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Autore: Roberto Turati    02/07/2019    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Sotark tornò in sella ad uno pteranodonte. Acceber era ancora slegata, ma era così stordita che non riusciva più a reagire.

«Fatto?» chiese Gnul-Iat.

«Sì, hanno cominciato a correre. Dovrebbero fare come pensi tu… forse»

Acceber cominciava a sospettare qualcosa di terrificante.

«Fantastico! Ehi, sorellina, lo spettacolo sta per cominciare. Sei abbastanza in forma per il primo atto?»

«Non saprei… mi hai fatto vedere le stelle…» replicò lei, sforzandosi di affrontare il sarcasmo cinico di lui con l’ironia.

«Meglio, così durerà meno!»

«C’è dell’altro» si intromise Sotark

«Cosa?»

«Mentre volavo qui, ho visto due persone che si avvicinavano. Ho guardato col canocchiale e sono la Regina delle Bestie e uno degli altri tizi. Con loro c’è il tilacoleo di tua sorella»

Questo fece venire un po’ di speranza ad Acceber, anche se la paura era ancora fortissima.

«Oh, esattamente come volevo! Tra poco faranno la fine dei dodo. Allora prendi delle bestie e vai a salutarli come si deve, io resto qui a sistemare lei»

«Ricevuto»

Quindi, Sotark fischiò ad alcune cavalcature e si rialzò in volo, dirigendosi a Sud.

“La Regina delle Bestie e Cesare mi stanno venendo ad aiutare! Ma quanto ci vorrà?” si chiese Acceber, preoccupata.

Gnul-Iat la trascinò fino ad un tapejara, la mollò a terra e salì sulla sella dello pterosauro, che la afferrò una volta alzatosi in volo. Planò girando in cerchio fino al fondo della gola, dove la fece cadere. Acceber si mise seduta, dolorante, e si massaggiò la schiena.

«Ti faccio un paio di anticipazioni, sorellina – le disse Gnul, sul tapejara – Puoi restare ferma e morire o puoi provare a metterti in salvo e morire lo stesso, a meno che non ti venga una mezza idea per salvarti le ossa!»

«Cosa?!»

«E non dimenticare che andare in quella direzione significa morte» concluse suo fratello, indicando alle spalle di lei.

«Stai…»

«Oh, ma che assassino strano che sono! Do suggerimenti su come non morire alla mia vittima! Tanto morirai lo stesso. Addio, Acceber! Finalmente potrò avere pace» e tornò in cima.

“Tutto questo è assurdo!” pensò Acceber.

Pochi secondi dopo, però, ebbe una strana sensazione. Sentiva una sorta di tremore sotto i suoi piedi. Una vibrazione appena percettibile che attraversava il terreno… per poi farsi più intensa… e diventare un forte rombo. Pochi secondi dopo, tutto cominciò a tremare. Dalle pareti della gola cadevano macigni. Acceber capì cosa stava succedendo: aveva già provato quella sensazione nelle praterie, durante certe cacce. Era quando tanti animali, radunati in una mandria, scappavano da un predatore: il pestare di zampe collettivo causava sempre quell’effetto a terremoto. Peccato che ora non si trovasse in una prateria, ma in una gola: non poteva spostarsi di lato e aspettare che le bestie passassero. Poteva solo correre in avanti… sperando di non essere calpestata e spappolata. Il panico si impadronì di lei, si sentiva le gambe molli. Mosse dei passi incerti all’indietro; voleva assolutamente correre via da lì con tutta la forza che aveva nei piedi e nei polmoni, ma era come bloccata. Ma le bastò e avanzò vedere l’inizio di una fila di creature in corsa, che definire lunghissima era roba da poco, per sbloccarsi. Cominciò a sfrecciare alla velocità della luce, quasi senza respirare: l’adrenalina le dava la carica più di quanto immaginasse. Ogni tanto, osava girarsi a guardare, pur sapendo che voltarsi la rallentava. Dietro di lei c’era veramente di tutto: vedeva qualunque specie di erbivoro dell’isola in quella mandria. Triceratopi, stegosauri, anchilosauri, gallimimi, iguanodonti, parasauri, megaloceri, fiomie, ovis, kentrosauri, paracerateri i possenti diplodochi e brontosauri… tutto. Era chiaro cosa stesse succedendo: Gnul-Iat e il suo compagno dovevano aver spaventato quegli animali al lago che c’era all’inizio del Labirinto di Gole e indirizzati lì. Cosa non era stato disposto a fare suo fratello, pur di torturarla e ucciderla… i primi animali cominciarono a sorpassarla e questo la fece accelerare ancora di più. Un gallimimo le passò terribilmente vicino, tanto di schiamazzo agitato: un metro in più e l’avrebbe colpita. Ormai era nel bel mezzo del corteo di bestie impazzite.

“Lo spettacolo è cominciato! Ora mi piacerebbe contare per quanti secondi durerà… uno, due, tre, quattro, cinque…” pensò Gnul-Iat dall’alto, soddisfatto.

Acceber vide un bivio che divideva la gola in due corridoi: uno proseguiva dritto, l’altro era più stretto e andava a sinistra. Pensò che la mandria sarebbe proseguita dritta, senza mai cambiare direzione, dunque le venne un’idea. Senza rallentare, ma anche stando attenta a non incrociare la traiettoria di nessun animale (cosa affatto facile), andò verso sinistra e si dirise verso il sentiero a sinistra. Per poco non fu schiacciata da un paraceraterio. Quando ormai credeva di avercela fatta… si ritrovò la strada sbarrata da cinque velociraptor. Non la attaccarono, rimasero semplicemente lì a lanciarle gridi minacciosi e a sbavare. Un gruppo di equus prese la curva a sinistra a loro volta e, come lei, si dovettero fermare alla vista dei velociraptor. Anche questo doveva fare parte del piano di Gnul: costringerla a seguire la mandria.

“Ti odio, fratello!” imprecò mentalmente.

I velociraptor cominciarono ad avvicinarsi, sempre più aggressivi. Non aveva altra scelta: o si sfidava la sorte buttandosi nel mucchio, o si moriva. Si voltò e, sconcertata, le sembrò che non avesse più modo di rientrare nella gola grande: gli animali erano diventati ancora più veloci e scalpitanti, più vicini gli uni agli altri; non riusciva a vedere spazi vuoti da usare per unirsi alla massa e continuare la corsa…

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«Questa pantera rossa ci ha condotti proprio qui, dove c’è un grande fragore di animali che corrono. Ho paura che c’entri qualcosa con la ragazza» disse Gaius, preoccupato.

«Sai una cosa? Lo penso anch’io. Gaisi…» esclamò Mei-Yin. Entrambi sfoderarono le spade, mentre i velociraptor continuavano a seguire Rexar.

Il tilacoleo prese un sentierino appena visibile che, seguendo la parete esterna della gola più meridionale e andando in salita, permetteva di raggiungere il bordo. Quando furono in cima e guardarono verso il fondo di quel gigantesco crepaccio, sbarrarono gli occhi: nessuno dei due aveva mai visto così tanti animali correre insieme nello stesso posto. Sembravano un grosso fiume vivente in piena che travolgeva ogni cosa dopo mesi di secca.

«Pensi che Acceber sia…» cominciò Mei.

«Attenta!» le gridò Gaius, afferrandole improvvisamente la nuca e spingendola verso il basso e abbassandosi a sua volta.

Così impedì ad una freccia scoccata da lontano di colpirla alla tempia sinistra.

«Oh! Grazie...»

«Libenter. Qualcuno ci sfida!»

Apparve un uomo gigantesco e barbuto, a cavallo di un iguanodonte. Attorno a lui, a poco a poco, arrivarono altri animali, tra cui un argentavis che scese subito in picchiata su di loro. Alba balzò via e Nerva decise di scendere a terra per essere più agile con la spada. Mei seguì il suo esempio: i velociraptor avrebbero combattuto al loro fianco. Rexar ruggì ma, invece di combattere, ricominciò a seguire l’orlo del precipizio e scendere lentamente lungo la parete: supposero che avesse fiutato la padrona e che volesse raggiungere lei o quello che rimaneva se erano arrivati tardi.

«Il mio socio sapeva che sareste arrivati. Ecco perché sono qui» affermò Sotark.

«Ascolta, noi non sappiamo chi tu sia e non ci interessa saperlo, ma non siamo venuti a perdere tempo. Lasciaci cercare Acceber Ydorb!» esclamò Mei.

«Non potete: andatevene o sfidatemi» fu la tonante replica.

«Spostati, barbaro!» minacciò Nerva.

«Avete fatto la vostra scelta. Spero tu sia valorosa come sembri nei racconti di taverna, Regina delle Bestie!»

Mei, ignorando il fatto che anche quel tizio imponente sapesse chi fosse, si mise in posizione di combattimento e fischiò, mandando Hei alla carica. Il velociraptor si scagliò su un megaterio in prima fila. L’argentavis li aggirò in volo e si buttò su Mei, protendendo gli artigli. La guerriera se ne accorse appena in tempo e lo evitò con una rotolata. Gaius prese la balestra (con una freccia già incoccata), mirò e riuscì a colpire la pancia del rapace, che precipitò stridendo verso la gola. Prima ancora che si schiantasse, fu travolto dalla massa di creature.

«Tu pensa alle creature, io provo a raggiungere lui!» disse Nerva.

Mei annuì. Un carnotauro cercò di tirarle una testata, ma mancò. Alba gli saltò addosso e iniziò a morderlo e graffiarlo. Il teropode cornuto, mentre si agitava, non si accorse di starsi avvicinando al bordo e cadde giù, mentre Alba saltò via subito prima. Dopo, Mei notò in tempo un rinoceronte lanoso che la caricava: schivò e poi, dopo essersi messa in una posizione strategica, si fece attaccare di nuovo, attirando il mammifero neozoico fino al bordo… e lasciando che si buttasse da solo perché non aveva modo di frenare. Il lato positivo di trovarsi su un campo di battaglia lungo e stretto era che i nemici non potevano attaccare in massa, salvo rare occasioni: ogni trucco imparato durante la guerra tornava sempre utile. Intanto, Nerva si sforzava di evitare le creature che cercavano di sbarrargli la strada mentre correva verso Sotark. Un gigantopiteco, urlando, gli si parò davanti e sollevò i pugni per fracassargli la testa. Nerva fu più rapido e trafisse la sua con un affondo di spada: la lama entrò dalla gola e uscì dal cranio. Un araneomorfo, dalla cima di un masso, gli lanciò una trappola di seta per immobilizzarlo, ma Nerva schivò anche quello. Con un fischio, inviò entrambi i velociraptor ad occuparsene. Purtroppo, non vide che Sotark l’aveva raggiunto e stava brandendo il manico di una grande ascia. Il legno colpì duramente la testa di Gaius, facendolo cadere in ginocchio. Intanto, Mei aveva azzoppato un allosauro facendo in modo che un pachicefalosauro ne investisse una zampa con una testata. Cadendo, il teropode aveva schiacciato il pachicefalosauro.

«Tirati su, vecchio! Voglio che il nostro duello sia equo» ordinò Sotark.

Nerva, irritato per essere appena stato chiamato “vecchio” per la maschera da Cesare, si sforzò e si alzò, rimettendosi in posizione di difesa. Con un fischio e un gesto del braccio, il socio di Gnul-Iat ordinò alle bestie di cessare l’attacco.

«Meritate di affrontarmi di persona: pochi resistono così a lungo contro un contingente di bestie senza averne altrettante» disse.

«Molto onorata. Accettiamo la sfida!» disse Mei, furiosa ma colpita dall’onestà di quel tizio.

Si accostò a Nerva e il Romano attaccò per primo, tentando un affondo. Sotark lo schivò e brandì l’ascia; Mei lo fermò tirandogli un calcio nel fianco, poi attaccò anche lei. Rivelando un’agilità che non avrebbero mai immaginato da quella stazza, Sotark schivò con un balzo all’indietro. Nerva, salito sul macigno dove si era appostato l’araneomorfo, richiamò la sua attenzione con un grido e cercò di saltargli addosso. Sotark provò a parare mettendo l’ascia di traverso di fronte a sé, ma l’impatto spaccò il manico di legno non lavorato in due. Gettò via la metà senza lama, ormai inutile, e stordì Nerva con un fortissimo pugno. Gaius era a terra, e nessuno si accorse che il colpo aveva stortato la maschera, rivelando che quello non era il suo vero volto. Mei, alle spalle di Sotark, gli saltò addosso. Avvolse i suoi fianchi con le gambe per aggrapparsi e, tenendo la spada per i due estremi, la spinse contro la sua gola per soffocarlo e sgozzarlo nello stesso momento. Ma lui non si scompose e, afferrati i capelli della combattente, la strattonò e la sbatté a terra. La stordì ulteriormente con una pedata. Quindi prese la sua spada e la sua balestra e le buttò giù dal burrone. Piantò la lama dell’ascia per terra e andò da Nerva, quindi gettò via anche le sue armi. Fu allora che notò qualcosa di strano nella faccia di quel vecchio…

«Una maschera! Non lo sembrava nemmeno… dannati stranieri, voi e i vostri trucchi!» ringhiò.

Stordì anche lui, lo afferrò per la collottola e gliela sfilò.

«Cosa?! – non credeva ai suoi occhi – Il generale della Nuova Legione… tornato?!»

Gaius, capendo dalle parole dell’avversario quello che era successo, trasalì e si riscosse.

«Per gli spiriti… be’, ha anche un certo senso: se c’è la Regina delle Bestie, perché non ci dovevi essere tu, sporco invasore? Gnul sarà davvero…»

Nerva, all’improvviso, gli tirò una testata, facendogli mollare la presa. Ma Sotark si riprese subito e, furioso, gli afferrò la gola e strinse: presto l’avrebbe soffocato a morte. La vista di Nerva cominciò a sfocarsi e i suoi polmoni a bruciare... ma Mei saltò di nuovo addosso all’omone e gli premette un pezzo di tessuto contro la bocca. Pochi secondi dopo, Sotark crollò a terra, privo di sensi.

«Mi devi un favore, ma non adesso» disse a Gaius, tirandolo su.

«Gratias. Cos’era?»

«Ricordi la tossina con cui ci avevano addormentati? Alla palude, ho pensato di prenderne un po’ e metterla su un pezzo del mio vestito in caso di emergenza. Meno male che ho avuto l’idea!»

«Già. Ti ringrazio ancora»

«Prego. Per ora le sue bestie ci ignorano e noi siamo disarmati, prendiamo i velociraptor e ricominciamo a cercare Acceber, prima che ci attacchino senza comando!»

Quindi ripartirono in fretta e furia… senza notare di aver dimenticato lì la maschera.

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«Il posto è questo: ci siamo!» esclamò Helena.

«Oh, finalmente!» disse Chloe, sfinita.

Era stata una lunga scarpinata, in cui erano passati da diversi pendii e sporgenze dove si rischiava seriamente di cadere e fare un volo di cento metri e passa, ma alla fine avevano raggiunto il sito in rovina sull’Allics. Mezz’ora prima avevano anche potuto osservare da lontano un piccolo gregge di ovis che saltava tra le rocce e mangiava i ciuffi d’erba sparsi. Quelle rovine non ricordavano l’architettura greca: si trattava di una cittadella distrutta su uno spianamento che sembrava un grande “scaffale” sulla parete della montagna. Da quel poco che rimaneva degli edifici, si intuiva che erano interamente in pietra, senza pavimento e squadrate, attaccate le une alle altre. C’erano scalinate e spiazzi erbosi. Helena guidò i tre ragazzi fino a quello più grande, al centro del quale c’era il piedistallo, identico in tutti i minimi dettagli a quello al “Partenone”.

«Quindi le rovine di questi tizi venuti prima degli indigeni di adesso sono tutte diverse?» le chiese Sam, mentre si asciugava il sudore dalla fronte.

«Non le ho viste tutte, perché gli Arkiani mi hanno aiutato durante la caccia ai manufatti, ma suppongo di sì»

«Secondo te c’è un motivo per cui sembrano le architetture di altre civiltà?» domandò Laura, prendendo il manufatto.

Helena si imbarazzò:

«Sai che non ci ho mai pensato? Ero così concentrata sul tentare di capire il nesso fra rovine e manufatti che non ho mai dato peso a com’erano fatte le rovine in loro! Effettivamente, è strano che i Pre-Arkiani conoscessero tutte queste architetture senza sapere di chi fossero! Forse alcuni loro membri erano venuti qui da casa loro, come noi, ma com’è possibile? È un miracolo che io, Edmund e gli altri ci siamo arrivati da soli, figuriamoci chiunque altro in gruppi estesi!» iniziò a riflettere.

«Il mistero si infittisce! Credo proprio che ci siamo ritrovati a fare Indiana Jones e Sherlock Holmes allo stesso tempo» scherzò Chloe.

Laura, pensosa, mise il manufatto sul piedistallo, ruotò la struttura e accadde lo stesso della volta precedente: si aprì un buco cilindrico attorno al cubo di pietra e Sam scese a prendere il secondo pezzo di mosaico dall’incavo nel muro. Laura se lo fece passare e provò ad accostarlo con quello che avevano già: sì, era proprio una mappa frammentata di ARK. Ma Sam, che era ancora nella fossa, aveva notato qualcosa:

«Gente, c’è qualcosa di strano in questo buco quadrato…»

«Cioè?» chiese Chloe.

«Mentre staccavo il pezzo di mappa ho premuto per sbaglio e mi è sembrato che andasse verso l’interno, come un pulsante!»

«Prova a premere di nuovo: forse non è un caso!» lo esortò Helena.

«Va bene» disse Sam.

Quindi appoggiò due dita alla liscia pietra della nicchia quadrata e spinse. Non era stata una sensazione: si muoveva per davvero come un pulsante! E, alla fine, si fermò. A quel punto, qualcosa nella pietra emise un ticchettio e il tasto tornò automaticamente a posto.

«Credo di aver attivato qualcosa… anche se non so cosa!» avvertì Sam.

Laura ed Helena fremevano per l’emozione. Per un po’ di secondi, non accadde niente. Ma poi… il pavimento di pietra vibrò.

«Oh… ragazzi, dovremmo preoccuparci?» chiese Chloe.

«Non so» disse Helena.

Sam, per precauzione, balzò fuori dalla fossa.

Improvvisamente, una grandissima porzione di terreno iniziò letteralmente a scivolare verso destra, rivelando un cratere quadrato con una scalinata che scendeva nell’oscurità. Loro ci si avvicinarono, a bocca spalancata e occhi sbarrati.

«È… incredibile! Non posso crederci… mi sono davvero persa tutto questo?» Helena era praticamente in estasi.

Dopo essersi scambiati una rapida occhiata, decisero di scendere e dare un’occhiata. Là sotto era buio pesto, ma appena scesero l’ultimo gradino una serie di luci a forma di strani simboli e disegni illuminò un grande stanzone fatto di una strana roccia nera, molto simile all’ossidiana, ma chiaramente diversa. Le luci venivano da delle scanalature che formavano quei ghirigori, alternati al codice binario riconosciuto da Jack sulle colonnine. Più andavano avanti, più lo stupore già alle stelle aumentava. A Laura dispiaceva che non ci fosse Jack, altrimenti avrebbero potuto fargli tradurre le scritte. Ma il pezzo forte era alla fine dell’atrio: era appena apparso un vero e proprio ologramma azzurro che rappresentava... il pianeta Terra. Ormai era molto chiaro che i Pre-Arkiani non erano affatto più primitivi della società moderna, ma quello rasentava i limiti della fantascienza!

«Una civiltà antica… avanzata! Come vorrei che gli altri fossero qui per vederlo… che rabbia non poterlo rivelare a nessuno!» boccheggiò Helena.

«A chi lo dici!» le disse Laura.

Su quel mappamondo digitale c’era un punto rosso lampeggiante in corrispondenza delle Ande.

«A che serve quello?» chiese Sam, non ottenendo (giustamente) risposta.

Notarono poi che, oltre il mappamondo, finiva lo stanzone e, scavato nella parete nera, c’era un grande arco dai bordi decorati con altri di quei ghirigori. Accanto ad essa c’era una sorta di maniglia: sembrava che li invitasse ad afferrarla e girarla, tanto era in vista… infatti, quasi d’impulso, Helena la raggiunse e la girò in senso orario. I ghirigori diventarono ancora più luminosi e la parete all’interno dell’arco si aprì scorrendo verso l’alto. Dall’altra parte c’era uno stanzone identico e con una struttura simmetrica a quello in cui si trovavano. Ma là dentro il mappamondo aveva il punto lampeggiante nella metà australe del Pacifico, dove presumibilmente si trovava ARK. Il portone in fondo all’altro atrio si spalancò com’era successo a loro dopo aver premuto il tasto nella nicchia. Questo fece venire un sospetto stravolgente a Laura: se da loro il globo indicava le Ande e oltre il passaggio ARK… senza preavviso, si lanciò lì dentro di corsa, ignorando le esclamazioni degli altri, che la seguirono. Salì le scale in fretta e furia, uscì dalla grande botola e… il sangue le si fermò nelle vene per la meraviglia: si trovava in cima ad una montagna nel bel mezzo di una catena montuosa… poco distante da uno dei siti archeologici più famosi del mondo: Machu Picchu. Gli altri la raggiunsero e fecero un’espressione indescrivibile. Si erano appena teletrasportati da ARK alle Ande.

«No, questo è troppo! – esclamò Sam – Questi tizi avevano il teletrasporto, millenni fa? Chi erano? Cos’è tutto questo? Che razza di posto è quest'isola?!» gridò.

«Va bene…a desso sono vagamente confusa… che ne dici, però, Laura? Ne è valsa veramente la pena venire sull’isola dei dinosauri!» disse Chloe, mettendo la mano sulla spalla di Laura.

«Sì, è vero…» ma, in realtà, Laura era troppo emozionata per capire.

Helena cercò di trattenersi dal balzare di gioia e raccolse le idee:

«Dunque… stando a tutto questo, i Pre-Arkiani potrebbero aver avuto accesso a tutto il resto del mondo con qualche tecnologia preistorica ma più avanzata della nostra. Magari le rovine hanno l’aspetto delle architetture di altre civiltà perché così facendo potrebbero essere venuti a contatto con esse… ma se sono esistiti molto prima? A meno che non sapessero pure viaggiare nel tempo…»

«Ah, be’, dopo questo direi che tutto è possibile» commentò Sam.

«In effetti…»

«E oltre a ciò sapevano come funziona la barriera di ARK e cos’è il Tesoro. Mio Dio, chissà cosa ci si può fare, se loro sono arrivati a questi livelli!» disse Laura.

«Già. Quindi… che aspettiamo ad andare avanti? Abbiamo altri nove manufatti da sistemare per arrivarci!» li incoraggiò Helena, ispirata.

Ai ragazzi dispiaceva un po’ lasciare il mondo “civilizzato” e tornare nel pericolo, soprattutto dopo aver visto da lontano una vasta comitiva di turisti vestiti all’europea che stava visitando Machu Picchu in quel preciso istante. Ma annuirono e tornarono indietro. Tornati nell’atrio su ARK, Laura provò a rigirare la maniglia e, come previsto, la botola sulle Ande si chiuse e anche il passaggio.

«Troppa roba in troppi pochi minuti, ragazzi! Troppo in troppo poco!» esclamò Sam.

«Non vedo l’ora di raccontarlo a Jack!» disse Chloe.

«Anch’io» affermò Laura, sorridendo e sistemandosi la coda di cavallo.

«Accidenti, Edmund, Mei e Gaius non ci crederanno mai!» disse invece Helena, scordando che in quel momento Mei-Yin e Nerva stavano rischiando la vita insieme ad Acceber.

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Acceber non era ancora riuscita a fare niente. I velociraptor avevano smesso di avvicinarsi, per fortuna, ma era comunque bloccata. Vide un triceratopo vicinissimo alla parete che in pochi secondi sarebbe passato davanti a lei e le venne un’idea assurda, praticamente da suicidi… ma decise di farlo, anche per orgoglio: qualunque cosa, pur di non fare il gioco di Gnul-Iat. E poi, quel triceratopo non stava correndo velocissimo; anzi, era lievemente zoppo. Questo la incentivò ancora di più a sfidare la sorte. Dunque, appena le fu davanti… cercò di saltare sulla sua schiena, mettendo tutta la sua forza nelle gambe… e ci riuscì. Rimase in qualche modo aggrappata al dorso rugoso del dinosauro, così impegnato a galoppare nel mucchio da non pensare nemmeno a lei, quindi non provò a disarcionarla. Acceber, con un grande sforzo, riuscì a posizionarsi sulla groppa del triceratopo come se fosse in sella, poi si aggrappò a due delle punte ossee del collare sulla testa del rettile e sperò che questo la portasse al sicuro, all’uscita dal Labirinto di Gole.

“Cosa? Saltare su un triceratopo a caso? Come ci è riuscita?! – pensò Gnul, innervosito dall’imprevisto – D’accordo, d’accordo… non ti agitare, Gnul: ci sono ancora tanti bivi prima di uscire da lì! E poi… tra i prossimi c’è il campione del giorno!”

Infatti, poco dopo, la gola si divise in tre corridoi. A destra non si poteva passare, al centro c’erano quattro allosauri a bloccare il mucchio di bestie… e, a sinistra, un giganotosauro.

«No!» esclamò Acceber, nel panico.

Come se non bastasse, due degli allosauri si piazzarono a destra: ora non si poteva più andare da nessuna parte. Le bestie in prima fila si fermarono, dando inizio ad una caotica congestione che proseguì lungo il fiume vivente fino a fermarlo del tutto: pure i dinosauri più grandi, come i brachiosauri, non riuscivano più nemmeno a muovere le zampe. I predatori lì davanti ruggivano e minacciavano di partire all’attacco: gli erbivori non osavano avanzare. Ma ce n’erano alcuni più impazienti di altri, che cominciarono a spintonare i loro vicini con coda e fianchi. Iniziò così un rimbalzo continuo e infinito di spintoni, nemmeno leggeri. Uno stegosauro accanto al triceratopo di Acceber andò a sbattere contro il dinosauro a tre corna e alla ragazza toccò balzare in piedi e rimanere in bilico sulla sua groppa per non farsi spappolare le gambe. Lo scossone fu seguito da altri, sempre più forti: presto lei sarebbe caduta e Gnul avrebbe avuto la soddisfazione di vederla schiacciata sotto decine di zampe. Ma poi sentì distintamente un ruggito familiare…

«Rexar?»

Il suo tilacoleo era apparso in cima alla parete di sinistra e, dopo aver avvistato la padrona, l’aveva chiamata. Quindi si era calato giù scivolando sulla roccia con gli artigli e aveva preso a balzare agilmente da una groppa di dinosauro all’altra senza mai esitare né sbilanciarsi. Gli animali su cui saltava sobbalzavano e si guardavano intorno, infastiditi dalle punture degli artigli e perplessi perché non capivano cos’era successo. Si fermò sullo stegosauro che era accanto al triceratopo. Acceber, sorridente, stava già per saltare sulla sua sella, ma tutto fu interrotto da un assordantissimo ruggito, lo stesso che aveva sentito sulla cima della collina del “Partenone”: il grido di battaglia di Kong.

“No… no! Non anche lui, adesso! Perché lui?! Ah! Che giornata del cazzo…” si disse Gnul, atterrito e stizzito.

Il dominatore dell’isola era lì perché si era accorto dell’enorme spostamento che gli animali avevano svolto dal lago sotto l’isola volante e sapeva che non era normale. Così, spinto da una curiosità istintiva, era andato a vedere ed era andato su tutte le furie come aveva visto un giganotosauro, l’unico essere arkiano capace di metterlo in difficoltà: gli succedeva ogni volta che ne vedeva uno, era più forte di lui, doveva mostrare all’intera fauna chi era il vero re. Acceber si riscosse e balzò in sella a Rexar quasi con la sua stessa agilità, mentre la grande sagoma nera e pelosa, metà uomo e metà bestia, si buttava giù dalla parete di mezzo e si schiantava sul giganotosauro, facendolo rotolare fino al muro opposto e sollevando una nube di polvere immensa. Gli allosauri si spaventarono e fuggirono, il che diede alla mandria il coraggio di ripartire: il fiume riprese a scorrere. Rexar riprese a balzare da una schiena all’altra, anche se la difficoltà ora era maggiore. Acceber lo incoraggiava, fiduciosa. Dopo tre balzi, finalmente, Rexar si aggrappò alla parete e la scalò, portando la padrona in salvo.

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Intanto, il Megapiteco e il giganotosauro si osservavano, ansimanti e furiosi, mentre gli altri animali terrorizzati sfrecciavano accanto e davanti a loro senza nemmeno considerarli. Il teropode fece la prima mossa e, ruggendo, caricò. Kong si spostò di lato e il giganotosauro sbatté contro la parete, che tremò. Con una spallata, Kong fece perdere l’equilibrio all’avversario e lo fece rovesciare sul fianco, quindi iniziò a pestargli la testa con una serie di pugni, tirati così forte che i colpi sul cranio rimbombavano. Ad ogni pungno, il Megapiteco gridava, scatenando tutta la sua furia. Ma poi il dinosauro si rialzò e lo morse alla spalla. Più stringeva, più la pelliccia ispida e color pece dello scimmione si macchiava di sangue. Sforzandosi di non cedere, il Megapiteco prese la mascella del rettile con la mano sinistra e la mandibola con la destra, poi cominciò a tirare. Dovette fare uno sforzo immenso, ma alla fine i denti del mastodontico teropode si sfilarono dalla sua carne e fu libero. Con una spinta, allontanò il giganotosauro e gli ruggì contro. Fatto ciò, con un balzo, gli saltò addosso, gli circondò la gola con le braccia e strinse, provando a strangolarlo. Fece pressione per più di un minuto, ma niente: il rettile era ancora vivo e riuscì a liberarsi. Kong si alzò in piedi e lo stordì con un sinistro; il giganotosauro contrattaccò voltandosi di scatto e investendolo con la coda. Il gorilla cadde all’indietro, ma si rialzò subito. Afferrò la coda, strattonò girando su se stesso e, come al lancio del martello, scagliò il teropode dall’altra parte della gola.

Lo schianto del giganotosauro lasciò per terra innumerevoli fosse nell’erba già rovinata e pestata dai branchi in fuga. Mentre il dinosauro scalciava nel tentativo di alzarsi, Kong lo raggiunse con in mano un sasso dagli spigoli appuntiti e gliel’abbatté sul ginocchio destro, fratturando la zampa posteriore. Il giganotosauro gridò di dolore, mentre Kong indietreggiava per permettergli di rialzarsi. Il teropode ci riuscì dopo molto tempo e, una volta in piedi, iniziò a tenere la zampa rotta sempre sollevata. Non gli restava che arrendersi, ma decise di non farlo: ruggì ancora in segno di sfida. Kong, allora, ruggì in risposta; tenendo le zanne scoperte, sbatté il sasso contro la parete della gola, frantumandolo in mille schegge affilatissime. Ne prese una e andò dal giganotosauro, lo buttò di nuovo a terra e gli infilzò l’occhio, spingendo fino a raggiungere il cervello. Il dinosauro fu scosso da una rapida convulsione, poi si adagiò flaccidamente per terra. Vittorioso, Kong salì in cima alla gola, ruggì al cielo battendosi i pugni sul petto e si allontanò, svanendo com’era apparso.

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“Ah, no! Pensi davvero di scappare così?!” pensò Gnul-Iat, vedendo il suo grandioso piano andare in fumo e sentendosi ferito nell’orgoglio.

Prese un moschetto da una sacca e cercò di mirare, ma ormai lei era sparita fra gli alberi. Allora corse al tapejara, ma subito prima che ci saltasse su il suo pterosauro fu colpito al cuore da due frecce. Sopreso, il Ladro di Innesti si voltò e non poté crederci: davanti a lui c’erano suo padre e suo zio Odranreb, armati di arco lungo.

«Sono pronto per la rivincita, Gnul-Iat!» esclamò Drof, determinato e con sguardo fermo.

«È un peccato che tuo padre avesse fretta e che non potessimo portare le mie bestie dalla stradina che abbiamo preso come scorciatoia, se no ti facevamo vedere, bastardello!» aggiunse lo zio, spavaldo.

«Oh, fammi il piacere! Morire ti costava troppo, padre?» chiese Gnul, che iniziava a non vederci più dalla rabbia.

«Sì»

«Soffri!» gridò il fratello di Acceber, lanciando il coltello che aveva alla sua cintura, mirando alla fronte di suo padre.

Drof lo schivò inclinando la testa o, ma si graffiò la tempia. Prima che entrambi prendessero la mira, Gnul tirò fuori una lancia dalla sacca e li attaccò. Con un fendente, disarmò suo padre e si preparò ad un affondo, ma si accorse che Odranreb aveva incoccato una freccia. Allora si girò di scatto e lo colpì al ginocchio con un calcio, facendolo incespicare.

«Ah! Dannata testa di…» imprecò Odranreb.

Drof, tenendo le estremità dell’arco, arrivò alle spalle del figlio e gli avvolse l’arma attorno alla gola, stringendo più forte che poteva.

«Sbrigati, cugino!» esortò.

Odranreb, che aveva una spada in un fodero sulla sua schiena, prese la lama e stette pronto a trafiggere il costato di Gnul-Iat. Il ragazzo, però, gli tirò un altro calcio che gli tolse il fiato. Poi, con una torsione, si liberò dalla stretta del padre e gli tirò un pugno sul naso.

«Tutto qui? Patetici! Siete due poveri vecchi, sapete?» li provocò, divertito.

Odranreb si gettò di peso su di lui, placcandolo:

«Ritira quello che hai detto!» gridò.

Alzò la spada per decapitarlo, ma il Ladro di Innesti schivò girando la testa. Mentre lo zio tirava per estrarre la lama dal terreno, gli piantò un destro in fronte, per poi buttarlo a terra con una pedata. Preventivamente, fischiò per chiedere soccorso ad uno dei suoi volatili, poi si riconcentrò sulla lotta. Si impadronì della spada, intenzionato a sgozzare Odranreb, ma le forti braccia di suo padre gli avvolsero il collo: Drof stava cercando ancora di soffocare il figlio. All’improvviso, però, sentì una raffica di vento che lo costrinse a mollare per proteggersi gli occhi, per riflesso automatico. Era arrivato un argentavis di Gnul. L’uccello, senza neanche atterrare, attese che il padrone gli afferrasse le zampe, cosa che succedé. A quel punto, se ne andò. I due cugini rimasero lì, umiliati e con un palmo di naso, a guardare la loro preda che volava via dopo che erano arrivati così vicini all’obiettivo.

   
 
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