarci e forza di volontà per riuscirci. E soprattutto per Mackenzie ce ne sarebbe voluta tantissima.
"Lo so che fa male, che è dura" aveva detto Holly a lei e Hope prima di portarle in casa famiglia. "Anzi, lo immagino."
Avevano pianto molto entrambe, Mackenzie perché era devastata da un dolore che le mozzava il fiato, sia fisico che psicologico per tutti gli orrori che aveva visto, e Hope perché si era agitata sentendola piangere.
Non ricordava molto bene cos'era successo i giorni precedenti, fra cambi di medicazioni e domande della polizia, era stato tutto confusionario, tutto troppo. Sapeva solo che i suoi erano morti, che l'uomo cattivo li aveva uccisi, che lei già non ricordava come ma che alla polizia l'aveva detto, che lei e Hope erano sole al mondo e che non parlava più. Forse era stato il dolore a farle andare via la voce, forse anche lei soffriva troppo e si era spenta. L'assistente sociale aveva detto loro cose che adesso, lì, in quella palestra, non rammentava, ma se fosse stata meno agitata, se ci avesse pensato meglio le avrebbe ricordate. Una frase, però, le venne in mente.
"Dovete essere forti, adesso. Più forti di quella notte, più forti di quanto voi non siate mai state." Mac aveva abbassato lo sguardo, come a dire:
"No, basta, io mi arrendo"
e aveva sospirato. Allora Holly e Lisa l'avevano guardata e insieme avevano detto:
"Fallo per noi, piccola. Provaci. Noi verremo a trovarvi tutti i giorni."
Non era ancora il momento di parlare di un'altra famiglia. Le avevano solo detto che sarebbero andate in un posto con tanti altri bambini. Pensandoci adesso, Mackenzie immaginava che prima di spiegare loro cos'erano l'affidamento e l'adozione le assistenti sociali avessero voluto far passare un po' di tempo in modo che in lei il dolore fosse, se possibile, un pochino meno devastante.
Lei allora aveva sollevato gli occhi, li aveva rivolti in quelli della sorella e poi aveva scritto:
Noi siamo come la mamma. Lei era forte.
E poi era scoppiata in un pianto quasi convulso che era durato ore.
Pensava a tutto questo mentre si concentrava, e al dolore che aveva provato e che provava ancora, alla prima mamma affidataria che di materno non aveva avuto nulla, alla seconda e alla terza famiglia, e poi a Demi, che invece era una mamma vera. Non dava gli stessi abbracci della loro mamma naturale, non aveva il suo stesso profumo, né una voce simile ed era diversa da lei di carattere e per mille altre ragioni. Ma le amava. E non solo, a lei aveva ridato la speranza, la voglia di vivere, le faceva capire che anche se era cresciuta troppo in fretta doveva comunque restare una bambina. Ogni giorno trovava qualcosa da dire, o faceva una cosa grazie a cui Mackenzie e Hope sorridevano anche se erano tristi. Avrebbe sempre lottato per loro e le amava sopra ogni cosa. Questo era Demi per Mac. Questa era una madre. Pensò al papà, alla morte di quella zia che lei e la sorella non avevano mai conosciuto, a tutto quello che era successo dopo, al dolore di Andrew. Ovvio era che pur tentando di comprenderlo, la piccola non riuscisse ad immaginare quanto fosse stato devastante per lui quel periodo, ma la sua sensibilità la portava a rifletterci comunque. E poi rifletté su quei quasi tre mesi di scuola e su tutti gli alti e bassi.
Nel frattempo Elizabeth si concentrò sul fatto che il papà aveva perso il lavoro, su quanto la mamma stava male per questo, sulla situazione a scuola e su quel poco che sapeva della malattia di Mary. Era stata molto male in passato e anche quando lei era piccola, ma le aveva sempre detto che non era colpa sua, che lei non aveva fatto niente e che si era ammalata molto tempo prima della sua nascita. Eppure Lizzie, vedendo che mangiava molto e vomitava, che prendeva dei farmaci per… come si chiamava? Depressazione? Boh. Insomma, si era chiesta spesso se avesse fatto qualcosa di brutto alla mamma. Perché se lei piangeva, prendeva tutte quelle medicine e ogni tanto mangiava un sacco e poi vomitava doveva esserci un motivo! Non l'aveva ancora detto a Mac, ma per un anno era andata da una psicologa che, attraverso il gioco, era riuscita a farle capire che lei non aveva colpa di niente, che non aveva nulla di sbagliato e che anzi era proprio l'amore che lei provava per la mamma che la aiutava a stare meglio. Adesso stava bene e non ci andava più, però le era servito e la terapia era stata difficile, spesso aveva pianto perché non era riuscita ad esprimere bene le sue emozioni avendo solo tre o quattro anni. Ma adesso, a parte il problema del papà, andava tutto molto bene. Avrebbe avuto un fratellino bellissimo e gli avrebbe voluto tantissimo bene.
Le bambine strinsero forte il pallone canalizzandovi tutta l’energia negativa.
Uno, due, tre contarono, poi presero un profondo respiro e lanciarono ognuna la propria palla.
I vari tonfi dei due oggetti riempirono l'ambiente e per qualche secondo non si sentì nulla. Le piccole ebbero la sensazione che con quel tiro micidiale si fossero tolte un gran peso, anche se non sapevano per quanto quella meravigliosa sensazione di libertà sarebbe durata. Beh, era meglio godersela finché c'era. Sentendosi improvvisamente piene di energia positiva, si presero per mano e corsero fuori dimenticandosi di salutare, ma Justice non se la prese e anzi, sorrise. Era riuscita a farle sentire meglio con quella tecnica, era questo l'importante.
Le due bambine corsero sotto l’albero dove si sedevano di solito e fecero a gara a chi arrivava prima, ma giunsero entrambe nello stesso momento.
"Pari!" esclamò Elizabeth. "Ma la prossima volta ti batto."
Mac si liberò del piccolo zainetto che a volte portava, in cui teneva un quadernino o dei fogli e alcune penne con cui scrivere quando non era in classe. Non sempre usava quel metodo, spesso teneva tutto in mano, ma era scomodo. Lo aprì e ne estrasse qualcos'altro: due bambole. Se le era portate da casa per giocarci un po', fregandosene di quello che altri come James avrebbero potuto dire, ma tanto lui adesso non c'era.
"Sky e Kaleia!" trillò Lizzie.
Ecco, fantastico. Le aveva scelte per parlare all'amica di quelle meravigliose storie, del sito, per consigliarglielo e invece lei sapeva già tutto. Pazienza, anzi forse era meglio così, almeno avrebbero potuto parlarne subito.
Già.
"Posso vederle? Oddio, oddio posso?"
Mackenzie sorrise e gliele passò.
Allora anche tua mamma ha scoperto il sito e proprio quelle storie.
Era pazzesco che tra i milioni di storie originali Mary avesse trovato proprio quelle di Emmastory, le stesse che la mamma leggeva a lei.
"Sì, da due anni."
Quindi hai iniziato a leggerle prima di me!
Mackenzie sbarrò gli occhi per la sorpresa: chissà perché aveva creduto di essere una dei pochi bambini a conoscere quei libri, ma ovviamente non era vero. Anzi, non sapeva nemmeno come mai avesse iniziato a crederlo.
"Spero che il primo libro esce presto, così mamma me lo compra."
E le bambole no?
Lizzie passò le dita delicate tra i capelli bianchi di Sky e quelli bruni di Kaleia.
"No, purtroppo. Costano tanto e abbiamo pochi soldi."
Non te le prenderanno mai?
"No."
Oh.
In realtà non lo sapeva, ma lo sospettava vista la situazione. Forse, però, se l'avesse scritto nella letterina a Babbo Natale lui avrebbe esaudito il suo desiderio.
Dai, giochiamo! la esortò l'amica. Io faccio Kaleia e tu Sky, va bene?
"Perfetto, inizia tu."
Ciao Sky!
"Ciao" rispose Elizabeth immaginando che il suo personaggio sorridesse appena.
Che bella giornata, non trovi?
Mackenzie marcò la scrittura e ci mise anche dei cuoricini alla fine per far capire che la fata era allegra. Essendo una fata della natura, era felice quando questa era verde e rigogliosa e invece soffriva durante l'inverno, quando le piante erano coperte dalla neve e gli animali non trovavano da mangiare.
"Haha, certo" mugugnò.
Non che le due sorelle si comportassero così nella saga, ma a volte Sky era brontolona e preferiva non parlare. Era una fata del vento.
Continuarono a divertirsi così, inventandosi dialoghi a caso finché suonò la campanella e purtroppo dovettero tornare in classe.
 
 
 
Demi non sapeva quanto tempo fosse passato. Alla fine doveva essersi addormentata, però, perché aprì gli occhi scossa da un tremito. Forse aveva avuto un incubo. Avrebbe voluto mandare un messaggio ad Andrew o chiamarlo, chiedergli di incontrarsi lì, magari. In fondo, in quel luogo avevano passato dei momenti tristi ma anche altri molto felici, era un po' il loro posto speciale in cui non erano più tornati da allora. Fare la pace e chiarire era importante, e per Demi ciò assumeva un significato ancora più profondo se pensava che avrebbero potuto farlo in quel posto. Anche se, a dirla tutta, al momento il luogo non era così importante. Prese in mano il cellulare con gli occhi ancora lucidi, mentre altre grosse lacrime le rigavano le guance e scrisse:
Ciao amore. Ho avvisato Phil della mia assenza. Lo so che comunque avrò fatto preoccupare tutti e mi sento uno schifo per questo, ma avevo veramente bisogno di stare da sola. Vieni al nostro posto, quello in cui mi hai portata anni fa. Dobbiamo parlare. Ti prego! Ti amo, Demi.
Lo inviò ma, forse perché non c'era campo, il cellulare le mostrò la scritta:
Errore Invio.
Ci provò più volte, decisa a non arrendersi, ma non cambiò nulla e valse lo stesso per le chiamate, non c'era campo quindi nemmeno partivano.
"Dannazione!" imprecò.
Già si sentiva una merda per aver lasciato passare così tanto tempo addormentandosi. Di sicuro la stavano cercando tutti e la sua famiglia era preoccupatissima, sua madre era andata fuori di testa, ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa anche perché, nella sua situazione, era convintissima del fatto che avrebbe provato le stesse, terribili emozioni. Tremò così forte che quasi si spaventò dei movimenti del proprio corpo. Non aveva freddo e, per un attimo, le parve di non riuscire a controllare ciò che le braccia e le gambe stavano facendo. Ma la verità è che il fisico può tremare anche quando il gelo è interiore e avvolge l'anima come una coperta tanto fredda da fare male.
Il bosco in cui si trovava non era molto fitto all'inizio, ma lo diventava più avanti. Gli alberi lì erano già molto alti, dei giganti che protendevano i rami che erano come delle braccia che volevano proteggerla. Fino ad un certo punto c'era un sentiero che le persone potevano percorrere e lei, alzandosi, decise di andare più in là. Lo terminò dopo diverse, lunghe falcate e si ritrovò nel fitto di quella che, per gioco, definì una foresta. Eppure, anche se non lo era poteva davvero sembrarlo. Mentre la salita della collina si faceva più ripida e il terreno sconnesso, pieno di aghi di pino, foglie e sassi, ciò che colpì maggiormente Demi fu il fatto che, dall'alto, le chiome di alcune querce sembravano delle teste che la osservavano. Non se ne sentiva minacciata. Erano alberi maestosi che potevano raggiungere i trenta metri di altezza - ma quelle non erano così grandi - e vivere fino a cinquecento anni. Le foglie, di solito verdi, erano lobate. Ora che era autunno erano cadute, colorando il terreno di rosso, giallo e arancione. Il sole che filtrava tra i rami pareva farle splendere quasi fossero state dei gioielli. Respirò a pieni polmoni l'aria fresca pregna del profumo di resina e della terra bagnata dall'umidità e dalla pioggia caduta qualche giorno prima. Era un buon odore, sapeva di libertà e di gioia. Si sentiva qualche uccellino cantare ma, per il resto, nient'altro. Gli animali dovevano essersi nascosti nelle loro tane, spaventati dal rumore dei suoi passi. Un verso, però, catturò la sua attenzione. Proveniva da un albero a poca distanza da lei, di cui non avrebbe saputo dire il nome. Pareva un uccello ma non lo era, era troppo forte e particolare. Rimase immobile, cercando quasi di non respirare. Non aveva paura, voleva solo capire di cosa si trattava e infatti, poco dopo, vide uno scoiattolo che cominciava a scendere e posava le sue zampine sul morbido terreno. L'animaletto annusò l'aria, guardandosi intorno circospetto. Non l'aveva ancora vista ma forse sentita sì, e se non se ne andava significava che doveva vedere spesso gente lì intorno. Capitava infatti che, soprattutto nel fine settimana, famiglie con bambini venissero nel bosco a passeggiare, anche se loro di solito seguivano i sentieri. Lo scoiattolo aveva il pelo marrone e sembrava morbidissimo. Demi si chiese come sarebbe stato toccarlo ma ovviamente non osò avvicinarsi. Se l'avesse fatto lui sarebbe fuggito o, anche se fosse riuscita ad accarezzarlo, chissà quante malattie le avrebbe trasmesso o magari l'avrebbe morsa. Facendo più piano che poteva, con movimenti lentissimi, Demi tirò fuori la ghianda dalla tasca mentre l'animaletto muoveva le zampe tra aghi e foglie alla ricerca di chissà cosa e gliela tirò. Lui alzò la testolina e lanciò un verso spaventato, ma quando si accorse di quella piccola leccornia ne fece un altro molto più carino. Si avvicinò alla ghianda, la annusò, la toccò con una zampa come per accarezzarla e, dopo averla presa in bocca, scappò via su un ramo. A quanto sembrava, sentire l'odore di un umano sul suo cibo non gli aveva dato granché fastidio. Demi sorrise sapendo di aver reso un piccolo scoiattolo felice, e si domandò se anche lui fosse solo come lei in quel momento. Poco dopo però sentì altri scoiattoli lì intorno e si disse che dovevano essercene molti altri e tanti animali che non vedeva. La cosa la affascinava.
"Ciao, piccini" disse, rivolta a quegli animaletti tanto simpatici.
Riprese a camminare. Via via gli alberi si facevano molto più bassi e notò alcune piante di fragole. Quelle di bosco potevano crescere anche in autunno in quella zona. Purtroppo non aveva un po' d'acqua con cui lavarle, ma decise di assaggiarne comunque una o due. Si chinò e le raccolse, poi se le portò alla bocca. Erano buonissime, come si aspettava e anche il profumo era invitante. In più era quasi ora di pranzo e lei cominciava ad avere fame. Era il caso di tornare indietro. Ricominciò a camminare ma, a un tratto, non ricordò più da che parte aveva girato. C'erano due sentieri, uno che andava a destra e l'altro a sinistra. Quale aveva preso solo pochi minuti prima?
Oh, Dio! pensò. Mi sono persa. Mi sono persa nel bosco!
Ringraziò il cielo che non fosse freddo e cercò di ricordare. Non sapeva usare il GPS del telefono né se funzionasse in quel luogo, ma forse in qualche modo avrebbe potuto orientarsi. Niente da fare, si era scaricato e spento.
"Merda!" imprecò.
Un boato terrificante la spaventò, facendola urlare e correre in avanti come una forsennata senza nemmeno guardare dove stava andando. Era un tuono, a breve sarebbe arrivato un temporale e stare nel bosco in un momento del genere non era affatto una cosa buona. Se fosse caduto un fulmine e avesse colpito un albero… Non terminò il pensiero perché scivolò su un sasso e il piede e il corpo si spostarono a destra. Demi cacciò un altro urlo quando si rese conto, con il più acuto terrore a contorcerle le viscere, che ora si trovava sopra un burrone. C'erano una ventina di metri tra lei e la fine di quella discesa vertiginosa. Se fosse caduta si sarebbe fatta molto male. O peggio. Urlava, urlava con tutto il fiato che aveva in corpo, ma era lontana dai sentieri e nessuno la udiva. Era stata stupida, aveva ricercato la solitudine e il silenzio, immersa nel dolore e nel senso di colpa, e si era messa da sola in quella situazione. Non riusciva a gridare cose comprensibili, aveva troppa paura. Il cuore le martellava nel petto e il respiro era corto. In più aveva la gola riarsa, non sapeva se per la sete o per lo spavento, e questo rendeva difficile anche urlare. Nella vana speranza che ci fosse almeno l'uno per cento di batteria provò a prendere il telefono dalla tasca, ma il tremore alle mani era così violento che le fu impossibile compiere anche solo un movimento semplice come quello. Non poteva andare avanti, o sarebbe caduta e comunque stava già scivolando, anche se molto lentamente. Ma non poteva nemmeno camminare all'indietro, ogni volta che ci provava scivolava di più. Pensò alle sue figlie, e poi ad Andrew e alla sua famiglia. Era così confusa che quasi non si rendeva conto che avrebbe potuto morire, era tutto troppo, semplicemente troppo. La paura era più forte di qualsiasi altra emozione, di qualunque altro pensiero che non fossero le sue bambine. Le pareva quasi di sentirne l'odore, sgradevole, pungente e forte al contempo. Definirlo schifoso o orribile era poco.
 
 
 
Un altro urlo agghiacciante squarciò l'aria. Andrew stava correndo. Era entrato nel bosco da circa un'ora e non aveva mai smesso di muoversi, o correndo o camminando aveva sempre continuato. Aveva preso un sentiero che portava nella parte un po' meno frequentata, dove credeva Demi fosse andata visto che, probabilmente, voleva appunto stare sola. Quando questo era finito lui aveva proseguito inerpicandosi su per la collina finché, pochi secondi prima, aveva udito un urlo e poi molti altri. Era la voce di Demi, non aveva dubbi in proposito.
"Demi!" gridò, quando fu abbastanza vicino.
"A-Andrew!" gli rispose lei, ma lui non la sentì perché la ragazza non riusciva ad urlare parole, solo a sussurrarle.
Quando lo vide, però, si voltò di scatto e questo la fece scivolare un po' più in avanti. Ancora un centimetro, un solo centimetro e sarebbe precipitata nel vuoto.
"Ferma. Demi, stai ferma."
L'uomo ostentava una sicurezza che in realtà non aveva. Le tempie gli pulsavano e aveva la nausea e il respiro corto, ma doveva mantenere il più possibile il controllo per lei, perché se si fossero agitati entrambi sarebbe stata la fine. Qualcuno doveva essere il più forte, e quel qualcuno era lui.
"O-okay" balbettò la ragazza, cercando di non muovere un muscolo ma era dura.
Le mani e i piedi continuavano a tremarle, la schiena era curvata in avanti e lei avrebbe solo voluto lasciarsi andare. Sentiva dolori in tutto il corpo e la testa le girava vorticosamente. Era lì da pochissimo, un minuto forse, ma le sembrava un'eternità, come due settimane prima nel lago.
"Lo so che hai paura e che vorresti mollare, ma ti prego, non farlo!" continuò il suo ragazzo. La cosa più saggia sarebbe stata quella di chiamare i soccorsi, ma non c’era tempo. Sarebbero arrivati troppo tardi. "Adesso ti prendo."
Doveva stare attento, non avvicinarsi troppo per non scivolare lui stesso. Forse non sarebbe riuscito a prenderla con le mani, ma con una corda… Se n'era portata una quando aveva pensato che Demi potesse essere andata in quel posto, per ogni evenienza. La tirò fuori dal piccolo zaino che aveva in spalla e la srotolò quanto bastava.
“C-cosa…”
“Ascoltami, ora ti lancio una corda, capito?” Doveva continuare a parlarle. “Ecco, vedi, l’ho srotolata. Adesso te la tiro e tu la prendi, va bene?”
“S-sì.”
Demi non era convinta di potercela fare, ma doveva provare.
Lui gliela lanciò, allungando comunque il braccio per renderle le cose più facili. Lei riuscì miracolosamente a prenderla al volo.
"C-che devo fare?" mormorò.
"Tienila più forte che puoi. Andrà tutto bene. Ora io tiro, d'accordo? Pronta?"
"P-pronta."
"Al mio tre. Uno, due, tre!"
Come aveva detto tirò, e lo fece con tutta la forza che aveva. Demi aveva le mani sudate e quella con cui la teneva stava scivolando assieme a lei. Rischiò di perdere la corda.
“Più stretta, tesoro, stringi!” la esortò.
Con uno sforzo sovrumano lei riuscì a tenere salda la presa. Andrew prese un profondo respiro e tirò forte, sempre più forte. In un attimo, Demi era salva, con il burrone davanti, non più sopra di esso. Cadde per terra battendo il sedere ma non importava, stava bene e non era successo niente.
"Ehi, amore!"
Il fidanzato le si accovacciò accanto, le asciugò con un fazzoletto il sudore che le imperlava la fronte e fece lo stesso con la sua. Demetria era talmente stanca e provata da non riuscire a parlare, così lui la lasciò tranquilla. Le chiese se voleva dell'acqua e, a un suo cenno di assenso, tirò fuori una bottiglietta e gliela porse.
“Sei ferita?”
“No” mormorò.
Un altro tuono li scosse, così nonostante la grande stanchezza decisero di alzarsi e di tornare con calma verso casa.
"Che ore sono?" chiese Demi.
"Quasi le due. Se tutto va bene ci metteremo un'ora e mezza a rientrare."
"Le bambine! Dio, lo sapevo che ero andata troppo avanti!" esclamò, maledicendosi.
"Parecchio, sì. Ci hai fatti preoccupare molto."
Il tono improvvisamente aspro del fidanzato la fece sentire ancora più in colpa.
"Non ho giustificazioni, lo so" sussurrò, ricacciando indietro le lacrime. "Se sei arrabbiato lo capisco."
"Ero più preoccupato che altro, in realtà. Hai fatto una cazzata ad andare così avanti e soprattutto da sola, in un posto che non conoscevi. Ma tutti sbagliamo, e ti amo troppo per arrabbiarmi per questo."
La amava ancora, allora! Demi sentì che la fiamma della speranza che ardeva nel suo cuore si stava riaccendendo.
"Mi… mi ami ancora? Nonostante quello che ti ho detto?"
Non ci poteva credere. Alcune grosse lacrime le rigarono il viso mentre sentiva che la fiamma della speranza ardeva un po’ di più nel suo cuore.
"Mi hai ferito moltissimo, ieri sera" ci tenne a precisare, mentre la sua voce si spezzava. "Stanotte non ho dormito e sono stato molto male. Mi domandavo come avevi potuto dirmi quelle cose, quando io per loro ci sono sempre, sempre stato! Non puoi negarlo. Le ho sempre trattate come delle figlie e le ho sempre considerate tali.”
Continuava a ripetere quella parola perché voleva sottolinearla, come se desse un senso diverso e più vero alle frasi che pronunciava.
Demi avrebbe voluto dire che non l’aveva mai negato, ma preferì non interromperlo.
“Non era giusto. Insomma, ho solo detto la mia opinione. Con la quale tu puoi ovviamente non concordare, ma non puoi dirmi che non sono il loro padre. Biologicamente no, ma qui sì” e si toccò il cuore. “Come qui tu sei la loro madre.”
La sua rabbia e la sua sofferenza stavano esplodendo e sembravano più forti e terrificanti dei tuoni sopra di loro.
“Tu hai il diritto di dire quello che vuoi, e hai ragione! Ho sbagliato, sono stata cattiva e ci avevo pensato anche io, prima.”
Demi faceva fatica a trattenere il pianto, avrebbe voluto buttare tutto fuori ma sentiva che quello non era il momento, che doveva parlare e non piangere.
“Bene.” Pausa. Una pausa in cui il silenzio tra loro divenne insopportabile. “Ma poi ho capito che non potevi pensarlo davvero, tu non sei così Demi, io lo so!" concluse, più calmo.
"Io non lo pensavo, Andrew. Non l'ho mai pensato. Hope e Mackenzie sono figlie nostre e spero che un giorno, quando saremo sposati, potrai adottarle."
"Sarebbe bellissimo, come ho già detto in passato" disse lui, anche se sembrava parlare più a se stesso che a lei.
"So che dirti che mi dispiace non basterà, che chiederti scusa non servirà a un granché. Io ero molto agitata per tutto quanto, sono state due settimane di fuoco per tutti e ho perso il controllo, anche se questo non mi giustifica, niente lo farà." Trasse un profondo respiro e continuò, anche se faceva male: "Io ho pensato che mi avresti lasciata per questo, che la mia cattiveria ti avrebbe portato a fare una scelta del genere e di meritarmelo."
Alcune lacrime, che ben presto si moltiplicarono, le rigarono le guance scavate dalla stanchezza.
"Anch'io in passato sono stato impulsivo, e più di una volta" iniziò l'uomo, asciugandole il pianto con il pollice. "Ho detto cose orribili che non pensavo anche sulle bambine e me ne vergogno ancora oggi, quindi direi che siamo pari. Non so se ti ho ancora perdonata del tutto. Quella che mi hai detto è stata una frase terribile, ma capisco la tua agitazione. E comunque, io non ti avrei mai lasciata per un motivo del genere. Ho visto poco fa il tuo messaggio, aspettavo che fossi tu a fare il primo passo visto che la colpa era la tua, come avevi fatto tu con me in passato. Io ti amo, Demi, e voglio che il nostro amore sia più forte di queste parole dette senza riflettere. Dobbiamo però imparare entrambi, io soprattutto, ad essere meno impulsivi."
"A riflettere prima di agire" disse lei per rafforzare il concetto.
"Esattamente. Comunque, visto che ne stiamo parlando, anch'io credevo che mi avresti lasciato. Non in questa occasione ma tempo fa, dopo la morte di mia sorella. Tutti dicono cose come:
"La vita va avanti",
"Bisogna reagire"
eccetera. Stronzate! Ognuno deve fare solo una cosa, quando perde una persona cara: prendersi i suoi tempi. E non importa se inizierà ad andare avanti dopo anni, l'importante è che prima o poi lo faccia, ma non ascoltando quello che gli altri dicono, bensì se stesso."
"Non ho mai perso nessuno che mi fosse così caro," commentò la ragazza, "ma è una grande verità."
Il cielo ora era plumbeo e i tuoni sempre più vicini, ma non pioveva. Mentre parlavano percorrevano il percorso appena fatto e mangiavano dei panini che Andrew aveva portato. Demi aveva finito i suoi e si stava gustando una tavoletta di cioccolato, mentre sentiva che pian piano le forze e la voce le stavano ritornando. Per Andrew valeva lo stesso.
"Tuttavia c'è stato un momento, poco dopo il mio tentato suicidio, in cui nonostante la tua vicinanza pensavo che per te sarebbe stato troppo da sopportare. Nei mesi precedenti non ci eravamo visti molto, io ti avevo allontanata e credevo che, per quanto forte fossi e anche se mi amavi tantissimo - non ho mai dubitato di questo - te ne saresti andata. E l'avrei capito" mormorò e poco dopo gli sfuggì un singhiozzo. "Hai presente la frase:
Se ami qualcuno, lascialo libero?
Ecco, per il tuo bene, se ti avessi vista in difficoltà, io…"
"Cosa? Cosa cazzo stai dicendo?"
Demi tremò violentemente e gli strinse così forte la mano da stritolargliela, poi alzò l'altra.
Lo schiaffo arrivò talmente forte e improvviso che l'uomo si piegò su se stesso, premendosi una mano sulla guancia colpita che gli bruciava come un tizzone ardente.
"Non dirlo mai più! Mai più, chiaro?" Ora piangevano entrambi. Tutte queste confessioni, quelle frasi sul fatto che l'uno volesse lasciare l'altra li avevano scossi moltissimo. "Tu mi ami tanto da dirmi che mi avresti lasciata libera. E io, Andrew, ti amo talmente che ti dico che voglio rimanere legata a te per tutta la vita, qualsiasi cosa accada. E ripeto, lo voglio. Non mi sono mai sentita costretta a stare con te, nemmeno per un singolo istante! Hai capito, amore mio?"
"C-capito." La voce gli uscì flebile come quella di un bambino. "E tu non dire mai più che credevi che l'avrei fatto io. Ce lo siamo detti tempo fa: se c'è un problema ne parliamo e lo risolviamo. Mi hai mandato quel messaggio per questo, no?"
"Sì."
"Se avremo ancora dubbi sulla nostra relazione…"
"Ne parleremo, te lo prometto."
"Lo prometto anch'io."
"Per quanto riguarda Mackenzie e la polizia," riprese la ragazza prima di perdere del tutto il controllo delle sue emozioni, "hai ragione. Aspetteremo la settimana prossima per parlargliene, e se lei non volesse andarci decideremo insieme cosa fare."
"D'accordo."
"Oddio, ti amo così tanto!"
"Anch'io ti amo, Demi! Sei la luce che illumina il mio cammino."
Iniziava a piovere ma loro quasi non se ne accorsero. Si voltarono l'uno verso l'altra, si guardarono intensamente negli occhi per diversi secondi e poco dopo le loro labbra si unirono. Si dischiusero e le loro lingue si sfiorarono, poi il bacio si approfondì sempre più fino a diventare caldo e passionale ma al contempo dolcissimo. Lì fuori il clima era mite, ma dentro i due stavano bruciando del fuoco della passione e sudavano come se fosse stata estate.
Una volta saliti in macchina, poco dopo, Demi chiamò subito sua madre. Andrew l'aveva già avvertita di tutto con un messaggio per tranquillizzarla e le aveva anche chiesto di andare a prendere le bambine a scuola e tenerle per qualche ora, con il consenso di Demetria ovviamente, in modo che i due avrebbero potuto riposarsi.
"Oddio, tesoro! Stai bene?"
La mamma aveva risposto dopo nemmeno uno squillo e non l'aveva salutata, arrivando subito al dunque.
"Sì mamma, sto bene. Mi dispiace, lo so che non avrei dovuto stare via tanto, ma mi sono addormentata piangendo nel bosco e quando mi sono svegliata ho deciso di camminare un po', poi c'è stato un tuono e…" Era meglio evitare di dirle del burrone per non farla uscire di senno, si disse la ragazza. "E non mi ero resa conto di essere andata tanto in là, immersa com'ero nei miei pensieri."
"Mi hai fatta preoccupare, per favore non farlo mai più. Il telefono, Demi, tieni acceso quel dannato telefono!"
"Si è scaricato. Ma hai ragione, sono stata parecchio irresponsabile e immatura" le concesse.
"Sì, lo sei stata, proprio! Irresponsabile e immatura, soprattutto se non conoscevi il posto" le fece notare la donna, più dura.
"Esatto, non lo conoscevo. Non tutto, almeno. È stata una giornata strana, ero completamente assente oggi."
"Non è una giustificazione, ma comunque ti perdono a patto che non faccia più cose simili, che tu non scompaia più. Ti abbiamo cercata dappertutto!"
La voce di Dianna era in parte incazzata e in parte disperata, Demi poteva percepirne con chiarezza il dolore e l'ansia di quelle ore e si sentì, se possibile, ancora più male.
"Lo prometto" disse.
"Demetria Devonne Lovato. Ti pare questo il modo di fare? Ti conviene non comportarti più così, signorina." Ora era Eddie a parlare, aveva preso lui il telefono. "Tieni acceso quel dannato cellulare e mettilo in carica, soprattutto se poi decidi di fare la pazza e giocare alla fatina dei boschi."
"Fatina dei boschi?" chiese lei, divertita. Avrebbe voluto ridacchiare ma si limitò a sorridere. "Ninfa, semmai."
"Oh, che diavolo, fa lo stesso! Il fatto che tu sia cresciuta e viva da sola non ti autorizza a dire al tuo manager che torni fra mezzora e poi sparire non avvertendo nessuno, nemmeno il tuo ragazzo. Qui ci si preoccupa, sai?"
"Hai ragione, Eddie. Scusa! Comunque non è vero che non ho avvisato: prima di partire ho lasciato un messaggio allo studio di registrazione perché non mi rispondeva nessuno e ne ho mandato anche uno a Phil."
"Scusa un accidente!" esclamò l'altro. "Comunque, per stavolta ti perdono e l'importante è che tu stia bene e sia sana e salva."
"Sì, sto benissimo non preoccupatevi. Sono con Andrew."
"Va bene, amore della mamma, allora io tra un po' vado a prendere le mie nipotine e te le porto dopo cena, d'accordo?"
"Perfetto, grazie di tutto mami."
In sottofondo si sentivano ancora i borbottii di Eddie. Dianna dovette tirargli uno schiaffo, perché Demi lo udì emettere un gemito.
"Oh, basta!" esclamò la donna. "Assomigli a una pentola di fagioli."
"Ma perché Phil non ha avvisato nessuno dei messaggi?" chiese l'uomo.
"Boh, forse non gli sono arrivati o li ha visti tardi. Comunque figurati, piccola. Non vedo l'ora di abbracciarti. A dopo!"
"A dopo, vi  voglio bene."
Dopo aver tranquillizzato Madison e parlato un po’ con Dallas, la ragazza chiuse la conversazione con il sorriso sulle labbra. Non era andata poi tanto male ma i suoi avevano ragione: avrebbe dovuto essere più prudente.
Chiamò Phil che le spiegò che l'SMS gli era arrivato pochi minuti prima, non riusciva a capire perché, e che il messaggio in segreteria era stato visto più o meno nello stesso momento. Il manager si assicurò che stesse bene e le disse di tornare direttamente martedì, ma che avrebbero dovuto lavorare mattina e pomeriggio per diversi giorni.
"Certo, è giusto" concordò lei. "Mi organizzerò con le bambine."
 
 
 
Sia Mackenzie che Hope furono molto felici di vedere i nonni e la più grande ci restò un po' male quando seppe che non sarebbe andata da Catherine.
Avevo tante cose da raccontarle scrisse.
"Tranquilla, lo farai tra qualche giorno."
La risposta della nonna non la fece affatto stare meglio, anzi. Per un momento, mentre usciva da scuola, si era sentita più leggera. Si sarebbe sfogata, avrebbe detto tutto e poi atteso per vedere quel che sarebbe accaduto dopo, ma almeno sarebbe riuscita a buttare fuori ogni cosa. E invece? Invece ora veniva a sapere che avrebbe dovuto tenersi tutto dentro per qualche altro giorno. Aspettò di salire in macchina e che i nonni non la guardassero, poi strinse le mani a pugno così forte che le dita le fecero davvero male. Per qualche secondo non si accorse nemmeno che stava digrignando i denti e poi li stringeva. Prese qualche respiro profondo per calmarsi e, quando fu più o meno tranquilla, tentò di rilassarsi. Hope era vicino a lei e allungava una manina verso la sua. La sorella gliela prese e le sorrise, poi con la mano libera cominciò ad accarezzarla. Il loro contatto era fatto così, mancando a Mac la parola: di carezze, di sguardi, di espressioni facciali. Tutti questi diversi modi di comunicare erano importanti, e Hope pur non rendendosene ancora conto cercava sempre di essere molto espressiva in modo da aiutare Mackenzie a capire quello che voleva. Spesso lo diceva, era vero, però si accorgeva del fatto che l'altra non parlava e, anche se non capiva ancora perché non lo facesse, iniziava a comprendere che era anche importante comunicare in altri modi con lei. Hope la guardò e poi cominciò a raccontarle, tra mezze frasi e parole dette alcune bene e altre male cos'aveva fatto all'asilo. Di solito la mamma glielo domandava sempre e forse anche Mac voleva saperlo. Le disse che avevano dipinto con i colori a dita, cantato delle canzoncine e poi fatto tanti giochi.
"Kia, Kia!" esclamò a un certo punto.
"Davvero? La mamma ti ha letto ancora le avventure di Kaleia?" avrebbe voluto chiederle la bambina, ma non potendolo fare sorrise ancora di più.
Un giorno riuscirò a parlare, Hope pensò, e allora ti chiederò e dirò un sacco di cose. Forse non ricorderò mai, ma so che tornerò a parlare. Non ho idea di quando accadrà, ma ci riuscirò. È una promessa.
Ogni giorno, ogni singolo giorno, oltre a pensare ai suoi genitori e a cercare di ricordare le loro voci, cosa che purtroppo le riusciva sempre più difficile, provava a fare lo stesso con la sua. Nonostante tutto quello che aveva visto a Skid Row, ricordava di essere stata una bambina molto dolce e allegra e davvero troppo chiacchierona. Parlava molto bene anche se ovviamente faceva errori come adesso, solo che spesso i suoi genitori non glieli facevano notare un po' come Demi… cioè, la mamma. Veniva a sapere che una cosa era sbagliata quando la sentiva dire correttamente da una maestra, o alla televisione. Ma rammentava anche un'altra cosa: le piaceva cantare. Tanto. E avrebbe amato ricominciare un giorno, se fosse riuscita a riprendere a parlare bene.
"Se" si disse. "C'è sempre quel se."
Quando entrò in casa, la prima cosa che Mackenzie chiese fu dove fosse Madison.
"Al lavoro, tesoro" le rispose il nonno.
Come la mamma?
"Sì."
Uno sguardo velato di preoccupazione passò sui volti dei due adulti: anche se sapevano che ora Demi non si era fatta nulla, erano stati sottoposti a un forte stress. Avrebbero dovuto nasconderlo per non far preoccupare le nipotine, in particolare Mac che spesso si accorgeva di queste cose.
"Non vorrei romperti, Mac, ma hai compiti da fare per domani? Posso aiutarti se vuoi."
Sì nonno, grazie. Non ci capisco molto di matematica.
L'uomo rise.
"Non preoccuparti, adesso la facciamo insieme."
E così si misero in cucina a scrivere. C'erano dieci addizioni e dieci sottrazioni con numeri fino al dieci.
La maestra ha detto che l'anno prossimo arriveremo a farle anche fino al venti spiegò.
Era novembre, quindi sarebbero andati avanti presto.
"Ah, sì? Bene. Dai, parti con la prima."
Le operazioni erano sul libro di testo e Mackenzie doveva ricopiarle sul quaderno e poi svolgerle. Il calcolo che doveva fare era 4+3. Si concentrò, fissando prima il foglio e poi il libro e non guardò mai il nonno. L'uomo restò in silenzio e aspettò. Vedeva che la nipotina si stava impegnando ed era felice per questo.
Sette? Chiese lei.
"Esatto, brava."
Lo scrisse e poi passò alla successiva. Non andò sempre tutto bene, più di una volta sbagliò e le toccò contare spesso con le dita, ma terminò dopo una mezzoretta. Continuò poi con i compiti di inglese e storia. Le maestre esageravano, si disse Eddie. Le cose erano molto cambiate da quando andava a scuola lui. Certo anche allora ce n'erano, ma non così tanti e soprattutto non a partire dalla prima elementare. Scoprì che gli piaceva aiutare Mackenzie, ciò gli faceva ricordare i bei tempi in cui dava una mano a Madison e ancora prima a Demi e Dallas. Ora erano delle donne e provava nostalgia per gli anni nei quali aveva potuto coccolarle e giocare con loro. Nonostante il lavoro, aveva sempre cercato di essere un padre presente. Sapeva benissimo che le maggiori avevano un papà biologico e non aveva mai cercato di sostituirsi a lui, ma Patrick aveva commessoo i suoi errori a causa dei problemi di cui soffriva e lui aveva fatto del suo meglio per dare a Dallas e a Demi l'amore e il sostegno di cui avevano bisogno. Le amava allo stesso modo di Madison, non c'era alcuna differenza e anche le ragazze lo sapevano.
Intanto, al piano di sotto, Dianna teneva in braccio Hope. Stavano guardando un cartone che alla piccola piaceva molto e che era educativo oltreché divertente, in quanto insegnava a contare e anche alcune semplici parole in inglese. Quel giorno, però, la bambina non sembrava interessata a svolgere nessuna di quelle attività. Con gli occhi semichiusi ascoltava e basta, rilassandosi.
"Ringrazio il cielo di avermi dato delle nipotine" sussurrò Dianna.
Sarebbe stato lo stesso se fossero stati maschi, ovviamente, ma quello che intendeva era che era davvero felice che Demi le avesse adottate. Aveva fatto una scelta coraggiosa in un momento in cui era abbastanza matura per diventare madre e la donna era contenta che la figlia avesse capito quando era pronta dandosi i propri tempi.
La bambina agitò le gambette e scese dal divano.
"Dove vai?" le chiese la nonna con dolcezza e la seguì.
Hope si mise a correre e arrivò presto alla porta, poi ci mise le mani sopra e cominciò a battere. Avrebbe voluto arrivare alla maniglia ma era troppo alta per lei, così iniziò a lamentarsi.
"Cosa c'è?"
Dianna cercava di capire, ma proprio non riusciva.
"Mamma" la sentì dire tra i lamenti. “Mamma!”
Ah, ecco, voleva la mamma. Doveva mancarle molto dato che non la vedeva da diverse ore. Anche a Mackenzie, certo, ma forse di più a lei visto che era più piccola. Quando le sue figlie frequentavano l'asilo e la scuola lei, dopo che aveva lasciato Patrick, lavorava tutto il giorno, andava a prenderle solo nel tardo pomeriggio come faceva Demi con le sue. Le mancavano tantissimo ed era triste sapendo che, per quanto si divertissero e imparassero, erano senza la mamma tutto quel tempo, in particolare Demi che aveva solo tre anni.
"Andiamo presto dalla mamma, promesso. Vuoi giocare con la nonna, mmm?"
"Sì."
Al sentir parlare di giochi Hope sorrise e dimenticò la tristezza di poco prima. Non sapendo esattamente cosa proporle, e non volendo tirare fuori i soliti cubi di legno o i Lego che Hope aveva anche a casa, Dianna mise dei fagioli in un bicchiere di plastica e glieli fece travasare in un altro, stando sempre attenta che non li mettesse in bocca. Quello che le era parso un gioco stupido e del quale la piccola si sarebbe stancata presto si rivelò ottimo. Hope fece il primo travaso, poi il secondo e il terzo, dopodiché cominciò a mettere dentro un paio di fagioli alla volta e poi solo uno, mentre nel frattempo li teneva in mano e li scuoteva. Era concentrata mentre compiva quelle operazioni, ma si vedeva che si divertiva molto. Lo fece ancora di più quando, per scuoterli all'interno di uno dei due bicchieri, si mosse in maniera troppo brusca e tutti i fagioli finirono per terra. Rise un sacco e batté le mani. Presa dall'eccitazione, e già che c'era, gettò sul pavimento anche i bicchieri.
"Ti perdono solo perché ho capito che non l'hai fatto apposta, piccola peste" le disse la nonna toccandole più volte una guancia con la punta di un dito.
Si stupì molto quando Hope si chinò a raccogliere tutto con lei. In fondo la mamma le aveva sempre insegnato che bisognava mettere via ciò con cui si giocava, pensò la piccola, e anche se non lo faceva sempre, quel giorno ne aveva voglia. Fu proprio quando terminarono di sistemare che scesero il nonno e Mackenzie. Hope corse verso la sorella e le si gettò fra le braccia lanciando un gridolino di gioia.
"Mac, Mac!" continuava a ripetere, saltellando e comportandosi come se non l'avesse vista per settimane.
Quell'accoglienza tanto calda fece spuntare un gran sorriso sul viso dell'altra bambina.
Abbiamo finito, nonna scrisse Mackenzie.
Sembrava stanca ma più rilassata rispetto a quando erano andati a prenderla.
"Fantastico! Ti va di dirci com'è andata a scuola?"
Non è andata male, sul serio, se fosse successo qualcosa di brutto adesso lo direi. Li guardò tanto seriamente che i due non poterono che crederle. Ma vorrei godermi un bel pomeriggio senza pensare a niente. Vi dispiace?
“No” rispose Dianna.
“No, te lo meriti Mac.”
"Fame" mormorò Hope come se avesse paura di disturbare.
"Adesso facciamo una bella merenda, d'accordo? Ho comprato una cosa che vi piacerà tantissimo."
Con ciò Dianna le portò in cucina e le fece accomodare, poi scaldò per tutte e tre del latte e tirò fuori dalla dispensa delle merendine al cioccolato.
"Devo parlare con Demi, Eddie" gli disse sospirando.
"Perché?"
Nessuna delle due capì il resto. Hope non era granché interessata e Mac, pur tendendo l'orecchio, colse soltanto stralci di conversazione dato che i nonni parlavano a voce bassissima. Tornò a sentire solo quando Dianna chiese:
"Ho una tazzina di plastica con il beccuccio. Provo a darle il latte con quella?"
"Sì, proviamo. La prendo io, so dov'è."
Mackenzie aspettò di vedere cosa sarebbe successo. Intanto scartò la merendina e vide che era una brioche con dei dischetti di cioccolato sopra. Quando la morse il gusto amaro del fondente le riempì la bocca, ma per fortuna non era troppo forte e le piacque molto. C'era del cioccolato anche dentro, in forma di pezzettini croccanti.
È buonissima, nonna. Grazie.
"Prego. Immaginavo che l'avreste apprezzata." Intanto la stava spezzettando a Hope che, con le manine, prendeva ogni boccone e lo metteva il bocca. Raccoglieva anche le briciole, come se fosse stata un uccellino. "Proviamo a fare una cosa insieme?" le chiese Dianna quando Eddie le passò la tazza con il latte.
La piccola la guardò disorientata. La mamma ne usava una simile, ma non capiva perché avrebbe dovuto farlo anche lei.
"Bibe, bibe" ripeteva.
"No, ora beviamo con questa. Lo so che non la usi, ma proviamo, va bene?"
Mac allora capì: la mamma dava ancora il biberon a Hope, la mattina e, solo ogni tanto, il pomeriggio se non faceva merenda all’asilo, mentre a giudicare da quanto i nonni stavano facendo forse era ora di farle usare una tazza come quella.
Pur non convinta, Hope lasciò che la nonna la sollevasse e le desse da bere con quella, lentamente. La prima volta il latte le andò di traverso e tossì, ma si riprese subito e poi andò meglio. Quando aveva quasi finito riuscì a sollevarla e a portarla alla bocca da sola.
"Bravissima" si complimentò la donna alla fine.
Intanto, Eddie si stava facendo il caffè con la macchinetta e insegnò a Mackenzie a tirare fuori la capsula dal sacchetto e a metterla nel modo giusto. Le fece anche premere i tasti necessari per accendere la macchina e avviarla.
Anch'io voglio il caffè, nonno.
Il profumo era ottimo, ma la mamma non gliene aveva mai fatto bere neanche un po'.
"Riparliamone tra almeno quattro anni, okay? Allora forse, ma proprio forse potrai bere un po' di decaffeinato."
Uffa, ma è tantissimo tempo! si lamentò.
"Lo so, però adesso sei troppo piccola."
Va bene sbuffò, chiedendosi come mai quando desiderava fare cose come quella, che credeva le sarebbero piaciute tantissimo, i grandi le dicevano sempre che era presto, o che era troppo piccola, o che avrebbe dovuto aspettare.
Non era giusto. Si imbronciò e si risedette, mentre aveva la sensazione che la sua faccia fosse strana, deformata in un'espressione cattiva che non riusciva a definire in altro modo e che non le apparteneva. Andò in bagno, salì su uno sgabello fregandosene del fatto che fosse pericoloso e si guardò allo specchio. Era solo triste e arrabbiata, non crudele. Come al solito la sua mente le giocava brutti scherzi, e poi sapeva benissimo di non essere così. Si risciacquò il viso e, quando tornò in cucina e la sorella le sorrise, Mackenzie non riuscì più a rimanere in collera con gli adulti per ciò che non le permettevano di fare. Hope era il grado di scioglierle il cuore ogni volta.
"Vi abbiamo preso una cosa, venite" disse la nonna e le portò in giardino, mentre il nonno aprva il garage. Portò fuori una bicicletta rossa con le rotelle e un triciclo nuovi.
"Li abbiamo comprati pochi giorni fa per voi" spiegò. "Il triciclo che avevamo era vecchio, la bicicletta anche e abbiamo pensato che, per farvi giocare, ci sarebbe voluto qualcosa che non fosse scassato, ecco" concluse ridacchiando.
Hope corse subito verso il suo nuovo mezzo di trasporto, vi salì sopra e dopo qualche pedalata un po' insicura iniziò a scorrazzare per il giardino. Ogni tanto andava sull'erba ma riusciva a spostarsi subito con il manubrio, percorrendo la lunga striscia d'asfalto che la circondava.
"Brum, brum, brum" ripeteva fingendo di essere in auto e rideva.
Mackenzie, invece, rimase a fissare la sua bicicletta per minuti interi con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Non ne aveva ancora avuta una, in parte perché preferiva giocare in casa e in parte perché aveva così tanti giocattoli che non aveva mai avuto il coraggio di chiederla alla mamma. Per Natale, magari. Elizabeth le aveva detto che avrebbe chiesto le bambole, lei nella letterina avrebbe domandato una bici. Forse quel vecchio simpatico sarebbe stato in grado di esaudire il suo desiderio. Era stata abbastanza buona, ma al 25 dicembre mancava ancora tempo perciò doveva stare attenta.
I nonni sorrisero nel vederla tanto emozionata e felice, ma non dissero nulla e le lasciarono i suoi tempi.
Basta, adesso la provo.
Montò e fece trillare il campanello: aveva un suono cristallino che le piacque un sacco. Diede la prima, vigorosa pedalata e fu colpita da una potente scarica di energia che le attraversò tutto il corpo, poi partì anche lei come la sorella. I nonni le osservavano e dicevano loro di fare attenzione e non correre troppo forte. Le piccole si divertirono come pazze fino all'ora di cena, quando tornarono in casa stanche ma contente. 
 
 
 
Una volta a casa di Demi i due si divisero. Lei andò a farsi la doccia mentre lui diede da mangiare e da bere al cane e al gatto - che li avevano quasi finiti - e poi si sedette sul divano ad aspettare.
Per fortuna non aveva vesciche ai piedi, constatò la ragazza mentre si spogliava, anche se le facevano molto male tanto aveva camminato. Mise gli abiti sporchi e sudati a lavare e aveva già preso gli asciugamani e un pigiama pulito, appoggiandoli sul lavandino del bagno. Nonostante non facesse tanto freddo non era nemmeno caldissimo, così decise di accendere la stufetta elettrica che cominciò a diffondere un po' di calore nella piccola stanza. Il getto d'acqua calda la rilassò all'istante, e mano a mano che si lavava prima i capelli e poi il corpo, insaponandosi e sfregando, la stanchezza diminuiva e così il dolore ai muscoli e alle dita dei piedi. Sperò che non le sarebbe venuto l'acido lattico il giorno successivo. Era vero, le piaceva camminare, ma non lo faceva in modo serio da un sacco, limitandosi a qualche passeggiata con le bambine. Una volta vestita uscì e andò nel bagno al piano di sotto, aspettò qualche minuto e poi si asciugò i capelli mentre il suo fidanzato saliva a lavarsi. Da tempo aveva iniziato a lasciare diversi suoi vestiti a casa della ragazza, quindi ne aveva, non era un problema. Non accese la stufetta, però, non lo faceva mai se non d'inverno.
Si ritrovarono tutti e due sul divano, con un pigiama addosso. Per Andrew era strano portarlo a quell'ora.
“Perché ti sembra così strano?” gli chiese la ragazza quando lui la mise a parte di quel pensiero.
“Io lo metto solo prima di dormire come fanno tutti i comuni mortali” rispose dandole di gomito.
“Ah, quindi io non sarei una comune mortale?”
“Esatto.”
Demi portava il pigiama o una tuta da ginnastica quando il pomeriggio era a casa e non doveva andare da nessuna parte e se sapeva che nessuno veniva a trovarla. Si sentiva comoda così e portarlo la rilassava. Dianna e Eddie non avevano mai accettato quel suo comportamento, impedendole di indossarlo anche durante il giorno ma, quando era andata a vivere da sola, aveva iniziato a fare ciò che voleva. In fondo, non doveva essere sempre in tiro anche quando era a casa propria.
“Devo dirti una cosa. Stamattina mi ha chiamata Catherine.”
E gli raccontò tutto ciò che si erano dette. I lineamenti di Andrew si fecero un po’ tesi quando seppe del bambino.
“Vado di là a chiamarla, okay? Ti dispiace?”
Desiderava telefonarle, ma non avrebbe mai voluto ferire la sua ragazza con quel gesto.
“No, fai pure. È tua amica, è giusto che tu la sostenga e poi voglio sapere anch’io come sta George.”
Non mentiva. Aveva capito già molto tempo prima che Catherine non aveva nessun interesse amoroso verso Andrew e che i due erano solo amici. Sapeva anche che in realtà non si vedevano quasi mai, ma che in fondo erano ancora uniti da quel legame. Anche lei si sarebbe comportata così se Joe avesse avuto un problema ed era sicura che Andrew le fosse fedele, come infatti era. Non era certo il tipo di persona che va con altri mentre sta con qualcuno e anzi, se così fosse stato si sarebbe fatto schifo. Andrew andò in cucina e lasciò la porta un po’ aperta. Demi poté udire solo alcuni stralci di conversazione dalle parole dell’uomo che poco dopo tornò in salotto.
“L’hanno operato e sta bene” disse. “Non ci sono stati altri problemi. Era molto più tranquilla. Tra tre giorni George dovrebbe essere a casa.”
Demetria tirò un sospiro di sollievo. Anche se si era concentrata su altro, una parte della sua mente era sempre stata fissa su Catherine e George e sulla situazione, e aveva pregato tanto.
“Grazie a Dio!”
“Già. È così piccolo!”
“Sì, è quello che ho pensato anch’io stamattina quando me l’ha detto. Avrei voluto andare in ospedale, ma non credo me l’avrebbe permesso. Insomma, non ci conosciamo molto. Tu sei suo amico ma lei è la psicologa di mia figlia e così non gliel’ho chiesto. Forse avrei dovuto.”
Magari avrebbe dovuto pensare a ciò anziché concentrarsi sui suoi, di problemi, ma in quel momento non ragionava bene.
“No, sono d’accordo con te, non te l’avrebbe lasciato fare o comunque ti avrebbe detto semplicemente di no. Non sentirti in colpa.” Le prese la mano. “Mi ha raccontato che hai pregato per lui.”
“Sì.”
“E che si è sentita già meglio sapendolo.”
“Mi fa piacere. Magari domani o dopodomani potremmo andare in ospedale a trovarli.”
“Stavo per dirlo io.” Passarono lunghi minuti di silenzio nei quali i due si guardarono e basta. “Mi hai fatto morire, oggi" commentò poi ancora lui stringendola forte a sé. La ragazza stava per scusarsi ancora e per tutto, ma lui la zittì con un bacio. "Va tutto bene" sussurrò poi al suo orecchio.
"Tu sei stato migliore di me."
"In che senso?"
"Tutte le volte in cui abbiamo litigato, sei tornato indietro e ti sei scusato. Io invece non ti ho nemmeno chiamato o mandato un messaggio ieri sera per chiarire."
"A volte bisogna lasciar passare del tempo per calmarsi e capire cosa si prova davvero. A te ne è servito un po' di più, tutto qui, ma a me basta sapere che avresti voluto farlo."
"Sì, l'avrei voluto. Tuttavia ero troppo arrabbiata con me stessa per le cose schifose che ti avevo detto. Anch'io devo imparare ad essere meno impulsiva." Andrew era migliorato molto sotto quel punto di vista. "Dopo però ho provato a chiamarti, quando mi sono decisa. Ti ho inviato un messaggio che non è nemmeno partito, guarda" e gli mostrò il cellulare. "Ho anche provato a chiamarti ma non c'era campo. Avrei potuto farlo prima ma non mi sentivo abbastanza calma per affrontare questa discussione."
"Ti credo, Demetria. L'importante è che tu ci abbia provato."
"Vieni qui."
Stavolta fu lei ad avvolgerlo in un caldo abbraccio, poi gli baciò la testa, il collo, la fronte e il naso, gli accarezzò il petto e lui, anche se non era nudo, nel sentire quel tocco gemette di piacere. Andrew le passò le mani sulla schiena, poi risalì fino al suo viso e glielo prese con dolcezza, fissandola come se fosse stata il cristallo più delicato e bello del mondo. Lei gli passò le punte delle dita sul pomo d’Adamo facendogli correre brividi lungo tutto il corpo. Da quelle dolci coccole passarono ad altre un po' più spinte, arrivando a sfiorare ognuno le parti intime dell'altro e a gemere quasi fino ad urlare. Avevano comunque deciso, parlandone giorni prima, di non fare più l'amore fino al matrimonio. Non importava quanto tempo ci sarebbe voluto per sposarsi. Desideravano conservare la loro seconda volta per quel momento speciale. La ragazza gli si aggrappò alle spalle salendo sopra le sue gambe, e dopo altri abbracci e infiniti baci entrambi si rilassarono.
"So che non è da me dirlo, ma sei l'unico che sia mai riuscito a farmi sciogliere ed eccitare così tanto" mormorò la ragazza.
Non era proprio da lei fare quel tipo di commenti, decisamente, ma ogni tanto bisognava osare nella vita.
"Ne sono felice" le rispose Andrew facendole l’occhiolino mentre si separavano. "Non vorrei interrompere il momento, ma ora devo proprio andare a vedere come stanno i miei gatti e se hanno bisogno di cibo o altro, poi tornerò qui."
"Resta, stanotte."
La voce morbida di Demi lo fece sorridere.
"Certo che sì" disse, anche se la sua non era stata una domanda bensì una preghiera.
"Vengo con te, se vuoi. Tanto Batman e Danny dormono e stanno bene."
Erano spaparanzati uno nella sua cuccia e l'altro su una poltrona.
"D'accordo."
Una volta arrivati all'appartamento i due cambiarono l'acqua a Jack e Chloe che andarono subito a bere miagolando e Andrew mise dei nuovi croccantini, Demi invece cambiò la sabbia della lettiera.
"Perfetto, tutto a posto!"
Gli occhi di Andrew, che nel pronunciare quelle parole era sembrato tanto allegro, si velarono di un'espressione che Demi non riuscì a definire. All'inizio non capì nemmeno verso cosa li stesse puntando, poi notò che su un tavolino aveva appoggiato una fotografia che la ragazza non vedeva da anni. Si sorprese nel trovarla lì e provò una forte malinconia.
"Pensi molto a loro?"
"Abbastanza."
La voce dell'uomo si ruppe, come un bellissimo bicchiere di cristallo che si infrange su un pavimento di marmo.
"Se non vuoi parlarne lo capisco. È solo che guardavi la foto e allora…"
Lui tossì per recuperare la voce.
"No, va bene. Forse ne ho bisogno." Si avvicinò alla fotografia, la prese in mano e si sedette sul divano con Demi.
L'immagine nella cornice raffigurava due gatti grigi e neri che si chiamavano proprio Chloe e Jack. Erano sdraiati su un divano, vicini, con la testa fra le zampe e gli occhi semichiusi.
"Qui sembravano in pace" commentò Demetria.
"Erano sempre molto tranquilli in casa, soprattutto da quando mamma e papà non c'erano più. A parte la volta in cui hanno buttato a terra l'albero di Natale, voglio dire."
Si riferivano alla Vigilia di Natale di nove anni prima, quando si erano trovati in casa da soli proprio per fare l’albero e passare un bel pomeriggio insieme. Demi era uscita dalla clinica da undici mesi e stava ancora cercando, con difficoltà e alti e bassi, di recuperare un equilibrio. Risero entrambi pensando che, alla fine, a causa di quel disastro erano stati costretti a sistemare tutto, e quella risata fu liberatoria, perché per un momento il macigno che gravava su di loro e soprattutto sul cuore di Andrew sembrò sparire.
"Abbiamo dovuto rifarlo daccapo, ricordi?"
"Sì, ma è stato un pomeriggio divertente fino a quando tu non ti sei sentita male."
"Guarda che puoi dire che quando mi sono trovata davanti la tazza di cioccolata calda ho iniziato a sentire la voce dell'anoressia che mi diceva di non mangiare, che sarei ingrassata e che avrei fatto schifo" gli fece notare, tanto non aveva nessun senso nasconderlo.
"Non volevo farti male."
"Non l'avresti fatto."
"Bugiarda."
"È vero, Andrew. Non sei tu a farmi del male parlando di questo. È il mio passato che mi provoca sofferenza, non tu. Quello che mi è successo ha fatto anche parte della tua vita. Hai il diritto di parlarne. Nel caso sarò io a dirti di fermarti, okay?" gli spiegò.
"Va bene."
"Comunque ora stai… stai meglio?" si azzardò a domandare Demi.
Sapeva che la faccenda dei gatti non era quello che aveva causato più dolore ad Andrew nella sua vita, ma era altrettanto consapevole del fatto che era sempre stato reticente a parlarne anche con la sorella quando era viva, figuriamoci con lei.
"Sì, ma mi resterà sempre una punta di dolore. Non sono morti, è vero, ma a volte mi domando dove sono, come stanno, se qualcuno li ha adottati o se sono per strada, cosa fanno, se hanno da mangiare, se dormono al caldo, se qualcuno li ama almeno la metà di quanto abbiamo fatto noi, se sono felici. Magari sono vivi, come spero, o forse sono finiti sotto un'auto e non ci sono più. Davvero, non lo so."
Non ne parlava da sette lunghissimi anni. Era strano farlo ora, dopo così tanto tempo. Stava riaprendo una vecchia ferita mai del tutto rimarginata, ma forse discuterne lo avrebbe aiutato a curarla un po’.
Aveva trovato quei gatti per strada mentre stava facendo una passeggiata con i suoi e li avevano tenuti. Loro si erano presto ambientati e affezionati alla famiglia, molto prima di quanto tutti si sarebbero immaginati. L'avevano fatto anche con Demi. Quando prima Joyce e poi Frank erano morti, Jack e Chloe erano cambiati. Avevano iniziato a miagolare per la casa camminando senza volersi fermare e lanciando miagolii pieni della tristezza e del dolore che anche loro, a proprio modo, dovevano provare. Andrew e Carlie avevano cercato ogni volta di calmarli, riempiendoli di coccole e di attenzioni ancora maggiori. Ciò aveva aiutato i due fratelli a sentirsi un po' meglio. I gatti stavano sempre in casa e non uscivano mai, perché erano stati abituati così e non avevano dato segno di voler andare fuori nemmeno una volta. Erano passati pochi mesi dalla morte dei loro genitori quando una mattina, prima di uscire di casa, Andrew aveva lasciato la porta e il cancello aperti. Carlie era già andata via. Solo ore dopo un vicino rientrando se n'era accorto e l'aveva chiamato per avvisarlo. Lui era corso lì il più in fretta possibile, preoccupato che qualcuno fosse entrato e avesse rubato qualcosa, uno zingaro magari, o che degli oggetti fossero stati rotti o che ci fossero danni di altro genere. Tutto era a posto, grazie al cielo, il che era quasi un miracolo, salvo che per l'assenza di qualcuno: Chloe e Jack non c'erano più.
"Li abbiamo cercati per settimane, ti ricordi?" chiese Andrew a Demi tornando al presente. "Li abbiamo chiamati, abbiamo fatto il giro del quartiere e poi della città, chiesto in giro, al veterinario, appeso volantini con il mio numero di cellulare sopra in modo che qualcuno potesse chiamarmi se li avesse trovati, di tutto!"
"Già. Come dimenticarlo?"
Entrambi ricordavano benissimo quel periodo, talmente bene che parve loro di tornare indietro nel tempo. Andrew aveva sofferto un sacco, perché si era sentito ancora più solo. Carlie aveva continuato a piangere e Demi e la sua famiglia avevano fatto per loro tutto il possibile, sia moralmente che per cercare quelle povere bestiole, purtroppo senza alcun risultato. Jack e Chloe non erano stati mai più ritrovati.
"Dopo mi sono sentito ancora più vuoto, e Carlie con me. E anche in colpa, perché ero stato io a lasciare la porta aperta quel giorno e prima non era mai successo, tutti avevamo sempre fatto molta attenzione a chiuderla in modo che Jack e Chloe non uscissero."
Non serviva dire che Carlie non gli aveva parlato per giorni e che poi aveva continuato ad urlargli contro, piena di rabbia e di dolore non solo per quello ma anche per quanto era successo prima. A volte stiamo talmente male che non ci rendiamo conto che quelli degli altri sono errori. Grandi, come in questo caso, ma pur sempre errori, e che ogni essere umano ne commette prima o poi anche non volendo. Tornati a casa, i due fratelli si sdraiavano sul divano e rimanevano lì a fissare il vuoto e poi la porta, sperando nel loro intimo che i mici sarebbero tornati, che li avrebbero sentiti miagolare. A volte capitava e così aprivano, ma non c'era mai nessuno. Avevano avuto due reazioni differenti all'accaduto. Carlie aveva continuato a parlarne per mesi e mesi, non solo con il fratello ma anche con le amiche e con Demi, benché loro due non fossero mai state amiche per davvero, mentre Andrew si era chiuso in se stesso. Aveva lasciato la sorella libera di comportarsi come preferiva, capendo che aveva bisogno di sfogarsi, ma per quanto lo riguardava, l'argomento "Jack e Chloe sono spariti" era off limits. Aveva preferito affrontarlo a suo modo, da solo, come aveva fatto anche in seguito. Solo nel suo dolore, ecco cos'aveva deciso di essere in tutti quegli anni, finché non si era aperto con Demi; poi Carlie era morta e si era chiuso un'altra volta, forse più di quanto avesse mai fatto. E dopo il suo tentato suicidio aveva ripreso di nuovo ad aprirsi, capendo che non voleva più nascondere la sua sofferenza alla ragazza che amava. Doveva farlo per lei e anche per se stesso.
"È stata una distrazione, non l'hai fatto apposta" cercò di consolarlo Demi come aveva fatto tante volte in passato, sapendo però che ancora una volta le sue parole erano vuote.
Ma d'altronde, cos'altro avrebbe potuto dirgli?
"No, ma è comunque capitato. E non me lo perdono. Cerco di non pensarci, di andare avanti, e ormai dopo anni in me è rimasto solo un po' di dolore che torna fuori ogni tanto, come stasera. Ieri ho tirato fuori la loro foto perché mi è capitata in mano per caso mentre sistemavo alcune cose, così mi sono detto che forse metterla lì sarebbe stato un passo avanti per sentirmi ancora meglio, ecco. Come per Carlie."
C'era anche la sua fotografia, in una cornice su quel tavolino, in cui la ragazza sorrideva e sembrava felice. A fianco ce n'era un'altra con i genitori di Andrew e, ancora dopo, una con Demi e le bambine.
"Sono foto molto belle" commentò la ragazza.
"Infatti."
"Cosa provi quando le guardi?"
"Emozioni contrastanti: gioia, tristezza, nostalgia, felicità per i momenti belli che ho vissuto con quelle persone. So che tu e la tua famiglia mi avete sempre detto che ne faccio parte anch'io e ne sono contentissimo, davvero. Ma io, la mia, l'ho persa in questi anni. È scomparsa pezzo dopo pezzo. Niente e nessuno potrà mai riempire questo vuoto."
Andrew si morse il labbro, forse temendo che dicendo ancora qualcosa la sua sofferenza sarebbe straripata come l’acqua del fiume dopo un’alluvione.
Il dolore che Demetria percepì nelle sue parole fu talmente lacerante da mozzarle il fiato. Sapeva che non l'aveva detto per essere trattato con compassione ma solo perché era la verità, e che lei non sarebbe mai riuscita nemmeno ad immaginare cosa si doveva provare nel rendersi conto di essere orfano e di non avere più nemmeno la sorella.
La solitudine che Andrew aveva provato quando si era reso conto di ciò che, ora, era riuscito a dire era stata disperata e continua, non l'aveva mai lasciato nonostante tutto e tutti. Adesso iniziava a pensarci di meno, però.
Demi gli si avvicinò e lo abbracciò da dietro. Lui si lasciò coccolare e cullare nella sua dolce stretta.
"Ora va meglio, comunque" ci tenne infatti a precisare. "Il dolore è forte ma sta diminuendo, anche se per i miei è diverso visto che sono morti sette anni fa. Ho accettato quella perdita, ormai. Per Carlie beh, ne abbiamo già parlato. È ancora presto per me per stare bene, ma va meglio. Adesso quando sono felice non sempre mi sento in colpa, quando passo dei momenti con te e le piccole mi fa davvero piacere stare con voi. È come se, con una lentezza quasi esasperante, iniziassi comunque a vedere che sto ritrovando un pochino qualcosa che prima non avevo."
"Che cosa?"
"La speranza. E la consapevolezza che forse posso ancora credere nella felicità."
Andando di fronte a lui e continuando a stringerlo, Demi sussurrò:
"Tu sei la persona più coraggiosa che io abbia mai conosciuto. E lo sei anche quando crolli o hai delle debolezze, perché è anche questo a rendere qualcuno umano. Non so quanto ci vorrà, ma credo che tu possa essere ancora felice, o quantomeno sereno. Ti sono stata accanto da sempre. Ti starò vicina anche adesso e in tutto questo percorso."
“Grazie."
"Cambiando discorso, perché hai chiamato i gatti che hai ora come loro?"
Sperò di non averlo ferito saltando da un argomento all'altro e fu sollevata nel sapere che non era stato così.
"Alcuni lo fanno perché vogliono trattarli come una copia dei precedenti, o perché non riescono ad accettare la loro scomparsa. Nel mio caso, mi è venuto automatico. Non c'è una ragione precisa, o se sì è inconscia. L'ho fatto e basta."
"D'accordo, scusa se te l'ho chiesto ma non me l'avevi mai detto."
"Nessun problema, tranquilla."
Si baciarono con dolcezza, piano, come se temessero di farsi male. Fu un bacio leggero e tiepido come un soffio d'aria calda.
Una volta a casa di Demi, rimasero per un'ora abbondante a guardare la televisione. All'inizio fecero zapping, non trovando nulla di interessante.
"Uffa, ma non fanno niente oggi!" si lamentò Demetria. "È strano, di solito al lunedì c'è sempre qualcosa di bello."
Più tardi ci sarebbe stato “NCIS”, ma lo facevano sempre quando lei stava cenando quindi non lo vedeva mai tutto. Non accendeva il televisore durante la cena, lo trovava diseducativo.
Andrew prese il telecomando e mise su un canale dove facevano un programma chiamato "Affari a quattro ruote", dove due meccanici comprano delle macchine usate e messe male, le rimettono a posto e poi le rivendono. La sua fidanzata storse il naso ma non disse niente, concentrandosi su Batman e Danny che ora erano lì in salotto e si rincorrevano. Ogni tanto il gatto miagolava e il cane abbaiava, chissà cosa si dicevano, però non sembravano arrabbiati l'uno con l'altro.
"Vabbè, questo episodio l'ho già visto."
Il telecomando finì di nuovo nelle mani di Demi che, girando a caso, a un tratto quasi urlò:
"Fanno "Io prima di te"!" Era un film tratto dal primo libro di una saga di tre uscita anni prima e che lei aveva adorato. "Ma forse non è il caso di vederlo," rifletté abbassando la voce, "visto il modo in cui finisce."
"Lo so come finisce, anche se non l'ho letto."
"E?"
"Guardiamolo pure."
"Sei sicuro?"
Andrew ci pensò per qualche secondo, poi trasse un profondo respiro. Sapeva che gli avrebbe fatto male, ma voleva comunque vederlo.
"Sicuro."
Piacque a tutti e due. Rimasero colpiti dalla tristezza e dal carattere pacato di Will e dall’esuberanza e la dolcezza di Louisa, dalle musiche stupende e dalla storia travolgente, anche se rimasero molto colpiti e intristiti dal finale. Demi chiese ancora e più volte al suo ragazzo se voleva che girasse, se quel che stava accadendo gli portava alla mente troppi brutti ricordi, ma lui disse sempre di no. In realtà sapevano entrambi che era così, e quando la protagonista aveva pianto per la scelta del suo fidanzato lui si era sentito male perché si era detto che Demi doveva essersi sentita così quando lui aveva fatto quello che aveva fatto.
"Cucino io, stasera" si propose Demi.
"Posso farlo io, non è un problema."
"Lo so, ma mi piace cucinare per te."
"Oooh, ma davvero? Potrei approfittarne più spesso, allora. Comunque mi piace guardarti mentre lo fai, sei sexy anche in quel caso."
“Cretino!”
La ragazza andò in cucina e preparò la tavola assieme a lui, poi si mise ai fornelli e cucinò una semplice pasta che condì con del sugo di pomodoro fatto un paio di giorni prima.
"L'ho cotta troppo, vero?" chiese.
Spesso le scappava, ma non lo faceva apposta. Le piaceva la pasta un po' troppo cotta però sapeva anche che non tutti la apprezzavano.
"Tranquilla, va bene così. E questo sugo è eccezionale!"
Il sapore dolciastro del pomodoro si mischiava alla freschezza del basilico creando una meravigliosa armonia di sapori.
"Ti ringrazio. Domani dobbiamo assolutamente andare a comprare dei vestiti per il battesimo, e anche al ristorante che abbiamo scelto per parlare con il proprietario del menu. Abbiamo anche il corso, dobbiamo comunicare la lettura che abbiamo deciso a Padre Thomas, e, beh, credo che gli inviti non servano, farò io per telefono."
"Sì hai ragione, bisogna cominciare a pensarci. In fondo mancano solo venti giorni."
"Ci siamo presi tardi."
"Sì, decisamente. Faremo tutto, okay? Un po' in fretta, ma quel giorno le nostre figlie avranno un battesimo bellissimo."
Gli sorrise.
"E se… non lo so, se lo facessimo a casa, il battesimo?"
"Qui? Dovremo lavorare molto, non è meglio al ristorante?"
"Facciamo una lista degli invitati, intanto."
Prese carta e penna, la ragazza cominciò a scrivere. Ovviamente ci sarebbero stati i suoi genitori e le sorelle, poi Joe, Selena, Nick e anche Kevin, Bill, Elizabeth, Mary, Jayden, e chi altro?
"Credo che siano tutti" disse Andrew ricontrollando.
"Dodici quindi, sedici con noi. Ha senso andare al ristorante essendo solo in sedici? Possiamo allungare la tavola della cucina e mettere alcune persone in salotto, oppure portare su il tavolo che ho in garage e metterlo fuori in giardino come facevo anni fa d'estate."
"Sì, in effetti potremmo fare così,  è che mi parevi convinta del contrario."
"Lo so, ma ora sono sicura di questo, se sei d'accordo anche tu. Di' pure la tua, liberamente."
Andrew rispose che a lui andava benissimo e poi continuarono a parlare dell'organizzazione, del menu, di cosa chiedere a Dianna per la preparazione e molto altro e discussero dell'organizzazione ancora per un bel po'.
"Vado a prendere il dolce" disse Demi una volta finito.
Aveva preparato una crostata alla marmellata la sera prima.
"No, aspetta."
Andrew pronunciò quella frase come se avesse urgenza di dirle qualcosa o se fosse in ansia e lei gli lanciò uno sguardo interrogativo.
"Non spaventarti, devo solo dirti una cosa importante" la rassicurò. "Siediti."
Lei ubbidì e lui le si inginocchiò di fronte. Fu subito chiaro a Demi che quello era un momento importante. Cosa gli avrebbe risposto se le avesse chiesto di sposarlo? Non stavano insieme nemmeno da un anno, e anche se si conoscevano bene era troppo presto. Avrebbero dovuto aspettare un altro po' prima di fare quel passo, magari non anni ma mesi. Le sembrava prematuro. D'altro canto non voleva nemmeno deluderlo e dargli un dolore. Ma non era neanche giusto che non gli dicesse la verità. Mille pensieri si accavallavano nella sua mente confondendosi e creando un groviglio inestricabile. Quello che avrebbe dovuto essere un momento bellissimo, per lei era solo una gran confusione. Non si era immaginata così la sua proposta di matrimonio, no di certo.
"Demi" iniziò Andrew con voce dolce. "Non sono bravo con le parole."
"Se tu non sei bravo con le parole, io come cantante faccio schifo" rispose lei prontamente.
Lui non replicò e riprese:
"So che è presto per chiedere la tua mano, in fondo stiamo insieme da soli nove mesi."
L'aveva capito, allora.
"Spero di non averti ferita iniziando in questo modo, forse non avrei dovuto."
"No, no, hai fatto bene. Anch'io sono del tuo stesso avviso, non siamo ancora pronti. Tra un po', chi lo sa? Va tutto bene, continua."
Gli sorrise per incoraggiarlo.
Lui proseguì, con la voce più calda e profonda del solito:
"Ma nonostante le nostre discussioni e le divergenze tra noi, anche nonostante le vere e proprie litigate, sono convinto che possiamo affrontare tutto insieme. In questi cinque anni ne abbiamo passate tante. Abbiamo sofferto, pianto, a volte da soli e molto più spesso, per fortuna, insieme. Questo ci ha resi più forti. Abbiamo anche riso, siamo stati felici e potremo tornare ad esserlo superato questo brutto periodo per Mackenzie. Tu hai accolto nella tua vita due bambine stupende e hai voluto che io facessi parte della vostra famiglia, cosa della quale sono onorato e tanto felice che potrei urlare. Voi avete migliorato la mia esistenza e me l'avete cambiata." Il suo respiro si faceva sempre più affannoso e sentiva il sudore colargli giù per la schiena. Stava per sfregarsi le mani sui pantaloni ma evitò, doveva stare calmo o almeno provarci. Era così agitato che gli sarebbe venuto spontaneo balbettare ogni tanto, ma si sforzò di non farlo per non rovinare il momento. "In questo lunghissimo periodo io e te abbiamo fatto un percorso e siamo maturati, e da quando stiamo insieme siamo ancora più legati di prima. A volte ci siamo scontrati ma alla fine siamo già una cosa sola, un'anima sola e non è una frase fatta, è la verità. Tu sei la cosa più bella che mi sia capitata nella vita, la prima a cui penso quando mi sveglio e l'ultimo pensiero che ho prima di dormire. È dolce addormentarsi e svegliarsi con te in mente, e lo è ancora di più quando mi sei vicina fisicamente. Io ti ho amata, ti amo e, lo so, ti amerò per sempre con tutto me stesso. Quindi, perché gli altri vedano anche in un altro modo la nostra unione…"
Prese un respiro profondo, poi si infilò una mano in tasca e tirò fuori una scatolina quadrata.
"Che cos'è?" chiese Demi, che lasciò andare l’aria.
Aveva trattenuto il respiro per qualche secondo durante quella dichiarazione tanto semplice quanto commovente e aveva le guance in fiamme. Non riusciva a ragionare con lucidità.
"Aprila, è per te" le rispose il suo ragazzo, vago.
Lei sciolse il nastro legato attorno alla scatola, lentamente, mentre il cuore faceva le capriole tanto da procurarle dolore, ma era una sofferenza piacevole. Immaginava cosa ci fosse lì dentro, ma voleva scoprirlo e al contempo assaporare con calma ogni attimo. Chiuse gli occhi e ripose con calma il coperchio sul divano, poi inspirò ed espirò tre volte prima di riaprirli. E fu allora che lo vide: un anello d'argento con una piccola pietra sopra. Il materiale di cui era fatto era talmente fino che sembrava fragilissimo, aveva quasi paura di toccarlo.
"Fa' pure, non si rompe" le assicurò l'uomo.
La ragazza rimase a fissarlo inebetita, senza fiato e con gli occhi lucidi. Stavano davvero facendo un altro passo avanti nella loro relazione? Era uno di quelli importanti e non poteva crederci. Quella giornata era stata talmente piena che vedere l'anello proprio ora quasi la confondeva, ma si sentiva bene, incredibilmente bene.
"Andrew, è stupendo!" esclamò, affascinata.
"Cioè, è bellissimo, io non…"
Le scese qualche lacrima mentre sentiva il cuore battere forte contro la cassa toracica. Forse era così felice che se avesse potuto sarebbe saltato fuori.
Demi piangeva e sorrideva insieme, ed era la sensazione più fantastica del mondo. Toccò il gioiello con mani sudate e tremanti. Era un anello molto semplice ed era anche per questo che le piaceva così tanto. Non era un'amante delle cose elaborate e il suo ragazzo lo sapeva benissimo. Ma più che altro,  a parte la bellezza di quel monile in sé, era emozionata per ciò che significava per loro: che nonostante tutto erano uniti, che la loro relazione stava andando avanti, che era più forte, più stabile. Il suo corpo fu percorso da potenti scariche di adrenalina che le provocarono dei leggeri fremiti.
"Sono felice che ti piaccia" le disse lui mentre il suo volto si illuminava.
"No, non mi piace, lo adoro! È… oh mio Dio!"
Con un grido gli gettò le braccia al collo e lui la strinse forte.
"Hai fatto una cosa bellissima, grazie!"
"L'abbiamo fatta insieme. Siamo arrivati entrambi fin qui."
Si baciarono con foga, quasi con violenza, ma era una fretta data dall'eccitazione e dalla gioia che provavano.
"Posso mettertelo?"
Lei gli rispose con un enorme sorriso ed Andrew glielo infilò al dito medio della mano destra facendolo scivolare piano.
"Ti sta benissimo."
“Grazie.”
Demi lo guardò negli occhi, e in quel momento un raggio di luna che entrava dalla finestra colpì proprio l’anello facendolo luccicare ancora di più. La ragazza lo osservava come ipnotizzata, non avrebbe mai smesso di guardarlo.
"Consideralo un vero e proprio anello di fidanzamento."
“Fidanzamento” mormorò.
Ora quella parola le piaceva ancora di più, scivolava dolcemente sulla lingua.
La ragazza continuava a sfiorare il gioiello e a girarlo. Non sapeva cosa dire. Aveva la gola secca, talmente tanto che le mancavano le parole.
Un altro bacio appassionato unì lei e il fidanzato. Le labbra di Demi erano calde e soffici come il cotone, pensò Andrew interrompendo il bacio e accarezzandole con un dito, per riprendere poi a baciarla. Mentre le loro bocche si chiudevano l'una sull'altra il bacio crebbe e crebbe di intensità, fu probabilmente il più caldo e passionale che si fossero mai dati e li fece tremare non solo nel corpo ma anche dentro, fin nei recessi più nascosti e profondi dell'anima.
"Perché me l'hai dato proprio ora? Dopo quello che è successo fra noi ieri sera?"
"L'avevo preso qualche giorno fa e pensavo di aspettarne qualche altro visto che avevamo appena chiarito, ma non ce la facevo più ad aspettare" ammise. "Sono stato avventato?"
"No, è perfetto. Io ti amo ed è tutto perfetto."
E si chiusero di nuovo nel loro piccolo mondo fatto di baci e coccole, carezze e sospiri, godendosi a pieno quel momento magico, un momento che non avrebbero mai dimenticato.
 
 
 
credits:
Linkin Park, Nobody Can Save Me
 
 
Lea Michelle, Get It Right
La canzone è presente nella serie "Glee", in cui la cantante ha recitato rappresentando Rachelle Berry.
 
 
 
NOTE:
1. Emmastory non ha mai pubblicato un suo libro, anche se le auguro di farlo un giorno, e le sue storie si trovano solo su questo sito. Inoltre non ha mai descritto fisicamente Eliza, per questo non ho riportato nessuna descrizione quando ho parlato della bambola.
2. La riflessione sui genitori e l’attenzione particolare al figlio che ha dei problemi mi è stata fatta da mio padre un po’ di tempo fa. Come molti di voi sanno, io sono non vedente e ho un fratello che ha otto anni meno di me. Pur amandoci entrambi allo stesso modo, i miei tendevano a stare un po’ più dietro a me quando lui è cresciuto un pochino, e una persona ha detto loro di fare attenzione. Ho voluto inserirla perché, anche se sono passati solo cinque giorni da quando Demi ha iniziato a fare questo, mi sembrava importante.
3. Non ho scritto l’indirizzo del sito che Demi visita. Avrei voluto, ma avevo paura di scoprire che poi quel sito fosse già esistente e di non aver inventato nulla e anzi, rubato pur non volendo il nome a qualcun altro. Comunque mi sono ispirata a EFP per descriverlo e a Wattpad (che, tra parentesi, un non vedente non potrebbe mai utilizzare purtroppo), per il numero degli utenti registrati e per le storie in molte lingue.
4. La parte in cui Demi riflette sulle fanfiction non vuole assolutamente offendere nessuno. Questo desidero che sia chiaro. Semplicemente, ho dato la mia opinione a riguardo ma non è mia intenzione attaccare alcuna storia né nessun autore. Penso semplicemente che non si dovrebbe superare un certo limite, ma poi ognuno fa quello che vuole. Ritengo inoltre che spesso noi autori di fanfiction sui personaggi famosi non ci mettiamo mai dall’altra parte, da quella di chi queste storie poi potrebbe leggerle, magari non qui ma su siti di scrittura in cui se ne trovano in inglese o in altre lingue. Certo, è molto improbabile che succeda, ma se accadesse? Cosa proverebbero i cantanti o gli attori di cui scriviamo? Io me lo sono chiesta molto spesso e infatti ero dubbiosa se pubblicare o no questa storia all’inizio, lo ammetto senza alcun problema. Avevo anche pensato di cancellarla dal mio computer e fine, e lo stesso vale per tutto il processo di pubblicazione, ho avuto grosse crisi anche lì. Poi ho pensato che, nonostante avessi inventato alcune cose, non avevo dipinto Demi come un mostro ma avevo cercato di attenermi alla persona che io credo che lei sia ascoltando le sue interviste, canzoni, altri video, i documentari e così via. Ho scritto pensando sempre a come lei si sarebbe potuta sentire. Io le auguro di avere, in modo naturale intendo, tutti i figli che desidererà, non è mia intenzione offenderla per la questione della sterilità, e sto cercando di dare alla mia storia dei messaggi forti da trasmettere ai lettori. La vera Demi ha avuto problemi di droga e alcolismo. Ho deciso di non trattarli in primis perché ne sono venuta a conoscenza molto dopo aver iniziato a scrivere, e poi perché sono tematiche che, lo so, per me sarebbero troppo difficili.
Non so se la Demi apprezzerebbe “Cuore di mamma” e le altre fanfiction che ho scritto, ma sto facendo del mio meglio per renderle realistiche e non offensive.
5. L’appendicite può colpire bambini di qualsiasi età, anche se è più comune in quelli fra otto e undici anni. Se compare sotto i quattro la situazione è più preoccupante. Ecco una breve spiegazione dal sito www.guidagenitori.it.
E’ possibile, tuttavia, che compaia in bambini di ogni età compreso, anche se in casi eccezionali, il periodo neonatale. Il decorso clinico descritto è tanto più rapido quanto più il bambino è piccolo. Nel bambino al di sotto dei quattro anni di vita l’appendicite ha un decorso clinico particolarmente insidioso ed una evoluzione molto rapida. I sintomi di esordio sono più sfumati e possono essere gli stessi di patologie più banali (gastro-enterite acuta, dispepsia, sindromi da raffreddamento). Ciò determina un ritardo nella diagnosi e la malattia può assumere un andamento particolarmente insidioso.
6. Demi ha detto di non essere stata una delle persone più carine da adolescente. Io poi ho interpretato questa cosa aggiungendo altre riflessioni.
7. L'episodio di Dianna che aveva perso la figlia è vero, l'ha raccontato nel libro descrivendo bene gli attimi di panico da lei vissuti.
8. Ho saputo solo l’anno scorso della morte di Chester Bennington, per caso tra l’altro. Non seguivo il gruppo e non conosco quasi nessuna canzone. Le informazioni sul suo passato mi sono state riferite dalla mia amica _FallingToPieces_ che mi ha consigliato questa canzone, e dopo averla ascoltata ho deciso di inserirla qui. Quella di Glee invece mi è stata consigliata da komova_va e la prima sempre da Emmastory.
9. So che la scena con lo scoiattolo forse è un po’ irrealistica, anche se io anni fa sono stata a tipo un metro da uno di quegli animaletti nel bosco e lui non è scappato, però mi sembrava carina e l’ho inserita. Vale lo stesso per il messaggio in segreteria visto solo ore dopo, ma volevo che nessuno si accorgesse di alcun tipo di contatto da parte sua.


Avviso importante 10.10.2019: a causa di alcuni gravi problemi familiari e di miei problemi di salute non mi sarà possibile scrivere per un certo tempo, non so ancora quanto. Purtroppo il mio polso è messo male e non posso sottoporlo a troppi sforzi, nemmeno al'utilizzo della tastiera in quanto si infiamma con facilità ed è gonfio da parecchio. Devo fare dei controlli per capire qual è il problema. Inoltre quando utilizzo il PC, come in questo momento, sento molto dolore. Farò di tutto per tornare il più presto possibile a dedicarmi alla mia long e alle one shot alle quali tengo moltissimo. Nel frattempo ne ho pubblicate alcune anche recentemente, se vi va di passare. Purtroppo non so dirvi quando aggiornerò, ma posso assicurarvi che questa storia non rimarrà incompleta. Finisco sempre ciò che comincio, e nella long c'è moltissimo di me, per cui non la abbandonerò.
Intanto grazie a chi continua a leggere, recensire, mettere la storia nelle preferite/ricordate/seguite. Non riesco ad esprimere quanto il vostro supporto sia importante per me. Spero possiate aspettare e che riusciate a comprendermi. Mia mamma ha una grave malattia per la quale ha bisogno ora più che mai di me, e in più altri problemi, e ci si sono messi anche i miei quest'estate che hanno complicato tutto. Non smetterei di scrivere se non mi trovassi in una situazione così difficile, perché la scrittura è qualcosa che mi fa stare bene, che mi fa sentire viva.
Tornerò il più presto possibile.
crazy lion
   
 
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