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Autore: Parmandil    29/06/2019    0 recensioni
Per più di due secoli gli Archivi D’Arsay sono stati un mistero archeologico della Federazione. Antichi di ben 87 milioni di anni, celano una sorprendente tecnologia, capace di trasmutare la materia, unita però a una cultura simbolica e ritualistica di difficile interpretazione.
Quando la sonda-archivio minaccia di trasformare una colonia federale nella replica dell’antica D’Arsay, la Keter deve intervenire. Solo un viaggio nel remoto passato potrà svelare il mistero di quell’antica civiltà, col suo misto di raffinate tecnologie e di riti sanguinari. I nostri eroi dovranno affrontare Masaka, la crudele regina-dea, incarnazione del Sole. Risvegliatasi dal lungo sonno, Masaka intende riportare la sua civiltà agli antichi fasti. Forse solo il suo antico compagno Korgano, il dio-luna, potrà placarla, sempre che si riesca a evocarlo. Ma quando anche i Breen reclamano il possesso di quel mondo strategico, il Comandante Radek dovrà decidere quale fazione appoggiare. Sapendo che, chiunque vinca, l’Unione perderà.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 1: Gli Archivi D’Arsay

1630, l’Anno della Peste

Luogo: un lazzaretto alle porte di Milano

 

   Nell’aria calda e immobile d’agosto, il tanfo delle latrine ristagnava nelle baracche e sotto i portici del lazzaretto. I lamenti dei sedicimila appestati si confondevano col cigolio dei carri, le grida dei monatti e le preghiere dei sacerdoti che assistevano gli ammalati. Lungo i due porticati principali, file interminabili di corpi erano buttati su mucchi di paglia o su semplici sacchi. Alcuni si muovevano debolmente o facevano udire un respiro rantolante. Negli altri casi serviva un’osservazione più attenta per distinguere i vivi dai morti. Nugoli di mosche e zanzare avvolgevano gli uni e gli altri. In lontananza si udì il rintocco di una campana.

   «Mezzodì!» gridò qualcuno.

   Tre dottori avanzarono tra gli appestati, senza fermarsi né degnare di uno sguardo chi li implorava di trattenersi. Erano intabarrati in vesti scure, con tanto di guanti e cappelli a tesa larga. I loro volti erano nascosti da inquietanti maschere a becco, piene di erbe aromatiche che teoricamente avrebbero dovuto proteggerli dai “miasmi” dell’epidemia. Anche gli occhi erano coperti da rozzi occhialoni. Figure come quelle non erano insolite, nei lazzaretti del Seicento. Ciò che meravigliava gli osservatori era la loro altezza: tutti e tre i medici sfioravano i due metri. Al loro incedere, le voci tacevano a tutti si facevano da parte. Tra le guardie e i monatti, alcuni avrebbero voluto interrogarli, perché non ricordavano di averli mai visti prima. Ma c’era qualcosa, in loro, che induceva alla ritirata anche chi era avvezzo agli orrori. Un’aura repulsiva che nessuno avrebbe saputo spiegare. I tre dottori della peste avanzavano in silenzio, talvolta volgendo i musi a becco, come in cerca di qualcosa. Quello in testa aveva un bastone bianco, con la sommità modellata a testa di serpente.

   «Cerchiamo la cella 47» sussurrò il medico col bastone, chinandosi sopra un anziano frate cappuccino. Questi piegò la testa all’indietro, meravigliato sia dall’altezza, sia dalla voce innaturale dell’altro.

   «Vi ci porto subito, signori...?» chiese il frate. Siccome i tre dottori restavano in silenzio, senza presentarsi, il vecchio sospirò e fece strada. Passarono sotto il porticato, fino a raggiungere un portone di legno, chiuso a chiave. «Vi avverto, in codesta cella son più necessario io che voi» avvertì il frate. «A questi poveretti ho già impartito l’estrema unzione».

   «Non ci metteremo molto» sibilò il medico col bastone, rauco.

   Il frate trasse dalla bisaccia un mazzo di chiavi arrugginite. Dopo un paio di tentativi errati aprì la vecchia serratura cigolante. «Bene, ora debbo lasciarvi» disse, e si allontanò perplesso. I tre medici entrarono, chinando la testa per passare; l’ultimo chiuse la porta. Si trovarono in una camera quadrata, di otto braccia per lato. Aveva una finestra con l’inferriata rivolta all’esterno, un caminetto spento, una latrina nell’angolo e un letto in laterizio. Sul letto dormiva un ragazzo, con un braccio abbandonato a terra e grossi bubboni neri sul collo. I malati, però, erano molti di più: se ne stavano addossati alle pareti o buttati sulla paglia lurida che copriva a stento il pavimento. Il fetore era insopportabile e le mosche ronzavano. Qualche testa si alzò verso i medici, ma nessuno si alzò né disse parola.

   Per qualche secondo i tre dottori contemplarono i moribondi. Poi, sempre in silenzio, quello di testa sollevò il suo bastone. Nella luce incerta della cella il serpente parve muoversi. Dalle fauci spalancate promanò un raggio bianco-azzurro, che colpì uno degli appestati stesi a terra. Il poveretto strabuzzò gli occhi, ma non poté sfuggire al raggio e neanche chiedere aiuto. Un filo di bava gli scese lungo la guancia. I suoi occhi erano ancora aperti, ma la vita li aveva abbandonati. Era durato tutto pochi secondi e nessuno degli altri malati sembrava essersene accorto. Il dottore col bastone ne mirò un altro, il ragazzo steso sul pagliericcio.

   «Acqua» disse una voce alle sue spalle.

   Il medico abbassò immediatamente il suo strumento e si girò verso l’interlocutore. Era una figura addossata alla parete, tutta imbacuccata in stracci grigi e sdruciti, malgrado il caldo afoso. Le sue mani, fasciate e tremanti, sollevarono una ciotola. «Acqua per una povera infetta» mormorò, con voce fioca ma chiaramente femminile.

   «Cosa ci fai qui?» chiese il dottore con voce monocorde. «Questa è la parte del lazzaretto riservata agli uomini. Le donne devono stare sull’altro lato».

   «Scusate... sono qui da giorni... non capisco più niente...» mormorò la donna, passandosi la lingua sulle labbra riarse. «Sto tanto male... aiutatemi, vi prego...». Lasciò cadere la ciotola e alzò le mani, unendole in segno di supplica.

   «Non temere. Ora ti libereremo da ogni sofferenza» promise il medico. Alzò di nuovo il bastone e le venne vicino.

   «Oh, che bello... dovete essere dei grandi signori...» farfugliò la donna, levandosi una ciocca di capelli sporchi dal viso.

   «Siamo degli esperti, andiamo dove c’è bisogno di noi» rispose l’essere davanti a lei, aggiustando la mira.

   «Lo so» disse la donna, afferrandogli il bastone con la sinistra. La sua presa era inaspettatamente salda. «Ciao, Fantasma Velato. Mi sei sfuggito su Gideon e su Tarellia, ma stavolta non te la cavi» avvertì. Il suo pugno destro scattò, colpendolo allo stomaco con forza prodigiosa. L’essere fu scagliato dall’altra parte della stanza. Sbatté contro il muro e si accasciò in un marasma di vesti scombinate. Il bastone cadde a terra, dove il serpente prese vita e soffiò minaccioso contro la donna, che era scattata in piedi.

   Gli altri due medici si guardarono ed emisero uno stridio inumano, mentre altri quattro ospiti del lazzaretto scattavano in piedi, estraendo i phaser manuali da sotto le vesti cenciose. I veri appestati, invece, continuarono a dormire; erano stati narcotizzati.

   «Sono l’Agente Jaylah Chase e vi dichiaro in arresto, in nome degli Accordi Temporali!» disse la donna, gettando la sporca parrucca. Due antenne andoriane fecero capolino dai suoi veri capelli, color platino.

   «Agenti Temporali!» gracchiarono i finti medici, abbandonando il travestimento per riprendere le loro vere sembianze. Erano Devidiani, una delle specie parassitiche più mostruose mai incontrate dalla Flotta Stellare. Vagamente umanoidi, erano alti ed emaciati, come scheletri a malapena rivestiti di pelle. Tutta la loro epidermide emetteva luce bianco-azzurra. La testa informe non aveva lineamenti, nemmeno gli occhi o il naso. L’unico orifizio, che faceva da bocca, si trovava al centro della fronte. Con uno stridio lacerante, i due Devidiani ancora in piedi si gettarono sugli Agenti Temporali, che risposero sparando coi phaser.

   Se i mostri furono feriti, non lo diedero a vedere. Giunti addosso agli Agenti, cercarono di smembrarli a mani nude. Erano abbastanza forti per farlo. Ma gli Agenti Temporali della Flotta Stellare sapevano difendersi. Tra le due fazioni scoppiò una lotta violentissima. I contendenti si affrontavano con le arti marziali, ora cercando d’immobilizzare l’avversario, ora scagliandolo contro la parete opposta. Ogni tanto un phaser sibilava, colpendo un Devidiano.

   Mentre i suoi colleghi pensavano agli altri due alieni, Jaylah si proiettò contro il loro capo, il cosiddetto Fantasma Velato. Cercò di colpirlo in faccia, ma quello scartò di lato. Il pugno dell’Agente colpì il muro di mattoni, lasciandovi delle crepe.

   Il Fantasma Velato agguantò l’avversaria e la scaraventò contro la parete di fondo, poco sotto l’inferriata. Poi le balzò addosso, sfiorando il soffitto, e le prese la testa fra le mani, con l’intento di schiacciarle la scatola cranica. «Abbiamo fame!» gracchiò. «Perché non possiamo nutrirci?».

   «Perché invece degli hamburger, mangiate le persone!» rispose prontamente Jaylah, afferrandogli le braccia e cercando di allargarle, per non farsi schiacciare la testa. «Viaggiate nel tempo senza autorizzazione, per uccidere la nostra gente... due crimini che non possiamo perdonarvi».

   «Questi infetti sarebbero morti ugualmente» rispose il Fantasma Velato. «Ucciderli qualche ora prima non altera la vostra linea temporale. In compenso la loro energia neurale ci sfamerà a lungo».

   «Finché non cambierete dieta, continueremo a trattarvi da parassiti!» ringhiò Jaylah. Con uno sforzo formidabile riuscì ad allargare le braccia dell’alieno. Subito gli assestò una testata in faccia. La testa dell’Agente rimbalzò contro il volto senza lineamenti dell’alieno, come se avesse colpito la gomma. Il Fantasma Velato cercò di afferrarle la gola, ma Jaylah – forte dei suoi potenziamenti genetici – deviò l’attacco. Poi agguantò l’alieno e lo sbatté con violenza contro l’inferriata alle sue spalle. Uno, due... al terzo impatto le sbarre di ferro si deformarono. Infine Jaylah afferrò il Devidiano ancora più saldamente e lo sbatté contro il caminetto. Ci fu uno schianto e i mattoni si ruppero, sollevando sbuffi di polvere. Approfittando del temporaneo stordimento dell’avversario, Jaylah estrasse un piccolo ipospray e gli iniettò qualcosa nella spalla. Altrove nella stanza c’erano scene simili: Agenti Temporali e Devidiani si affrontavano senza esclusione di colpi.

   «Le onde trioliche sono in aumento!» avvertì uno degli Agenti, un androide munito di sensore incorporato. «L’ofide sta per aprire il vortice temporale».

   In quell’attimo il serpente emise un raggio energetico, molto più intenso del precedente. Il fascio di particelle colpì la porta, trasformandola in un vortice temporale. Con un gemito orrendo, il Fantasma Velato si rialzò dai resti del caminetto e vi corse dentro, scomparendo. Gli altri due Devidiani cercarono d’imitarlo, ma avevano ricevuto molti colpi di phaser. Furono abbattuti prima di raggiungere la soglia.

   «Ripulite la zona!» gridò Jaylah, tuffandosi dietro al Fantasma. Riuscì ad attraversare il vortice temporale pochi attimi prima che si richiudesse.

 

   Varcata la soglia con un salto, l’Agente Temporale fece una capriola e si rialzò, pronta a vendere cara la pelle. Si trovò in una vasta caverna, all’apparenza vuota. Ma sapeva bene che non era così. Attorno a lei c’erano decine, forse centinaia di Devidiani, intenti a nutrirsi con l’energia neurale raccolta nel tempo e nello spazio. Ma non poteva vederli, né toccarli. I Devidiani vivevano in uno stato di fluttuazione temporale, da cui uscivano solo per cercare cibo.

   Il Fantasma Velato si girò verso Jaylah, che levò di tasca il comunicatore e lo premette, prima di appuntarselo. Il faro subspaziale miniaturizzato era acceso e presto avrebbe richiamato l’USS Keter... o così sperava l’Agente. Nel frattempo doveva cavarsela con le sue forze. Adocchiò l’uscita, ma altri quattro Devidiani apparvero dal nulla, ostruendo la via di fuga.

   «Non avresti dovuto seguirci. Ora non uscirai più da qui» disse il Fantasma Velato, venendole incontro. «Come telepate hai molta energia neurale... bene. Mi nutrirò di te per tanto tempo».

   «Ora non esagerare con la confidenza» sogghignò Jaylah. «E poi, c’è già uno Spettro nella mia vita». Attorno a lei comparivano sempre più Devidiani. L’Agente Temporale estrasse il phaser, che finora aveva tenuto celato, e colpì i mostri che si avvicinavano. Ma erano troppi e venivano da tutte le direzioni. Balzò su una roccia per cercare di tenerli a distanza. Braccia scheletriche brancolarono verso di lei. «Volete che faccia crollare la volta?» minacciò Jaylah, rivolgendo l’arma verso l’alto.

   «Fa’ pure... noi possiamo sfasarci quando vogliamo» rispose il Fantasma Velato. «L’unica vittima sarai tu».

   Jaylah si morse il labbro. Non poteva resistere a lungo contro quei mostri che l’assalivano da tutte le parti, ma non intendeva neanche immolarsi. Valutò la possibilità di superare con un balzo quelli che sorvegliavano l’uscita. I suoi potenziamenti genetici erano notevoli, ma non credeva di poter saltare così in alto. Forse però poteva travolgerli. Respinse un Devidiano con un calcio, preparandosi a scattare. Intanto pensava ai suoi colleghi della Keter, che di certo la stavano cercando. Col faro acceso avrebbero dovuto captarla. «Avanti, ragazzi... dove siete?».

   «Agente Chase, mi riceve?». La voce del Capitano Hod era fioca, ma a Jaylah sembrò squillante come una cannonata.

   «Qui Chase, la sento» rispose la mezza Andoriana, premendosi il comunicatore. «Potete teletrasportarmi?».

   «È troppo in profondità, non riusciamo ad agganciarla. Mi dispiace, Jay» disse il Capitano.

   «Uhm...» rifletté l’Agente, guardandosi attorno. «In tal caso, chiedo una salva di siluri contro la mia posizione».

   «Non possono ucciderci...» avvertì il Fantasma Velato.

   «Almeno danneggeranno le vostre strutture» ribatté Jaylah, inflessibile.

   «Ne è sicura?» chiese Hod. «Possiamo inviare una squadra...».

   «Non c’è tempo. Lanci quei siluri!» gridò Jaylah, saltando da una roccia all’altra nel tentativo di sfuggire ai Devidiani. Ne colpì uno col phaser, mentre ne abbatteva un altro con un calcio.

   «Come vuole. Siluri lanciati... il suo sacrificio non sarà dimenticato, Agente Chase» dichiarò il Capitano. Mentre parlava, due siluri quantici lanciati dalla Keter sfrecciarono nell’atmosfera rarefatta di Devidia II.

   «Sei una sciocca» avvertì il Fantasma Velato, mentre i suoi simili iniziavano a svanire. «Ci sono centinaia di caverne naturali su questo pianeta... distruggerne una non farà alcuna differenza. Tra pochi giorni riprenderemo a nutrirci. Addio, Agente».

   «Addio, Fantasma» rispose gelidamente la mezza Andoriana.

   Ormai tutti i Devidiani si erano ritirati nel loro piano d’esistenza. Il Fantasma Velato fu l’ultimo ad andarsene. Mentre svaniva, Jaylah estrasse il tricorder e ne osservò le letture. Un lampo di trionfo le balenò negli occhi. «Chase a Keter, la loro varianza temporale è 0,047 microsecondi» rivelò, premendosi ancora il comunicatore.

   I siluri quantici ricevettero subito il segnale di autodistruzione. Esplosero a poche decine di chilometri d’altezza, generando un’onda d’urto che spazzò la superficie desertica del pianeta. Le vibrazioni giunsero in profondità nel suolo, facendo tremare la caverna dei Devidiani. Alcune stalattiti si staccarono e caddero intorno a Jaylah. La mezza Andoriana balzò a terra, evitando di farsi travolgere.

   Pochi secondi dopo la Keter scagliò altri due siluri. Queste erano testate cronotoniche, che si trovavano in uno stato di fluttuazione temporale. La loro varianza era stata regolata su 0,047 microsecondi, secondo le indicazioni di Jaylah.

   «Chase a Keter... spero di non avervi frainteso, perché ora mi farebbe davvero comodo il teletrasporto» disse l’Agente Temporale, guardandosi intorno nervosamente. A risponderle fu il raggio azzurro, che la trasse via dal pianeta. Appena in tempo. Pochi attimi dopo i siluri cronotonici impattarono contro la superficie, scavando un enorme cratere. La caverna crollò, ma nemmeno le migliaia di tonnellate di roccia potevano uccidere i Devidiani mentre erano sfasati. L’esplosione dei siluri però poteva, se regolata sulla giusta varianza. Cioè su quella rilevata da Jaylah, grazie alla microsonda che aveva iniettato al Fantasma durante la colluttazione. L’onda d’urto cronotonica investì in pieno gli alieni parassitici, consumandoli. Le loro grida stridenti si persero nel boato.

 

   «Il nido devidiano è stato neutralizzato» riferì Zafreen, l’addetta a sensori e comunicazioni della Keter.

   Tutti gli ufficiali di plancia avevano lo sguardo fisso allo schermo, dove l’esplosione fungiforme si allargava sul pianeta.

   «E Jaylah?» chiese con ansia Vrel, il timoniere.

   «È salva» riferì l’Orioniana, sollevata. «È in sala teletrasporto 3, per la decontaminazione».

   Finalmente la tensione si sciolse. Alcuni ufficiali applaudirono per quella missione rischiosa, ma completata in modo perfetto.

   «Ottimo lavoro» disse il Capitano. «Ora recuperiamo il resto della squadra. Plancia a sala macchine, preparate il nucleo temporale. Torniamo nel 1630, a prendere i nostri Agenti».

 

   Il Protocollo di Decontaminazione poteva sembrare anacronistico, ma era la regola per gli Agenti Temporali di ritorno da secoli poco igienici o dallo scontro con specie parassitiche. Jaylah era reduce da entrambe le cose, quindi non poteva sottrarsi. Vestita con la sola biancheria, si aggirava nella Sala di Decontaminazione, mentre svariati tipi di raggi la ripulivano da ogni microrganismo nocivo. Quando un segnale l’avvertì che aveva visite, si accostò alla parete. La finestrella, fino ad allora opaca come il resto del muro, divenne trasparente, permettendole di vedere il visitatore.

   «Ben fatto, Jaylah» disse Norrin, l’Ufficiale Tattico della Keter. L’Hirogeno non era solo il suo ufficiale superiore; era un amico e un mentore. «Erano mesi che davamo la caccia al Fantasma Velato e oggi l’hai sconfitto praticamente da sola. Penso che il Capitano vorrà decorarti. Io però spero che tu abbia pensato, prima di tuffarti in quel vortice. Che avresti fatto, se fossi finita troppo lontano da noi nel tempo o nello spazio?».

   «Avevo il faro temporale, per farmi rintracciare» disse Jaylah.

   «Hai comunque rischiato grosso» notò l’Hirogeno.

   «Non più dell’indispensabile» ribatté la mezza Andoriana. «Ho iniettato la microsonda al Fantasma già prima d’attraversare il vortice, per essere certa di captare la varianza temporale in cui si nascondeva. Poi ho bluffato. Quando il Capitano mi ha chiamata Jay, ho capito che in realtà il teletrasporto poteva agganciarmi. Coi Devidiani ho finto di volermi sacrificare, ma sapevo che mi avreste salvata».

   L’uso di parole in codice, per ingannare il nemico, veniva da secoli di tradizione militare. Gli Agenti della Keter sapevano che quando i colleghi o i superiori si rivolgevano a loro col nomignolo, il senso del discorso andava ribaltato.

   «Certo che i tempi erano stretti» commentò Norrin. Era stato lui a far esplodere i siluri quantici, pochi secondi prima che colpissero la superficie. E sempre lui aveva lanciato quelli cronotonici, contando sul fatto che Jaylah sarebbe stata teletrasportata in tempo.

   «Un Agente Temporale deve sfruttare ogni secondo» rispose Jaylah, ma dalla sua espressione era chiaro che concordava con Norrin. «Almeno avevo già ricevuto l’estrema unzione» si disse, ironica.

   «Beh, l’importante è che sia fatta» disse l’Hirogeno. «Quei Devidiani non uccideranno più nessuno».

   «Mi chiedo solo quanti altri nidi ci siano» borbottò la mezza Andoriana. «Conosciamo ancora pochissimo quegli esseri. Non sappiamo nemmeno dove e come si siano evoluti. Se si nutrono della nostra energia neurale, non possono essere nativi di Devidia».

   «Certe cose è meglio non saperle» dichiarò Norrin. «Io però vorrei sapere che ci fai ancora lì dentro» aggiunse, accennando alla Sala di Decontaminazione.

   «Sono stata per giorni in un lazzaretto pieno di appestati».

   «La dottoressa Mol ti ha vaccinata, prima che ti spedissimo là».

   «Io non corro rischi, ma non vorrei spargere il contagio sulla Keter» spiegò l’Agente. «Tra l’altro, uhm... non tutte le infestazioni sono microscopiche» aggiunse, grattandosi la testa.

   «Cioè? Che ti sei presa?» si preoccupò Norrin.

   «Pulci» ammise Jaylah, grattandosi sempre più forte. «Erano ovunque. Il passato è lurido» spiegò, acchiappandone una. La tenne fra le dita e la osservò, prima di schiacciarla. «Sai, erano queste a diffondere la peste. Il batterio faceva la spola tra i ratti, le pulci e le persone. Ma all’epoca non si sapevano queste cose... non si conoscevano nemmeno i microrganismi. Si dava la colpa ai “miasmi” dell’aria o agli “untori”. Le contromisure erano del tutto inadeguate... e ho visto i risultati». La mezza Andoriana rabbrividì mentre sedeva sulla panca accanto alla finestrella, ricordando le scene di dolore e disperazione a cui aveva assistito.

   «Ne vuoi parlare?» chiese Norrin.

   «Ho visto i cadaveri gettati nelle fosse comuni, o bruciati a mucchi» mormorò l’Agente Temporale. «Chi soccorreva gli appestati si ammalava a sua volta. Alcune famiglie erano murate in casa dalle autorità, all’insorgere della malattia. Quella povera gente levava preghiere al Cielo e versava lacrime per i propri cari, ma... puoi immaginare quanto fossero efficaci» disse con amarezza. «Era già abbastanza difficile vedere i corpi degli adulti. Ma quando c’erano i bambini...». Il groppo in gola le impedì di aggiungere altro. La mezza Andoriana chinò il capo e si lasciò sfuggire una lacrima.

   «È un’esperienza devastante... hai tutto il diritto di sentirti addolorata» mormorò Norrin.

   «Non è solo dolore. È anche rabbia» rivelò Jaylah, alzando il capo di scatto. «Come Agente Temporale potrei fare molto... ma in realtà ho le mani legate. Gli Accordi m’impongono di non cambiare la Storia per nessun motivo. Sai che vuol dire assistere alle epidemie del passato, senza poter aiutare la gente con le cure moderne? Stare in mezzo ai moribondi, senza fargli l’iniezione che li avrebbe salvati, era come... omissione di soccorso!» si lamentò.

   «Se ti accadesse nel presente, lo sarebbe» ragionò Norrin. «Ma non possiamo rischiare di scombinare il passato. Una sola persona in più, con i suoi discendenti, potrebbe stravolgere la Storia».

   «Magari in meglio!».

   «Attenta... è così che si diventa pirati temporali» avvertì l’Ufficiale Tattico. «Si comincia per una buona causa e poi non si riesce più a smettere».

   «Lo so» sospirò Jaylah. «Me lo sono ripetuto tante volte, ancor prima di cominciare queste missioni. Ma stare laggiù, tra i mucchi di cadaveri, ti cambia la prospettiva».

   «Sai, fare l’Agente Temporale non è per tutti» disse Norrin, comprensivo. «Se non ce la fai più, puoi tornare alla Sicurezza ordinaria. O puoi passare alla sezione Comando e seguire le orme di tuo padre».

   «Ci ho pensato» disse la mezza Andoriana, grattandosi la testa in cerca di altre pulci. «Ma ho ancora la sensazione che il mio compito come Agente Temporale non sia finito».

   «Beh, quando ti sembrerà che lo sia, ricorda che puoi cambiare incarico» insisté Norrin. «Dopo quello che hai fatto oggi, nessuno potrà biasimarti». Con un ultimo cenno, l’Hirogeno lasciò la finestrella, che tornò a oscurarsi.

   Rimasta sola con i suoi pensieri, Jaylah tornò al centro della Sala Decontaminazione e prese a spalmarsi una crema disinfettante. Un giorno, si disse, avrebbe lasciato quell’incarico. Ma era decisamente presto. Aveva ancora troppe cose da fare.

 

   «Avanti» disse Jaylah, sentendo il beep della porta. La mezza Andoriana era in bagno e stava finendo di asciugarsi i capelli, finalmente liberi dallo sporco e dalle pulci. «Sei tu, Vrel? Entra pure... sono lì tra un attimo» disse, invitandolo ad accomodarsi nella stanza principale dell’alloggio.

   «Sorpresa!» fece Zafreen, sporgendosi con la testa dentro il bagno. L’Orioniana aveva un berretto rosso da Babbo Natale, che contrastava con la pelle verde, e un sorriso raggiante da bambina. «Sai che giorno è oggi?».

   «Il giorno di Natale» rispose prontamente Jaylah. C’era stato un tempo in cui quell’intrusione le avrebbe dato fastidio. Ma dopo che lei e Zafreen avevano sperimentato un temporaneo scambio di corpi, era diventata più tollerante nei confronti della frizzante addetta ai sensori.

   «Lo sapevo, il berretto mi ha tradita» disse Zafreen. «E cosa si fa a Natale?».

   «Tradizionalmente, molti Umani si scambiano doni» disse Jaylah, stando al gioco.

   «E tu sei mezza Umana».

   «Ma tu no... non pretendo di farti seguire l’usanza. E poi non ho preparato nulla per ricambiare».

   «Ci credo! Sei appena tornata da una missione» disse Zafreen. «Ma io e Vrel vogliamo darti una cosa».

   «Siete troppo gentili... di che si tratta?» chiese Jaylah, lasciando finalmente il bagno. Venendo in soggiorno vi trovò anche Vrel, con un pacchetto in mano. Era chiuso con un nastro, passato e ripassato in modo stranissimo.

   «Niente di che...» disse l’amico, porgendoglielo. «Ma potrebbe servirti, nelle prossime missioni».

   Jaylah cercò di sfilare il nastro, ma era così stretto e annodato che alla fine non trovò di meglio che tagliarlo.

   «Come! Un’Agente Temporale sconfitta da un nastro?» ridacchiò Vrel.

   «È che sono Guardiamarina... sconfiggere i nastri è una cosa da Tenenti» scherzò Jaylah. C’era sempre stato un certo spirito competitivo tra loro. Quando andavano all’Accademia, la mezza Andoriana aveva scommesso che sarebbe diventata Tenente prima di lui, sebbene fosse più giovane di un anno. Lo aveva detto in tono scherzoso, ma in fondo le sarebbe piaciuto vincere la scommessa. Invece aveva perso. Vrel era stato promosso Tenente già parecchi mesi prima, dopo la Battaglia di Osiris, quando aveva pilotato una navetta nelle profondità di un pianeta gioviano. Lei invece, pur avendo completato una missione dopo l’altra, era ancora Guardiamarina. Non invidiava Vrel, né gli altri colleghi. Ma aveva la sgradevole sensazione che il Capitano la ostacolasse nella carriera, a causa di alcuni dissensi tra loro. Scacciati questi pensieri, Jaylah aprì il pacchetto, trovandovi un coltellino multiuso.

   «È abbastanza piccolo da non dare nell’occhio... spero che ti permetteranno di portartelo dietro» spiegò Vrel. «Ha quaranta diverse funzioni. Una decina sono armi... beh, diciamo una ventina in mano tua».

   «Grazie» fece Jaylah, baciandolo sulla guancia. Scambiò un breve abbraccio con Zafreen, che insisté per metterle il berretto da Babbo Natale, anche se le stava storto per via delle antenne.

   «Capitano Hod ad Agente Chase, a rapporto nel mio ufficio». La voce veniva dal comunicatore posato sul tavolino.

   «Arrivo, Capitano» rispose Jaylah, scostandosi la nappa bianca che le dondolava davanti agli occhi. «Scusate, devo andare... ci vediamo stasera in sala mensa». Restituì il berretto a Zafreen, che lasciò l’alloggio insieme a Vrel. La mezza Andoriana finì rapidamente di prepararsi e corse dal Capitano.

 

   «Abbiamo recuperato i tuoi compagni di squadra» esordì Hod, quando Jaylah fu seduta davanti alla sua scrivania. «C’è una brutta notizia... il Tenente Bulk è morto».

   «Com’è successo?» chiese Jaylah, scioccata.

   «L’ofide devidiano gli ha trasmesso una scossa triolica» spiegò il Capitano. «L’Agente Adam lo ha subito schiacciato, ma per il Tenente non c’era nulla da fare».

   «Mi dispiace... era un bravo caposquadra» disse la mezza Andoriana.

   «Lo era senz’altro» convenne l’Elaysiana. «Ora però devo nominare il suo successore».

   «Chi ha in mente?» chiese Jaylah, cercando di nascondere l’aspettativa. Se il Capitano aveva chiamato proprio lei in ufficio, per parlarne, voleva dire che...

   «L’Agente Ortega» la gelò il Capitano. «Ha uno stato di servizio impeccabile».

   «Mi congratulerò al più presto con lui» disse Jaylah, celando la delusione. «Se non c’è altro, Capitano...» fece, alzandosi.

   «Aspetta» la trattenne Hod. «Ti aspettavi che la promozione fosse tua, vero? In fondo sei stata tu a sconfiggere i Devidiani».

   «Avrà avuto le sue ragioni, Capitano» commentò l’Agente, cercando d’evitare lo scontro.

   «Ce le ho» confermò l’Elaysiana. «Se guardassi puramente ai risultati, ti promuoverei. Ma come Capitano devo avere una visione più globale. Ci sono alcune... criticità in te. Ad esempio la tua tendenza a prendere le missioni come sfide personali. E i tuoi trascorsi con quel pirata, lo Spettro».

   «Non vedo Jack dalla Battaglia di Osiris» disse Jaylah. Era una menzogna. In realtà si erano incontrati un paio di volte, quando lei aveva lasciato la nave per delle licenze. In quei momenti non si sentiva né la figlia di un Ammiraglio, né un Agente Temporale, ma solo... se stessa. Non era pentita della sua scelta, pur conoscendone i rischi.

   «Comunque sia, mi aspetto che continui a onorare il tuo incarico con l’impegno di sempre» disse il Capitano, squadrandola con severità.

   «Lo farò» promise Jaylah. «Posso andare, ora?».

   «Solo un momento» disse Hod, alzandosi. «Per la tua impresa contro i Devidiani, ti spetta in ogni caso una Medaglia al Valore» disse, appuntandole l’onorificenza. Era un atto dovuto e Jaylah non vi lesse alcun messaggio particolare. Non dopo quello che aveva già sentito. «Potrei consegnartela davanti agli ufficiali, se preferisci».

   «No, è meglio così» disse la mezza Andoriana, un po’ rigida. «Arrivederci, Capitano».

   L’Elaysiana la osservò mentre lasciava l’ufficio. Quell’Agente Temporale era in gamba e forse avrebbe potuto comandare la squadra, ma era come una bomba a orologeria. Presto o tardi sarebbe scoppiata. L’unico dubbio era chi si sarebbe beccato l’esplosione in faccia.

 

   Sette giorni dopo, il primo dell’anno, la Keter ricevette la nuova missione. Invece che in sala tattica, gli ufficiali superiori furono convocati in sala conferenze. Il Capitano Hod era in piedi sul palco, assieme a Juri, lo storico di bordo. «Benvenuti... vi ho voluti qui perché ci aspetta una missione insolita, che richiede spiegazioni dettagliate» esordì l’Elaysiana. «La nostra colonia su Ultima Thule è sotto attacco e dobbiamo difenderla, o nella peggiore delle ipotesi evacuarla».

   «C’era da aspettarselo» disse Radek, il Primo Ufficiale. «È dall’inizio della nuova Guerra Fredda coi Breen che gli avamposti al confine sono minacciati. Ultima Thule, poi, è in una posizione strategica». Quel piccolo avamposto, che prendeva nome dalla leggendaria terra ai confini delle mappe terrestri, si trovava tra le Badlands e lo spazio Breen. Era una zona selvaggia, in cui l’Unione stentava ancora ad affermare la sua presenza. Se fosse caduto, i Breen si sarebbero avvicinati a importanti mondi dei Cardassiani, uno dei popoli più irrequieti dell’Unione, col risultato di far salire ancora la tensione.

   «La minaccia non sono i Breen» chiarì subito il Capitano, suscitando lo stupore degli ufficiali.

   «E chi, allora?» si meravigliò Radek.

   «Ecco la nostra avversaria» rispose Hod, richiamando un’immagine sullo schermo parietale. Apparve un sole giallo e raggiato, che aveva al centro una maschera dello stesso colore. La maschera copriva tutto il volto, salvo la zona della bocca. Sulla fronte era impresso un cerchio contornato da otto raggi, abbinati a indicare le quattro direzioni. Per quanto l’immagine esprimesse luce ed energia, aveva un che di malevolo. Sarà stato il taglio arcigno degli occhi, o la piega crudele della bocca.

   «La conoscete?» chiese il Capitano, ma ottenne solo silenzio e sguardi imbarazzati. «Lo immaginavo... nemmeno io ne avevo sentito parlare, prima che il Comando ci affidasse questa missione» spiegò Hod. «Il dottor Smirnov, invece, è un profondo conoscitore dell’argomento. A lei la parola, dottore» invitò l’Elaysiana, sedendosi.

   «Ehm, salve» disse Juri. Pur essendo un famoso storico, non era abituato a tenere discorsi. Da quando era salito sulla Keter, grazie a una partnership tra la Flotta e l’Università di Nuova Berlino, aveva passato la maggior parte del tempo nel suo laboratorio, analizzando manufatti anacronistici. Erano i suoi studi che avevano indirizzato gli Agenti Temporali contro i Devidiani.

   «Quello che vedete è il simbolo di Masaka, la regina-dea degli antichi D’Arsay» spiegò lo storico. «Nella sua forma semplificata, l’emblema è questo». Premette un comando, sostituendo l’immagine del sole raggiato e della maschera con quella del marchio centrale: un cerchio contornato da quattro coppie di raggi. «La civiltà D’Arsay fiorì sull’omonimo pianeta ben 87 milioni di anni fa, il che la rende una delle culture più antiche a noi note. Per intenderci, all’epoca sulla Terra c’erano ancora i dinosauri. Questo popolo umanoide presenta interessanti analogie con le culture precolombiane terrestri, come Maya e Aztechi, pur essendo immensamente più antico».

   «Scusi, dottore, ma vorrei capire... i D’Arsay esistono ancora?» chiese Vrel, disorientato dal fatto di non averne mai sentito parlare.

   «Sì e no... dipende da cosa intende per esistere» rispose Juri, criptico. «Il primo contatto fra i D’Arsay e la Flotta avvenne nel 2370, quando l’Enterprise-D trovò una cometa vagante nel settore 1156. Ricostruendo la sua rotta, gli ufficiali compresero che veniva dal sistema D’Arsay, a due settori di distanza, e intuirono la sua antichità. Scoprirono inoltre che il guscio esterno d’idrogeno ed elio ghiacciati racchiudeva un nucleo molto più compatto e all’apparenza artificiale. Così sciolsero gli strati esterni coi phaser, mettendo a nudo la struttura centrale».

   Lo storico mostrò una nuova immagine: una struttura informe costituita da blocchi squadrati, di colore rossiccio. Non si capiva quali fossero la prua e la poppa, l’alto e il basso, posto che questi termini avessero senso in relazione all’oggetto. «Lo scafo denso ostacolava i sensori, ma si capiva che l’interno era quasi del tutto compatto» riprese Juri. «Ben presto fu chiaro che non era un’astronave, ma una sonda-archivio. Era uno strano misto di alta tecnologia e arcaismi. Pensate che non aveva la curvatura, né altri sistemi equivalenti, per cui viaggiava a velocità sub-luce».

   «Ed era previsto che viaggiasse così a lungo?» chiese Dib, l’Ingegnere Capo. L’alieno del pianeta Penumbra sedeva accanto ai colleghi, ma la sua tuta integrale racchiudeva un fluido blu a temperatura superfredda che costituiva il suo vero corpo. La sua specie, tutta dedita alla matematica, lasciava di rado il proprio mondo uranico.

   «Considerando la quantità di pianeti abitabili che la sonda ha sfiorato nel corso del suo viaggio, direi di no» rispose Juri. «Dev’esserci stato un problema... un errore nei calcoli o una deviazione che l’hanno fatta viaggiare molto più a lungo del previsto. In tutto quel tempo si coprì di gas interstellari che la mascherarono da cometa, rendendo ancor più difficile rilevarla.

   All’emozione della scoperta subentrarono ben presto enigmi sempre più preoccupanti. L’androide Data fu infettato da numerose personalità aliene, riconducibili alla perduta civiltà D’Arsay. Anche il computer di bordo iniziò a mostrare i loro geroglifici. Ma la cosa più sconcertante fu l’apparizione di sempre più manufatti appartenenti a quell’antica civiltà».

   Sullo schermo apparvero le istantanee scattate all’epoca. C’erano statuette, stele votive, vasi ornati. Quasi tutto recava impresso il marchio di Masaka. «Questi oggetti non furono teletrasportati dagli Archivi» puntualizzò lo storico. «Furono creati a partire dai materiali dell’Enterprise, grazie alla più raffinata tecnologia di replicazione mai incontrata dalla Flotta».

   «Curioso» commentò Dib. «Pur essendo il prodotto di una tecnica estremamente sofisticata, tutti questi oggetti sono primitivi e non funzionali».

   «Cerimoniali» corresse Juri, alzando l’indice ammonitore. «E ingannevolmente primitivi. Come ammette anche lei, solo una civiltà altamente progredita poteva sintetizzarli. Il Capitano Picard, grande appassionato d’archeologia, intuì che quei manufatti svolgevano un ruolo ritualistico nella società D’Arsay. I successivi sviluppi gli diedero ragione».

   Lo storico mostrò altre immagini raccolte dall’equipaggio o dai sistemi di sicurezza dell’Enterprise-D. Poco alla volta, gli elementi D’Arsay crescevano in dimensioni e quantità, fino a prendere il sopravvento su quelli federali. Intere sezioni dell’astronave – stanze e corridoi – si trasformavano. Una consolle diventava un piccolo obelisco, le interfacce parietali lasciavano il posto a blocchi di pietra squadrati. E non c’era solo la materia inorganica. Foglie di palma apparivano qua e là, le radici serpeggiavano su pareti e pavimenti, i rami si levavano sempre più alti e frondosi. Un groviglio di fili elettrici si trasformava in un analogo groviglio di serpenti, vivi e sibilanti. Le fiamme si levavano in un corridoio, mentre la sala tattica si trasformava in una palude piena d’insetti ronzanti.

   «Ma com’è possibile?!» chiese Vrel, con gli occhi sgranati. «Cosa alimenta le fiamme? E le piante, gli animali... da dove vengono?».

   «Sintesi Particellare» rivelò Juri. «Gli Archivi possono riconfigurare la materia, anche organica, fino al livello particellare. I nostri progettisti di replicatori se la sognano, una tecnologia così. È... una delle cose più simili alla magia mai incontrate dalla Flotta».

   «È come un virus. O un parassita» disse però la dottoressa Mol, che osservava le immagini con crescente inquietudine. «Gli Archivi inoculano la loro cultura in tutto ciò che trovano. Assimilano gli oggetti, le piante, gli animali... forse alla lunga anche le persone».

   «Ha colto il problema» disse Juri con gravità. «Per quanto fosse appassionato d’archeologia, il Capitano Picard non poteva permettere agli Archivi di trasformare la sua nave in... qualcos’altro. Ma un raggio traente bloccava l’Enterprise e il computer era così infettato che anche le armi erano fuori uso. Mentre l’equipaggio cercava un modo per invertire la trasformazione, il Capitano incontrò le personalità aliene che si manifestavano nel corpo di Data. Ce n’erano di tutti i tipi: un soldato, un popolano, un vecchio che cercava di scaldarsi al fuoco. Una delle più ricorrenti era una specie di canaglia, o di burlone, che disse di chiamarsi Ihat. Ma avevano una cosa in comune... tutte parlavano di Masaka».

   Lo storico riportò sullo schermo il simbolo della regina-dea. Ora che gli ufficiali iniziavano a capire di che si trattava, il sole raggiato con la maschera parve ancora più inquietante.

   «Il soldato proclamava la sua assoluta devozione, mentre il popolano tremava di paura. Il vecchio affermò persino d’essere suo padre, ma aggiunse che Masaka non si curava più di lui. E Ihat rivelò che la regina era così crudele da bruciare vive le sue vittime, quando non le lasciava morire di sete. Tutti quanti erano terrorizzati all’idea che si risvegliasse, anche se lo consideravano inevitabile. Ripetevano che “Masaka si sta svegliando” e che “non si può fermare il Sole nella sua ascesa”. Avevano ragione. Una dopo l’altra, le personalità furono fagocitate da quella di Masaka, che restò l’unica a controllare l’androide. Indossò la sua maschera cerimoniale e si recò nel tempio, plasmato dentro l’astronave».

   «Quelli dell’Enterprise non cercarono di fermarlo?» si stupì Norrin.

   «Il Capitano Picard voleva capire la situazione, prima di scontrarsi con una tecnologia così evoluta» spiegò lo storico. «Andò a parlare con Masaka, ma lei non volle nemmeno ascoltarlo...».

   «Aspetti... quando dice “Masaka”, a che si riferisce esattamente?» chiese Radek.

   «A una personalità creata dagli Archivi e innestata nel cervello positronico di Data» rispose prontamente Juri. «La domanda è su che cosa si basa questa personalità. Un’antica sovrana divinizzata dopo la morte? Un’entità aliena scesa su D’Arsay per farsi adorare? In tal caso, la vera Masaka potrebbe essere ancora là fuori, da qualche parte» disse Juri, facendo un gesto vago per indicare lo spazio interstellare.

   «Ma c’è un’altra possibilità» aggiunse con uno strano sorriso. «Il costante simbolismo solare che ammanta Masaka potrebbe rivelare la sua natura astronomica. Masaka non sarebbe altro che il sole. Ecco perché il suo simbolo allude ai quattro punti cardinali: il sole permette di orientarsi. Ed ecco perché fa “morire di sete” le persone o addirittura le “brucia vive”. Oggi il pianeta D’Arsay è un deserto rovente: la sua stella è cresciuta in attività, fino a distruggere l’ecosistema».

   Così dicendo, lo storico mostrò un’immagine recente del pianeta, avvolto da spesse nubi. Una volta inserito il filtro atmosferico, la superficie apparve riarsa, spazzata dalle tempeste di sabbia e bombardata dalle radiazioni. Non c’erano foreste, né masse d’acqua, e nemmeno tracce della civiltà D’Arsay.

   «No, un momento... se erano così progrediti da costruire quella sonda-archivio capace di sopraffare l’Enterprise, com’è possibile che venerassero ancora il Sole?» chiese Radek.

   «Non è strano come sembra» rispose Juri. «L’identità culturale può costruirsi attorno a simboli e riti straordinariamente persistenti. Gli esempi non mancano, in giro per la Galassia».

   «Quindi come andò a finire?» volle sapere il Comandante.

   «Picard notò che c’era un altro simbolo ricorrente sugli oggetti trasformati, anche se appariva meno di frequente: questo». Lo storico mostrò un nuovo emblema, color argento. Era molto più semplice: nient’altro che una forma arcuata, come un arco o una falce di luna. Al suo interno era diviso in vari segmenti.

   «Questo simbolo compariva quasi sempre accanto a quello di Masaka. Ma era più piccolo e si trovava ai margini degli oggetti, oppure sul retro, quasi fosse un ripensamento» proseguì Juri. «Picard scoprì che era associato a un’altra figura mitologica D’Arsay, un certo Korgano. Sulle prime sembrava che fosse un cacciatore, ma poi divenne evidente il suo simbolismo lunare. Il Capitano ricordò che due delle personalità di Data, Ihat e il vecchio, avevano parlato di lui. Entrambi affermavano che solo Korgano poteva placare Masaka, facendola addormentare, ma avevano aggiunto che “ormai non le dà più la caccia”. E così, tutto divenne chiaro!» si animò lo storico. «Avete capito, vero?» chiese, guardandosi attorno emozionato. Ma incontrò solo facce perplesse.

   «Faccia conto di sì» disse Radek. «Ma ce lo spieghi con parole sue».

   «Sigh... e va bene» sospirò Juri, deluso da quella mancanza d’acume. «Molte culture ritualistiche si basano sul dualismo. Masaka era una regina... una figura potente, pressoché divina. Non era illogico ritenere che avesse una controparte, un consorte che le facesse da contraltare. Il loro rapporto era modellato sui movimenti del sole e della luna D’Arsay, che forse non erano mai visibili assieme in cielo».

   «Forse?» chiese Radek. «Conoscendo il pianeta, non si può controllare?».

   «Oggi D’Arsay non ha alcuna luna» rivelò lo storico. «Dev’essersi allontanata molto tempo fa, originando la leggenda del Cacciatore che non insegue più la sua bella. Ma prima di allora, per milioni di anni, l’alternanza era stata quella. Il Sole tramonta e la Luna sorge... Masaka e Korgano si scambiano di posizione, come due potenti sovrani che si alternano al trono in un ciclo continuo» disse, indicando un bassorilievo in cui i due simboli comparivano affiancati. «Così Picard decise che, se Masaka non voleva ascoltarlo, magari avrebbe dato retta a Korgano. Trovò il suo simbolo nell’Archivio e ne favorì la materializzazione».

   «Pensava che con Korgano sarebbero stati più al sicuro?» chiese Norrin.

   «Le altre personalità D’Arsay non sembravano temerlo» rispose Juri.

   «E si può dar credito a personalità fittizie, generate da un archivio alieno?» domandò l’Hirogeno, sempre più scettico.

   «Perché no?» fece lo storico. «Comunque l’Enterprise stava per essere completamente trasformata, quindi non c’era tempo d’escogitare qualcos’altro» concluse, facendo spallucce.

   «Quindi fecero spuntare Korgano?» chiese Vrel, confuso.

   «Eh eh, no... solo la sua maschera cerimoniale!» ridacchiò Juri, mostrandone l’immagine. «Vedete, quelli dell’Enterprise – come voi ora – stavano prendendo la cosa nel modo sbagliato. I D’Arsay erano una cultura ritualistica, basata sul simbolismo e il mito. Bisognava affrontarli su quel terreno, incorporandosi nei loro cerimoniali. Così Picard indossò la maschera di Korgano e si presentò a Masaka, fingendosi lui».

   «E questo bastò a infinocchiarla?!» fece Vrel, sempre più stranito.

   «Sì!» esultò lo storico. «Vedete, per gli antichi D’Arsay il simbolo era tutto. Se Picard aveva la maschera di Korgano e si comportava come lui, allora era lui. Il buon Capitano non fece altro che esortare Masaka ad addormentarsi, per risorgere alla prossima alba. Si appellò persino al suo ego, affermando che invece d’essere la preda inseguita, avrebbe trovato molto più stimolante divenire la cacciatrice, per scacciarlo dai cieli e tornare a regnare. Così la personalità di Masaka si addormentò, liberando Data dalla sua influenza. Anche il processo di trasformazione della nave s’invertì. L’Enterprise tornò come prima e fu libera di allontanarsi».

   «Questo fa sorgere una domanda» disse Dib, parlando a nome di tutti. «Se il Capitano Picard non fosse riuscito a far riassopire Masaka, cosa sarebbe accaduto all’Enterprise e al suo equipaggio?».

   «Ottimo quesito» riconobbe Juri. «Tutto suggerisce che la trasformazione sarebbe continuata, finché l’Enterprise fosse divenuta il tempio di Masaka... se non la sua intera città. Non oso pronunciarmi sul destino dell’equipaggio» aggiunse con una smorfia. «In seguito la Flotta Stellare mandò delle squadre archeologiche a studiare l’Archivio, ma tutte le astronavi si scontrarono con lo stesso problema. Appena si avvicinavano, iniziava la trasformazione delle sostanze di bordo. Così non restava che andarsene alla svelta, prima di svegliare Masaka un’altra volta».

   «Mi chiedo quale fosse lo scopo di una sonda-archivio così bizzarramente progettata» disse ancora l’Ingegnere Capo.

   «Gli archeologi hanno ipotizzato che sia una sorta di Dispositivo Genesis molto evoluto, costruito per ricreare la civiltà D’Arsay su un altro mondo» rispose Juri. «E questo ci porta al problema di oggi. Vedete, l’incidente dell’Enterprise-D avvenne 217 anni fa. In tutto questo tempo la sonda ha continuato la rotta, anche se la Flotta Stellare se n’era praticamente scordata. Pochi giorni fa è stata avvistata di nuovo. Sta entrando nel sistema di Ultima Thule e ha modificato la rotta per raggiungere il pianeta colonizzato. Sulla base a terra gli oggetti hanno già cominciato a trasmutarsi. L’installazione sta diventando una specie di città Maya, con templi e palazzi di pietra. Il simbolo di Masaka compare ovunque... non ci vorrà molto prima che la regina si faccia viva».

   «Ci sono androidi che potrebbero essere infettati?» chiese Dib.

   «Peggio» rispose il Capitano. «C’è un’Intelligenza Artificiale con emettitori olografici in quasi tutta la base. E ci sono emettitori da braccio che le permetteranno di andarsene in giro sul pianeta... e persino di lasciarlo».

   Gli ufficiali si scambiarono sguardi preoccupati. Tutti loro avevano già affrontato sfide insolite; ma quell’antichissima regina, resuscitata da un archivio alieno, si annunciava la più esotica di tutte. Come ci si poteva approcciare a un’entità del genere?

   «Dobbiamo aspettarci che basti indossare la maschera di Korgano per rimetterla a nanna?» chiese Radek.

   «Forse stavolta non sarà così semplice» avvertì Juri. «La presenza di un vero pianeta da trasformare potrebbe mettere gli Archivi in allarme. Ci sono più cose da riplasmare, più personalità da ricreare. Invece di manifestarsi in sequenza, i personaggi potrebbero apparire tutti assieme, interagendo in modi imprevedibili».

   «Sono pur sempre personaggi-tipo, che agiscono secondo schemi prefissati» commentò Norrin. «Non mi sembra molto diverso dall’andare su un ponte ologrammi».

   «Signori, vi esorto a non prendere sottogamba il problema» ammonì lo storico, scrutando tutti gli ufficiali. «Nella cultura D’Arsay ci sono evidenti arcaismi di stampo tribale. Il paragone con le culture precolombiane – Maya, Aztechi – mi sembra calzante. Quei popoli avevano raggiunto un certo grado di complessità sociale, ma praticavano riti violentissimi, come i sacrifici umani. E sappiamo che i sudditi di Masaka temono di finire sul suo altare sacrificale. Anche se il sole di Ultima Thule non è rovente come quello D’Arsay, temo che non sarà facile placare i bollenti spiriti della regina».

   «E Korgano?» chiese Radek.

   «Già, Korgano» fece Juri, meditabondo. «Se gli Archivi si riattivano del tutto, di lui potremmo vedere più che la maschera. In un certo, senso, lo spero. Sarei molto curioso di fare due chiacchiere con lui».

   «Può darsi che incontreremo molte figure della società D’Arsay, o della sua mitologia» disse il Capitano. «Data riferì che dentro di lui erano stipate migliaia di personalità. Un intero popolo... che ora intende occupare un mondo federale».

   «Sotto certi aspetti, non è diverso da una normale migrazione» notò Dib. «L’Unione ha dei protocolli per gestire queste situazioni».

   «Protocolli che non funzionano benissimo neanche con le persone normali» sospirò il Capitano, ricordando i numerosi incidenti del passato. «Figurarsi con queste personalità mitologiche che invadono i nostri computer. Dovremo stare molto attenti. In primo luogo, accertiamoci che la sonda-archivio non violi i nostri sistemi».

   «È dall’incidente col Melange che sto potenziando la sicurezza informatica» assicurò Dib. «Data la nostra scarsa conoscenza della tecnologia D’Arsay, tuttavia, suggerisco di mantenerci a distanza dagli Archivi».

   «Dieci navi trasporto sono già in viaggio per Ultima Thule» spiegò il Capitano. «Nella peggiore delle ipotesi, se perderemo la base, salveremo almeno gli abitanti. Ma il Comando di Flotta è stato chiaro: dobbiamo fare tutto il possibile per non perdere questo pianeta strategico».

   «Se le maschere e gli antivirus fallissero, potremmo distruggere la sonda-archivio» suggerì Norrin.

   «È tutto ciò che resta di una cultura vecchia di 87 milioni di anni» sospirò Juri. «Una cultura sopravvissuta al suo ecosistema, che ha trovato questo modo straordinario per trapiantarsi e sopravvivere. Forse dovremmo darle una chance».

   «Una cultura che pratica sacrifici umani» ricordò Radek. «Che non si fa scrupoli a distruggerci, anziché intavolare una discussione. Che si fa comandare da una regina assetata di sangue e da un re di cui, beh... nulla sappiamo. Non sono le basi migliori per aprire un negoziato».

   «No di certo» convenne il Capitano. «Ma tenteremo ugualmente. Tutto dipende da Masaka e dalle altre personalità. Saranno così cieche nel perseguire i loro rituali, o stavolta si mostreranno più reattive?» chiese a Juri.

   «Non me la sento di fare previsioni» rispose lo storico. «Dipende da come sono programmate. Dico solo che il mito è più adattabile di quanto comunemente si pensi».

   «Lo scopriremo fra poco» concluse Hod. «Tutti in plancia. Vrel, tracci la rotta per Ultima Thule. Massima cavitazione. Non dobbiamo far aspettare la regina» ironizzò.

 

   Ultima Thule era un planetoide di classe Theta, più piccolo della Terra ma con massa sufficiente a trattenere un’atmosfera. Una grossa luna di classe D gli orbitava attorno. Il clima era mite, ma all’equatore la temperatura si alzava considerevolmente. Lì, in mezzo a una foresta verdeggiante, sorgeva l’avamposto federale. Era una cittadina costruita secondo uno schema ortogonale, con strade che s’incrociavano ad angolo retto. Al centro sorgeva il presidio della Flotta Stellare: un grande edificio, scintillante di trasparacciaio, che per ironia della sorte aveva forma piramidale.

   «Per Masaka deve sembrare un invito» commentò il Capitano, osservando la piramide inquadrata sullo schermo. «Dov’è la sonda-archivio?».

   «A 300 milioni di km, ma si avvicina a rapido impulso» riferì Zafreen. «Se mantiene la velocità, sarà qui fra sei ore al massimo».

   «I suoi effetti si vedono già» commentò Radek, osservando attentamente il centro urbano. Qua e là i moderni edifici federali lasciavano il posto a costruzioni in pietra, più anticheggianti. C’erano obelischi, stele e statue scolpite. Certe statue erano in piedi, altre sdraiate; alcune non erano che grossi faccioni, dall’espressione indecifrabile. Attorno a loro avanzava una vegetazione tropicale, diversa da quella del pianeta.

   «I nostri scudi sono alzati?» chiese Hod, con una certa apprensione.

   «Li ho attivati appena siamo usciti dalla cavitazione» la rassicurò Norrin.

   «Zafreen, ci mostri la sonda-archivio» ordinò il Capitano.

   «Eccola, in tutta la sua bruttezza» commentò l’Orioniana, inquadrando la struttura aliena tramite i sensori di bordo. Era proprio come l’immagine che avevano visto: un conglomerato di blocchi squadrati, di colore rossiccio, che non permetteva nemmeno di distinguere l’alto e il basso. Negli interstizi fra un blocco e l’altro c’erano ancora residui ghiacciati della cometa che l’aveva imprigionato a lungo. «L’Archivio misura un chilometro per tre, nei punti più ampi» riferì l’addetta ai sensori. «Lo scafo è in fortanium con tracce d’altri materiali. Niente scudi».

   «Se si mettesse male, un paio di siluri basteranno a farlo saltare» commentò Norrin a mezza voce.

   «Teniamolo d’occhio coi sensori» raccomandò il Capitano. «Intanto occupiamoci della base, visto che è già stata compromessa. Zafreen, apra un canale».

   «Non posso, Capitano».

   «Come sarebbe, non può?!» fece Hod, voltandosi di scatto. La consolle delle comunicazioni era svanita, rimpiazzata da un altare sacrificale. Ci fu un lampo e il simbolo di Masaka, il sole coi quattro punti cardinali, vi apparve inciso a bassorilievo.

   «Eeek!» strillò l’Orioniana, balzando indietro. «Sono troppo giovane per il sacrificio!».

   «Frell, quell’affare ci colpisce attraverso gli scudi!» imprecò Radek. «Com’è possibile? Niente può superare gli scudi cronofasici!».

   «Non possiamo lasciare che la Keter sia infettata» disse Hod, pallida. «Mettiamo altri 300 milioni di km fra noi e la sonda. Raggiungeremo il pianeta con le navette».

   «Sempre che non si trasformino in canoe durante il volo» commentò Vrel, innervosito. Si affrettò ad allontanare l’astronave, mentre i tecnici teletrasportavano via l’altare, sostituendolo con una nuova consolle. Nel frattempo si cercò di contattare Base Thule dalla sala ausiliaria, ma non ci fu risposta.

   «Questo silenzio è preoccupante» disse il Capitano. «Forse Masaka si è già manifestata. Dobbiamo scendere subito. Per affrontare i problemi culturali, tecnologici e linguistici verranno Juri, Dib e Zafreen».

   «Vengo anch’io» si offrì Norrin.

   «D’accordo; io mi occuperò delle trattative» disse Hod.

   «Mi lasci andare al suo posto, Capitano» la esortò Radek. «Non sappiamo cosa troveremo laggiù... potrebbe essere una trappola».

   «So che si preoccupa per me, tuttavia...».

   «Dico sul serio. Mi faccia andare, la prego» insisté il Rigeliano, fissandola con genuina preoccupazione.

   «E va bene» cedette Hod. «La squadra è sua, Comandante. Partite subito».

 

   La navicella di classe Gryphon scese nell’atmosfera, diretta alla base federale. Nel breve tempo trascorso da quando la Keter era stata in orbita, la trasformazione si era già visibilmente accentuata. Gli edifici e i monumenti in pietra si espandevano ai danni della città. La foresta circostante stava diventando una giungla paludosa. Sulla navetta, gli ufficiali osservarono il panorama.

   «Guardate là» disse Juri, indicando la piramide al centro. «La nuova padrona sta marcando il territorio». Sulla parete sopra l’ingresso il simbolo della Flotta Stellare era stato sostituito dal marchio di Masaka. La piramide stava anche cambiando colore, da azzurro-argento a rosso-oro.

   «Megalomane» commentò Radek. «Non atterriamo lì davanti... scendiamo su quella piazza secondaria» disse, indicandola al pilota. «Voglio guardarmi attorno, prima di affrontare la regina».

   La navicella atterrò nella piazzola deserta. Gli ufficiali scesero, scortati da un folto gruppo di guardie. Si guardarono attorno senza scorgere anima viva.

   «Beh, nessuno viene a salutarci?» fece Zafreen, delusa dalla mancata accoglienza.

   «Spero che siano tutti tappati in casa per l’emergenza» disse Juri. «Perché l’alternativa è infausta».

   «Affrettiamoci» ordinò Radek, preoccupato dall’immobilità e dal silenzio dell’insediamento.

 

   I federali percorsero viali deserti, mentre attorno a loro altri oggetti cambiavano. Norrin e le sue guardie avevano i fucili phaser spianati; tutti gli altri tenevano i phaser manuali in cintura. A un certo punto Norrin si affiancò al Comandante. «Qualcuno ci spia. Là dietro» gli sussurrò all’orecchio, accennando a una siepe. Dietro di essa s’indovinava una figura umanoide, che ogni tanto si fermava a sbirciarli tra le fronde.

   «Ho visto» confermò Radek. «Prendetelo. Con le buone, mi raccomando».

   «Vado». L’Hirogeno si allontanò discretamente, con alcuni dei suoi agenti. Girarono rapidi attorno all’isolato e cercarono di prendere lo spione alle spalle. Ma quando giunsero dove credevano che fosse, lo videro che correva decine di metri più avanti. Indossava semplici sandali, un gonnellino e un mantello simile a un poncho. Gran parte del corpo era dipinta a colori vivaci, mentre in testa aveva una piuma. «Mi sa che non è un cittadino federale» mormorò Norrin, partendo all’inseguimento.

   Il fuggiasco, chiunque fosse, si rivelò difficile da acchiappare. Sebbene fosse inseguito da parecchi agenti della Sicurezza, lui era sempre un passo avanti. Correva attraverso i giardini privati, superava d’un balzo siepi e muretti, si nascondeva dietro i veicoli, lasciava false piste. In più occasioni due Agenti fecero una manovra a tenaglia, certi di prenderlo nel mezzo, ma finirono l’uno addosso all’altro mentre lui si allontanava. Da buon Hirogeno, Norrin cercò di mettere la preda con le spalle al muro, tagliandole ogni via di fuga. Ma lo sconosciuto s’inventava sempre dei trucchi per sgusciar via. Gli Agenti continuarono a tallonarlo, mentre gli altri federali arrancavano più indietro.

   «Elaboro il percorso di fuga più probabile» disse Dib, e svoltò un cantone, separandosi dagli altri. Radek fece per trattenerlo, ma il Penumbrano era già lontano.

   «Credevo che non dovessimo separarci!» commentò Juri, ansimando dietro al Comandante.

   «Lo credevo anch’io» disse il Rigeliano, seccato. Si premette il comunicatore e diede ordini agli ufficiali, perché tagliassero le vie di fuga all’intruso e convergessero su di lui.

   «Zafreen, mi serve il tuo aiuto» disse allora Juri. Si accostò all’Orioniana, che aveva un d-pad con la matrice di traduzione dei glifi D’Arsay. «Qual è il simbolo che indica la prigionia?».

 

   Il fuggitivo corse a perdifiato attraverso un parco giochi per bambini. Zigzagò tra scivoli e altalene, coi raggi phaser che gli fischiavano intorno. «È in campo aperto... ora lo prendiamo!» fece Norrin, aggiustando la mira. Quando lo sconosciuto superò d’un balzo una bassa siepe, l’Ufficiale Tattico e la sua squadra lo imitarono. Ma non saltarono abbastanza in lungo, non immaginando cosa li aspettasse dall’altra parte.

   Dietro la siepe si era formata una palude marcescente, con tanto di sabbie mobili. I federali vi sprofondarono fino alla vita. Cercarono di trarsi d’impaccio, ma ogni movimento li faceva affondare di più. «State fermi, così peggiorate solo le cose!» ordinò Norrin, frustrato per come il fuggitivo li aveva messi nel sacco. Trasse una pistola-rampino dallo zaino multiuso e centrò un albero, fuori dalla zona delle sabbie mobili. Riavvolgendo la fune riuscì a trarsi in salvo, anche se dovette lottare contro il risucchio del pantano, conquistando faticosamente ogni centimetro. Aiutò poi i suoi uomini, pur sapendo che così il fuggitivo li avrebbe definitivamente seminati.

   Molto più avanti, lo sconosciuto si voltò a guardare gli inseguitori impantanati e sorrise, certo d’essere in salvo. Non aveva considerato Dib. Quando tornò a guardare in avanti, il Penumbrano gli era quasi addosso. Il fuggiasco lo evitò con uno scarto disperato, ma così finì in una strada senza uscita. «Molto abile... come hai capito che sarei passato di qui?» chiese. Era incuriosito, ma non particolarmente spaventato.

   «Ho elaborato ottocento possibili scenari di fuga» rispose con calma l’Ingegnere Capo. «Questo era il più probabile».

   «Caspita, non credevo d’essere così prevedibile!» fece l’altro, arretrando verso la fine del vicolo.

   «Non cerchi di fuggire... non intendiamo farle del male» spiegò Dib. «Vogliamo solo farle qualche domanda».

   «Dicono tutti così... e in men che non si dica, ti trovi legato a un altare sacrificale!» ribatté il fuggiasco. «Nossignore... sfuggirò a te, come sono sempre sfuggito a Masaka!» dichiarò. In quella ci fu un bagliore alle sue spalle. Il muro moderno si era trasformato in una muraglia di blocchi squadrati, con un ingresso monumentale, vegliato da statue di giaguaro. Lo sconosciuto fece un sorriso furbetto e fuggì per quella comoda via.

   «Sorprendente» commentò Dib, osservando il muro trasfigurato. Abbandonato l’inseguimento, cominciò ad analizzarlo col tricorder, cercando di comprendere la natura della trasformazione.

   «Salvo, finalmente!» gongolò il fuggitivo, allontanandosi di buon passo. Non si era accorto che, a molti metri di distanza, Radek lo stava mirando col phaser.

   «Ora ci sei» disse il Comandante, socchiudendo gli occhi. Premette il grilletto... solo per scoprire che non c’era più alcun grilletto da premere. Il phaser manuale si era trasformato in una cerbottana. «Yotz!» imprecò il Rigeliano, in procinto di gettarla via.

   «Fermo!» disse Juri, strappandogliela di mano. «Se è come credo, questa è la nostra arma migliore, al momento». Si portò la cerbottana alla bocca, mirò il fuggitivo e soffiò con tutte le sue forze. Lo sconosciuto si girò verso di lui e il sorriso fanciullesco gli morì in volto. Cercò di scappare ancora, ma il dardo della cerbottana lo colpì a un polpaccio. Il D’Arsay gridò, fece ancora qualche passo zoppicante e infine crollò a terra, paralizzato.

 

   «Tutto qui?» si stupì Radek.

   «Come sarebbe, tutto qui?!» s’indignò Juri, restituendogli la cerbottana. «Crede sia facile centrare un corridore a quella distanza, con quest’affare? E poi il mio compito non è ancora finito». Lo storico corse dalla sua vittima. Quando gli fu accanto, trasse di tasca un gessetto e cominciò a tracciargli intorno degli intricati glifi.

   «E adesso che fa?» chiese Radek, accorrendo.

   «Mi accerto che il nostro amico non scappi» rispose Juri, mentre anche Zafreen li raggiungeva trafelata. «Questi simboli esprimono il concetto d’immobilità e prigionia. Non credo che li oltrepasserà».

   «Ma sono solo dei disegni sul permacemento!» protestò il Rigeliano. «Cosa gl’impedisce di calpestarli?».

   «Non l’ha ancora capito, Comandante? È il simbolo che conta. Sempre e solo il simbolo» spiegò Juri, ultimando il cerchio di glifi intorno al prigioniero.

   «Mi arrendo... sei troppo furbo!» riconobbe il D’Arsay, che aveva una strana voce nasale.

   Radek lo afferrò per le spalle e lo girò rudemente, per vederlo in faccia. Il prigioniero aveva l’attaccatura dei capelli molto arretrata ed era privo di sopracciglia. La metà superiore del volto era dipinta di blu e il setto nasale era attraversato da una pietruzza dello stesso colore. Al petto gli pendeva una tavoletta d’argilla con impresso un glifo a forma di piuma.

   «Così è questo l’aspetto dei D’Arsay» commentò il Comandante. «Tu chi sei?».

   «Il vostro umile schiavo» rispose l’altro, sarcastico. «Vi prego, non mettetemi a girare la macina del mais».

   «Le leggi dell’Unione vietano la schiavitù» spiegò Radek, corrucciato. «Scusa per tutto questo. Non avremmo voluto braccarti, né ferirti, e neppure imprigionarti, ma...».

   «Quante cose mi avete fatto, senza volerlo!» lo derise l’altro. «Eppure i tuoi segugi mi stavano alle costole con parecchia convinzione».

   «Questa colonia è in pericolo e ci servono risposte. Tu sembri in grado di darcele» si giustificò il Comandante. «Sei una delle personalità generate dall’Archivio, vero?».

   «Quale archivio? Non so di che parli» rispose il D’Arsay, con quel tono nasale che sapeva di sberleffo.

   «No, Comandante; continua a sbagliare approccio» disse Juri. L’Umano sedette a gambe incrociate davanti al suo prigioniero e gli levò il dardo dal polpaccio. «Io sono Juri, lo storico... vengo dalla Terra» si presentò, portandosi la mano al petto. «Tu chi sei? Qual è il tuo nome, la tua patria...?» chiese, indicando l’interlocutore.

   «Sono Ihat» rispose il D’Arsay. «Mi chiamano l’Esule e il Fuggiasco. Non ho patria... ma se l’avessi, sarebbe la Città di Masaka. Ehi, non ci siamo forse tutti dentro?» chiese, allargando le braccia a indicare l’insediamento sempre più alieno intorno a loro.

   In quella arrivarono Norrin e gli altri agenti della Sicurezza. C’era anche Dib, che analizzò Ihat al tricorder. «Quest’essere sembra organico... ma a un esame più approfondito direi che si tratta di una proiezione isomorfa» concluse l’Ingegnere Capo.

   «Immaginavo che fosse un ologramma di ultima generazione» commentò Radek. «Dove nascondi l’Emettitore Autonomo? Ah, ecco!». Sollevando il mantello che copriva le spalle di Ihat, vide l’olo-emettitore allacciato al braccio.

   «Questo talismano mi permette di uscire dal Tempio di Masaka» disse Ihat, accennando alla piramide. «Fortunati quelli che ne escono vivi! Degli altri restano le ossa e a volte neanche quelle».

   «Ciò di cui parla non è un talismano...» cominciò Dib, ma Radek lo zittì con un gesto secco. «Io sono il Comandante Radek, della nave stellare Keter. Questi sono i miei ufficiali» disse, nominandoli uno dopo l’altro. «Siamo qui per incontrare la tua regina».

   «Masaka non è la mia regina» disse Ihat con orgoglio. «È una creatura pigra... passa la maggior parte del suo tempo a dormire. Il problema è ciò che fa da sveglia!».

   «Allora sarà meglio che continui a dormire» suggerì il Comandante.

   Nel sentir questo, Ihat gli rise in faccia. «Prova un po’ a fermare il Sole nella sua ascesa al cielo!» esclamò, accompagnandosi con un ampio gesto.

   «Comandante... queste sono le parole che Ihat disse anche a Picard» gli sussurrò Juri all’orecchio. «Cerchiamo di scoprire qualcosa di nuovo». Lo storico sedette più comodo e si rivolse nuovamente al D’Arsay. «Parlaci un po’ di Masaka. Adesso dov’è? Che sta facendo?» chiese in tono colloquiale. Solo i colleghi che lo conoscevano meglio intuirono la sua tensione.

   «Dove volete che sia? Nel suo tempio!» esclamò Ihat, indicando la massiccia struttura piramidale.

«E cosa credete che faccia? Dorme, ovviamente! Forse sogna. Ma non per molto. No, non per molto!» aggiunse con voce gorgogliante. Si raccolse le ginocchia tra le braccia e si piegò in avanti con la schiena, fin quasi ad appallottolarsi. «Presto si sveglierà. Sì, sì, Masaka si sta svegliando! E come al solito vorrà bagnarsi nel sangue. Non capite? Non sentite le sue fiamme che già vi lambiscono?» chiese, fissando i federali uno dopo l’altro. Zafreen si ritrasse, spaventata dal suo atteggiamento, mentre gli altri lo osservarono accigliati.

   «Beh, che fate lì impalati?» chiese Ihat, sorpreso e – si sarebbe detto – indignato. «Correte a nascondervi in qualche anfratto senza sole, se volete prolungare di poco le vostre misere esistenze. Nascondetevi, vi dico! Non mi avete sentito? Masaka si sta svegliando! Sì, sì, è sveglia ormai! Tremate, miseri mortali, perché Masaka si è svegliata!».

   La struttura del presidio si era ormai trasformata in una piramide a gradoni, col marchio di Masaka impresso sui quattro lati. Il sole riverberava sulla sua superficie cristallina, rendendola abbagliante. Ihat scoppiò a ridere come un forsennato, ripetendo il suo ritornello: «Masaka si è svegliata... la regina è sveglia... Masaka si è svegliata...».

 

   
 
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