Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    03/07/2019    0 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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LA VITA COMINCIA


 
Le Havre, giugno 1895
 
 
Nadia li aveva scritti, quei libri sulla sua vita.
Aveva annotato tutto, ogni minimo particolare dell’avventura che erano stati i suoi primi diciassette anni. Ne erano usciti due tomi di molte pagine che aveva portato sulla tomba di Fuzzy. Glielo doveva.
Aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza intense, nulla da dire al riguardo.
Aveva vissuto avventure per molte vite.
Sperava davvero di finirla così, di poter finalmente vivere un’esistenza da persona normale anche se, in fin dei conti, persona normale lei proprio non era.
Aveva lasciato Londra da poco, per ritornare finalmente a Le Havre.
Aveva promesso a Jean di ritornare, dopotutto, e avrebbe lavorato anche in Francia, collaborando coi giornali locali per piccoli pezzi. La verità era che, a diciannove anni, sentiva che era giunto il momento di provare a essere davvero felice.
Jean, andava detto, gliene aveva dato l’occasione.
Lei l’aveva informato via lettera che sarebbe tornata a breve, perché aveva completato il suo tirocinio e desiderava tornare nella tranquilla Francia. Aveva finito di scrivere i suoi libri e sentiva di essere maturata, almeno un po’, come persona.
Jean si era fatto trovare al porto di Le Havre, aveva atteso la sua nave con un mazzo di fiori in mano, l’aveva salutata e abbracciata. Lei era felice di vederlo, era riuscita a trattenere la commozione a stento.
Lui continuava a lavorare ai suoi velivoli e aveva un altro progetto in mente, di cui non parlava.
Frequentava anche l’università, c’era riuscito ottenendo una borsa di studio grazie a uno dei suoi prototipi di macchina volante. Era ancora un ragazzino ingenuo, ma un professore aveva visto il suo talento e l’aveva trovato promettente. Jean, certo, peccava ancora di esuberanza. Era brillante, però, e sarebbe senz’altro diventato un grande ingegnere o qualcosa del genere.
Sembravano, comunque, avere un futuro assicurato.
Era stato quello il momento che Jean aveva scelto per farle la proposta.
L’aveva chiamata in giardino, una sera, e l’aveva portata a fare un giro su uno dei suoi velivoli. Nadia si vergognava un po’ ad ammetterlo, ma aveva avuto un po’ paura. Non di volare, ma del fatto che il mezzo costruito da Jean potesse cadere. Era la prima volta che volava dopo anni, però, e si dovette ricredere. Jean ne aveva fatta di strada e l’idrovolante volò benissimo.
Avevano oltrepassato il porto di Le Havre, si erano fermati nel mezzo del mare a guardare una strabiliante luna piena. Nadia sospettava che ci fosse dietro qualcosa, perché era esattamente il periodo in cui, tanti anni prima, s’erano incontrati a Parigi.
«Bella, vero?» aveva chiesto Jean.
Nadia aveva annuito, incantata.
Era stato allora che Jean s’era fatto avanti, non senza tentennare. Aveva estratto dalla tasca una piccola scatola di velluto, l’aveva aperta.
«Nadia…»
Un istante di silenzio, lui che si asciugava il sudore, ignaro del fatto che Nadia già ridesse, che avesse capito.
«Vuoi sposarmi?»
Lei aveva continuato a ridere per un po’, con le lacrime agli occhi per la commozione.
«Sì.»
Aveva pensato che non gliel’avrebbe mai chiesto, davvero.
 
Quelli che erano seguiti erano stati mesi intensi.
O meglio… lo erano stati per Nadia. Jean si era ributtato ben presto dentro il suo laboratorio, a lavorare a un qualche progetto che voleva tenere segreto perfino a lei. Sulle prime, Nadia ne era stata un po’ delusa. Aveva sperato che lui fosse più partecipe, che la aiutasse in certe decisioni fondamentali tipo chi invitare e che tipo di festa fare. Erano frivolezze, a ben guardare. Lei, però, era pur sempre una ragazza di diciannove anni. Aveva ancora dei sogni. Nello specifico, ora che era a un passo dallo sposare il ragazzo che amava da una vita, desiderava un matrimonio felice.
 
E poi?
 
Se lo chiedeva, ogni tanto.
Non trovava mai risposte. Si vedeva moglie di Jean, madre dei suoi bambini. Avrebbe dovuto imparare a cucinare seriamente, si sarebbe fatta dare lezioni da Grandis, e avrebbe dovuto pensare a tutte quelle piccole e grandi cose di cui una moglie e madre si occupa.
In quel momento, nella sua stanza, guardava fuori dalla finestra. Era una bella giornata, col cielo terso e il vento fresco. Era stata fortunata, si ripeteva. Aveva sofferto nell’infanzia ma era stata ripagata. Aveva scoperto le sue origini, trovato quel che restava della sua famiglia, era riuscita a crearsene una sua. Tutto ciò che voleva era una vita felice, tranquilla, lontano da battaglie e fughe e…
Bussarono alla porta.
«È permesso?»
Era la zia di Jean.
«Sì, prego.»
Che poteva volere da lei? Non era mai corso buon sangue tra loro, e Nadia aveva l’impressione che la donna non l’avesse mai del tutto accettata come fidanzata del nipote. Una ragazza di colore, dalle dubbie origini, non era certo la sposa ideale per un ragazzo francese di famiglia rispettabile!
La donna entrò. Portava tra le mani un grosso involto, che posò sul letto.
«Come stai, Nadia?»
Nadia non si aspettava quella domanda.
«Bene», rispose.
«Ti vedo un po’ pensierosa in questi giorni.»
Nadia trasalì. Si notava così tanto? Che avrebbe pensato Jean?
«No, non sono pensierosa, è solo che… sono un po’ in ansia. Ma grazie per aver chiesto.»
La donna si lasciò sfuggire un sorriso.
«È normale. Anch’io ero in ansia prima di sposare quel fannullone di mio marito.»
Nadia tacque. Non si aspettava una tale comprensione e la verità era che non sapeva bene come reagire. In realtà era la solita brusca e maldestra ragazzina incapace di esprimere i suoi veri sentimenti. La zia prese l’involto che aveva poggiato sul letto e lo aprì. Era un abito bianco, con le maniche lunghe e inserti di pizzo sulla scollatura.
«È il vestito che portavo io quando mi sono sposata. So che è un modello vecchio, ma l’ho riadattato e penso che ti andrà bene.»
Nadia rimase a bocca aperta.
«Ma… perché?»
«Sei pure sempre la futura moglie di mio nipote. Sei parte della famiglia, ormai.»
Nadia avrebbe voluto abbracciarla, l’avrebbe davvero voluto.
Invece si limitò a trattenere le lacrime, che comunque le spuntarono nei begli occhi verdi. Era sinceramente grata e commossa.
«Grazie», disse.
Capiva che la donna, forse, l’aveva vista triste e aveva deciso di farle quel grande regalo in segno di pace. Già, forse non avevano senso i suoi dubbi, le sue domande. Avrebbe dovuto semplicemente vivere, come tutti, qualsiasi cosa fosse accaduta.
Come aveva promesso a suo padre.
 
Se non altro, Nadia scoprì ben presto cosa stesse architettando Jean.
Lo scoprì la mattina in cui si sposò, quando vide, davanti alla chiesa, una motocicletta adornata da un grosso fiocco bianco, la scritta “Wanderer” ben lucida sulla carrozzeria. Era stata accompagnata in chiesa dagli zii, Jean li aveva preceduti a Le Havre già la notte prima e aveva festeggiato in compagnia di alcuni amici. Come tradizione voleva, due sposini novelli non dovevano trascorrere la notte prima delle nozze sotto lo stesso tetto.
Non vide Jean, che evidentemente la aspettava all’interno e non sul sagrato.
Vide, però, Grandis e Marie. Grandis, con le lacrime agli occhi, la abbracciò.
«Quanto sei cresciuta.»
Si vedevano appena ne avevano l’occasione, in verità, ma Grandis non avrebbe mai pensato che l’avrebbe vista sposarsi. Si sentiva orgogliosa di lei quasi fosse stata la sua vera madre. Marie, col suo più grande sorriso e i capelli rossi acconciati in una treccia, le prese lo strascico. Sarebbe stata damigella d’onore anche questa volta.
La cattedrale di Le Havre era imponente, e nell’oltrepassare il portone Nadia deglutì.
Il cuore le batteva forte da scoppiare.
Lo zio la accompagnò all’altare, mentre partivano le note della marcia nuziale. Qualcuno aveva cosparso la navata di petali di rosa.
Nadia non si guardò intorno. Sapeva che i suoi amici erano tutti presenti all’appello. Riusciva a vedere solo Jean davanti all’altare, e il sacerdote che la osservava sorridendo. Le tremavano le gambe, ma per la gioia. Dimenticò i dubbi che l’avevano assalita, fu davvero felice nel vedere il sorriso di Jean. La cerimonia andò avanti, festosa e solenne. Nadia si commosse nell’ascoltare la prima lettura, e temette di risultare inopportuna. Non avrebbe mai pensato di piangere così tanto al proprio matrimonio ma, ora che c’era, sentiva sciogliersi le tensioni, sparire i dubbi che l’avevano attanagliata.
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l'amore, non sarei nulla.” 
Qualsiasi cosa fosse accaduta, l’avrebbero affrontata lei e Jean insieme com’era sempre stato.
Si scambiarono le fedi e un bacio leggero.
Fu felice di notare che Jean era più emozionato di lei.
Quando uscirono finalmente sul sagrato a braccetto vennero inondati da applausi, fiori e riso.
Nadia vide Grandis che piangeva, abbracciando Hanson e Sanson. C’erano i membri della redazione del suo giornale di Londra e i colleghi di Jean all’università. Poi c’era tutto l’equipaggio del Nautilus, c’erano anche Icolina ed Echo e perfino Raoul che era venuto dal Marocco insieme a Electra e a Etienne. Etienne era vicino a King, molto più grosso di lui, e gli accarezzava la criniera argentea ridendo. Nadia non vedeva l’ora di salutarlo. S’erano scritte spesso, lei ed Electra, ma non aveva più visto il bambino dal periodo del matrimonio di Icolina.
«Nadia?»
Jean la chiamò.
«È ora che ti presenti il progetto a cui ho lavorato in questi mesi.»
Nadia lo osservò. Si era acconciato i capelli rossi ed era vestito di bianco, ma l’espressione dolce e un po’ furbetta era rimasta la stessa di quando era bambino. Armeggiò con la motocicletta parcheggiata davanti alla chiesa e la accese.
«Si chiama Wanderer», disse. «L’ho costruita per il nostro viaggio di nozze.»
Era un bel mezzo, di un bel colore rosso e con side-car. Per il viaggio di nozze avevano optato per qualcosa di semplice, un on the road in giro per la Francia che li avrebbe portati in Normandia e poi giù fino alla Loira e alla Provenza. Non avevano voluto fare cose in grande perché di viaggi, almeno per adesso, ne avevano già fatti abbastanza e non sempre in circostanze piacevoli. Volevano provare a godersi un po’ di tranquillità domestica, qualsiasi cosa ciò significasse.
«Sali», disse Jean.
«Adesso? Ma ci entro col vestito?»
«Certo che sì!»
Nadia, non senza fatica, entrò nel side-car cercando come meglio poteva di sistemare la voluminosa gonna dell’abito. Poi si girò e diede a Jean un bacio sulla guancia. Il ragazzo arrossì.
«Ci vediamo a casa!» disse, e partì.
 
Avevano organizzato un bel rinfresco nel giardino di quella che a tutti gli effetti era ormai la loro casa. Arrivarono in moto che era già tutto pronto. La zia aveva assoldato alcune fra le migliori cuoche di Le Havre, che avevano preparato piatti degni di un re.
Nadia non avrebbe potuto essere più felice. Non vedeva l’ora di partire per quel viaggio in giro per la Francia, per una volta tranquillo e non dettato dalla necessità. Sarebbe stato un viaggio, il loro, non per la sopravvivenza ma per la gioia.
Gli altri arrivarono tutti insieme, con un mezzo motorizzato messo a disposizione da Hanson che incantò i colleghi di Jean.
«Che meraviglioso apparecchio!»
«A che velocità va?»
«Sarebbe interessato alla sua commercializzazione?»
Hanson, che stava sulle sue, sbuffò.
«Ancora no, è solo un prototipo.»
Parcheggiarono nel prato antistante l’abitazione, Sanson aiutò Grandis a scendere e Hanson porse la mano a Electra, che gli sorrise.
«Mi fa piacere rivederti, Hanson.»
Lui, a sua volta, le sorrise. C’era una punta di imbarazzo, che non riusciva a togliersi di dosso. Electra, coi capelli di nuovo lunghi raccolti in una coda come allora, era sempre bella, sempre gentile. Sembrava più distaccata, però, una sensazione difficile da definire. Teneva in braccio quel bambino che Hanson non aveva mai visto, di cui aveva solo avuto notizia della nascita. Non sospettava nemmeno che lei fosse incinta e avrebbe mentito se avesse detto di non esserci rimasto male. Guardandolo adesso, cinque anni ancora da compiere e mezzo addormentato, gli era tutto chiaro. Etienne era indiscutibilmente, senza ombra di dubbio, figlio suo. Del capitano Nemo.
Il bambino aprì gli occhi appena sentì che scendevano.
«Siamo arrivati?» chiese.
Electra gli diede un bacio sulla fronte.
«Sì», rispose.
Hanson la guardò. Vide in che modo il suo sguardo si illuminava. Capì tutto.
Electra lasciò che Etienne scendesse e il bambino andò di corsa verso il buffet, seguito da Marie e King. Electra lo osservò per un po’.
«È un bambino vivace», disse ad Hanson, «mi dà piuttosto da fare.»
Hanson annuì.
«E lei… lei come sta?»
«Un po’ stanca a furia di corrergli dietro, ma bene.»
Hanson avrebbe voluto domandarle di più, ma temeva di risultare indelicato. Dal capannone del laboratorio di Jean, intanto, uscirono tre leoncini bianchi evidentemente figli di King. Etienne e Marie urlarono di gioia. Hanson azzardò un timido sorriso.
«Beati loro che si divertono.»
«Già. Sono contenta che Etienne abbia qualcuno con cui giocare. In Marocco non ha tanti amichetti. Mi rendo conto che forse la colpa è mia e che lo isolo un po’ troppo, ma è ancora tanto piccolo.»
Tacque per un istante, il suo sguardo si fece lontano.
«A volte ho la sensazione che gli manchi il padre. Anche se è un controsenso visto che non l’ha mai conosciuto. Allora gliene parlo, gliene parlo sempre.»
Hanson, a quelle parole, non poté che togliersi il cappello.
«Era un grande uomo», disse.
Electra gli sorrise, serenamente, e annuì.
«Grazie, Hanson.»
 
Nadia parlò con tutti, salutò tutti, abbracciò tutti.
Nel tardo pomeriggio, ormai in piedi da ore, iniziava a essere stanca. Icolina, che aveva notato il suo affaticamento, le aveva portato acqua fresca e l’aveva invitata a sedersi. Ce l’aveva fatta, malgrado l’impaccio del vestito.
Ne approfittò per chiacchierare con Icolina, che non vedeva da tempo.
«Come stai?»
Sotto a un bell’abito azzurro chiaro s’indovinava un accenno di pancia, l’infermiera era ancora distante dal parto ma aspettava il suo primo bambino. Si accarezzò il ventre.
«Bene. Emozionata per il bambino in arrivo, ma io ed Echo ce la caveremo.»
«Certo che te la caverai, hai fatto da balia a Etienne!»
Era stata Electra a parlare. Si era avvicinata e sedette accanto a loro.
«A proposito, dove sta il piccolino? Sono riuscita a vederlo a malapena, oggi.»
Electra si guardò intorno.
«È da qualche parte con Marie e King, parlavano di non so che tana di lucertole.»
Nadia ridacchiò.
«Meglio non saperlo.»
Lì intorno c’era soltanto la loro abitazione, il resto erano campi e boschi, i bambini non correvano pericoli.
 
Etienne batteva il terreno con un piccolo bastone. Era tranquillo e sorridente. Soprattutto, era con amici. Aveva rivisto Icolina dopo tanto tempo. Aveva rivisto sua sorella. Era bellissima in quell’abito tutto bianco. Poi c’era Marie, con le trecce rosse. Non la conosceva, ma era una bambina come lui e parlava un sacco, avevano fatto amicizia presto.
King, enorme, li seguiva e non li perdeva di vista.
Marie aveva in braccio uno dei cuccioli, gli altri li seguivano a poca distanza.
S’erano inoltrati nel boschetto a caccia di lucertole, Marie sosteneva di conoscere un nascondiglio segreto.
Etienne le stava davanti, curioso di esplorare quel boschetto.
«C’è un corvo!» disse.
Eccolo posarsi e gracchiare, una delle sue belle penne nere cadde a terra mentre sbatteva le ali.
Etí la raccolse e la mostrò a Marie.
«Ho trovato un tesoro!»
Marie, per tutta risposta, si buttò sotto un cespuglio e ne riemerse tutta sporca e con il guscio vuoto di una chiocciola.
«Anche io!»
Poco lontano udirono lo scorrere di un fiumiciattolo. Etienne corse in avanti.
«Vado a vedere se c’è qualche bel sasso!»
Marie lo inseguì. Aveva ormai nove anni, era una signorina e non avrebbe dovuto giocare in quel modo rozzo. Se l’avesse vista sua zia si sarebbe arrabbiata. Sua zia, però, per fortuna non c’era. Marie era ospite di Nadia e Jean per tutto il mese.
Raggiunse Etienne, che s’era tolto le scarpe e stava chino nell’acqua bassa.
«È pericoloso!» gli disse.
«No», rispose lui «l’acqua è bassa!»
Marie si sedette sulla riva e lo guardò. Sembrava più grande della sua età.
«Tuo papà è il capitano Nemo, vero?»
Etienne si girò a guardarla e le mostrò il più grande dei sorrisi.
«Lo conosci?»
Sembrava meravigliato.
Marie annuì.
«Sì. Ero piccolina ma me lo ricordo bene. Un po’ mi faceva paura, ma gli volevo bene.»
«Mamma quando si arrabbia fa più paura.»
Marie pensò a Electra, ai giorni sul Nautilus, a quanto l’aveva tormentata per farle fare i compiti e convenne che Etienne aveva ragione.
«Tu gli somigli un sacco. A tuo padre.»
«Lo dice anche mamma.»
 
Il sole sta iniziando a calare.
«I bambini non sono ancora tornati.»
Electra si alza.
«Li vado a cercare.»
È sicura che sia tutto a posto, perché lì intorno non ci sono pericoli ed Etienne bada a se stesso piuttosto bene per essere ancora piccolo.
Certe volte sospetta di non essere una buona madre.
Di una cosa è sicura, però.
Vive per suo figlio.
 
Mentre si incamminava verso il boschetto, stando attenta che la gonna che indossava non le si impigliasse nei rametti, si trovò davanti Grandis. Non se l’aspettava.
«Ciao», le disse.
«Vengo con te, voglio trovare Marie.»
Electra non disse niente, si limitò ad annuire e fare strada.
«Non saranno andati molto lontano.»
Si incamminarono, sempre in silenzio. Non s’erano mai parlate più di tanto dopo la morte di Nemo e la nascita di Etienne. Si rispettavano, certo, ed erano entrambe consapevoli dei rispettivi meriti. Tuttavia avevano un carattere orgoglioso per cui non sarebbero mai andate davvero d’accordo. Troppi eventi le avevano segnate ed Electra non era mai stata una persona facile al perdono.
Grandis, dal canto suo, non l’avrebbe mai ammesso ma più che per Marie era in ansia per Etienne.
Aveva amato davvero suo padre, ed era così stupida da preoccuparsi del figlio che aveva avuto da un’altra donna. Non capiva perché Electra l’avesse lasciato andare in giro da solo anche se era ancora così piccolo, né si spiegava come facesse a essere tanto tranquilla. Era vero, c’era King con loro e nessuno avrebbe osato affrontare un leone adulto, ma erano bambini, potevano inciampare o cadere o chissà che!
In quel momento intravidero proprio King che veniva verso di loro, ringhiando e puntando dritto verso una radura poco distante. Le aveva sentite arrivare ed era andato loro incontro.
Raggiunsero la radura, poco lontano dal fiume, e li videro: uno a piedi scalzi, l’altra col vestito tutto sporco e le trecce disfatte, circondate dai leoncini.
Dormivano, stesi nell’erba. Accanto a loro, una montagna di gusci, piccoli sassi e ramoscelli.
Electra lo osservò, con dolcezza.
Già, forse non era una buona madre. Non era particolarmente tenera o affettuosa, era cordiale ma solitaria e testarda e orgogliosa e dimenticava difficilmente i torti. Aveva sofferto. Come avesse fatto Elusys ad amarla restava un mistero, e restava un mistero come avesse fatto lei ad amare lui.
Eppure s’erano trovati, alla fine, e amati con sincerità assoluta.
S’erano aperti il loro cuore fatto a pezzi.
Avevano ricucito gli strappi un punto alla volta.
Etienne stava esattamente lì, nel mezzo di quell’amore.
Ed era forte e sincero come il sentimento che l’aveva messo al mondo.
Grandis si chinò a svegliare Marie, Electra prese Etienne in braccio.
Nell’erba cominciavano a brillare le lucciole.
Etí, sentendosi sollevare, aprì gli occhi.
«Le stelle!» esclamò guardando le lucciole.
«Sono lucciole», rispose Electra.
«Lucciole?»
Lei annuì.
Etienne s’accorse di Grandis, che stava sistemando il vestitino di Marie.
«Lei è Grandis», disse Electra, «un’amica di Nadia.»
Etienne sbatté le palpebre sui grandi occhi blu, un paio di volte. Aveva sonno.
«Molto lieto!» rispose, poi si appoggiò con la testa sulle spalle della madre.
Grandis non poté impedirsi di sorridere.
«Penso che sia la prima volta che sento un bambino presentarsi con un “molto lieto”.»
Si incamminarono, lei, Electra, Marie, King e i leoncini, verso casa di Jean e Nadia.
«Ci tengo all’educazione», rispose Electra.
Alzò la testa verso il cielo che volgeva al crepuscolo.
«Etienne è… intelligente. Non lo dico perché è figlio mio, lo dico perché è figlio suo. Se ho lasciato che si allontanasse un po’ con Marie è stato perché qui intorno non ci sono pericoli e perché lui sapeva come ritornare. Tangeri è molto più caotica e pericolosa per un bambino, non lo perdo un attimo di vista neppure quando è a casa. Così, visto che qui posso permettermelo, ho pensato di lasciarlo un po’ più libero.»
Già, forse non era una buona madre. Forse non c’era tagliata.
Ma essere genitore non era qualcosa che si potesse imparare. Ogni tanto ripensava a sua madre, una bella donna bionda come lei. Ricordava il modo in cui l’aveva stretta quando il palazzo reale di Tartesso era esploso, in seguito all’attentato in cui la regina era rimasta uccisa. Quella stretta era stata un tentativo di proteggerla da ciò che sarebbe venuto dopo. Ora capiva molto bene quel sentimento.
 
Medina non sa perché si sia salvata, quel giorno a Tartesso, ma sa di aver sentito un abbraccio nell’istante in cui tutto era diventato tenebra e sangue.
I suoi genitori l’hanno abbracciata nell’attimo in cui è caduto il cielo.
 
«C’ero anch’io», intervenne Marie «se fosse successo qualcosa l’avrei aiutato io.»
Non aveva neppure dieci anni e parlava con l’aria vissuta di chi ne aveva viste tante. E ne aveva passate davvero tante, la piccola Marie, a partire dal giorno in cui aveva visto morire i suoi genitori.
Electra le accarezzò i capelli mentre camminavano. Era una bambina coraggiosa.
«Lo so.»
Etienne si mosse contro la sua spalla.
«Quando torniamo voglio dire a Nadia delle lucciole.»
Poi si addormentò profondamente, sfinito da un pomeriggio di giochi, mentre il sole calava sotto l’orizzonte.
 
Apre gli occhi e l’erba ha il colore del giorno.
In cielo, le stelle.
È in giardino.
Ci sono sua madre, Icolina e Nadia.
Più lontano, la donna coi capelli rossi chiamata Grandis, nonno Raoul che parla con Echo e tutti gli altri invitati.
Prova a correre da Raoul.
«Nonno Raoul!»
Non si gira.
«Echo?»
Nessuno gli risponde, nessuno lo vede.
Come al solito.
È così da quando ha memoria.
«Etienne?»
Il suo piccolo cuore batte più forte.
Torna indietro, calpestando a piedi nudi l’erba color del giorno.
Sorride.
«Nadia!»
Voleva proprio parlarle, da tanto tempo.
Le corre incontro, le salta in grembo, lei è ancora seduta con l’abito bianco da sposa.
Struscia una guancia contro quella della sorella.
Lei lo stringe forte.
«Come stai, piccolino? Temevo di non riuscire a salutarti!»
«Bene! Sono andato al fiume con Marie, c’erano le lucciole.»
In quel momento, le stelle sulle loro teste iniziano a cadere.
Una dopo l’altra, verso terra, come pioggia dorata.
Diventano lucciole.
 
Nadia vide Etienne solo la mattina dopo, a colazione.
Anche lui, Electra e Raoul erano loro ospiti.
Il bambino sembrava raggiante.
«Ciao!»
Si sedette accanto a Nadia e prese una tazza di latte.
«Hai visto che te le ho fatte vedere le lucciole?»
Bevve un sorso e Nadia gli pulì col tovagliolo un baffo di latte che gli era rimasto sulle labbra.
Poi capì davvero cos’è che Etienne aveva detto.
«Ieri non ci siamo parlati, Etí.»
Il bambino annuì, afferrando una fetta di torta.
«Il sogno», disse semplicemente.
Nadia alzò lo sguardo verso Electra, esitando. Perché quel sogno l’aveva fatto anche lei.
Electra accennò di sì col capo.
Ne avrebbero parlato dopo colazione.
 
Si sedettero nella veranda sul retro della casa, dove ancora spirava un po’ della fresca brezza del primo mattino.
«Allora?» chiese Electra.
Ma intuiva di cosa Nadia volesse parlarle.
Lei esitava, come se non sapesse bene in che modo intavolare il discorso.
«Hai mai… notato qualcosa di strano in Etienne?»
«Oltre al fatto che conosce la lingua di Tartesso senza che io gliel’abbia insegnata?»
«Stanotte l’ho sognato. Eravamo qui in giardino ma il cielo era notturno. Mi ha detto di aver visto delle lucciole e di aver giocato con Marie.»
«E anche lui ha fatto lo stesso sogno, vi siete parlati e ve ne ricordate entrambi?»
«Sì.»
Electra tacque, pensierosa.
«Non so che capacità sia. Non so perché tu l’abbia visto o perché siate riusciti a parlarvi. Ma a volte sogna… cose. Lo so perché mi racconta i suoi sogni. Una volta mi ha parlato anche di Tartesso, dei suoi vicoli e dei palazzi. Ha detto cose vere. Cose che non può conoscere perché io non gliele ho mai dette. Solo che lui non sa che si tratta di Tartesso. La chiama solo “la città”. Ed è la prima volta che qualcuno in un sogno gli risponde.»
«E questo cosa sta a significare?»
«Non saprei. Tuo padre non mi ha mai parlato di cose del genere. Personalmente, credo che la chiave sia nel fatto che siete fratelli. Non condividete la stessa madre, ma avete comunque in voi sangue di Atlantide. E gli atlantidi sono un popolo misterioso. Neanche Elusys sapeva tutto
«Mi prometti che mi terrai aggiornata su quello che fa?»
«Certo. Comunque non credo che sia niente di preoccupante. Stai tranquilla.»
 
Anche di quel giorno rimane una foto.
I due sposi seduti insieme agli invitati alle nozze, Etienne in braccio alla madre, stessi occhi e stesse labbra, Marie ai piedi di Nadia.
Grandis, Hanson e Sanson a destra.
Raoul vicino a Electra, con gli altri compagni del Nautilus.
Echo e Icolina.
I colleghi di Jean, i colleghi di Nadia da Londra.

Gli zii di Jean.
Electra, sulla nave che riporterà lei, suo figlio e Raoul a Tangeri, guarda la sua copia della foto.
Guarda Nadia, gli occhi verdi, la pelle scura, i capelli neri.
Identica alla madre ma col carattere del padre, introversa, cocciuta e arrabbiata ma in fondo molto dolce.
Poi osserva Etienne, che di Nemo ha i capelli e il naso e tutto ciò che non siano quegli occhi e quelle labbra.
Tutti dicono che è uguale a lei.
Ma lei, Medina, riconosce quel modo di inclinare la testa che ha Etienne quando pensa a qualcosa intensamente.
Riconosce il lampo nel suo sguardo ogni volta che scopre qualcosa di nuovo.
Riconosce perfino l’espressione accigliata quando qualcosa non va come spera.
Sono figli di Elusys, entrambi, ed è una realtà incontrovertibile.
Non ha insistito con Nadia, perché sa quanto lei tema la sua natura aliena.
Sa, però, che lei e suo figlio hanno quel sangue in comune.
Sono figli di Atlantide.
E questo Nadia, un giorno, lo dovrà accettare.
 
 
- continua -


 
N.d.A. Cucù! Non sono morta! Ho avuto un periodo particolarmente intenso e quindi sono riuscita a liberarmi solo adesso. Mi scuso infatti se questo capitolo non è granché ma prometto che la pubblicazione riprenderà con cadenza regolare. Confermo che nel prossimo capitolo comparirà un altro dei nuovi personaggi e ci sarà un altro piccolo salto temporale. Mi rendo conto che può essere un po’ confusionario (e infatti cerco di essere precisa con date ed età dei personaggi), ma queste prime parti sono essenzialmente di set-up. Le cose più avanti si movimenteranno e si salterà decisamente di meno.
Qui però avete avuto un assaggio delle capacità di Etienne, che riguardano i sogni ma non soltanto.
Nel prossimo capitolo, come ho detto, nuovo personaggio in arrivo e un bel po’ di Tartesso.
A presto!
 
Vitani
   
 
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