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Autore: Ryo13    01/07/2019    3 recensioni
Segeste si trova in Dacia dove — su comando del padre Sesto — combatte le rivolte delle popolazioni stanziate lungo il corso del Tibiscus. Alla sera di una dura giornata di allenamento presso il campo romano, fa un singolare incontro che gli cambierà la vita. Davanti a un Fato che esige la sua azione per spezzare l'oppressione che ha subito negli ultimi secoli il popolo germanico, Segeste dovrà fare una scelta tra chi è, chi vuole essere e cosa può diventare. Al fianco del fedele amico di infanzia, Krasen, lascerà tutto quello che conosce a favore di una missione che ha il potenziale di farlo diventare grande.
ATTENZIONE: SCENARIO UCRONISTICO
❈❈❈Seconda classificata e vincitrice del premio speciale "La storia che vorrei" al contest “Senza tempo – II Edizione” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP. ❈❈❈
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Libro II
 

Canto I

Già da tempo corrono per la terra le ombre, e nella foresta echeggia il canto del gufo che il volto nasconde. Poco più che silenziosi i passi di Segeste e Krasen spezzano qua e là tra la sterpaglia il legname. Si muovono come un sol uomo con pronta mente, che scruta tra cespugli e rami l’arrivo di un pericolo imminente.
Giungon infine presso due alberi secolari: l’olmo dalla corteccia liscia e il frassino grosso26, i quali s’incontrano per la larga cima intrecciando tra le foglie verdi un infinito percorso.
«Siamo giunti al luogo dell’incontro», commenta Krasen volgendo l’occhio intorno, «ma pare che non vi sia alcuno in attesa.»
Segeste resta immobile, tendendo l’orecchio. E come sente il gracchiare basso del corvo, esclama a voce tesa: «Mostrati, figura nascosta. Non siamo giunti infatti con intenzione bellica e non siamo qui nemmeno in arresa.»
Dal buio si separano, scivolando avanti, tre figure indistinte che prendon pian piano forma.
Delle tre, una parla, domandando per tutte: «A che vieni, dunque, al buio, tra queste fronde?»
«Cerco il popolo germano, nel cui sangue risuona il corno di guerra, perché esca dall’ombra e sotto il sole cammini di nuovo sulla terra. La fierezza della nostra gente è antica, e v’era un tempo in cui padroneggiava l’arte dell’ascia e della lama da non lasciare a nessuno partita. Temuti eravamo e lo saremo ancora, perché Eir27 per noi tornerà a risvegliare i morti dall’oltretomba: il popolo di oggi e quello antico torneranno a essere uno affinché tremi il nemico.»
E un’altra voce: «Chi sei, uomo, che in tal modo parli? Non sai che sotto il vessillo di Roma fai tradimento a ogni parola?».
«Vieni avanti e mostrami il volto. Così farò io pure che nulla nascondo.»
La figura avanza di pochi passi e scopre dal mantello consunto una testa di biondi capelli intrecciati.
«Sono Kari», si presenta quello, fissandolo a lungo con ingegno.
Con un sorriso, l’altro afferma: «Sono Segeste Valerio Luciano, comandante nemico ma guerriero al tuo fianco».
Gli animi si scuotono all’inattesa confessione e, prima che palpebra batta, della spada sguainata si eleva il clamore.
Kari lo punta al collo, lo stesso i compagni contro l’altr’uomo. 
Segeste non si muove, non cerca lo scontro e con voce sicura coglie il momento e propone: «Abbassa l’arma, non sono un nemico». Ma l’altro svelto: «Io di te non mi fido!»
«Ho sangue barbaro come te, fratello, e ho ricevuto un incarico in virtù di quello. Conosco la lingua, gli usi e le storie antiche. Credimi, anche se l’armatura è romana, il mio animo, dentro, vi stride.»
«Come potrei fidarmi», sbuffa infine l’uomo. «Per quel che ne so potresti infiltrarti per fare onore al tuo trono28
«Lasciamo dunque agli Asi di provare la mia rettezza e, come da vecchia tradizione, ingaggiamo battaglia e a chi vinca la verità si arrenda.»
Così propone perché con la spada possa provare la sua ragione.
La sfida è accettata e la minaccia alla gola ritratta: ora i due guerrieri si preparano a incrociar l'arma.
Nello sferragliare del ferro cessa, nel bosco, ogni rumore. Gli uomini s’avanzano l’uno incontro all’altro tracciando a ogni movimento sul suolo una danza: se l’uno colpisce, l’altro ripara, finché con forza non respinge il colpo mandando avanti questa gara. Ma il protrarsi dell’esercizio la virtù di Segeste svela, e a lungo andare, di fendente in fendente, vincitore lo rivela.
Kari in terra è sovrastato dall’uomo a cui alla gola la lama aveva puntato: or la scena è ribaltata e i compagni dai volti ancora ignoti sono agitati. 
Ma Segeste arretra il passo, lascia cadere la spada al suolo sguainando, al contempo, il ferro d’Hermod. Solleva in alto il divino dono e sotto il raggio della luna, si accende sulla lama il fuoco.
Un ansito comune ferma il respiro in mezzo al petto; solo Krasen, dall’animo pronto, si getta in ginocchio perché del momento ha un pensiero profondo: «Uditemi, fratelli», dice volgendo su di loro lo sguardo, «perché l’incarico di Segeste è divino e non gli dovete creare altro affanno».
Con tali parole comincia a narrar con eloquenza, mentre è sotto l’influsso di Munin, il cui gracchiare sgomenta. E quando ha concluso l’incredibil racconto, scorge sui volti sconosciuti lo stesso incanto.
Assieme a Kari29, s’avanzano gli altri presentandosi come Logi30 e Arndís31, fratelli questi tre e abili combattenti in armi: sono capi delle resistenza, conosciuti col nome di ‘fenice’ perché di essa ognuno un elemento osserva32.
Dopo i primi momenti, portano Segeste con loro, presentandogli i gruppi di resistenti i quali vivono celati nel cuore di una montagna. Nel segreto del buio e della roccia, questi guerrieri han perpetuato per anni l’antica memoria.

Ben presto Segeste assume il comando, conquistando la loro fiducia e facendo di ognuno un compagno.
Di giorno guida i Romani e la notte i Teutoni allena, questo fino a quando un piano non sarà pronto per far scendere i guerrieri nell’arena.

 

❈❈❈

Canto II

Il forte romano di Munste è a riposo, solo restano alle torri poche guardie a controllo.
Un gruppo di uomini avanzano col favore delle tenebre: vanno lesti, cingendo strette le armi ai fianchi come fosse il loro unico bene.
È notte di luna nuova e il gruppo di ribelli avanza: Segeste ha messo a punto il suo piano per ingaggiare battaglia.
Krasen marcia al suo fianco e Kari e Logi alla sua destra, mentre in fondo alle file Arndís li protegge con la balestra.
Si avvicinano costeggiando le mura fino al portone, dove Segeste bussa identificandosi col proprio nome.
Quando la guardia apre è in fretta abbattuta, perché tutto si svolga nel silenzio e l’avanzata resti muta. Così si continua tra i primi soldati, colti di sorpresa senza avviso di boati.
Si arriva all’armeria che vien presto depredata, affinché nessuno del gruppo resti senza lama sguainata.
I primi penetrano nelle camerate in fondo, dove dormendo trovan la morte parecchi con un singolo affondo. Ma infine qualcuno si desta e con grida di allarme si getta sul nemico in testa. Pochi altri, disorientati, come topi in gabbia si muovono, finché il Campidoctor33 non prende parola coordinandoli tra loro.
«Forza, militi, non è il momento di tremare! Se questa feccia fin qui è penetrata non resta che costruir loro le bare!»
Con simili parole li incita con insistenza, ricordando al contempo a tutti le tecniche di resistenza: i Romani si stringono in cerchio, affrontando il nemico sul davanti e proteggendosi le spalle a specchio34. Ben presto ogni lotta è sedata nel sangue che scorre a fiumi aumentando, goccia a goccia, per ogni soldato esangue.
Non è tuttavia conclusa la missione, perché da altri luoghi si precipitano nel padiglione. L’allarme ha percorso l’intero fortino, e non passa un altro minuto che viene Clodio vicino. Nella ressa non pensa che ad abbattere i nemici fino al momento che avvista Segeste come il fautore degli eccidi.
Sbalordito, la mano per un momento arresta e si avventerebbe sul traditore se nel frattempo una lama non l’avesse colpito al cuore.
Lo fissa Segeste coperto di romano sangue e si avvicina al morente il quale, pur con fioca voce, non tace: «Che tu sia maledetto, serpe dal doppio volto… che Marte35 ti annienti cento volte per ogni colpo».
Quando l’ultima parola le labbra lascia, la pupilla ormai velata si allarga.
E infine vi è la resa: la battaglia è vinta, la fortezza presa!
I Germani in coro intonano un canto a Týr36, loro patrono.
Tutti acclamano Segeste per quella vittoria, e lo vorrebbero coinvolgere in gesti di esultanza che siano per il futuro promemoria. L’uomo rifiuta sottraendosi alla presa: intende perquisire i dintorni della magione estesa. 
Raggiunge l’abbeveratoio dove immerge le mani in acqua, ma ripulirle del tutto è cosa assai ardua. Mentre nell’acqua la macchia trascolora, nella sua memoria è ben presente molto sangue ancora.
Si piega sbuffando e si bagna anche il volto, per schiarire la mente e tornare dagli altri già pronto. Ma i gesti sono lenti un peso ha nel cuore perché anche se ha accettato gli eventi, non riesce a scrollare il languore.
Krasen arriva alle sue spalle: l’ha seguito dall’interno fino alle stalle.
«Vedo il tuo dolore, amico», commenta, ponendogli la mano sulla spalla, mentre la stretta aumenta.
«Non pensare male di me e non travisare.»
E quello replica: «Questo, proprio, non lo potrei mai fare».
Si guardano negli occhi in comunione profonda: Krasen ha capito e non c’è bisogno che gli risponda.
Segeste è diviso nel cuore e nel sangue: perché se da un lato ha il popolo vicino, dall’altro ha rotto un giuramento importante. Ma sin dall’inizio gli è sempre stato chiaro quale prezzo era da pagare per esser dei Teutoni un sicuro riparo.
«Della natura sono uno scherzo», dice ad alta voce ma più a se stesso. «La divisione tra il popolo germano e quello romano si riflette dentro di me su ogni piano. Di Odino sono diventato l’arma, come un cavallo di Troia lanciato in battaglia; tuttavia questa lama è rivolta contro me stesso, perché questo è il prezzo per liberare chi è sottomesso. La chiamata ricevuta esige un sacrificio, ma più che eroe sono la vittima senza beneficio. Eppure, per questo sono nato e non lascerò che mi rincorra il mio fato: da me ho deciso per l’azione affinché il mio popolo viva senza più padrone37.»
«So che ce la farai, sei capace di tutto questo», lo consola Krasen per distoglierlo dal resto. «Prenditi un momento e poi ritorna, seppelliremo Clodio e gli altri Romani com’è buona norma.»
L’uomo si allontana, lasciandolo solo, e di Munin si scuote l’ala planando dal volo. Si poggia sul bordo della vasca, davanti un Segeste dalla faccia stanca. Lo fissa inquisitore e muove a scatti il becco, producendo in quel modo un suono secco.
«Sei venuto a gracchiare la canzone dei morti?», gli domanda Segeste che non può impedire che lo scorti. «Mio pennuto amico, non ti affannare: le lacrime della storia38
non le posso comunque scordare.»
Ciò detto, con nuova forza, al suo ruolo ritorna.

 

❈❈❈

Canto III

Molti mesi sono trascorsi da che Segeste dei Germani ha preso il comando: tanti a sufficienza che per lui Roma ha esposto un severo bando. Tuttavia non conosce il proprio nemico se non sotto l’appellativo di Krake39, perché Segeste è ritenuto perito durante l’assalto al castello di Munste: da quel giorno gira voce di un bandito il quale combatte d’un divino fuoco empito che le sparse tribù germane ha riunito.
Nel cuor dell’Impero la situazione è tesa, tra i generali c’è chi propone diversi modi per ottenere da lui una resa. 
Comprare Sesto Valerio alla presenza dell’imperatore per avere per sé il comando di qualche legione.
Cesare l’ascolta attento esporre le sue ragioni e le strategie per imporre l’ordine tra le popolazioni.
«Savio Sesto», afferma Cesare divino, «in altri tempi, per acconsentire, non mi sarebbe valso che il gesto di un dito. Tuttavia la situazione non è da sottostimare: sono mesi e mesi che va avanti questo malaffare. Ho spedito Sennio il quale per primo aveva consentito, solo per ritrovarmelo morto appena un mese partito! Poi fu la volta di Plinio Rufo che non durò per il bubolare di un gufo! Non ho inviato che da qualche giorno Riano testa di martello che, come vedi, ho qui in mano il documento del suo decesso.»
«Se permettete», interviene l’anziano uomo, «quelli erano giovani pressoché imberbi, buoni non tanto per la durezza dei loro nerbi. Non così io, Cesare, ci puoi giurare, ché la canizia delle mie tempie ha avuto qualcosa da insegnare. Questo ti chiedo per rispettare della vecchiaia l’istinto; inoltre, come voi sapete, ho da saldare un debito con chi ha ucciso mio figlio.»
Con queste e molte altre parole, infine Sesto persuade ai propri desideri l’imperatore.
Alcuni giorni dopo, nel cuore della foresta nera, Arndís si inoltra seguendo sul terreno d’un piede l’orma. Ha con sé l’arco e le frecce con le quali è capace di centrare l’occhio d’un pesce.
S’inerpica in cima a un dirupo dove trova Segeste appollaiato su un albero col suo pennuto.
«Eccoti, dunque», comincia quella, «isolato da tutto mentre imperversa la guerra.»
«A meno che non sia successo qualcosa, non mi aspetto tanto presto che qualcuno mi distolga dalla mia posa.»
«Chi mai lo potrebbe osare quando in tal modo messo somigli in tutto e per tutto al tuo nero uccello?»
Seguita a ridere la donna e quanto più tenta di smettere, tanto più il riso abbonda.
«Non deve trattarsi di nulla di grave se puoi star qui tranquilla a sbeffeggiare.»
Gli scocca un’occhiata ammiccante riparandosi dal sole con la mano, poi inizia a riferire delle voci riguardo l’identità del prossimo generale che Roma intende mandare, e conclude: «Ma ci vorranno dei giorni prima che sia pronto a marciare».
Scorgendo poi sul suo volto un tratto perplesso, gli chiede d’istinto perché sia diventato di gesso.
Segeste nega, ma Arndís fiutata una preda decide di non mollare al riguardo la presa: insiste con parole ferree e uno sguardo ammaliante, fino al punto da arrenderlo alla verità riluttante.
«Si tratta di mio padre», rivela conciso. «È un uomo di poche parole ma dal carattere deciso.»
Arndís rimane sorpresa da tale notizia. 
Si mette al petto l’arco e si arrampica sul tronco con un salto; raggiunge Segeste, sistemandosi accanto a lui sul ramo, infine allunga il braccio carezzandogli con dita sottili le vene della mano.
«Siamo insieme da tanti mesi eppure rimani celato dietro un mare di segreti...» 
Lui tace fissando la danza di lei sulla propria pelle; poi alza gli occhi sui suoi dicendo nel mentre: «Non nascondo nulla, se non la mia persona, la quale, se fosse nota a tutti, ci recherebbe non poca noia».
E lei: «Eppure desidero conoscerti molto più rispetto a quanto non sia ora».
Segeste acconsente, dicendole che può chiedere qualunque cosa liberamente.
«Di te si sa solo che hai sangue misto: raccontami dunque la storia al suo principio.»
Perciò incomincia: «Cinque lustri40 or sono, mio padre Sesto venne in visita al governatore di questa provincia. Quello volle accoglierlo con un dono e gli disse di scegliersi una ragazza del villaggio perché gli fosse di trastullo e per alleviare le stanchezze del viaggio. Con questo proposito lo accompagnò di persona e, giunto presso il tempio, scorse una coppia fresca di nozze, dunque suggerì ruggendo: “Amico, perché tu non dica che in casa mia non ti tratti da sovrano, prenditi la sposa di questo individuo perché dello ius primae noctis41 ti omaggio”.
«Mia madre fu presa di forza e non molte notti dopo lasciata alla porta. Ma così com’era dal marito non poté tornare e, isolata in una casetta, solo sulle sue forze riuscì a contare. Quando non ebbi che pochi mesi eravamo alla fame: con coraggio da mio padre decise di tornare. Quello l’accolse, ma con lei strinse un patto: che quando avessi avuto l’età giusta mi avrebbe preso al suo fianco.
«Infine il giorno venne e da lui andai. E quello, colpendola con la spada al ventre, disse che in me avrebbe fatto perire il sangue della sua gente. 
«Da quel giorno e per molto tempo ancora, avrebbe governato con prepotenza sulla mia persona».
La voce si spegne sull’ultima parola: attorno non si ode che il vento soffiare leggero tra la fronda.
Arndís lo afferra sotto mento e, riportando su di sé il suo sguardo, vicino le labbra gli dice sussurrando: «Non rimane che attendere che venga vicino e faremo di lui come degli altri bottino».
Fissando il seducente sorriso, Segeste pensa che Freyja42 debba avere il suo viso. Cingendole la nuca, s’accosta infine alle sue labbra come ebbro di bevuta.
Ma dopo più di qualche bacio lei lo ferma e afferma: «Se intendi finir qualcosa occorre che da questo ramo si scenda».
Scivolando a terra, si stendono sul molle fogliame mentre l’un tra le braccia l’altra serra. E quando in cielo s’intravede l’ultimo raggio, tornano i due congiunti al campo barbaro.


NOTE:

[26] Questi due alberi sono posti a segnale della zona perché simboleggiano Askr (‘frassino’) ed Embla (‘olmo’) dai quali vennero i progenitori della stirpe umana. Secondo la leggenda Odino diede loro il respiro, Honir concesse l'anima, Lódurr donò il calore vitale e il colorito.
[27] Eir (che significa ‘vita’ o ‘speranza’ in norreno) è una dea minore. Era tra le file delle valchirie per la sua abilità di "scegliere i morti" dal campo di battaglia e di risvegliarli. Le si attribuiscono tutte le doti dell'arte della vita, in particolare di tutte le erbe medicinali; si dice che era addirittura capace di resuscitare i morti.
[28] Inteso nel senso di “trono romano”, ovvero dare onore a Cesare con la sua impresa.
[29] Kari nella mitologia è un gigante, descritto come la personificazione del Vento.
[30] Logi nel norreno antico significa ‘fuoco’, anche lui è un gigante, fratello di Kari.
[31] In nome è composto da Arn ‘aquila’ e dís "dea, signora".
[32] Partendo dal significato dei nomi, infatti, abbiamo un uccello, il vento su cui piega l’ala, e il fuoco del quale si accende.
[33] Il Campidoctor, detto anche Magister Campi o Exercitator, era un milite dell’esercito altamente specializzato che si occupava di addestrare le truppe.
[34] L’espressione sta a indicare che combattono come se fossero schiena contro schiena, perché quando si poggiano le spalle a uno specchio il doppio fronteggia il pericolo opposto.
[35] Marte è invocato come dio della guerra ma anche perché ha l’appellativo di ‘Ultore’, il ‘Vendicatore’.
[36] Týr era il dio della guerra della mitologia norrena, identificato come equivalente di Marte in quella romana, nonché patrono della giustizia.
[37] Segeste è il prodotto ibrido di due culture in contrasto, in cui una parte regna sull’altra: è simbolo di una popolazione che in virtù della sottomissione ha assorbito in sé elementi della cultura egemone, i quali devono essere totalmente debellati per sperare di riconquistare la libertà: per questo motivo si rende necessario spezzare le catene della schiavitù nel sangue, lì dove sono penetrati più in profondità.
[38] Sunt lacrimae rerum = “La storia è fatta di lacrime”. Segeste è l’eroe incaricato dai morti di portare giustizia.
[39] Kråke, in norvegese ‘corvo’.
[40] Presso gli antichi Romani, si chiamava così il sacrificio espiatorio che i censori offrivano agli dei ogni cinque anni, all'atto di uscire di carica. Col tempo, passò a indicare un periodo di cinque anni. Cinque lustri corrispondono a venticinque anni.
[41] Lo ius primae noctis ("diritto della prima notte") è una locuzione che indica un preteso diritto da parte di un signore feudale il quale, in occasione del matrimonio di un proprio servo della gleba, avrebbe potuto pretendere di sostituirsi al marito nella prima notte di nozze. Gli storici contemporanei sostengono che non esista una prova definitiva dell'effettivo esercizio di questa usanza nel Medioevo, ma persiste comunque un profondo disaccordo riguardo l'origine, il significato e lo sviluppo della diffusa credenza popolare e dell'effettivo significato simbolico legato a questo presunto diritto.
[42] Freyja ha molte manifestazioni ed è considerata la dea dell'amore sessuale, della bellezza, dell'oro, della seduzione, della fertilità, del seidhr (un tipo di magia sciamanica di tradizione nordica e germanica che consentiva di assumere il fjölkungi, cioè "il più grande potere"), della guerra, della morte e delle virtù profetiche.


 
   
 
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