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Autore: PathosforaBeast    01/07/2019    2 recensioni
Raccolta di storie (oneshot, flashfiction e drabble) incentrate sulla vita di Mycroft Holmes e la presenza costante del numero quattro.
Genere: Introspettivo, Poesia, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Mycroft Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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waterfall.
 



Quasi non senti più il freddo del vetro contro la tua pelle.
Giri di poco la testa verso la porta socchiusa. Non c’è nessuna luce che illumina il corridoio, nemmeno un eco che proviene da una televisione. Nulla.
Ormai ti saresti dovuto abituare, ti direbbe la mamma, zio Rudy non è mai stata una persona particolarmente dedita alla musica, ai rumori o al chiacchiericcio delle persone. Ti saresti dovuto abituare, suvvia. Eppure non riesci a non sentirti sprofondare minuto dopo minuto.
Sempre più giù, sempre più lentamente.
Saranno ore che i tuoi genitori, zio Rudy e Sherlock sono andati via. “Dobbiamo terminare un paio di cose” ti ha sussurrato tuo padre sull’uscio di camera t- della stanza che ti ospita. Continuava a sbilanciare tutto il suo peso tra un piede e un altro mentre si metteva le mani in tasca. “Non dovremmo ritornare se non prima di cena, quindi- ”
“E Sherlock?”
Sai quando qualcosa non andrebbe nemmeno citata per errore, figurati chiederlo con così tanta leggerezza. Eppure non sei riuscito a fermare quel flusso di pensieri che è vibrato direttamente sulle tue stesse corde vocali. Ti sei morso la lingua spostando tutta la tua attenzione sulla carta da parati.
Secondi lunghi come ore, sono passati senza una risposta.
Tuo padre si è irrigidito, contratto in una smorfia che urlava tutta la sua disperazione. Riesci a seguire tutto l’insieme disordinato di pensieri che lo stanno affliggendo: chiedersi perché dovesse essere lui l’unico a parlarti e farti capire, per poi realizzare. Palese, immediato.
Tu non hai bisogno di capire, hai solo bisogno di tempo per guarire. Come lui, come tutti voi. Un ricordo, sottile come un ago e letale come un veleno, gli ha devastato le rughe del volto facendolo invecchiare di almeno dieci anni. Ti ha guardato con un’angoscia che non gli è mai appartenuta, impotente di fronte alle circostanze e alle sue stesse emozioni.

 
Non vedi che sono solo anch’io?
 
Ti hanno sempre detto che amare è il dono più bello che la vita possa offrirti ma ora davanti al viso disperato di tuo padre, colpevole solo di aver amato la sua famiglia senza freni, capisci che tenere agli altri non è un vantaggio* bensì una tragedia pronta a masticarti anche l’ ultimo brandello di anima per poi sputarlo sul pavimento.
“ Andiamo a fare un giro in quel parco dove abbiamo festeggiato il suo compleanno l’anno scorso, ricordi? Sherlock adora quel posto. Poi oggi è una giornata così bella, stare all’aria aperta sarà sicuramente…” Non riesci a comprendere le ultime parole masticate tra le sue labbra. La sua voce si è fatta via via sempre più fievole, più lontana, finché un unico ‘click’ ha accompagnato il suono di panni scoordinati tra loro. Tacchi, scarpe da ginnastica, scarpe eleganti. Un’ unica sinfonia di note scomposte udibile solo a te. Un’ opera che non vi appartiene e perde tutto il lustro con l’avanzare del tempo. Una dedica orribile.
Poi non hai avuto altro che il silenzio.
 
Una goccia all’improvviso bagna il vetro e, sollevando il braccio, lasci cadere dalle tue spalle le coperte per inseguire in punta di dita quella scia trasparente che si rinnova a ogni centimetro.
C’è solo il silenzio.
In questa stanza
Tra voi
I- in Sherlock…
 
Era capitato in passato, sì, ma mai con questa frequenza. Sono mesi che non fa altro che resta in totale silenzio durante il giorno per poi urlare con tutto l’ossigeno che quel corpicino riesce a trattenere gli incubi che gli porta la notte.
Ha perso peso. Ha le occhiaie.
Sai che tutto questo è una logica e drammatica conseguenza di un trauma che è impossibile da superare da soli ma quando percorri il corridoio e lo osservi con gli occhi spalancati intenti a studiare quel vuoto anomalo riempito un’eternità fa da una cornice di legno e una famiglia felice e sorridente, ti rendi conto che tuo fratello è ancora lì.
Sotto le macerie di una casa che non esiste più.
Sotto le mani giunte di tue padre intento a pregare.
Sotto le lacrime di tua madre che urlava i vostri nomi.
Sotto la voce di una bambina che cantava e ora non c’è più.
Lui è ancora lì. Ricorda.
È ancora tuo fratello, il tuo piccolo Sherlock: troppo vispo e innocente per una vita che non si è voluta adattare. Ma puoi ancora sperare.
Non deve essere tutto finito. Non ora, non qui. Doveva esser tutto diverso, doveva… dovevi fare più attenzione, essere il primo a poter capire. Invece che hai fatto? Hai ignorato tutti i segnali che ti venivano spiattellati in faccia.
Stupido. Idiota.
Riprendi la coperta ancora sul materasso e te la stringi nuovamente sulle spalle. Pesante, calda.
Le gocce continuano a lasciare sempre più velocemente nuove scie sul vetro.

 
Due… tre… quattro…

Quattro. Ora siete solo quattro. E non c’è niente che tu possa fare per ritornare indietro.
Nascondi il viso tra le ginocchia tremanti riempiendo il silenzio con i tuoi singhiozzi.
Ti hanno strappato di dosso anche la vita.
Quattro.
 
 
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Pablo Picasso, Poveri in riva al mare, 1903. Durante il periodo blu, il pittore si avvicinò al tema della morte (a seguito del suicidio del suo miglior amico, Carlos Casagemas) nei suoi dipinti che fu fortemente caratterizzato dall’uso di figure solitarie e malinconiche. È quindi simbolico osservare questo gruppo familiare che, nonostante sia composto da individui che fisicamente sono vicini, si abbraccino da soli rinchiudendosi in se stessi rendendo l’incomunicabilità tra i personaggi il reale soggetto dell’opera.
 
   
 
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