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Autore: Parmandil    29/06/2019    0 recensioni
Per più di due secoli gli Archivi D’Arsay sono stati un mistero archeologico della Federazione. Antichi di ben 87 milioni di anni, celano una sorprendente tecnologia, capace di trasmutare la materia, unita però a una cultura simbolica e ritualistica di difficile interpretazione.
Quando la sonda-archivio minaccia di trasformare una colonia federale nella replica dell’antica D’Arsay, la Keter deve intervenire. Solo un viaggio nel remoto passato potrà svelare il mistero di quell’antica civiltà, col suo misto di raffinate tecnologie e di riti sanguinari. I nostri eroi dovranno affrontare Masaka, la crudele regina-dea, incarnazione del Sole. Risvegliatasi dal lungo sonno, Masaka intende riportare la sua civiltà agli antichi fasti. Forse solo il suo antico compagno Korgano, il dio-luna, potrà placarla, sempre che si riesca a evocarlo. Ma quando anche i Breen reclamano il possesso di quel mondo strategico, il Comandante Radek dovrà decidere quale fazione appoggiare. Sapendo che, chiunque vinca, l’Unione perderà.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
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Star Trek Keter Vol. IV:

La Regina del Sole

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 

 

-Prologo:

87 milioni di anni fa

Luogo: Città di Masaka, antica D’Arsay

 

   La piramide a gradoni era di gran lunga l’edificio più imponente della città. Di giorno faceva ombra a interi quartieri. Di notte, come adesso, era una scura presenza che nascondeva le stelle. Ma in quel momento era illuminata da migliaia di fiaccole allineate lungo i bordi, che ne disegnavano i contorni. Una grande scalinata collegava i quattro gradoni, ora sdoppiandosi e ora fondendosi in un solo percorso, fino al tempio in sommità. Il Tempio di Masaka era interamente rivestito da una lamina d’oro. Aveva un ingresso monumentale, contornato da bracieri e chiuso da una tenda, anch’essa dorata.

   Nella notte, la piramide orlata di fuoco era l’unica parte illuminata della città e pareva galleggiare su un mare di tenebre. Il fumo che saliva da bracieri e fiaccole era pervaso da scintille e bagliori rossastri, che si riflettevano sulle pareti auree del tempio. In quella luce sanguigna e irreale apparvero i sacerdoti, col volto nascosto da maschere e i corpi scheletrici coperti da pitture, tatuaggi, scarificazioni rituali. Alcuni agitavano bastoni pieni di sonagli, altri battevano ossessivamente sui tamburelli; tutti danzavano in cerchio intorno all’altare. Questo sorgeva sul gradone più alto, davanti alla scalinata, così che il popolo D’Arsay assiepato innanzi alla piramide potesse assistere al rito.

   «Masaka... Masaka... Masaka...». Quel nome, scandito dai sacerdoti, fu ripetuto da tutta la folla. Il rullo dei tamburi divenne sempre più incalzante, come il ritmo della danza. Anche il nome fu invocato a voce più alta e rapida, finché venne urlato a squarciagola. Nella luce mutevole delle torce i volti erano sempre più congestionati, le fronti sudate, gli occhi sbarrati. D’un tratto si udì il rintocco di un gong e tutti tacquero. Anche i sacerdoti interruppero le loro evoluzioni, come pietrificandosi. Un surreale silenzio calò sulla cerimonia.

   Fu allora che due guardie, imponenti e coperte di tatuaggi, trascinarono la vittima all’altare. Era una donna, che strillava e si dimenava furiosamente nel tentativo di liberarsi. I suoi sforzi erano così energici che i guardiani dovevano mettercela tutta per non farla scappare. Come tutti i presenti, la donna era priva di sopracciglia e aveva l’attaccatura dei capelli molto arretrata, a evidenziare la fronte bombata. Era anche ornata per il sacrificio. Sulle palpebre e intorno agli occhi aveva un trucco rosso squillante, che evidenziava lo sguardo. Indossava un gonnellino e un reggiseno a fascia, oltre ad essere sovraccarica di gioielli: collane, bracciali e braccialetti, anelli, cavigliere. Gli ornamenti erano d’oro, ulteriormente impreziositi da giada e turchesi; tintinnavano a ogni strattone. Tra i capelli scuri erano intrecciate le piume variopinte di uccelli esotici.

   «Lasciatemi, brutti invasati!» strepitò la donna. «Cosa credete di fare, eh? Volete la pioggia, volete un buon raccolto? Uccidermi non servirà a niente!».

   «Taci!» intimò il Sommo Sacerdote, col viso celato da un’inquietante maschera. Vi compariva lo stesso simbolo impresso sull’altare e sul frontone del tempio: un cerchio contornato da otto raggi, riuniti due a due a indicare i punti cardinali. Era il marchio di Masaka, che i sacerdoti – e anche molti popolani – portavano impresso sulla fronte.

   Il Sommo Sacerdote attese mentre le guardie legavano la donna all’altare, immobilizzandole tutti e quattro gli arti. Quando fu ben certo che era bloccata, le si avvicinò. «Masaka concede e Masaka prende» disse con voce stentorea. «Il tuo sacrificio contribuirà a placarla, rinnovando il ciclo della vita. Sii onorata di ripagare in modo così perfetto il debito che contraesti nascendo».

   «Io non credo nella vostra dea!» urlò la vittima, con voce così alta e squillante che anche la folla assiepata a terra la udì chiaramente. «Non credo nei sacrifici!» aggiunse con voce rotta.

   «Sacrilegio!» tuonò il Sommo Sacerdote, alzando le mani. «Come osi rinnegare il sacro nome di Masaka, nostra creatrice e distruttrice? Pentiti e abiura ciò che hai detto, nel breve tempo che ti resta, prima d’incontrare la dea!».

   «Io non abiuro un bel niente!» gridò la donna. «Sono una guaritrice... credo nel preservare la vita, non nel distruggerla. Qualunque cosa speriate d’ottenere con questo rito barbaro, non l’avrete».

   «Rinneghi forse gli dèi? Rinneghi Uxmal l’Antico, Masaka la Fulgida, Korgano il Cacciatore, Ihat il Fuggiasco...?».

   «Da dove vengo io, questi nomi non significano niente!» rispose la vittima.

   «E da dove vieni?» l’apostrofò il Sacerdote. «Certo non da un luogo illuminato dal sole!».

   «Non il vostro sole» fu l’enigmatica risposta.

   «Che significa? Sei forse un demone delle Tenebre Esterne?».

   La donna piegò la testa sul letto di pietra, fissandolo con disprezzo, ma tenne le labbra serrate.

   «Molto bene, nemica di Masaka... sarà la dea a decidere la tua sorte!» dichiarò il Sacerdote. Le voltò le spalle e andò verso la tenda che velava l’interno del tempio. Era un tendaggio pesante, ma la brezza notturna lo faceva ondeggiare lievemente. Il Sacerdote cadde in ginocchio lì davanti, coprendosi il volto con le unghie lunghissime, che simboleggiavano il suo status. «Fulgida dea, Signora dei Quattro Punti Cardinali, Creatrice e Distruttrice del Mondo, dicci... che dobbiamo fare della miscredente che rinnega il Tuo nome?» invocò.

   Dall’interno del tempio giunsero strani sibili, che nessuna gola umanoide poteva emettere. La vittima legata all’altare sentì un brivido lungo la schiena: quei bisbigli inumani erano la sua condanna.

   «Masaka ha parlato!» esclamò il Sommo Sacerdote, rialzandosi. «I nostri pugnali non strapperanno il cuore all’infedele, né le fiamme la consumeranno. No... la dea si occuperà di lei personalmente. E infatti sta arrivando. Guardate! Anche oggi Masaka si è svegliata!» gridò, indicando l’orizzonte lontano.

   La vittima sacrificale girò il viso dall’altra parte, per capire a cosa si riferisse. Oltre le mura della città e la giungla lussureggiante, le tenebre notturne cedevano il passo al chiarore dell’alba. Un colle tondeggiante fu illuminato e un uccello volò alto nel cielo, salutando il sole nascente col suo richiamo.

   «Masaka si è svegliata! La regina è sveglia!» ripeté la folla, più con paura che con fervore. I D’Arsay si dispersero come tacchini all’arrivo del giaguaro. In cima alla piramide, però, sacerdoti e guardie rimasero ben saldi.

   Sull’altare, la donna osservò confusa quanti l’attorniavano. «Che significa? La vostra dea è dentro il tempio, oppure...?».

   «Presto la incontrerai» sogghignò il Sommo Sacerdote. «Allora scoprirai cosa succede alla formica che sfida il Sole. Portatela giù, con gli altri!» ordinò poi alle guardie.

   La vittima fu slegata e tirata in piedi, dopo di che la portarono davanti alla ripida scalinata della piramide. «Scegli come vuoi scendere: sulle tue gambe o rotolando» le sussurrò all’orecchio il capo delle guardie.

   «Camminerò» disse la donna, osservando i vertiginosi gradini sotto di lei. Rotolare giù da quella scalinata voleva dire morte certa. Scese lentamente, tenuta sotto tiro dalle guardie armate di lance, pugnali e randelli con lame innestate lungo il bordo. Dietro di loro venivano i sacerdoti. Scesero fino al gradone più basso, che formava una terrazza intorno al corpo della piramide. Ci volle un bel po’ per arrivarvi, eppure quando lo fecero il sole non si era ancora innalzato. Il pianeta D’Arsay ruotava lentamente.

 

   La terrazza era ancora immersa nelle tenebre. S’intuiva però che era costellata d’altari, quasi tutti con qualcosa sopra. Il corteo procedette fino a trovarne uno sgombro. Qui la vittima sacrificale fu legata di nuovo. Anche stavolta le guardie si assicurarono che fosse completamente immobilizzata, col visto rivolto verso l’alto. Da quella posizione, la donna poté vedere i raggi del sole che illuminavano la sommità della piramide, facendo scintillare il tempio dorato.

   Il Sommo Sacerdote si chinò su di lei. «È il momento di lasciarti» disse, col volto sempre celato dalla maschera. «Masaka è sveglia e tra poco sarà qui... non voglio disturbare il vostro incontro».

   «Vuoi dire che sta per uccidermi?» chiese la vittima.

   «Certo che ti ucciderà» rispose il D’Arsay. «Ma non oggi... ci vorranno giorni prima che la vita si prosciughi in te. Usa questo tempo per meditare» consigliò, e dopo essersi ravvolto nel mantello si allontanò di buon passo. Gli altri sacerdoti lo seguirono salmodiando e anche le guardie si ritirarono.

   Rimasta sola, la donna si guardò intorno, piegando la testa per quanto possibile. Anche se i D’Arsay avevano abbandonato la terrazza, restavano gli altari, simili a quello cui era legata. Quasi tutti erano occupati. «Prigionieri come me?» si chiese, cercando di capire chi vi era disteso sopra. Intanto la luce scendeva lungo le pareti della piramide, man mano che il sole si alzava sull’orizzonte. Finalmente anche la terrazza fu illuminata.

   La donna soffocò un’imprecazione. Sugli altari attorno a lei erano legate vittime senza vita: uomini e donne, dai corpi riarsi. I D’Arsay le avevano semplicemente lasciate lì, esposte al sole cocente, finché erano morte di sete. Questa era anche la sua sorte... e l’aria già si arroventava. «Dove sei, Masaka? Fatti vedere!» gridò la donna, dibattendosi inutilmente. La risposta era davanti ai suoi occhi, nell’astro sempre più alto. Non restava che calmarsi, conservare le forze e sperare che qualcuno la soccorresse in tempo. Per Ladya Mol, Medico Capo della USS Keter, la tortura era appena cominciata.

 

   
 
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