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Autore: _Woodhouse_    06/07/2019    5 recensioni
❝Lo osservò dormire, sfiorando di tanto in tanto le linee insidiose delle sue costole, incastrata negli occhi di un altro, nel ricordo del suo respiro, affogata, vittima masochista del piacere che le procurava il ricordo della tensione che si librava fra i loro corpi e della complicità che aveva avvertito, mentendo insieme a lui, due volte e senza ragioni.❞
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 19.
Parte I

 
 

Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.


Cesare Pavese



La gonna di Jo ruotava, si librava in aria e le ricadeva sulla pelle, solleticandola. Le pareti scure intorno a lei vibravano di luce rossa, calda. La coppa di martini - l'ennesima - che teneva tra le mani, traballava e ondeggiava, inseguendo i movimenti dei suoi fianchi. La maschera di pizzo le pizzicava le guance e le narici, la bocca rossa lasciata scoperta, di tanto in tanto, si apriva in un sorriso, libero, inconsapevole. Gli occhi, scuri e liquidi più di sempre, incontrarono quelli di Sierra, vacui, ebbri. La musica, intorno a loro, risuonava con un sapore retrò dalle casse, avviluppandole nella sua morsa. Jo si sentì distante, lontana dal suo corpo, spettatrice di uno spettacolo di cui non era protagonista. Si vedeva danzare con una naturalezza impensata e si vide sorridere in estasi, con un guizzo di malizia tra le labbra. Chi era quella donna che si abbandonava così? Possibile che fosse lei? L'alcol la stava ingannando, questo era certo. Ma allora perché si sentiva finalmente viva, libera, liquida, imprendibile, sicura?  Non sentì nemmeno i capelli liberarsi dal nastro con cui li aveva acconciati, non li sentì dispiegarsi selvaggiamente sulle spalle, innaffiarle la gola, insidiarsi sulle labbra - tanto era distante, eppure incredibilmente vicina a se stessa. Si sbottonò i primi due bottoni del vestito, liberando un po' il petto d'avorio che teneva sempre castigato. La musica l'accarezzava e le scorreva dentro come una possessione, Sierra e la sua amica biondissima le ballavano di fronte, le prendevano le mani di tanto in tanto, le urlavano addosso qualcosa che non capiva, ma lei sorrideva comunque. Aveva perso di vista Tracy non sapeva più da quanto, forse dal primo momento, non se n'era resa conto: del resto, si era smembrata lei stessa, perdendosi di vista, finalmente leggera. Il movimento delle persone che la circondavano la scuoteva da un punto all'altro, facendola entrare in contatto con pelli, sudore, abiti ruvidi, unghie affilate. In circostanze normali si sarebbe sentita rabbrividire a tanto contatto casuale ed invasivo, ma quella circostanza era lontana dall'essere normale. Da quando non si lasciava andare così? L'acol l'aveva sempre piegata, illanguidita, ma nell'aria, questa volta, c'era qualcosa di diverso; l'atmosfera, le luci, gli odori anche, era tutto diverso, come fermo nel tempo o in nessun luogo. Sierra le tolse di mano la coppa e ne bevve il contenuto in un sorso, pulendosi poi le labbra col polso, in un gesto secco, selvaggio. La conturbante maschera rossa la rendeva come irrangiungibile, i capelli color grano le ricadevano addosso, ad onde, parendo sempre più neri, impossibili da distinguere dal resto. Il viso di Humphrey Bogart si dissolveva e si ricompenva a tratti, dalle pareti, giudicante e altero. Non l'approvava, forse.

Oh, ma sta un po' zitto.

Poteva anche urlarglielo contro, lui non avrebbe potuto riconoscerla, perché aveva una maschera da gran donna a celarle i tratti da bambina insignificante. Fottiti, Humphrey, mormorò.
Cercò di bere un sorso dal bicchiere che Sierra le aveva restituito, ma il rimbalzo del suo respiro dal fondo della coppa le suggerì che del suo martini non restava più niente. Si fermò, si guardò intorno cercando di intercettare il bancone con lo sguardo, con fatica, quando un improvviso silenzio la distrasse dai suoi intenti. La musica era cessata, le persone si stavano accalcando verso un lato della sala, privandola del loro calore. Fu catturata da quel flusso e si insinuò tra i respiri della gente, scostandola coi gomiti, finché non scorse il luccichìo del lucido pianoforte che troneggiava di fronte alla calca. Seduto in penombra, un uomo con una machera scura, iniziò a far vibrare la cassa armonica. Jo si sentì elettrizzata: aveva riconosciuto le primissime note di una canzone che aveva sempre amato, ma che non aveva mai sentito suonata col piano. Ne fu stregata e senza rendersene conto raggiunse il pianoforte. Ma chi era, lei? Perché non le importava del giudizio della gente? Si voltò di scatto e vide solo delle ombre nel buio trafitto di luce rossa della sala. Era tutto così opaco e diluito, e chi se ne importava di Bogart? Non si vedeva più nemmeno lui. Raggiunse il piano e si sedetta accanto al musicista. La maschera scura ed indecifrabile di lui si rivolse nella sua direzione.

– Che fai? – sentì domandarsi.

Lei gli sorrise, sollevò le spalle e scuotè i capelli, ormai indomiti; sulla schiena le corse un brivido d'euforia incontenibile. Quella era Fever e lei cominciò a cantare, come faceva di tanto in tanto, quando era sicura di essere da sola, con le cuffie nelle orecchie. In fondo, non c'era nessuno e lei non era più nemmeno lei. Chi avrebbe mai potuto giudicarla?
L'uomo dietro la maschera fu colto di sorpresa, ma le sorrise di rimando, incerto che lei potesse notarlo, dato che la maschera gli lasciava libere solo le labbra e la mandibola. La voce calda e voluttuosa di lei spinse le dita di lui a calcare i tasti del piano con maggiore intensità. I capelli scuri, da sirena, le cadevano sulle spalle come alghe, le mani con le piccole unghie rosse stringevano in mano la coppa di un drink, affusolate e diafane. La maschera di pizzo le sfiorava l'angolo del labbro superiore, pieno e rosso, impegnato a baciare quello inferiore in una danza seducente, tanto quanto la voce candida ma intensa che soffiava in quella danza di labbra.

When you put your arms around me, I get a fever that's so hard to bear.

Si voltò verso di lui ed indicandolo aggiunse You give me fever. Lui rise, avvertendo la vibrazione della sua voce e la curva delle bocca di lei, divertita e maliziosa. Jo voleva ridere, cantare, abbracciare quell'uomo, alzarsi e ballare, magari come aveva visto fare a Marylin Monroe in uno di quei film datati, ma le gambe non le reggevano nemmeno da seduta. Si voltò di nuovo verso il musicista mascherato, concentrato sui tasti. D'un tratto i loro sguardi, offuscati ed indefiniti, si incontrarono attraverso i loro sorrisi ironici, elettrici, solcati da una stilla d'audacia. Entrambi s'inebriarono di quel reciproco scambio.

...Moon lights up the night, I light up when you call my name.

La voce di lei lo stuzzicò, incatenandolo alla curva delle sue labbra, sinuose ed ammalianti.

Everybody's got the fever.

Una goccia di sudore le accarezzò la clavicola scoperta e lui s'inumidì le labbra.

Fever isn't such a new thing.

Jo lisciò il braccio dell'uomo, la sua camicia scura, senza nemmeno meditarlo, spinta com'era da quell'alchimia di voce e suono. Fever started long time ago.
L'uomo le rivolse un sorriso obliquo - che lei però non vide - avvinghiandosi con lo sguardo alla goccia di sudore che le scomparì oltre la debole scollatura del vestito. Lei parve sentire il suo sguardo invadente e lo guardò di nuovo, inducendolo ad incontrare i suoi occhi. Entrambi si sorrisero, con uno strano languore goliardico e pronunciarono insieme, lui in un sussurro, lei a voce più bassa, le battute finali. What a lovely way to burn.

Ci fu un attimo di silenzio, poi dall'oscurità si levarono degli applausi, soffocati repentinamente dalla musica che riprese a propagarsi, superba, dalle casse. Jo si ridestò da quella specie di sogno e si allontanò velocemente dal piano e dal musicista con l'inquietante maschera nera. Si dimenò di nuovo tra la folla, cercando con gli occhi la maschera rossa di Sierra, ma tutto intorno a lei era così liquido e le note di Sweet Dreams degli Eurythmics la fecero ripiombare nella malia da cui si era appena, per un attimo, scorporata. Una donna trovò la sua mano e la fece ruotare sul posto, invitandola a fare lo stesso. Entrambe proruppero in una risata. Poi il contatto tra le loro mani s'interruppe e Jo la perse di vista. Doveva trovare Sierra, la sua maschera rossa, ma il suo corpo non rispondeva, ipnotizzato dai bassi e dal ritmo lascivo di quella canzone. Jo si lasciò andare, e d'improvviso una delle sua mani venne carpita in una stretta delicata che la fece ruotare su stessa, di nuovo, come in un valzer. Quandò fu completamente voltata, il suo petto incontrò il torace ampio dell'uomo mascherato. Una folata di profumo investì entrambi. L'uomo sgranò gli occhi ed istintivamente le strinse il fianco. Si sorrisero, incomprensibilmente straniti. Lei gli fece scorrere la mano libera sul braccio, raggiungendo la sua spalla. Si ritrovarono a ballare un lento, in completa disarmonia con la musica che li intrecciava.
Quest'odore, pensarono entrambi, lei col naso vicinissimo alla sua gola, lui col suo sulla tempia di lei. Una morsa allo stomaco li colpì entrambi, e la stretta delle loro mani s'intensificò. Entrambi ebbero l'istinto violento d'inspirare l'odore dell'altro.  Lo fecero. Jo sentì le ginocchia cederle. Quel profumo lei lo conosceva e le faceva un effetto terribilmente simile all'effetto del profumo di...
Ma questo era colpa dell'acol, che la faceva flirtare con un uomo mascherato, che perdipiù le ricordava l'uomo che meno avrebbe desiderato incontrare. Era davvero ridotta a questo? A sentire il suo odore ovunque? Lo stesso pensiero colpì l'uomo.
Possibile che ormai il pensiero di lei lo assillasse al punto da ingannare i suoi sensi?

– Sei qui da sola? – le sussurrò all'orecchio.

Jo sussultò, la voce roca e confusa dell'uomo le parve terribilmente familiare. Così simile a.
– Sì, – soffiò.
Lui percepì a malapena la risposta, improvvisamente inquieto. Non poteva pensare a lei in quel momento. Eppure, c'era in quella ragazza qualcosa che gli aveva immediatamente ricordato Josephine, ma era impossibile che si trattasse di lei. Quei capelli selvaggi, la scollatura, l'audacia, la luce che aveva emanato durante l'esibizione.
La sua voce era calda e sensuale, eppure, in alcuni punti, così simile alla sua.
Ma quella non poteva essere Josephine.

– Quindi non sei fidanzata? – La voce roca e profonda di lui le solleticò le orecchie.
– Che importa? Non siamo forse in un limbo? – sussurrò lei al suo orecchio, la voce finalmente nitida.
Inconfondibile.

Il volto di lui si scostò immediatamente dalla chioma in cui si era perso con sempre maggiore intensità fino a quel momento. I loro sguardi s'incatenerono, gli occhi di lui saettarono sulle sue labbra rosse, finalmente vicine, incredibilmente riconoscibili adesso. Gli occhi di Jo scesero piano su quelle di lui, umide, socchiuse. Entrambi sentirono il respiro caldo dell'altro sul viso, ebbri, anelanti.
Si strinsero senza neanche volerlo, in uno scatto rapace, istintivo. Non può essere lei.
Il labbro superiore di Jo tremò, mentre uno strano, inquietante, sorriso obliquo curvò le labbra dell'uomo. In quell'istante, Jo si ridestò come da un sogno, un sogno che si stava trasformando lentamente in incubo.
Le mani di entrambi corsero sul viso dell'altro. E, in un istante, James le sfilò la maschera dal volto.
L'attimo dopo, Jo lo imitò, strappandogli la maschera scura con tanto impeto da spezzare l'elastico che la teneva su.
James la guardò gelido, gli occhi ferini, il sogghigno feroce sulle labbra.

– Tu.

Jo inorridì, si sentì rimbalzare lontana da lui, la testa le pulsava furiosamente.

– Tu!
   
 
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