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Autore: BeaterNightFury    07/07/2019    0 recensioni
Ho letto da qualche parte che anche la persona più piccola può cambiare il corso del tempo.
Nessuno ha MAI detto se in meglio… o in peggio.

Ventus ha 16 anni, una meravigliosa famiglia adottiva, e un sacco da imparare sui mondi.
Terra e Aqua hanno responsabilità e sogni, e forse un po' il bisogno di comportarsi da giovani.
Lea ha una sorellina per cui è tutto il mondo, Isa ha un cane, Zack ha una ragazza e un amico da aiutare.
Sora ha troppa felicità per il suo bene, Riku ha la testa dura, e Kairi qualcosa che dovrebbe ricordare.
Insieme ad altri, condividono una sola storia.
(La trama è vagamente ispirata alla vecchia fanfiction "Til Kingdom Come" che ho scritto con i miei amici, ma questa considera canon la trama e gli eventi di Kingdom Hearts 3, quindi potrebbero esserci degli spoiler più avanti)
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Legacy – Capitolo 6
La Cosa Giusta
 
Zack scosse la testa.
Era seduto sul pavimento di pietra della stessa stanza che aveva continuato a vedere per… quanto tempo? Anni, a giudicare da quanto gli tiravano i vestiti.
Si mise in piedi e i pantaloni che aveva addosso decisero di far saltare una cucitura o due. Maledisse mentalmente gli apprendisti di Ansem il Saggio e si guardò intorno.
«Isa?»
Gli era sembrato di vedere il suo vecchio amico prima di sentire il rumore di vetri infranti e ritrovarsi sul pavimento.
Adesso invece era nuovamente solo – salvo per Cloud, ancora addormentato nell’altro baccello intatto. In un angolo, la vecchia spada che era appartenuta ad Angeal e altre armi abbandonate alla rinfusa. Vicino ai baccelli c’era una console di comando, e Zack vi si trascinò immediatamente, azionando quello per l’apertura.
Due sezioni della strana gabbia si aprirono, lasciando anche Cloud libero. Zack si affrettò a reggere il suo amico – si era fatto pesante! – per poi metterlo a sedere sul pavimento e dargli un paio di schiaffetti per cercare di rianimarlo.
Non gli avevano nemmeno lasciato tenere i suoi vestiti, per quanto era cresciuto, ed era infagottato in una specie di pigiama asettico da ospedale.
«Hey, Cloud… Cloud!» Zack scosse nuovamente l’amico.
«Cosa…?» Cloud mugugnò con la voce impastata.
«Come ti senti, amico?» Zack si lasciò sfuggire un sorriso vedendo che Cloud gli rispondeva. Per un momento che era sembrato eterno, aveva temuto che lo sguardo del ragazzo sarebbe rimasto vitreo e assente, e che non avesse formulato affatto parole.
«Schifo…» fu il solo commento di Cloud, accompagnato ad una smorfia di disgusto e a una scrollata della testa.
«Stessa cosa, porcospino.» Zack gli prese un braccio e se lo mise attorno alle spalle, aiutandolo ad alzarsi. «Forza, se qualcuno ha aperto la porta è meglio non sprecare questa occasione. Andiamocene via di qui!»
Non era molto facile capire dove fosse il “qui”. Presero la Buster e una spada d'ordinanza della guardia cittadina, poi lasciarono la stanza dove si erano svegliati e presero un corridoio. Dalle stanze asettiche dalle pareti bianche dove si trovavano, un alto portone li condusse in quella che sembrava una vecchia miniera abbandonata. Dopo un po’, Cloud spinse via il braccio di Zack, asserendo di riuscire a camminare, ma non aveva fatto qualche passo prima di trasalire.
«Cosa c'è, Cloud, ti senti male?» Zack fu lesto a riprenderlo.
«Pompieri...» Cloud si liberò dalla presa dell'amico e camminò verso un copricapo abbandonato sul pavimento della caverna. Lo sollevò e lo esaminò, facendo gesto a Zack di avvicinarsi.
«Questo casco è stato qui da anni.» Zack commentò prendendolo dalle mani di Cloud. «E questo spacco qui…? Amico mio, credo di sapere a chi appartenesse.»
Sull'elmetto c'erano i gradi di capitano. L'iscrizione “vigili del fuoco di Radiant Garden”. Il numero 8 impresso su un lato. Oh, se Zack riconosceva quell'elmetto. Non era la prima volta che lo vedeva.
Aveva visto sia il copricapo che il suo padrone in quinta elementare, durante la giornata dei mestieri dei genitori. Ricordava ancora di quanto fosse stato a mangiucchiarsi le unghie a causa del suo papà contadino, quando Isa aveva portato in aula il suo papà giudice, e Lea aveva annunciato a gran voce che la sua mamma comandava i pompieri.
«È successo qui, Cloud. L'incidente che ha ucciso i genitori di Lea.» Zack dedusse.
«Quindi vuol dire che siamo sotto il Castello di Ansem?» Cloud arrivò da sé a parte della conclusione.
«Già, e vuole anche dire che qualsiasi cosa abbia ucciso i pompieri, potrebbe ancora essere qui.» Zack portò istintivamente la mano alla Buster che era appartenuta ad Angeal. «Restiamo in guardia.»
Non dovettero aspettare molto per capire cosa aveva aggredito i pompieri anni prima. Ombre scivolarono sul pavimento della caverna, muovendosi verso di loro ed emergendo dal suolo come creature nere dagli occhi gialli, arti allungati e nodosi come bastoni, e la testa tonda che ondeggiava, sovrastata da quelle che sembravano orecchie o antenne.
Sarebbero sembrati quasi carini, Zack si azzardò a pensare, se uno di loro non gli stesse saltando addosso scoprendo quelli che erano inequivocabilmente artigli.
«Attento, Porcospino, questi cosi fanno male!» Zack si affrettò a tagliare in due il suo aggressore con la Buster.
Cloud non se lo fece ripetere, e in un solo, fluido movimento prese la spada che avevano trovato nella stanza e affiancò Zack in modo da dargli le spalle.
Non sembrava nemmeno che fino a un momento prima fosse stato visibilmente in pessime condizioni, per la disinvoltura con cui si era messo in guardia e stava iniziando ad affrontare i mostri d'ombra.
Per come continuavano a combattere e vendere cara la pelle anche dopo che Zack e Cloud li avevano decimati, anziché fuggire per salvarsi le vite, quei mostri sembravano avere un livello di intelligenza pari a quello degli animali. Fu quando ne rimasero soltanto due o tre che le gambe di Cloud cedettero e il ragazzo crollò in avanti, reggendosi sulle ginocchia e sulle mani, in preda a tremiti.
Zack si liberò in fretta degli ultimi mostri e si chinò immediatamente al fianco dell’amico. Il respiro di Cloud era affannato, aveva gli occhi sbarrati, e il suo corpo esalava lo stesso miasma nero che Zack aveva visto Ade usare con lui.
«Oscurità…» Zack mormorò, cercando di reggere Cloud. «Cosa ci hanno fatto?», sibilò tra i denti.
Rimase all’erta, sia verso i meandri della caverna che verso Cloud stesso, per un periodo di tempo che gli parve eterno. Il suo migliore amico non sembrava sul punto di impazzire, o venire controllato da qualcosa, e non sembravano arrivare altri mostri.
Zack si sedette sul pavimento della caverna e fece sedere anche Cloud, reggendolo con un braccio e sfregandogli la schiena con l’altro, nella speranza che si sentisse meglio…
«Posso andare avanti,» Cloud insistette ancora. «Dobbiamo andarcene di qui.»
Aveva smesso da qualche momento di emanare miasma oscuro, ma Zack non se la sentiva di farlo sforzare. Perché soltanto Cloud si stava sentendo così male…? Erano stati sottoposti agli stessi esperimenti, da quanto Zack ricordava, prima di venire chiusi come sottaceti in quei fiori di vetro.
Poi gli tornò in mente nuovamente l’Olimpo. Ade. Terra.
Anche lui era stato esposto all’oscurità, prima che Terra lo liberasse. E probabilmente adesso ne era un po’ immune, come se non fosse stato altro che un brutto caso di varicella.
«Va bene, lasciamo le caverne.» Zack finse di cedere. «Ma non appena arriviamo in un qualsiasi posto che abbia dei letti e una porta che si possa chiudere, ci riposiamo.»
Procedettero attraverso la miniera abbandonata, lentamente e all’erta, Zack muovendosi più rapidamente per intercettare qualsiasi aggressore prima che Cloud si stancasse troppo e si sentisse nuovamente male. Ad un certo punto fu quasi certo di aver udito delle voci e qualcosa che fluttuava sopra le loro teste. Fece per imbracciare la spada quando si rese conto che erano fate – abitanti di Radiant Garden, proprio come loro.
«Hey!» Corse qualche passo dietro di loro, sbracciandosi per attirare la loro attenzione, ma le fate – tre – volarono via senza dargli retta.
Stupide creature senza cervello, pensò brontolando tra i denti mentre tornava da Cloud, come accidenti ha fatto il professor Braska a sposarne una?
«Zack, guarda!»
Fu Cloud a scuoterlo dai suoi pensieri, alzando un dito per indicare qualcosa alle sue spalle.
Il giovane si girò, fissando la direzione indicata dall’altro ragazzo. Nella stessa direzione dove le fate erano sparite, più in basso, si apriva una spaccatura nelle rocce dalla quale entrava una fioca luce.
«Un’uscita!» Zack esclamò raggiante. «Bel lavoro, amico!»
 
Il castello di Lord Ansem era irriconoscibile, almeno dall’esterno.
Tempo prima era stato un capolavoro di architettura vecchio di decenni, adesso era semisommerso da macchine, lurido, e abbandonato, con mostri che pattugliavano interno ed esterno.
Con una mano saldamente serrata attorno al polso di Cloud, Zack attraversò a rotta di collo quelli che erano stati il cortile e i corridoi e corse con la spada nell’altra mano fino a quando non arrivò alle familiari stanze della caserma. Con la vecchia passkey di Angeal, chiuse la porta alle loro spalle e si lasciò cadere su di essa appoggiandovi la schiena.
«Cosa è successo a casa nostra?» sbottò appoggiando il sedere sul pavimento.
Cloud si sedette a sua volta. «Abbiamo fallito.»
E, a quanto pareva, erano i soli rimasti vivi nel castello. Le macerie, la distruzione, i mostri, dovevano sicuramente essere opera di Xehanort.
«Non dire così. Cloud. Non è colpa nostra, né mia, né tua, se Sephiroth ha deciso di impazzire. Dovevamo salvare il castello e i suoi abitanti. È quello che fanno gli eroi… quello che fa la gente con un minimo di cuore.»
Tirò un sospiro.
«Per quello che sappiamo poi, Aqua potrebbe essere ancora qui, prigioniera come lo eravamo noi.»
Cloud aggrottò le sopracciglia.
«Chi è Aqua?»
«La madre di Shiro. La sua vera madre.» Zack si mise in piedi e camminò verso gli armadietti. Non voleva rimanere con l’uniforme stretta e strappata un minuto di più, e anche Cloud necessitava disperatamente di un cambio di abiti. «L’ho conosciuta in un mondo che si chiama Olympos. Non era del posto, era solo lì di passaggio, stava cercando il suo compagno, Terra. Che è anche un mio amico, per la cronaca. Alla fine ci siamo ritrovati entrambi a vedercela contro quel farabutto di Ade, il signore locale dell’Oltretomba, che per quale ragione chissà, ce l’ha a morte con suo nipote e sta cercando un sicario per farlo fuori.»
«E…?» Cloud mugugnò.
«Ricordi quando comparvero Xehanort e Shiro e qualcuno fece a pezzi le pietre nella piazza principale? C’erano le impronte di Aqua lì. L’ultimo posto in cui ho avuto sue notizie era quello.» Zack abbassò lo sguardo, poi raccolse una divisa dall’armadio e la lanciò addosso a Cloud. «Mettila addosso. È antiproiettile, non so quanto resista a mostri o magia, ma di sicuro copre più di quella specie di carta velina che stai indossando.»
«Fa freddo.» Cloud si lamentò, ma si tolse quell’insulso pigiama e iniziò a infilarsi l’uniforme dalla testa. Zack rimase in silenzio, pescò a sua volta un’uniforme che gli andasse bene e iniziò a cambiarsi. Nella stanza c’erano due letti impolverati, probabilmente ci sarebbe stata una cassa di razioni a scadenza lunga se erano fortunati, e le porte del castello erano corazzate in modo da non poter venire sfondate dal primo mostriciattolo vagante.
Avrebbero potuto rifugiarsi lì per tempi indefiniti, ammesso e non concesso che avessero modo di accedere a viveri e acqua, oppure avrebbero dovuto andare il più lontano possibile, e a quel punto…?
Zack si lasciò andare sul letto, alzando sbuffi di polvere. Dopo un po’, Cloud fece lo stesso sul letto vicino, prima sedendosi molto più timidamente.
«Che facciamo adesso?»
«Non possiamo restare qui per sempre, questo è chiaro.» Zack fissò il soffitto, parlando in tono piatto. «Se conosco Aerith, ed è la persona più furba e sveglia che conosco, sarà al sicuro e a miglia e miglia di qui. Mi piacerebbe ritrovarla.»
«Aerith sa di Cid.» Cloud brontolò. «L’avrà portata via.»
«Dovunque sia, sarebbe felice di accoglierci. Ma lasciamo perdere, sua madre vive con lei.» Zack si girò verso Cloud e si lasciò scappare una risatina. «Qualsiasi cosa faremo, avremo bisogno di munny. Cosa potremmo fare?»
Il ragazzo più giovane si strinse nelle spalle.
«Boh!»
Zack si rimise in piedi. Non era una domanda facile – nessuno dei due aveva finito le scuole superiori, lui aveva solo la sua formazione da guardia e la cosa più professionale che Cloud poteva dire di aver fatto era di aver militato… in due squadre scolastiche di baseball.
Mentre pensava, si acquattò sulle sue gambe, poi si rimise in piedi, poi nuovamente giù e su, nell’esercizio di ginnastica che aveva imparato da bambino ed era solito fare per dissipare i nervi.
«Ci sono! Conosco un sacco di cose, sia sui mostri di anni fa che adesso su quelli comparsi ora. E io e te abbiamo cervello e abilità che molti in giro si sognano!»
«Huh?» Cloud si tirò su a sedere. «Zack, non abbiamo nemmeno il diploma…»
«Beh, non credo che Ven lo avesse, ma la cosa non gli ha impedito di fare mostri a pezzi.» Zack ridacchiò. «È deciso. Farò il mercenario. Lavori noiosi, lavori pericolosi, basta che paghino.»
«Zack…» L’espressione di Cloud era paragonabile a quella di un cucciolo bastonato.
«E tu vieni con me, ovvio.» Zack si sedette accanto a lui. «Sei il mio migliore amico, te n’eri scordato?»
Rimasero entrambi in silenzio per un momento. Zack poteva giurare che gli occhi del suo amico si stessero riempiendo di lacrime.
Erano dispersi in un castello abbandonato e infestato da mostri. Chissà cosa avevano fatto con loro. Ma erano vivi. Stavano più o meno bene, avevano un rifugio, un piano e una speranza.
Dopo anni di prigionia, avevano l’occasione di ricominciare, nonostante attorno a loro non avessero che l’ignoto.
Ci volle un po’ perché Zack si accorgesse che veniva da piangere anche a lui.
Se non fosse stato per la polvere, per l’odore di abbandono, per la paura e la preoccupazione, avrebbero potuto fingere di essere due guardie cittadine, pronti per la prossima missione.
Poi degli sbuffi di oscurità in un angolo della stanza fecero scattare entrambi come molle, e come un solo uomo, i due giovani misero mano alle armi e si misero in guardia.
Si era aperto una specie di portale di tenebre nella stanza, e ne uscì quella che sembrava una figura umana, coperta da una cappa nera.
«Chi sei?» Inaspettatamente, fu Cloud il primo a parlare, o meglio, a sibilare tra i denti, puntando la spada contro l’intruso. «Mostra il tuo volto!»
Quella che sembrava una claymore fece abbassare l’arma a Cloud, ma la figura misteriosa non fece altro se non trattenerlo.
«Il mio nome è Saix.» Il nome non era familiare a Zack, ma avrebbe giurato di aver sentito da qualche parte quella voce. «E sono stato io a liberarvi… e a liberare la strada dal grosso degli Heartless affinché arrivaste qui illesi.»
Cloud fece una smorfia.
«Cosa vuoi da noi?» Zack fece un passo in avanti, pronto ad aggiungere la Buster al duello.
«Falliste una missione, sei anni or sono.» L’essere chiamato Saix asserì in tono piatto, poi portò una mano guantata alle pieghe della sua cappa ed estrasse una foto che ritraeva una ragazzina di otto anni. «Avreste dovuto portare questa bambina lontano dal castello. Le vostre tracce vennero perdute, con solo tre testimoni a conoscenza di dove stavate andando e cosa avreste provato a fare.»
«Shiro?» Zack riconobbe la bambina nel ritratto. Era visibilmente cresciuta, ma stringeva ancora nelle braccia Mister Kupò. «Sta bene? Dov’è?»
«Basta giochetti!» Dei due, Cloud sembrava quello più adirato. «Cosa vuoi da noi? Mostra la tua faccia, codardo!»
Lasciò andare la spada e accennò un sogghigno.
«O forse dovrei dire Isa?»
Puntò un piede all’indietro, per poi lanciarsi addosso allo sconosciuto con l’intenzione di strappargli via il cappuccio.
Era appena riuscito a mettere una mano sulla stoffa quando il suo corpo riprese ad emanare miasma oscuro, e lui crollò al pavimento tremando e con gli occhi sbarrati.
Fu Saix a fare un passo indietro in quel momento, e quel poco che si vedeva del suo volto era adombrato dalla preoccupazione.
Prese immediatamente Cloud per le spalle e lo trascinò di peso sul letto, mettendolo a sdraiarsi. Cloud non sembrò manco accorgersi di essere stato afferrato, e continuava a tremare e ansimare, con gli occhi che fissavano il soffitto senza davvero guardarlo.
«Che gli prende?» Il primo impulso di Zack fu di chiedere spiegazioni – di domandare allo sconosciuto se effettivamente quella misteriosa afflizione fosse qualcosa di cui lui sapeva.
«Xehanort ha usato l’oscurità su di lui… e su di te.» Saix rispose. «Sul perché non abbia avuto lo stesso effetto anche su te, non è chiaro, ma secondo gli appunti che ho rubato, ha a che fare con una tua precedente esposizione.»
«Ci ero arrivato.» Zack sbuffò, tenendo sempre un occhio su Cloud, che sembrava sul punto di calmarsi. «Come sai di Shiro? Dove è stata portata?»
«La bambina è nelle mani dell’Organizzazione XIII.» Pur non vedendo gli occhi di Saix, Zack sentiva il suo sguardo fissarsi su di lui mentre la figura in nero lo fissava. «Gli esseri che la tengono prigioniera non sono persone come te e Cloud. Sono quello che si chiama Nessuno. Esseri privi di cuore che ambiscono a riottenerlo, con qualsiasi mezzo necessario.»
Rimase in silenzio per un momento.
«Persino una bambina che ha in sé, quiescente, il potere del Keyblade.»
Zack si morse il labbro, rimanendo per un momento in silenzio. Il fine dell’Organizzazione, dei Nessuno, non sembrava tanto basso ed abietto, ma per come Saix aveva parlato del servirsi di una bambina, i mezzi probabilmente lo erano.
«La porto via. Anche subito.» Zack fece sì con la testa.
Saix sbuffò.
«Non subito, idiota che non sei altro. La devo prima allontanare dal Castello che Non Esiste.» Zack lo vide alzare gli occhi al cielo. «E no, niente battute sul fatto che esista o meno. Non sono io che l’ho chiamato così. Fatti trovare domani davanti al Grattacielo della Memoria. Sarò io ad aprirti il passaggio fuori da questa stanza, e rimarrà aperto fino a quando non verrà attraversato di nuovo. Da lì, in un hangar mezzo distrutto c’è una nave che funziona ancora. Tu e Cloud la prenderete e porterete Shiro ad un mondo chiamato La Città di Mezzo. I rifugiati di Radiant Garden sono lì. Tutto chiaro?»
«Tutto tranne la tua faccia, Isa.» Zack si sedette sul letto. «Perché sei tu, non è vero?» Si fece serio. «Poche persone sapevano di Mister Kupò. Sai i nostri nomi e sapevi che siamo spariti mentre eravamo diretti al castello. Hai detto tu stesso solo tre testimoni
Saix – se così si chiamava – evocò un’altra pozza d’ombra.
«Il ragazzo che conoscevi non esiste più, Zack.» Mise un piede nell’ombra, in quella specie di corridoio oscuro che aveva usato anche prima per entrare, e si girò verso di lui. Abbassò il cappuccio, però, e gli occhi verde mare e i capelli blu del suo amico di un tempo si mostrarono su un volto reso irriconoscibile dagli anni e da qualsiasi cosa gli fosse accaduto. «Sii rapido e potrai salvare la bambina.»
 
«Credo sia sparita un’altra stella.»
A Crepuscopoli vedere il cielo notturno era un evento più unico che raro: il Sole non raggiungeva mai l’apice del cielo, né spariva mai oltre l’orizzonte, ma con un cannocchiale attrezzato con dei vetri da eclisse, era comunque possibile osservare le stelle.
Ammesso e non concesso che non stessero svanendo, una dopo l’altra.
«Dici che sia vero quel che ha detto tuo zio?» Il suo migliore amico sistemò il cannocchiale in posizione orizzontale, cercando per quanto possibile di scrutare il cielo sopra di loro anche ad occhio nudo. «Che potrebbe essere un brutto segno?»
«Mah. Lo sai meglio di me quanto la sappia lunga.» Il ragazzo incrociò le braccia dietro la testa e sbuffò. Erano giorni che “Zio”, o meglio quel vecchio lunatico del suo prozio, diceva che qualcuno avrebbe dovuto indagare sugli strani fenomeni paranormali che erano accaduti nelle ultime settimane.
Le gallerie sotto la città non erano più sicure: strani esseri, quasi fatti d’ombra, aggredivano chiunque fosse imprudente abbastanza da attraversare la loro via, e il suo migliore amico aveva salvato più di una volta il suo fratellino e la sua banda sparando alle ombre con un lanciarazzi.
«Già, peccato che Pence e i suoi amici si siano convinti che possa essere un’altra meraviglia di Crepuscopoli e io devo andare a salvargli il sedere.»
Il ragazzo rise. «Dai, tuo fratello ha quattordici anni! Anche io e te due anni fa abbiamo combinato un bel po’ di guai cercando di esplorare la vecchia villa.»
«Io e te non eravamo soli.» Il suo amico gli puntò contro un dito. «Hayner e Olette sono più forti di Pence, ma non sono come i tuoi gorilla o tuo zio.»
«Andiamo, ancora li chiami gorilla solo perché sono più grandi di noi?» Il ragazzo tirò un sospiro. «Almeno loro hanno finito la scuola.»
I due si sedettero sul prato, uno accanto all’altro, continuando a fissare il cielo. Da qualche parte sotto di loro, il treno stava fischiando.
«Mi mancherà questo tramonto.» Il ragazzo si alzò, si scosse un po’ di erba secca dai vestiti, e aiutò il suo amico ad alzarsi. «Allora, pronto a fare i bagagli?»
«Uhm, non hai paura di questa oscurità mangiastelle?» Il suo amico sembrava abbastanza spaventato.
«Paura. Chi, io?» Il ragazzo sorrise. «Per niente. Ci siete voi con me
 
Cloud bilanciò nelle mani la spada e si mise in posizione di guardia, pronto ad affrontare il suo nuovo sfidante.
Erano passati almeno due anni da quando era arrivato alla Città di Mezzo solo ed esausto, con quella specie di pozza d’ombra che non sapeva nemmeno come era riuscito ad evocare. Si era preso a stento il tempo di recuperare e riposarsi prima di cercare e trovare Olympos, il mondo di cui il suo migliore amico gli aveva raccontato.
In quasi due anni che lui era stato lì, campando giorno per giorno con qualsiasi lavoro noioso o pericoloso che gli venisse assegnato, partecipando nei tornei per riempirsi ancora le tasche di dracme e munny, non era comparsa l’ombra di un Custode del Keyblade.
Sembravano spariti.
Cloud era arrivato persino a stringere un patto con Ade, il signore locale dell’Oltretomba, nella fragile speranza di riavere il suo compagno. Con i giorni che passavano riteneva sempre più di essere stato gabbato, perché per quanto stesse facendo, per quanto si stesse sporcando le mani, non sembrava che il suo committente avesse intenzione di mantenere la parola, ma quale altra speranza aveva?
Adesso però quello che il re dei funerali gli aveva chiesto di fare aveva passato ogni limite: il soldo di cacio che Cloud aveva davanti a sé aveva sì un Keyblade, ma quanti anni poteva avere? Lo aveva sentito parlare, non aveva nemmeno cambiato voce!
Cloud poteva anche definirsi un mercenario, una lama a pagamento, ma per quanto voleva rivedere Zack, non si sarebbe mai perdonato se per farlo avesse fatto del male ad un bambino.
Un bambino che, peraltro, poteva essere la chiave per rimediare alla catastrofe che aveva lasciato lui e i suoi amici senza più casa né famiglia, e aveva fatto male a chissà quanti altri.
Gli venne dato il via, e Cloud partì all’attacco. Il ragazzino aveva la stoffa, ma sembrava che mai nessuno  gli avesse realmente insegnato ad usare un’arma.
"Ha, ha, senti chi parla," una voce che Cloud aveva iniziato a definire come quella della sua coscienza e a volte del suo sarcasmo gli parlò nella testa. Diede un po’ di corda al piccoletto – quanto gli ricordava sé stesso a quell’età! – fino a quando non decise di finire l’incontro lasciandosi cadere con le ginocchia nella polvere dello stadio.
Si rimise in piedi, pulendosi i pantaloni e fece per andare a stringergli la mano, ma qualcosa di grosso e pesante lo colpì alle spalle e tutto si fece buio.
 
Lo scontro con Cerbero era stato una delle cose più spaventose che Sora avesse mai affrontato nei suoi quattordici anni di vita, e gli avvenimenti degli ultimi giorni di certo non erano stati una passeggiatina nel parco.
Sperava che Cloud, così si chiamava a quanto pareva il suo avversario della finale, non si fosse ferito in modo grave. Sembrava un tipo tosto da come aveva combattuto, ma la zampata del gigantesco cane a tre teste doveva aver sicuramente fatto male.
Sora non aveva nulla contro i cani grossi, anzi. Di norma, i cani di taglia grande erano quelli goffi e adorabili che gli salivano addosso per lavargli la faccia con la loro stessa bava. Però dubitava che una persona sana di mente avrebbe potuto adottare una bestiaccia del genere e dare un nome che, per quanto Ercole giurasse e spergiurasse, a quanto pareva significava Macchia.
«Avanti, andiamocene.» Paperino per poco non lo tirava per la manica, ansioso di portarlo via dallo stadio e chissà verso quali altri mondi.
Nel cortile dell’arena, però, seduto sugli scalini e con lo sguardo fisso sui suoi stivali, c’era Cloud. Sembrava stare bene fisicamente, ma era anche visibilmente scoraggiato.
«Hey, stai bene?» Sora affrettò il passo e si fermò davanti al suo vecchio avversario.
«Sì…» Cloud a stento alzò la testa.
«Come mai stavi dalla parte di quel tipo?»
Il ragazzo più grande abbassò di nuovo la testa, appoggiandosela alle mani.
«Cerco qualcuno. Ade mi aveva promesso aiuto. Ho tentato di usare il potere dell’Oscurità, ma mi si è ritorto contro.» Si alzò in piedi. «Non so con quale faccia tornerò da…»
«Non credo sarebbero contenti di quello che avresti fatto, yuk.» Pippo intervenne prima che Cloud trovasse le parole che stava cercando. «Di chiunque tu stia parlando, dire di no ad Ade è stata la cosa giusta.»
Cloud guardò Sora, Paperino e Pippo, rimanendo in silenzio, poi tirò un respiro e guardò Sora.
«Sora, giusto?» gli chiese. «C’è qualcun altro con te? Qualcuno con una spada come la tua, ma più anziano? Un giovane biondo, un uomo e una donna adulti?»
Sora scosse la testa prima che Cloud finisse di chiederglielo, ma fu Paperino a parlare per lui.
«Sono spariti nel nulla!» il mago intervenne. «Scomparsi dieci anni fa!»
«COSA!» Per poco Sora non prese Paperino per i vestiti. «Credevo di essere l’unico!»
Con la coda dell’occhio, Sora vide che Cloud sembrava quasi vacillare, come se la notizia di Paperino non fosse stata affatto buona per lui. La sua domanda poteva aspettare, perché a quanto pareva c’era una ragione dietro a quello che Cloud stava cercando di dire.
«La loro bambina. Shiro. È ancora viva da qualche parte.» Cloud si fece serio e fece per allontanarsi, ma gli lasciò prima cadere qualcosa nelle mani. «Sora, non perdere di vista la tua luce.»
 
Cloud si allontanò a passo pesante, stringendo i denti e lottando per trattenere le lacrime.
Per quanto avessero avuto ragione, per quanto Aerith e Tifa non avrebbero mai avuto il coraggio di guardarlo in faccia se avesse rispettato quell’accordo sleale, per quanto si sentiva di aver fatto la cosa giusta, non alzando la lama che era appartenuta a Zack su un ragazzino…
… quella probabilmente era stata la sua ultima occasione, e lui l’aveva gettata alle ortiche.
Non poteva più restare ad Olympos.
In fin dei conti, aveva trovato un portatore della chiave. Aveva detto che Shiro era ancora viva, anche se per quanto avesse cercato di tornare al Mondo che Non Esiste, lui stesso non ci era mai riuscito. Ade sicuramente non lo avrebbe più aiutato, non dopo che aveva visto dove era riposta la sua lealtà.
Una voce nella sua testa, una che suonava tremendamente come il suo vecchio amico Zack, continuava a dirgli che si era fatto onore, e che nessuno lo avrebbe biasimato se fosse tornato da solo alla Città di Mezzo.
Aerith e Tifa non aspettavano altro che di dargli il bentornato.
Si guardò un momento alle spalle. Sora era ancora lì, con mezza faccia invasa da un sorriso scemo, come solo quello di un ragazzino poteva essere.
In fin dei conti, anche Cloud era stato così una vita prima. Dieci anni prima, quando Zack lo aveva aiutato a segnare un fuoricampo e aveva espresso la volontà di diventare suo amico. Tutti i pomeriggi che avevano passato a lanciarsi la palla. Persino la pausa pranzo a scuola, la vecchia divisa scolastica regalata.
Si rese conto in quel momento di cosa lo aveva spinto a frenare la sua mano – sarebbe stato come uccidere sé stesso.
E quello non sarebbe mai, mai stato un prezzo onesto per Cloud Strife.
Era il momento di tornare a casa.
 
«Vedi, Shiro? Quel ragazzo là. Vai da lui e salutalo.»
Axel indicò un ragazzino, appena più grande di Shiro ma che sembrava farsi piccolo piccolo in mezzo alla gente. Aveva addosso una giacchetta bianca con dei motivi a scacchi e una maglia nera su un paio di pantaloni grigi, e i suoi capelli irti e arruffati sfumavano dal castano delle radici al biondo miele delle punte.
A Shiro sembrava di averlo già visto altrove, ma non aveva propriamente idea di dove e quando.
«Axel, scusami, mi sembra un po’…» Shiro fece una smorfia, poi si puntò un dito alla tempia e lo fece girare, come ad indicare qualcuno che non ci stesse molto di mente.
«Tranquilla, è lui il nostro uomo.» Axel ammiccò. «Il tuo vecchio vuole che lo portiamo a casa.»
Shiro scosse la testa. Come al solito, Papà faceva piani senza il minimo senso logico o un briciolo di ragione. Non lo aveva già visto lui per primo? Non gli aveva dato un nome?
«Axel, non ha senso. Non poteva prenderlo lui?» Scosse la testa e sbuffò.
«Beh, non lo so. Shiro, non è come gli altri Nessuno… questo è il Nessuno di un bambino… magari ha visto tuo padre in faccia e gli è venuta paura.»
«Ma se mi hai detto che i Nessuno non sentono la paura…» A volte, Shiro avrebbe potuto giurare che i Nessuno, e Axel in particolare, facessero discorsi senza capo né coda soltanto per confonderle le idee.
«Senti, Shiro, non lo so, so soltanto che il compito è ricaduto su di me e secondo me per te sarà più facile.»
«Va bene
L’undicenne lasciò ad Axel la sua casacca nera, rimanendo con i vestiti che portava sotto, e fece qualche passo per la strada, fino ad andare casualmente verso il ragazzetto smarrito.
Crepuscopoli non le era affatto nuova, anzi. Erano circa due anni che Axel la portava lì a prendere il gelato, più o meno da quando Saix si era sfigurato la faccia e aveva smesso di parlargli. Probabilmente, Shiro si era detta, Axel lo aveva fatto perché aveva perso l’amico.
Ma qui la cosa si faceva strana, se Axel aveva perso l’amico, non voleva dire che era triste? E come poteva essere triste se i Nessuno non sentivano niente?
Beh, non era il momento di pensarci.
Si fermò davanti al ragazzo – era davvero un Nessuno? Non aveva l’aria di esserlo! – e lo salutò con la mano.
«Ciao! Io e il mio amico Axel stiamo andando a prendere un gelato. Ti va di venire con noi?»
Il ragazzo rimase fermo, ma fissò Shiro negli occhi senza rispondere. Era muto per caso? Oppure non sapeva cosa fosse il gelato? Però sembrava averla sentita, quindi Shiro riprese a parlare.
«Ti va il gelato? È buono.» Si portò un dito alla faccia e ruotò il polso un paio di volte.
Il ragazzino – o Nessuno? Era la prima volta che Shiro ne vedeva uno così piccolo – fece un passo indietro, come se qualcosa lo avesse spaventato. Che genere di reazione era quella? Shiro gli voleva offrire il gelato!
Un momento. Cos’altro c’era di carino che avrebbe potuto mostrargli… qualcosa per non farlo spaventare…
Shiro ebbe un’idea e si lasciò scivolare dalle spalle la sua borsa, tirando fuori Mister Kupò. Forse il ragazzo aveva bisogno di un amico come Mister Kupò.
«Questo qui è Mister Kupò, è il mio migliore amico.» Shiro lo alzò davanti al ragazzino con entrambe le mani. «Vuole sapere come ti chiam…»
Oh, no. Il ragazzo stava decisamente cercando di andare via…
«E dai, Shiro, cosa ti avevo detto riguardo a come ci si presenta?» Axel emerse quasi dal nulla e tagliò la strada al ragazzo. «Prima dici il tuo nome. Poi si parla di peluche o di gelati.»
Shiro fece una smorfia ad Axel, poi sbuffò e guardò il ragazzo, che sembrava ancora perplesso ma si era fermato, e più che spaventato appariva curioso.
«Ciao! Io sono Shiro,» esordì indicando sé stessa. «Quello è Axel…» indicò la figura alta e con il mantello. «… e questo qui è Mister Kupò.» Alzò infine il peluche nell’altra mano. «Piacere di conoscerti. Ce l’hai un nome?»
Fu allora che il ragazzino la guardò negli occhi. La sua bocca si aprì di poco e ne venne fuori un mugugno che suonava molto come “R-uhm-csss”. Non aveva molto senso, ma Shiro rimase in silenzio, non volendo spaventarlo.
«Come scusa?» fu Axel a chiedergli di ripetere. «Non l’ho memorizzato, ragazzino. Puoi parlare chiaro?»
Il ragazzo abbassò la testa, respirò un paio di volte, e poi fissò Axel prima di parlare a voce un po’ più alta, scandendo le sillabe.
«R-roxas. Roxas
Parlava. Roxas aveva parlato! Shiro si mise a saltellare sul posto.
«Allora sai parlare!» Ridacchiò. «Mi stai simpatico, lo sai? E anche a Mister Kupò!»
«Va bene, Shiro, ma di’ a Mister Kupò di non spaventarlo!» Axel ridacchiò. «Credo che il nostro Roxas sia un pochino timido, lo hai memorizzato?»
«Uh-uh.» Shiro annuì e strinse Mister Kupò a sé. Dopo anni assieme a lei, il pupazzo era diventato un po’ moscio, e prima Saix e poi Axel lo avevano rammendato più volte, e la ragazzina non capiva come potesse spaventare qualcuno… o Nessuno che dir si volesse… ma diede retta ad Axel e ripose il Moguri di pezza nello zaino.
«Va bene, siamo tutti tranquilli adesso?» Axel fece un paio di passi cauti verso Roxas. Era raro che Shiro lo vedesse tanto calmo e posato. «Uhm, ciao, Roxas. Piacere di conoscerti. Io sono Axel, lo hai memorizzato?»
Roxas portò lo sguardo da Shiro ad Axel un paio di volte.
«Axel…» lo indicò. «Shiro…» Indicò lei, poi abbassò l’indice verso il punto dove il peluche le spuntava dalla borsa. «Mister… Kupò…»
Axel si portò una mano alla bocca ed emise una specie di sbuffo. Ci volle qualche istante a Shiro per capire che era la prima volta che lo aveva visto ridere.
«Beh, è un buon inizio. Ti va di venire con noi?» Sempre con una certa calma, Axel tese una mano a Roxas. «Io e la piccolina stavamo andando a mangiare il gelato. A fare merenda. Se vuoi lo offriamo anche a te.»
Sulla faccia di Roxas comparve una specie di smorfia, e il ragazzo passò di nuovo lo sguardo dall’uomo alla bambina. Mugugnò qualcosa e tirò uno sbuffo dal naso, poi alzò lo sguardo e fece sì con la testa.
«Bene, seguimi!»
Senza la sua solita baldanza, Axel indicò una strada e vi si incamminò con un’aria tranquilla che non era assolutamente da lui. Shiro gli andò subito dietro, e Roxas, dopo un attimo di esitazione, fece lo stesso.
«Oh, Roxas?» Axel girò la testa mentre camminava. «Saresti così gentile da dare la mano a Shiro? Non vorrei che si allontani e si perda!»
Shiro fece per protestare – perdersi, lei? – ma un’occhiata e un cenno di Axel la persuasero a restare in silenzio e a offrire la mano al ragazzo più alto.
Non era lei che rischiava di allontanarsi e perdersi – era lui che con la sua aria distratta e smarrita rischiava di rimanere indietro.
Cinque dita ruvide si strinsero attorno alla sua mano più piccola. Shiro alzò lo sguardo e sorrise, dando a sua volta una stretta leggera.
Roxas ricambiò il suo sguardo, facendo di nuovo una smorfia. Era come se non sapesse come sorridere, o la ragione per cui farlo, ma stesse cercando comunque di partire con il piede giusto con loro.
«S-shiro…» mormorò. Sicuramente c’era molto altro che stava cercando di dirle, ma non sembrava conoscere le parole per farlo.
Shiro gli diede un’altra stretta alle dita e riprese a camminare dietro ad Axel, con Roxas che le camminava docilmente accanto.
«Sai, Roxas…»
Per quanto il suo nuovo amico non parlasse, Shiro sperava che stesse ascoltando e capendo quello che lei stava per dire, perché se davvero fosse rimasto assieme a loro, probabilmente le cose al Castello sarebbero cambiate, e tanto, e tanto in meglio.
«… credo che io e te ci divertiremo un sacco.»
   
 
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